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« Massaua 1464La Spedizione allo Scioà 1879 »

Giovanni Negus d'Abissinia 1879

Post n°4 pubblicato il 17 Settembre 2010 da slvnccl
 
Foto di slvnccl

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1879

LA VALIGIA n° 2

GIOVANNI NEGUS (1) D'ABISSINIA

È un uomo sui quarant'anni, di media statura, ha la pelle d'un bruna carico, i capelli artisticamente intrecciati, il naso affilato, il viso lungo, la fisonomia calma, ma severa. Scruta con un solo sguardo il suo interlocutore, però, quando si tratta di parlargli, abbassa gli occhi come se temesse di vedere scoperti i suoi pensieri. Il suo costume è dei più semplici: una gran tunica di cotone bianco stretta alla vita, e un chemma (2) finissimo ornato d'una striscia di seta ricamata. Porta la testa e i piedi nudi, ma i buccolotti della capigliatura sono appuntati con uno spillo d'argento, la cui capocchia di filograna è sormontata da una croce.

Il Negus era soltanto principe, allorchè rimase vedovo, e con un figlio in tenerissima età. Questo giovinetto viene educato ed affidato ad alcuni amici nel suo paese natale, lontano dalla corte e al sicuro dalle vicende della politica etiopica. La corte racchiude un certo carattere d'austerità per l'isolamento del re guerriero, il quale non si circonda mai di donne. Un voto solenne impostogli dai preti abissini come condizione della santità della sua persona, l'obbliga a non tenere le favorite.

L'esercito di Giovanni comprende circa quaranta mila uomini, sul quali appena 2000 hanno il fucile.

L'armata abissina è composta di due elementi distinti; soldati di professione e quelli di ventura, ma che nel momento della lotta si confondono ed aiutano vicendevolmente.

I soldati di professione prestano servizio tutto l'anno, mentre le reclute volontarie o forzate, sono composte di contadini, i quali si offrono spontaneamente, o sono costretti a seguire e combattere capitanati dal loro padrone.

I motivi della guerra vengono conosciuti nei diversi paesi allorchè vi passa l'armata. Al suono dei tamburi, tutti gli uomini validi all'armi si uniscono ad essa. Il generale in capo si preoccupa poco del loro nutrimento ognuno deve procurarselo il meglio possibile colla requisizione a mano annata o col saccheggio. In tempo di pace le reclute ritornano ai loro lavori, per cui non v'è un contadino che non abbia imbracciato lo scudo od impugnata la lancia.

(1) Negus in lingua Amharica, significa re dei re.

  1. Ampio mantello.







- 17 -

I soldati si dividono in cavalieri e fantaccini, e quest'ultimi in fucilieri o semplicemente armati di lancia.

Le armi sono la sciabola, quasi dritta, a un sol taglio, oppure ricurva e a due tagli come una falce gigantesca. Tutti i soldati portano indistintamente l'una o l'altra di queste sciabole legata al fianca dritto, e questa diversa situazione, proviene perchè gli Abissini montano a cavallo o sulla mula, dal lato destro.

Per i cavalieri ed i lancieri l'armamento si compone d'uno scudo rotondo, leggermente convesso, di 60 centimetri di diametro, coperto di pelle di buffalo o d'ippopotamo, più o meno arabescato con disegni concentrici, cioè scanalature, punteggiature a zig-zag, linee ondulate, ecc., e di una o più lancie o giavellotti. L'asta di quest'ultima arme è lunga fino a due metri è venticinque centimetri, ed il ferro misura fino a ottanta centimetri: è fusiforme, carenato in tutta la sua lunghezza, tagliente e acuminata. L'ingorbiatura come l'asta, sono spesso ornate d'una spirale di fil di rame, e il calcio è fasciato di ferro per meglio equilibrarla. I soldati abissini maneggiano questa lancia con molta destrezza, colpiscono l'avversarlo con precisione anche alla distanza di trenta metri. I cavalieri mettono al galoppo il cavallo, e profittano della rapidità della corsa per lanciare con più impeto il giavelotto.

In quanto ai fucilieri, le loro armi sono molto difettose. Hanno schioppi a miccia, di modello orientale, e generalmente ferravecchi lasciati dai Portoghesi nel quindicesimo secolo. Alcuni incrostati d'argento, colle canne arabescate, le fasciette di cuoio, starebbero meglio in un museo che nelle mani d'un guerriero. I loro proiettili sono pezzetti di ferro battuto, o palle cilindriche di schisto, e le portano in grandi giberne, mentre la polvere riempie un grosso corno di buffalo.

La sella rassomiglia, a quella degli Arabi o, ad alcune del medio-evo, con un gran pomo sulla groppiera, e una gualdrappa di cuoio che scende fino a terra. La gualdrappa quando è rossa costituisce un distintivo riservato ai capi o alle persone agiate. È pur anco un altro segno di dignità, un braccialetto d'argento ben lavorato e stretto al pugno destro, come pure uno straccio di pelle di leone attaccato allo scudo, od una pellegrina (lebde) di leopardo nero, più specialmente destinata ai principi, del sangue.

La staffa è piccola e non vi s'incastra che la punta del piede, il morso è simile al cavezzone arabo, ed i muli portano un rozzo collare a losanghe di metallo, che risuonano come una bubboliera e scintillano al sole come un finimento d'argento.

Quando il Negus è costretto a dividere coi soldati le fatiche dei campo, la sua tenda è di tela bianca, ornata nell'interno con tappeti di leone.

