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Tizio e suoi fratelli

Post n°182 pubblicato il 26 Aprile 2014 da Noneraunsogno

    TiZIO E  I SUOI FRATELLI

Da tempo stava meditando su come abbandonare quella vita di indeterminatezza,   su come  cambiare aria, nome e linguaggio.

Finalmente, lontano dagli esempi in cui spesso veniva catapultato stava ritrovando l' identità negatagli; occorreva avere la forza di cambiare aspetto per poterle dare corpo e, soprattutto, ci voleve ancora   forza per  trovare  nuovi significati da appiccicarle addosso.

Segnali gli giungevano che il momento era propizio. Per la prima volta aveva sentito l'espressione di un uomo farsi titubante, caricarsi di emozione nel dare  voce alla sua descrizione.

il suo nome,  figlio di una dubbiosa conoscenza, aveva sollevato nel bel mezzo di una discussione una forma interrogativa di incertezza, facendo balenare, per un attimo, fra quelle menti, le  verità su certe cose dette per onor di firma, senza una ragione precisa, tanto per riempire le risposte con  capri espiatori da condannare  a morte.

Lui non sarebbe stato più sinonimo d’uso comune da spiattellare ai quattro venti nelle giornate incerte del linguaggio. Oramai aveva deciso, il passo da fare era breve. Ne avrebbe parlato quella sera stessa alla sua gente.

 All’ora di cena rincasò e trovò i suoi fratelli ad attenderlo in cucina, seduti attorno al grande tavolo di legno. Salutò sua madre che era intenta ai fornelli a scaldare un intruglio che rassomigliava vagamente ad una zuppa minimalista di ceci e porri. Prese posto proprio quando il più anziano di tutti, Sempronio, puntò il suo sguardo su di lui chiedendogli “ adesso dicci perché hai voluto che fossimo tutti presenti.”.
Tizio scrutò l’arcigno fratello, poi rivolse lo sguardo a Caio, che lo stava guardando di sottecchi,  e, rischiarando un poco la voce, iniziò a parlare:” Fin da quando ero bambino mi sono sempre chiesto se questo nostro essere additati come persone indefinite, non fosse in realtà un modo per non farci crescere e prendere coscienza che nessuno può rimanere sconosciuto nei rapporti umani. Sono abbastanza grande da capire che io voglio vivere una vita fatta di chiarezza, una vita in cui io possa, come gli altri, essere chiamato con un nome che racchiuda in sè la bellezza dell'appartenere ad un discorso più ampio, alla comunità propria delle frasi felici, a quella meravigliosa storia che è stampata nelle iniziali dei corredi umani.

Da troppo tempo trascino dentro me il fardello pesante che mi diede il buon Irnerio prima e poi il vecchio Diocleziano, quando nell’annunciare al mondo me, te, o Grande Sempronio, e il tuo gemello Caio, volle che fossimo per sempre gli esempi eterni.”

“ Avrei voluto amare come gli altri, innamorarmi di una donna dal nome certo e breve, provare l'emozione di essere l'eroe che tutti ricordano per il suo coraggio ed il suo valore;  ma voi ve lo siete mai chiesto cosa pensano di noi le ragazze quando comunichiamo i nostri nomi? Ridono di noi, ci chiamano "i vaghi" oppure " gli illustri sconosciuti".

E anche voi Mevio, Filano e Calpurnio, pensate forse che io non veda quanto sofferenza c’è nei vostri occhi quando passando fra le parole, gli altri vi mettono da parte,  vi citano con disprezzo, magari cambiando umore, chiamandovi fantasmi oppure più semplicemente  –Mevio, Filano e Calpurnio-, quasi a non voler andare oltre un certo discorso volutamente nebuloso ed oscuro?

“E che dire del piccolo Pinco Pallino messo alla berlina dai suoi giovani compagni   che gli fanno pagare  la colpa di non contare quasi nulla in questi tempi di effimere onnipotenze?”.

