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... e mi manchi.

Post n°186 pubblicato il 02 Giugno 2014 da Noneraunsogno

 

La mia patria è racchiusa
in un piccolo quadrato d'amore
che si chiama cuore.

 

Carissima H.,

la tua amicizia non finirà mai di stupirmi. Nata nel tumulto di una assemblea infuocata del '77 è stata per anni la bandiera del disordine più felice. Non credo che possa definirsi in altro modo quel nostro modo di stare nel mondo,  se non come  un vivere immerso nel disordine di una  felicità senza fine, trasgressiva,  a tratti scintillante e  feconda.

Io, povero studente che scriveva sui muri  la sua rivolta,  mi ritrovai mano nella mano con la  tua smisurata rabbia.

Che splendore quei giorni di imprevisti e di deviazioni, quei lunghi sguardi che ci legavano l'uno all'altra, nonostante la confusione di quel che succedeva intorno a noi. L'entusiasmo era la costante di quei giorni, entusiasmo nei confronti del  presente, entusiasmo incondizionato e fuori controllo, entusiasmo da ridere, da piangere, da sballo.

Ricordo molte discussioni fra di noi: il tuo essere in equilibrio costante, in apparente autocontrollo, ereditato da una famiglia borghese e tradizionalista, si  scontrava spesso con la mia visione anarchica del mondo, ed erano conquiste quelle nostre interminabili notti di parole.

Non ci sono passioni più vere di quelle che si accendono sui falò delle parole urlate, dette, buttate a piene mani. Perchè, con le passioni, le parole si sciolgono  e diventano benzina e il fuoco che alimenta tiene lontano la tristezza  e la malinconia.

Ma è così che si ama, qualunque sia la forma d'amore che si da alla vita.

Fra litigi e discussioni, baci e pugni alzati,  ci siamo scambiati  tutto quello che avevamo  dentro, senza pensare a quel che poteva riservarci il domani.

Senza promesse, abbracciati ai nostri ventanni,  siamo cresciuti fino a diventare grandi.

Poi, come succede ai reduci, dopo le disfatte, abbiamo cercato una strada di ritorno.

Tu, avevi un sogno e hai continuato per la tua strada.

Io, invece, sulla strada ci sono  rimasto  per anni con un secchio di vernice in mano.

Eppure parafrasando le parole di qualcun altro non posso che immaginarti incasinata, bella come allora, madre più  a sinistra di qualunque figlia,  donna che  si ostina a lavorare imperterrita a scuola, in carcere, in ospedale, nonostante che non si senta affatto  medico,  insegnante o vate.

Qualunque cosa adesso tu faccia sono sicuro che ci metti dentro l'ironia  e l'intelligenza che ti ha sempre contraddistinto, che ti ha reso così bella.

Mi piace pensarti ancora mentre urli, immobile al centro della strada, reclamando un bacio, un'attenzione o una spiegazione per qualcosa che ti rimbalza dentro e che non riesci a raccogliere in parole.

Si sa, siamo una generazione di talenti che hanno sprecato le loro occasioni.

Potevamo essere altrove, sedere in posti di comando, migliorare il mondo ed invece eccoci qui tartassati dalle domande, in preda ai dubbi più atroci sul perchè degli umani ed incredibili sovvertimenti.

Ma se ho imparato a fare domande, se ho conquistato il cuore e l'amore di altre donne, se ho scelto di essere quel che sono, padre di un sogno o di un abbraccio,  lo devo anche a te, a quella felicità che mi è rimasta dentro, attaccata come rampicante alle pareti  del cuore in cui spesso mi rifugio per sentire ancora battere l'amore, il disordine ed il caos.

Ti scrivo adesso, solo dopo tanti anni, perchè volevo dirti che mi mancate  davvero tu e quegli anni.

O, forse, ti scrivo  perchè sto invecchiando e ripenso alle persone più importanti che mi sono rimaste dentro.

Dentro questo piccolo quadrato che difendo disperatamente  con tutte le mie forze dalle continue offese del  tempo.

 

 

 

 

 
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Donne in rinascita.

Post n°185 pubblicato il 25 Maggio 2014 da Noneraunsogno

 

Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.

Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.
Che uno dice: è finita.
No, non è mai finita per una donna.
Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.

Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti fa la morte o la malattia.

Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.
Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.
Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai.
E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.
Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.
Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.
Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.
Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".
E il cielo si abbassa di un altro palmo.

Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato Natali e Pasqua.
In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima ed è passato tanto tempo, e ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.
Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.
Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.
Ed è stata crisi, e hai pianto.

Dio quanto piangete!
Avete una sorgente d'acqua nello stomaco.
Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.
Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo.
E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance?

E poi hai scavato, hai parlato, quanto parlate, ragazze!
Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore.
"Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?"
Se lo sono chiesto tutte.
E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli. Un puzzle inestricabile.

Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?
E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.
Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.
Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.
Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.
Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.

Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.
Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel.
Parte piano, bisogna insistere.
Ma quando va, va in corsa.
E' un'avventura, ricostruire se stesse.
La più grande.
Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.

Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo.
Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto, stiamo lavorando anche per voi. Ma soprattutto per noi stesse".

Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.
Per chi la incontra e per se stessa. È la primavera a novembre.
Quando meno te l'aspetti...(JACK FOLLA)

Dedicato a te che non ti arrendi mai, nonostante me e tutti gli altri.

 

 

 

 
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Profili evoluti.

Post n°184 pubblicato il 20 Maggio 2014 da Noneraunsogno

 

Nessuna incertezza sulle dita. Le mie continuano a battere sui tasti facendo attenzione a non fondere fra di loro consonanti e vocali, mentre le tue, così leggere,  quasi invisibili, sfiorano il mio sguardo lasciando sul muro bianco curiosità e desiderio dopo ogni passaggio.

Cerchiamo inutilmente di convincerci che siamo in viaggio, tu ed io.

In viaggio, da sempre, alla ricerca di qualcosa che ci possa ridare forza ed   entusiasmo.

Di  profilo in profilo, explorando, immaginando la bellezza che, con inquietitudine,  abbiamo imprigionato  dentro.

 
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Effetto notte (a sud-est del cuore).

Post n°183 pubblicato il 13 Maggio 2014 da Noneraunsogno

Saggia come la pioggia di maggio scende la sera. Pulisce, lava, toglie la luce che s'attarda lungo i muri delle case di questa ennesima periferia. Quante ne conosco? quante ne avrò viste in questi anni di viaggi? Non so nemmeno io perchè le guardo in questo modo, perchè mi sento attratto dalle interminabili file di silenzio e di vuoto.

Eppure si assomigliano tutte, le periferie;  hanno lo stesso colore, gli stessi sguardi, gli stessi strati di unto e di dolore.

Ovunque,  facce di cemento sputano per aria la rassegnazione; a muso duro, urlano dai finestrini  la loro rabbia, come se ci tenessero a far sapere che sono in guerra contro  tutto e tutti.

La macchina, per mia fortuna non segue i miei ragionamenti e  procede oltre, non si volta indietro, è insensibile persino al richiamo delle donne che misurano la notte in lungo e in largo.

Questo era l'ultimo incontro. Per oggi, avrei anche finito.

Mi passa accanto una volante, non la guardo nemmeno, faccio finta di essere concentrato sulla guida, mi do un'aria da turista, sto in campana, ma non rallento; ho  la mano sulla leva del cambio, sembro un manichino incatenato al sedile prima del fatidico crash test a cui sarà sottoposto.

Non importa se non mi rassomiglio oramai da molto tempo; canticchio la tua prima luna tanto per chiarirmi che sono sempre libero di frenare o di fuggire, ma non posso esagerare nel conflitto, potremmo rimanere paralleli nella corsa e sfidarci così per ore ed ore, ma ho le gambe raggelate, in preda ai crampi, e non potrei resistere a lungo in questa condizione,  sto tenendo stretta fra le cosce una bionda, gelida e frizzante come la morte.

Per fortuna, la macchina della polizia svolta a destra accendendo il lampeggiante,  inseguendo un'altra vita, un'altra birra, forse, più  bionda e spumeggiante della mia.

Apro il finestrino e respiro il sudore che ha lasciato fra i sedili il giorno in fuga.

Le birre cominciano a fare il loro effetto, bisogna che mi fermi prima che la vescica decida di svuotarsi in corsa, seduta stante, senza freno, come fiume in piena appena rotti gli argini.

Sul sedile posteriore il cosacco non da segni di vita. Ha un sorriso disegnato sulle labbra, quasi un marchio o una garanzia per  me  che lo sto osservando.
Il suo respiro è rimasto senza fiato non appena ha chiuso gli occhi.
Non ci siamo detti niente: niente nomi, niente saluti e nessuna falsa  presentazione. Solo due parole ad indicare provenienza e destinazione.
Entrambi siamo in viaggio.

Accosto su un breve rettilineo, spengo il motore e scendo, guadagnando in fretta il ciglio della strada come fosse un traguardo.

Guardo la città in lontananza mentre do fiato alle trombe e acqua alla campagna, in piedi oltre il guard-rail, oltre il confine disegnato dai fari delle macchine di passaggio.

Un tir, sorpassando, squarcia il liquido tintinnio che incessante accompagna la pioggia che scorre via dall'umana latrina ambulante.

Così, con un braccio sul fianco, quasi come un generale dopo la battaglia, osservo lo spazio che corre fino a valle, quel che resta di anni di battaglie.

