Creato da paulget il 08/07/2010

OCEANO TERRA

Racconti della Terra sotto il Mare

 

 

Una volta di più (risveglio da un sogno)

Post n°33 pubblicato il 11 Ottobre 2010 da paulget

Stava ritto in piedi alla finestra dal vecchio telaio, quadrati di mare turchese increspato di vento.

 Repentine raffiche arrivavano imponenti a incontrare il mare verde di foglie chiazzate di giallo, in una strana danza del caos, sbattute, contese da refoli distinti ma figli della stessa forza.

 Folate di sale sul cortile e sulla fontana di acqua tremula portano odori forti di  fieno e fichi e terra umida.

Più forte l’odore di zenzero della donna  lasciata  sotto le lenzuola.

Contrasti di pensieri confusi da sogni sempre più penetranti, vividi di sensazioni riaffioranti in quei momenti sempre più lunghi, davanti a quel dipinto di canapa al vento.

Stava lì.

 Una volta di più il ricordo lontano, confuso, della spiaggia e di quell’incontro col nuovo suo mondo, quello del dopo, della mente nuova, lavagna priva del gesso del passato, foglio nuovo da scrivere.

 E ci scriveva da un po’.

 Fiorivano gli alti fusti di fine estate quando il nuovo ordine di cose fluì nella sua casta memoria e ora, ancora una volta, un nuovo mare di gialli fiori di sativa, si donava al vento del sud.

 

 “Esci già?”

Il fruscio di lenzuola placò i suoi pensieri, la voce della ragazza lo riportò al presente.

Si portò la mano sulla bocca ispida e i profumi del vento scomparvero scacciati dal dolce speziato odore.

“Resta pure a letto, ricordati di prendere i rotoli prima di uscire” le disse.

Lei si alzò sui gomiti fra scrocchi secchi del giaciglio di canapa con lo sguardo assonnato e sorpreso.

 “Sono già pronti? E quando li hai scritti?”

Non disse niente, si girò avviandosi verso la porta della stanza i cui stipiti a malapena contenevano le spalle enormi, prendendo la bocca ruvida fra la mano a sentire una volta in più quell’inebriante profumo.

 “Ho sognato i cavalli.” Le disse senza voltarsi.

 E senza aggiungere altro uscì.

 

L’aria già tiepida della mattina si insinuava fra i suoi vestiti mentre il gatto, di ritorno dalle scorrerie notturne si strusciava sui suoi stivali prima di saltare sul davanzale e raggiungere la scodella già colma Il rumore del mare arrivò improvviso da dietro la collina di rovi chiazzati di grosse more, il suo pensiero era più pesante quella mattina, mentre si avviava per il sentiero rubato al bosco di pini che costeggiava  la ripida discesa verso l’azzurro in subbuglio.

La casa come sempre gli venne incontro all’improvviso, l’amplesso del glicine al muro opposto al mare.

Sogni scomposti, vivi, come ogni giorno avevano lasciato il posto alla realtà. Quale filo sottile divide i due mondi..

 

Tutto come ogni giorno, nessuna nota stonata  in una composizione certa, affermata, mentre lampi di sogni spazzarono la realtà fermandosi, fugace momento, sparendo, oscurati da razionalità padrona di quel pezzo di tempo. Consueto momento di mille risvegli.

 

Passati i cespugli di ginestra la sabbia cedeva al calare degli stivali , sempre più in fondo, sempre più secca sulla strada del vento, per divenire umida di marea un passo più avanti.

Si fermò così, con la faccia al vento a scrutare il mare, cercando il passato, trovando il presente.

Vecchio libro in nuove mani, dove leggere le storie, sensazioni, impressioni di oggi. Cercava a dir bene con poco coraggio, come un libro già letto.

 Timore di riaprirlo per non confondere le sensazioni di allora con quelle di oggi.

 

E il suo nome gridato.

Ancora il vento del presente, il profumo del mare, il rumore dei pensieri sempre più lontano come un treno passato troppo in fretta per poterci salire.

Una volta di più.

 

Si sentì chiamare di nuovo.

Con passo spedito rifece la strada verso la sabbia più secca, passo oltre i cespugli incrociando il carro stracolmo di attrezzi con l’amico in attesa.

 

Una volta di più.

 

 
 
 

Polvere di sogni

Post n°32 pubblicato il 06 Ottobre 2010 da paulget

 

 

 “Cosa diavolo sta succedendo! Voglio una spiegazione reale non favole!”