 Intanto,  era sceso sui presenti  un silenzio quasi teatrale; nella stanza si sentiva solo il bisbiglìo dei ceci e dei porri che risalivano inesorabilmente a galla dopo aver opposto all'acqua bollente una debole resistenza. La donna tolse la pentola dal fuoco, la poggiò sul marmo bianco. Riempì le loro scodelle, poi,  si girò e asciugò le sue mani sul grembiule che le stava appeso ai fianchi. Fissò a lungo i suoi figli, uno dopo l'altro, scavando dentro i loro occhi trincee invisibili e profonde che sarebbero, da lì  a poco, in qualche modo, potuto servir loro  come riparo o rifugio sicuro. Poi, lasciò che Sempronio, come sempre, ringraziasse il Cielo di averli conservati anche per quel giorno vivi. Si sedette accanto a Tizio, gli afferrò le mani, mentre gli altri figli si erano già catapultati nel fondo delle loro scodelle.

“ Vedi figlio mio, tu hai ragione, io ti capisco. Tu vorresti passare il guado, tu vorresti andare oltre. Ma non noi non siamo come gli altri, noi non viviamo di eccessi. Siamo povera gente, citazioni a cui tutti eviteranno di dare volto o una benchè minima possibilità di scelta o di progresso. A torto o a ragione, non si può sfuggire al proprio destino di perdenti.
Tuo padre è andato in barca, ha attraversato la notte insieme a tanti altri sperando di trovare
nelle  parole di altre lingue una vita migliore di questa che noi trasciniamo  duramente.
Eppure il suo sogno si è infranto contro le onde giganti della notte.".

"E' stato uno dei tanti", disse frapponendo, a caso, brevi pause  nella ripetizione all'infinito   di  quel concetto striminzito.
"Uno fra i tanti, così dicono di lui su Google. Padre e Dio assoluto degli esempi.
Per questo non sarà un nome a mantenerci in vita, figlio mio, ma il battito del cuore che regala in silenzio a chi lo sente  un altro attimo di follia dirompente ".

Poi scese dal tetto una pioggia di stelle, di stelle generiche, di quelle che cadono senza tanti riconoscimenti, senza code o carri a bardarne i fragili lineamenti; Tizio guardò i suoi fratelli e li vide abbracciarsi l'uno con l'altro. Gli anonimi segni di inquietitudine, che ne marcavano i profili, si erano, ad un tratto, dai loro visi,  dileguati. Non c'era campo per il dolore dalle  parti della loro vita.

La loro pelle profumava di mare e di frontiera.  Macilenta, se ne stava a terra l'ombra stanca dell'attesa.

Attraverso i vetri trasparenti di una lente di ingrandimento si accorsero che  una motovedetta, in lontananza, stava lanciando ripetuti segnali fumanti; forse, pensarono i fratelli,  non erano bengala i lampi apparsi all'improvviso sopra le loro teste, ma fuochi di temporali in arrivo da occidente.

La follia, come un ladro,  stava, nel frattempo,  scartinando la paura che li teneva in ostaggio, scartinando la paura per liberare il coraggio. Stava arrivando, inarrestabile come una valanga, anche se loro non  riuscivano  a vederla, pur avvertendone vicino la presenza.  Qualcuno disse dal fondo di una bottiglia  " chi è stato? " Qualcun altro rispose, balbettando  "Tizio e Caio" .

C'era del sangue sulla mano del comandante ed il sangue brillava come falò acceso nella lunga  notte degli 8 dicembre.

C'era odore di porri nell'aria e ceci sparsi dappertutto.

Fu allora che il tavolo di legno si richiuse su  se stesso assumendo le sembianze di un  vocabolario in disuso.

Qualcuno, allora,  strappò via una pagina da quel tabernacolo sapiente, una pagina che piegò più volte prima diventare una  barca di carta senza onde.  Tizio, per primo ci si sedette sopra, inaugurando il viaggio.

A prua, qualcun altro stava ridendo a crepapelle rileggendo ad alta voce questo ultimo passo.

Tossiva forte  il buonumore clandestino a bordo del Presagio. Tossiva contagiando l'umana marea che si stava muovendo.

Salpò di nascosto l'ultimo racconto lasciandosi dietro una piccola scia sgrammaticata   e senza senso.

Salpò da un villaggio del deserto di cui il vento nasconde continuamente posizione e tracce.

Da un villaggio senza porto, incastonato fra le rotte invisibili del Mediterraneo.

