Mondo di AliceQuesto blog è un po' un diario. Racconta di me e dei miei pensieri, è dedicato al mio bambino Lorenzo e tutti gli amanti degli animali. |
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Post n°837 pubblicato il 08 Giugno 2010 da Mondo_di_Alice
Silvia Mobili, giornalista radiofonica e mamma dell’”amplificato” Ric, è l’autrice del sito Soldo di cacio, con il quale fornisce una valida risorsa in rete, per quei genitori che stanno combattendo, accanto ai loro neonati, la battaglia della nascita prematura, offrendo informazioni, riflessioni e consigli sull’esperienza vissuta in prima persona.
Mi sembra utile sempre fare una premessa quando mi si chiede di parlare di prematurità: è un’esperienza che non si dimentica più. E non parlo dei numerosi controlli medici che devi fare dopo che il bimbo è a casa o delle paure che ti accompagnano ad ogni passaggio: camminerà come gli altri, vedrà come gli altri, parlerà come gli altri? O ancora dei confronti che naturalmente arriveranno con gli altri bambini – quelli nati a termine – più cicciotti, più paffutelli, più alti, più, più, più… momenti che vivi in una realtà innaturale, di cui non capisci il significato
E’ un percorso lastricato di sofferenze. Lasciando da una parte su come spesso ci si arriva – una gravidanza travagliata, mesi a letto immobile, se non addirittura operazioni per salvare il bambino – la prima sofferenza è in sala operatoria. Quello che dovrebbe essere un momento di estrema gioia è invece una corsa contro il tempo.
Ricordo quel suono che mi ha accompagnato per mesi e a volte è entrato anche nei pochi sogni che riuscivo a fare: il bip bip Ricorderò sempre la prima volta in T.I.N. Per entrare dovevo indossare un camice verde sterilizzato e i copriscarpe. Con grande dolore mi sono dovuta togliere la fede, non mi era mai successo. Aperta la porta mi sono trovata davanti a tre stanzoni che poi ho scoperto essere terapia intensiva, sub-intensiva e infine patologia, che per molti genitori significa avere un bimbo con un problema da risolvere, per noi di “prematuri” era l’ultimo passo prima di andare a casa. Ricordo quel suono che mi ha accompagnato per mesi e a volte è entrato anche nei pochi sogni che riuscivo a fare: il bip bip della macchinetta che controllava tutti i valori di mio figlio. Ricordo la montagna di fili che lo avvolgevano, ricordo le copertine che si mettevano sulle incubatrici che cercavano di dare un senso di normalità a quell’ambiente sterile e freddo. Ricordo l’acqua calda e l’odore di disinfettante con cui ti dovevi lavare le mani.
Poi lui. Piccolo ma di un piccolo che non si può immaginare. 915 grammi, neanche un chilo di pane dicevo io Poi lui. Piccolo ma di un piccolo che non si può immaginare. 915 grammi, neanche un chilo di pane dicevo io. La paura di toccarlo, di fargli male, di spostare i fili che lo tenevano in vita. L’ho trovato bello, subito bello come nessun bambino è stato mai. E’ il senso di incertezza e di impotenza che ti logora. Non puoi fare niente per lui, solo aspettare e sperare. E superare gli attimi di panico che ti prendono in ogni momento del giorno. Quando la vita prosegue comunque e ti chiama perché ci sono le bollette da pagare, le commissioni da fare e tu come un automa fai quello che devi fare ma il tuo cervello è lì, in ospedale. Quando la notte stai per addormentarti e piangi piangi perché dovresti avere tuo figlio nella culla accanto a te e invece è distante e lotta tra la vita e la morte. Quando invece sei davanti all’incubatrice, senti solo allarmi attorno a lui e le infermiere ti chiedono di uscire con urgenza. Quando lo vai a trovare e lo trovi di nuovo attaccato ai tubi perché ha avuto una brutta crisi. Quando passi le ore in corridoio ma non ti fanno entrare perché c’è un’emergenza e i medici devono lavorare con tranquillità. Quando vai in T.I.N. e quel giorno vedi un’incubatrice stranamente vuota e una mamma che piange. Non mi stancherò mai di dirlo che è dura… Dura prima, durante, dopo. E ti chiedi perché, cosa hai fatto per meritarti questo strazio. Bisogna trovare la forza per svegliarsi ogni giorno e quella forza è tuo figlio. Concentrarsi su di lui. Piangere quando c’è da piangere, arrabbiarsi quando lo si sente, sfogarsi ma credere. E avere pazienza. Una pazienza che io non pensavo di avere, ma che forse poi viene come è naturale che sia quando diventi madre. |
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