Il Re, figura imponente sulla strada dell’autunno ormai, come i suoi capelli lasciavano intravedere, camminava avanti e indietro per l’immenso salone che faceva da studio personale, fermandosi a volte per rileggere l’ultimo comunicato recatogli da uno dei suoi messi, quasi potesse cambiare qualcosa con il passare dei minuti. Quasi potesse trovare una soluzione tra un solco e l’altro dell’inchiostro.

“Fino a ieri tutti, tutti voi, dicevate che avreste avuto sempre e in ogni caso la situazione in pugno, che il popolo sarebbe stato con me sempre, che mi avrebbero amato sempre e avrebbero accettato sempre di buon grado ogni cosa gli avessi proposto. Sempre…sempre…”Arrivò imponente davanti ai due sguardi sfuggevoli.

Uno dei due servitori si sporse verso di lui come per accennare un qualcosa ma commise l’errore di avvicinarsi troppo. E quel pensiero rimase cristallizzato come rugiada fatta brina prima di divenir  parola.

 Un raggio di sole improvviso, la mattina passata una collina, ti fulmina gli occhi all’improvviso facendoteli chiudere d’istinto.

 Una mano forte e villosa arrivò sul suo viso e così fu, li chiuse d’istinto, ma la forza che alimentava quel gesto non era paragonabile alla luce accecante del sole e lo scagliò, esile e minuto com’era, contro la vetrata che dava sul balcone, lo stesso dove fino a pochi giorni prima si affacciava con il suo padrone per i bagni di folla ormai usuali in tutti quegli anni.

Il vetro tremò con fare sinistro lasciandolo a terra con gli occhi stretti e le mani a coprirsi la testa e ad aspettare la pioggia di cristalli.

Il fisico emaciato fu la sua salvezza, infatti, nonostante il forte colpo, il vibrare del vetro andò scemando e,  come un temporale annunciato da tuoni imponenti che un vento improvviso trascina a spegnersi in lontananza, non portò nessuna pioggia. Un sospiro venne dal profondo, spezzato a metà da un calcio nello stomaco che lo fece rimanere in apnea come avessero consumato tutta l’aria intorno, rimase lì, annaspante, con la bocca aperta come un pesce appena pescato.

Un dito tozzo, villoso e minaccioso si levò contro di lui.

“E tu! Maledetto incapace – riprese il monarca- mi dici che sarebbe tutta colpa di un pozzo! Colpa dell’acqua di uno stramaledetto pozzo?!”

L’altro servitore fino ad ora in disparte, con la voce tremante, disse qualcosa che voleva essere un  ” ascolti mio signore…”  Il Re si girò di scatto fulminandolo con occhi gonfi dal colore di un tramonto incoraggiante, mentre lui continuava con un ardire figlio più della disperazione che di  virtù nascosta, “ mi lasci spiegare con calma in poche parole e potremmo così trovare una soluzione, a tal proposito mi son permesso di chiamare a palazzo il suo fedele amico, il mercante che già tante gioie ha diviso con voi.”

 

Quelle parole sembravano sortire l’effetto voluto e il Re, alzando la testa verso il panorama aldilà della vetrata ebbe subito un’espressione diversa, mentre il secondo servo tenendosi a debita distanza aiutava il mingherlino a terra a rialzarsi il sovrano disse:- Va bene! E sia! Mandatelo a chiamare e parliamone con calma.

 

Il mercante era un uomo giunto a corte parecchi anni prima e tra mille proposte e affari buoni era entrato nelle grazie del regnante diventando anche piuttosto intimo,  nel frattempo l’uomo aveva usato il potere e le conoscenze del Re per accrescere i suoi averi.

Uomo sempre sorridente e affabile, severo quando si trattava di discutere seriamente se un terreno doveva essere usato a pascolo o usato per costruire delle nuove case, una serietà che incuteva timore ai tutti i consiglieri del Re e faceva a pugni con la sua non proprio prestante fisicità.

 Alto poco più di un metro e sessanta, faceva anche fatica a salire a cavallo e le malelingue di palazzo dicevano avesse dei rialzi dentro gli stivali per sembrare più prestante.

Con il tempo però, aveva conquistato un po’ tutto il territorio intorno alle mura del castello e non c’erano botteghe, osterie, fabbri o contadini che non fossero in mano sua. Tutto naturalmente con l’approvazione del Re che lo aveva aiutato non poco e gli aveva concesso molti dei suoi territori.

Per questo motivo il monarca si rasserenò al sentir il nome del suo grande amico.

Infatti, anche lui avrebbe avuto interesse a evitare una rivolta popolare.