Da un villaggio senza porto, perchè non hanno  più lacrime da versare gli occhi di coloro che ce lo indicheranno.


 

 
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in quell'altrove ideale.

Post n°181 pubblicato il 20 Aprile 2014 da Noneraunsogno

 

 

... in quell'altrove ideale

 

ALtrove Ideale

 

" Quanti anni hai ?"  mi sta chiedendo la ragazza.

 Il suo sguardo ad energia fluttuante mi sta scrutando di sfuggita  e le sue mani,  danzatrici e  sinuose nell'aria compressa di questo pub stracolmo di jeans e di ghiaccio, sembrano mimare questa infinita domanda.

Sopra il suo corpo minuto se ne sta, inquieta, un'aria di conquista ed un sax sedotto, avanzando,  ne fa presto le spese e l'accompagna  fino all'ultimo fiato, prima di crollare esausto sull'applauso fragoroso di un pubblico indemoniato.

Canta, e sembra che il suo canto sia una faccenda privata fra la sua anima e la mia mente.

D'altronde, il suo è un blues che macina forte il silenzio, che spezza il muto assedio che circonda oramai gli attimi-coraggio.

La ragazza è venuta a liberarmi. Con tanto di biglietto di andata e ritorno messo in bella vista dentro gli occhi.

" Quanti anni ho, mi stai chiedendo? Tanti se consideri che sono sopravvissuto mille  volte, sopravvissuto  quando tutti attorno festeggiavano già la mia morte, sopravvissuto persino alla quiete che corrompe le  scelte, le forme della vita che chiami  resistenze.
O, forse, ho  gli stessi anni di tua madre che ti sta guardando fiera per la musica che sei diventata in questa tremula primavera " così, quasi,  le sussurro, di riflesso, accordandomi su un La maggiore di passaggio.

Sul suo fianco la  chitarra, intanto, vibra più forte simulando  un orgasmo, mentre la ragazza guarda  le sue dita che si stanno rincorrendo lungo le scale tracciate sul bianco manico di legno.

Sembra felice, finalmente sorridente. Continua  a fissare la mia faccia come chi scruta la foto sbiadita di un passaporto alla ricerca della traccia di un bandito o di un parente nella memoria nascosto.

"..... Unconditional.... " quasi sembra scivolare lenta la canzone dalla sua voce.

Bevo lentamente un'altra birra; alzo il bicchiere in suo onore, le faccio un segno, sto in qualche modo brindando alle sue prossime fortune.

"Io ho gli anni che tu canti,  gli anni del blues dimenticato  in quell'altrove ideale, tutti gli anni che corrono lungo  i sentieri dell'amore.
Ho gli anni che servono per sapere ascoltare e quelli che bastano per non ricominciare  a sognare.
Ho gli anni che si svuotano delle parole, gli anni fatti a pezzi per rottamarne giorni, mesi, o solo pochi istanti.

Ho gli anni che potresti contare se solo tu potessi  vedere dentro il mio cuore.
Delle ferite, bambina mia, sono rimaste solo queste piccole  cicatrici ".

 

 
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Goodbye, Ioerò.

Post n°180 pubblicato il 01 Gennaio 2014 da Noneraunsogno

Goodbye, Ioerò.

eroi

 

Tutto accade troppo in fretta. Come se qualcuno avesse premuto il pulsante che fa avanzare la registrazione a velocità superiori, che  rendono ridicole le immagini che passano  sullo schermo della vita. E il bello è che ogni volta che io tento di fermare questo violento avanzamento, battendo senza pietà l’indice su un ostile telecomando, ottengo solo un incremento  della velocità che spinge via qualunque mia forma di resistenza.

Succede tutto in fretta. Una illogica apatia rende piatta la visione della vita. I giovani  che battono con successo su mille tastiere, persino su quelle di un telecomando,  e che si spacciano per  figli miei, vivono di registrazioni, non riescono a metabolizzare nessun presente; non hanno appuntamenti con il destino, si muovono nell’oscurità come clandestini, come se non toccasse pure a loro, che si sono imbarcati di nascosto, la responsabilità di condurre la nave in porto.