Vedo luci che rimbalzano ovunque, imprecise come traccianti, ed altre luci che disegnano la vita di piccoli quartieri sdraiati sui tornanti che risalgono, a fatica, i fianchi accennati delle montagne.

Mi sento altro, nè luce nè ombra; sono consapevole di  appartenere al disordine interiore della notte.

So che domani sarò lontano, un'altra volta sulla strada,  clandestino dentro un corpo imbevuto di chilometri e di alcool.

Straniero ed ubriaco fra le braccia di una  bottiglia di cui non ricorderò  nome,  forma e contenuto.
Straniero nella mia terra che sa di arte, di scienza e di taverna.

Senza il cosacco che riabbraccerà all'alba la sua donna.

Si, perchè lui e lei,  finalmente, si ritroveranno  dentro un sogno liberato dalla polvere e dal fango.

Un sogno a cui in molti, come sempre,  non faranno caso o non vedranno.

 

 
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Tizio e suoi fratelli

Post n°182 pubblicato il 26 Aprile 2014 da Noneraunsogno

    TiZIO E  I SUOI FRATELLI

Da tempo stava meditando su come abbandonare quella vita di indeterminatezza,   su come  cambiare aria, nome e linguaggio.

Finalmente, lontano dagli esempi in cui spesso veniva catapultato stava ritrovando l' identità negatagli; occorreva avere la forza di cambiare aspetto per poterle dare corpo e, soprattutto, ci voleve ancora   forza per  trovare  nuovi significati da appiccicarle addosso.

Segnali gli giungevano che il momento era propizio. Per la prima volta aveva sentito l'espressione di un uomo farsi titubante, caricarsi di emozione nel dare  voce alla sua descrizione.

il suo nome,  figlio di una dubbiosa conoscenza, aveva sollevato nel bel mezzo di una discussione una forma interrogativa di incertezza, facendo balenare, per un attimo, fra quelle menti, le  verità su certe cose dette per onor di firma, senza una ragione precisa, tanto per riempire le risposte con  capri espiatori da condannare  a morte.

Lui non sarebbe stato più sinonimo d’uso comune da spiattellare ai quattro venti nelle giornate incerte del linguaggio. Oramai aveva deciso, il passo da fare era breve. Ne avrebbe parlato quella sera stessa alla sua gente.

 All’ora di cena rincasò e trovò i suoi fratelli ad attenderlo in cucina, seduti attorno al grande tavolo di legno. Salutò sua madre che era intenta ai fornelli a scaldare un intruglio che rassomigliava vagamente ad una zuppa minimalista di ceci e porri. Prese posto proprio quando il più anziano di tutti, Sempronio, puntò il suo sguardo su di lui chiedendogli “ adesso dicci perché hai voluto che fossimo tutti presenti.”.
Tizio scrutò l’arcigno fratello, poi rivolse lo sguardo a Caio, che lo stava guardando di sottecchi,  e, rischiarando un poco la voce, iniziò a parlare:” Fin da quando ero bambino mi sono sempre chiesto se questo nostro essere additati come persone indefinite, non fosse in realtà un modo per non farci crescere e prendere coscienza che nessuno può rimanere sconosciuto nei rapporti umani. Sono abbastanza grande da capire che io voglio vivere una vita fatta di chiarezza, una vita in cui io possa, come gli altri, essere chiamato con un nome che racchiuda in sè la bellezza dell'appartenere ad un discorso più ampio, alla comunità propria delle frasi felici, a quella meravigliosa storia che è stampata nelle iniziali dei corredi umani.

Da troppo tempo trascino dentro me il fardello pesante che mi diede il buon Irnerio prima e poi il vecchio Diocleziano, quando nell’annunciare al mondo me, te, o Grande Sempronio, e il tuo gemello Caio, volle che fossimo per sempre gli esempi eterni.”

“ Avrei voluto amare come gli altri, innamorarmi di una donna dal nome certo e breve, provare l'emozione di essere l'eroe che tutti ricordano per il suo coraggio ed il suo valore;  ma voi ve lo siete mai chiesto cosa pensano di noi le ragazze quando comunichiamo i nostri nomi? Ridono di noi, ci chiamano "i vaghi" oppure " gli illustri sconosciuti".

E anche voi Mevio, Filano e Calpurnio, pensate forse che io non veda quanto sofferenza c’è nei vostri occhi quando passando fra le parole, gli altri vi mettono da parte,  vi citano con disprezzo, magari cambiando umore, chiamandovi fantasmi oppure più semplicemente  –Mevio, Filano e Calpurnio-, quasi a non voler andare oltre un certo discorso volutamente nebuloso ed oscuro?