 





- 17 / 18

Il signor Raffray, nel suo curioso viaggio in Abissinia, così racconta il di lui colloquio avuto con Giovanni Negus d'Abissinia:

Allorchè entrai nella tenda, Giovanni stava mezzo sdraiato sopra alcuni cuscini di seta, ed imbacuccato sino al mento nel suo chemma. Alcuni servitori ed amici gli stavano intorno. Il colloquio fu lungo, e fra l'altre cose, parlammo dei missionari cattolici, pei quali il vice-console di Francia reclamava il di lui appoggio.

Conducetemi pure i vostri missionari, disse il Negus, farò molto volentieri la loro conoscenza. Provvederò ai loro bisogni, facendo costruire comode abitazioni, scuole, chiese; li installerò nelle provincie ove sono nato, in mezzo alla mia famiglia, ai miei amici, e tutelerò la loro vita.

Poi parlando dell'Egitto, questione così vitale pel suo regno tanto minacciato, disse senza animosità di sovrano spogliato delle più utili provincie:

L'Egitto mina il mio stato, l'attacca da ogni, parte. Dopo essersi impossessato d'una parte del mio territorio, ha detto di non aver ripreso che i suoi beni. Fino ad oggi non ho voluto oppormi a quest'invasione. Perchè versare il. sangue del nostro popolo? Me ne appello alle nazioni occidentali. Non pretendo che i re cristiani vengano a proteggere colle, armi il re cristiano d'Etiopia, minacciato dalla invasione musulmana, ma chiedo a questi re, l'invio di alcuni arbitri disinteressati, i quali giudichino fra me ed Ismail-Pacha chi di noi due abbia ragione. Vengano pure, e così delimiteranno le nostre respettive frontiere. Ciò che faranno sarà ben fatto. So bene che il mio paese ha bisogno di essere riorganizzato, spesso popoli non sanno distinguere i veri dai falsi amici. In questo momento io lavoro appunto per l'unificazione del mio paese e la prosperità del mio popolo. Ma per ottenere buoni resultati, mi occorre la pace nell'interno e la tranquillità vicino ai miei confini. Aiutatemi, quando avrò vinto l'ultimo ribelle e ricondotta la calma nei miei stati, allora dirò a voi rappresentante della Francia, d'inviarmi vostri compatrioti, affinchè spandano nel nostro seno la civiltà e l'insegnamento di tutte le belle cose fabbricate in Europa.

« Quando pensavo, prosegue il signor de Raffray che l'uomo il quale parlava in tal modo era il Negus d'Abissinia, cioè il sovrano d'un paese considerato come barbaro, come selvaggio; quando pensavo che l'Egitto gli aveva tolto Métemmah, Cuchene, i Bogos, Massauah e tutto il litorale del mar Rosso, isolandolo in mezzo alle sue montagne, restringendone ogni giorno i confini, non poteva ameno di essere vivamente stupito dinanzi a tanta saggezza nel giovine monarca, guidato dalla sola coscienza, dalla generosità e dal diritto naturale.

 






- 18 / 20 -

« V'è in Giovanni la stoffa d'un grand'uomo. Energico quanto poteva esserlo il fiero Teodoro, dotato della stessa bravura, mostra un coraggio freddo e riflessivo. Non meno ambizioso, però sa profittare del suo esempio ed ambire soltanto la pacificazione e la rigenerazione del suo popolo.

Ecco il mio scopo, disse il Negus, lo raggiungerò o altrimenti perderò la vita e la corona.

Non posso fare a meno di riportare un curioso aneddoto narrato dal brillante viaggiatore, proposito dell'ingenua buona fede del re Giovanni:

« Un giorno, egli dice, ricevei l'interessante visita dell'orefice del Negus, incaricato di consegnarmi uno spillo da mettersi nei capelli. Gli detti un tallero, e cercavo fra i miei ninnoli un oggetto di manifattura europea, quando mi ricordai d'avere un gioiello parigino, un gran collare di bubboli di vetro e bronzo dorato, d'uno splendido effetto.

« Questo collare ha relazione con una curiosa storia. Allorchè nel 1857 Beyrolle impagliava il celebre bue grasso, la luna, per mandarlo all'esposizione universale, ornò il collo del mostruoso ruminante con una moresca. Finita l'esposizione mi dette questa bubboliera, dicendomi:

« Portala in Africa: chi sa? Un re selvaggio potrebbe andar superbo di possederla, e pagartela con un bel diamante.

« Il consiglio dell'amico riusciva opportunissimo in quell'istante.

« Un gioiello ad un orefice! Era il vero regalo da farsi. Glielo detti.

« Il mio uomo partì contentissimo. Poco dopo, lo vidi tornare portandomi un secondo spillo, ma più bello.

Vuoi cambiare questo spillo con un altro dei tuoi gioielli? mi disse.

« Per fortuna non gli avevo ceduto tutto il collare, ma soltanto una fila di bubboli. Per cui gli detti la seconda, e dissi fra me, se l'augurio dell'amico Beyrolle non stesse proprio per realizzarsi.

« L'orefice non ritornò più, ma giudicate qual fu il mio stupore, allorchè facendo un'altra visita al Negus, vidi la bubboliera ornare il collo di Sua Maestà. Dovei fare un grande sforzo per conservare la mia gravità, per non ridere in faccia a quel riavvicinamento bizzarro, fra il bue grasso di Parigi e l'imperatore d'Etiopia, il re dei re d'Abissinia. Avrei voluto offrirgli il restante del collare, ma in verità non ebbi tanto coraggio. Era una offerta da farsi sul serio, ma appunto per questo avrebbe provocato maggiormente la mia ilarità.

« Raccontai quest'aneddoto al mio compagno di viaggio, ne ridemmo per più giorni, ma senza dirlo ad altri, poichè avevo fatto la cosa innocentemente e non era prudente il divulgarla.

 

 
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