So con certezza che la tempesta sta arrivando. Prevista, sfidata, tracciata, a tratti annunciata.

Traggo il peggio dalle mie previsioni. Ho comprato gli ultimi libri dietro cui dovrò barricarmi quando la furia del vento coprirà la mia voce. Ho già messo via le insegne che hanno popolato i miei giorni e le mie battaglie. Il Tempo degli eroi è scaduto, non è stato consumato, dimenticato in una dispensa rimasta chiusa per troppi anni. Eravamo convinti che  accumulando sogni non saremmo giunti alla fine del viaggio piegati sotto il peso dei ricordi.    

Potevamo vincere entrambi, tu ed io. Se solo avessimo avuto il coraggio di uscire allo scoperto.

Se solo avessimo barattato lo scudo per una spada o per una lancia, se solo non avessimo scavato questa trincea d’acqua fra noi e loro. Allora si che saremmo ancora in prima fila sui bastioni della vita.

Ma tutto accade in fretta. I nostri corpi si stanno disfacendo come se la materia di cui siamo nome fosse destinata ad un’ultima mutazione. Siamo stati grazia, una volta luce e speranza. Dannata mutazione. La bellezza è imprigionata dentro una bolla di sapone, una bolla che si sta ghiacciando nella vastità del dolore. Diventeremo ghiaccio, forse, oppure sabbia  sopra cui qualcuno scriverà il suo nome.

Siamo  dannati, spenti, sorpassati per strada persino da quelli che credevamo già morti. Siamo rimasti indietro, senza legami con il mondo, incapaci di scrivere sul muro bianco  di un monitor una parola che sia d’amore e di conforto.

Ioerò, oggi stai per togliere dal cuore l’accento. Cosa darei per far tornare indietro questo cazzo di discorso e riavvolgere la vita in un abbraccio.

Succede troppo in fretta. Anche l’addio avanza a 12x divorando la fine. A 12x, chissà come saremmo stati ridicoli tu ed io. Ridicoli e felici.

 

 
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Salvate le parole.

Post n°179 pubblicato il 20 Ottobre 2013 da Noneraunsogno

                                        SALVATE LE PAROLE

 

Non sarà mai il vostro mestiere, eppure ci sarà bisogno anche delle vostre mani, ci sarà bisogno dei vostri occhi e di tutti i vostri battiti.

Non ci sarà molla che scatterà in voi, nè sarà l'istinto di sopravvivenza che vi farà decidere di unirvi a noi.

Ognuno lo farà nella propria notte senza stelle, in mezzo alle raffiche di vento o sotto una pioggia fredda e battente.

Come un marinaio che fiuta le tempeste o come un prigioniero che fugge a perdifiato, vi porterete dietro tutte le parole che avevate raccolto e stipato.

Ve li porterete dietro le parole da salvare, tutte quante, incastrate dentro scrigni e bottiglie impolverate, come fossero velieri conservati per un ultimo e disperato viaggio.

Le parole, queste piccole dimore dove vanno e vengono i nostri baci, ancora piene di sudore, le parole che si tengono per mano nelle strade in cui ogni giorno camminiamo, le parole, quelle sussurrate in un letto e quelle urlate a squarciagola in un tempo giovane e maledetto, le parole che sono naufragate dentro i libri che nessuno più legge,  naufragate in un mare che divide  e che non unisce.

E saranno mani che le accarezzeranno, occhi che le disegneranno, battiti di cuori al confine degli anni che le faranno muovere verso le terreferme.

Imparare ad amare la vita, questo sarà il vostro mestiere e parlare, parlare vi servirà per poterlo dire e per poterlo ricordare.

In questo senso, le parole che avete dimenticato, si trovano nei relitti che ogni giorno s'inabissano sotto la furia del silenzio.

 

                                  video by Ivo Abbondandolo

 
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La lista di Cecilia

Post n°178 pubblicato il 08 Settembre 2013 da Noneraunsogno

Ci sono profili che non si possono definire. O, almeno, non con le parole di tutti i giorni.