“E che dire del piccolo Pinco Pallino messo alla berlina dai suoi giovani compagni   che gli fanno pagare  la colpa di non contare quasi nulla in questi tempi di effimere onnipotenze?”.

 Intanto,  era sceso sui presenti  un silenzio quasi teatrale; nella stanza si sentiva solo il bisbiglìo dei ceci e dei porri che risalivano inesorabilmente a galla dopo aver opposto all'acqua bollente una debole resistenza. La donna tolse la pentola dal fuoco, la poggiò sul marmo bianco. Riempì le loro scodelle, poi,  si girò e asciugò le sue mani sul grembiule che le stava appeso ai fianchi. Fissò a lungo i suoi figli, uno dopo l'altro, scavando dentro i loro occhi trincee invisibili e profonde che sarebbero, da lì  a poco, in qualche modo, potuto servir loro  come riparo o rifugio sicuro. Poi, lasciò che Sempronio, come sempre, ringraziasse il Cielo di averli conservati anche per quel giorno vivi. Si sedette accanto a Tizio, gli afferrò le mani, mentre gli altri figli si erano già catapultati nel fondo delle loro scodelle.

“ Vedi figlio mio, tu hai ragione, io ti capisco. Tu vorresti passare il guado, tu vorresti andare oltre. Ma non noi non siamo come gli altri, noi non viviamo di eccessi. Siamo povera gente, citazioni a cui tutti eviteranno di dare volto o una benchè minima possibilità di scelta o di progresso. A torto o a ragione, non si può sfuggire al proprio destino di perdenti.
Tuo padre è andato in barca, ha attraversato la notte insieme a tanti altri sperando di trovare
nelle  parole di altre lingue una vita migliore di questa che noi trasciniamo  duramente.
Eppure il suo sogno si è infranto contro le onde giganti della notte.".

"E' stato uno dei tanti", disse frapponendo, a caso, brevi pause  nella ripetizione all'infinito   di  quel concetto striminzito.
"Uno fra i tanti, così dicono di lui su Google. Padre e Dio assoluto degli esempi.
Per questo non sarà un nome a mantenerci in vita, figlio mio, ma il battito del cuore che regala in silenzio a chi lo sente  un altro attimo di follia dirompente ".

Poi scese dal tetto una pioggia di stelle, di stelle generiche, di quelle che cadono senza tanti riconoscimenti, senza code o carri a bardarne i fragili lineamenti; Tizio guardò i suoi fratelli e li vide abbracciarsi l'uno con l'altro. Gli anonimi segni di inquietitudine, che ne marcavano i profili, si erano, ad un tratto, dai loro visi,  dileguati. Non c'era campo per il dolore dalle  parti della loro vita.

La loro pelle profumava di mare e di frontiera.  Macilenta, se ne stava a terra l'ombra stanca dell'attesa.

Attraverso i vetri trasparenti di una lente di ingrandimento si accorsero che  una motovedetta, in lontananza, stava lanciando ripetuti segnali fumanti; forse, pensarono i fratelli,  non erano bengala i lampi apparsi all'improvviso sopra le loro teste, ma fuochi di temporali in arrivo da occidente.

La follia, come un ladro,  stava, nel frattempo,  scartinando la paura che li teneva in ostaggio, scartinando la paura per liberare il coraggio. Stava arrivando, inarrestabile come una valanga, anche se loro non  riuscivano  a vederla, pur avvertendone vicino la presenza.  Qualcuno disse dal fondo di una bottiglia  " chi è stato? " Qualcun altro rispose, balbettando  "Tizio e Caio" .

C'era del sangue sulla mano del comandante ed il sangue brillava come falò acceso nella lunga  notte degli 8 dicembre.

C'era odore di porri nell'aria e ceci sparsi dappertutto.

Fu allora che il tavolo di legno si richiuse su  se stesso assumendo le sembianze di un  vocabolario in disuso.

Qualcuno, allora,  strappò via una pagina da quel tabernacolo sapiente, una pagina che piegò più volte prima diventare una  barca di carta senza onde.  Tizio, per primo ci si sedette sopra, inaugurando il viaggio.

A prua, qualcun altro stava ridendo a crepapelle rileggendo ad alta voce questo ultimo passo.

Tossiva forte  il buonumore clandestino a bordo del Presagio. Tossiva contagiando l'umana marea che si stava muovendo.

Salpò di nascosto l'ultimo racconto lasciandosi dietro una piccola scia sgrammaticata   e senza senso.

Salpò da un villaggio del deserto di cui il vento nasconde continuamente posizione e tracce.

Da un villaggio senza porto, incastonato fra le rotte invisibili del Mediterraneo.

Da un villaggio senza porto, perchè non hanno  più lacrime da versare gli occhi di coloro che ce lo indicheranno.


 

 
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