Per esempio, non posso dire nulla di queste rocce, perchè esse se ne stanno in disparte, non danno segni di vita  ed il senso che esse suscitano in me, quando l'acqua  vi frantuma  il balbettio dell'onda, il moto marino e la furia del vento, è quello di impotenza e di dannazione. Certo, potrei definire il profilo di queste rocce come un profilo duro e salato, ma mai dir di loro che sono belle. Anzi, a camminarci sopra, senza sandali, non mi viene proprio il senso del bello; piuttosto, dopo alcuni passi,  provo un  dolore infinito a ridosso delle parole che l'unico senso che resta fra i denti è una imprecazione soffocata a stento.

Dicevo i profili, queste giovani linee che contengono la vita e la morte degli uomini e delle cose. Profili di donne e di uomini distesi al sole sulla spiaggia sottostante, anch'essi indefinibili, profili conficcati sulla sabbia arroventata dal sole senza nessuna scadenza impressa sulla fronte. Eppure, neanche l'untuosa perfezione di quei corpi eregge un monumento voluttuoso alla bellezza, poichè in quei profili umani ci sono oli e sudori che rigano senza significato i giorni speciali dell'ozio e che finiscono per allagare il tempo silenzioso della  rinascita  e del rinnovamento.

Cecilia se ne sta seduta proprio sopra una di queste rocce. Ha il sole incorporato nel profilo, ma grazie ai miei occhiali da sole all'ultimo grido (Ahhhhhh!) io la vedo come se ci fosse disegnato un tramonto alle sue spalle, tanto che le parlo di un profilo tutto fuoco e fiamme.

Che a Cecilia  non importi nulla dei miei ragionamenti è fin troppo evidente; rimane sulle sue e non fa una piega agli stessi. Del resto, a tredici anni  ha altro a cui pensare.

Innanzi tutto deve scrivere in qualche posto i suoi pensieri, mica li può abbondanare a destra e a manca su una isola che non sa cosa farsene dei pensieri di una ragazzina, indaffarata com'è a sopravvivere nella sua naturale prigione, poggiata tra il cielo ed il mare.

Per questo Cecilia ha un quaderno su cui annota ogni tanto una piccola frase.
Che chiamare una piccola frase "Cecilia, Roma, prossima estate" è già una esagerata concessione di fantasia alla teoria concisa della troppa sintesi e del solo essenziale.

Comunque Cecilia non parla. Cecilia scrive. Mica poesie o versi struggenti velati di bianca e infantile malinconia, ma concetti e pensieri impegnati, stringati come certi sms in cui vengono frullati le vocali e le consonanti superflue.

Cecilia non parla, ma emette rutti di inchiostro che sembrano dispacci di una guerra di cui nessuno si accorge.

Cecilia scrive e sorride. La piccola normanna, dentro cui scorre la lava del vulcano taciturno, scrive i suoi pensieri in un diario giallo. Scrive pensieri. Uno dopo l'altro, numerati progressivamente, senza un profilo d'autore che dia allo scritto un senso poetico ed infinito.

Scarni graffi sulla carta, sognando per quei pensieri migliore vita e migliore fortuna; una lista di cose da non sognare ad occhi aperti, ma da fare al più presto, magari oltrepassando il confine delle paure e delle timidezze.

1) Questa isola è sola.

2) Cecilia vuole partire.

3) Non ci vede bene. ( Ma parla di me?)

4) Troppi  schizzi! Domani mi metto sù.

5) Alessandro, Roma, aspettami.

....

Per fortuna, che Cecilia dopo un pò si alza e strappa la lista, lanciandola verso di  me dopo averla appallotolata per bene. Io che l'ho tenuta in braccio nel tempo delle maree e delle lune piene raccolgo quella pallina e le ridò vita e candore. Lei ride vedendo che sto leggendo i suoi pensieri, la sua ennesima lista.

Con complicità, le sorrido, mentre un aereo sfreccia nel cielo trascinandosi dietro i nostri occhi viaggiatori.

Curioso, rileggo la lista e penso che per i profili del mondo bisognerebbe usare solo  l'indicativo presente, mascherando con una risata il tanto famigerato futuro imminente.

D'altronde, se guardo a lungo il profilo del mare mi accorgo che all'orizzonte
ci sono tantissime vele, parole che vorrebbero prendere il largo, sfidando i tempi incerti del congiuntivo e del condizionale.

 

 

 
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