 

 

Il mercante entrò nel salone senza essere nemmeno annunciato, con un sorriso gaudente, camminata sicura e stivali un po’ particolari. Quando il Re lo vide, gli andò incontro abbracciandolo, facendo sembrare il piccolo uomo quasi un nano da circo fra le sue vecchie ma ancora robuste spalle.

“Ascolta amico mio- esordì il piccolo uomo- ora ti spiego come sono andate le cose e vedrai che una soluzione la troviamo. Dopo tante battaglie vittoriose insieme vedrai che faremo nostra anche questa.”.

“Mio caro e fedele amico – disse il Re guardandolo negli occhi- qui il problema è grosso, la gente è impazzita e rischio non solo di perdere il regno, ma anche tutti i tesori che ho accumulato in questi lunghi anni di fatiche. Non pretenderai che mi faccia spogliare di tutto.”.

Il piccolo uomo guardò i servitori e disse:-  Gli avete spiegato come stanno le cose? Cos’è successo davvero? I due uomini, lo sguardo balbettante, incrociarono gli occhi ancora di sangue del sovrano che si affrettò subito a toglierli dall’imbarazzo “No! –disse- non hanno saputo far altro che blaterare del pozzo del paese dell’acqua e altre scemenze simili.

“Infatti, è cosi “, lo interruppe il mercante, lascia che ti spieghi.

E così dicendo si sedette sul divano facendo cenno al Re di seguirlo. Un po’ sorpreso da un comportamento simile ma ormai disperato, il Re lo seguì e sedette accanto a lui.

“Vedi”, disse il mercante girandosi verso il Re, per spodestarti e privarti delle tue ricchezze un uomo malvagio ha assoldato un mago e una strega affinché preparassero una pozione magica che ha il potere di rendere pazzi gli uomini, poi nottetempo, l’ha versata nel pozzo del paese, di cui tutti si servono a parte tu. Tutto il popolo è impazzito, non capisce più quello che dici, anche se fino a ieri andava bene per loro. Anche tutto quello che hai fatto è diventato all’improvviso opera di un pazzo”.

 “ Ma se mi stai dicendo che sono loro a esser diventati pazzi – esclamò il Re di nuovo arrossando-  come sarebbe che sono io il pazzo! Io sarò il normale semmai!”

“Certo, caro amico –disse il mercante mettendogli una mano sulla spalla- ma loro sono tutti pazzi e sono la maggioranza, e quindi se ne deduce che, essendo solo tu diverso, sei tu il pazzo per loro.”

 

“Consentimi –il mercante si alzò dal divano invitando il Re a seguirlo- io una soluzione l’avrei per risolvere il tutto e darti la possibilità di uscirne bene”. Così dicendo lo prese sottobraccio e si allontanò dai consiglieri camminando lentamente, arrivati lontano da orecchie indiscrete davanti alla vetrata risparmiata dalla furia regale poco prima, disse:- Certo che questa non è una bella situazione. In nome della nostra vecchia amicizia però avrei in mente un modo per dare a te la possibilità di mantenere le tue ricchezze e a me di aumentarle. Potremmo sfruttare la situazione che si è creata e girarla a nostro favore.

“Dimmi come, ti ascolto!” esclamò il re con un’aria fra il calmo e il supplichevole, l’aria di uno che decide di pendere oramai dalle labbra di un altro uomo piuttosto di pendere da una forca in mezzo ad una piazza tra la folla inferocita.

“ Tu dovresti abdicare. Così la gente sarebbe soddisfatta. Dovresti  mettere al tuo posto una persona di cui si fidino e che nello stesso momento ti permetterebbe di trovare riparo nel regno oltre il mare dal tuo amico Conte che sicuramente ti accoglierà a braccia aperte.”

Il Re s'irrigidì, nella luce ambrata del tramonto che illuminava il suo volto provato, ebbe un sussulto, come se  i suoi sensori da esperto despota fossero entrati tutti in allarme a quelle parole.

Si girò verso il mercante che lo guardò con aria sorniona, l’aria di uno che ti dice con un sorriso:  “Sì, hai capito bene...”

“Tu?!” esclamò il Re e abbassando subito la voce aggiunse “Come farai a tenere a bada una folla che tu stesso hai definito pazza pochi minuti fa! ”

“Non ti preoccupare -rispose l’uomo- è il minimo per una persona come te che mi ha dato tanto, ho già un piano in mente. Tu, però, devi partire prima possibile.”

Il Re restò in silenzio a guardare senza vedere il muro di cinta incamiciato dall’edera e più in là il rosso tramonto, poi si girò verso il mercante.

E lo abbracciò.

“Grazie amico mio, sapevo che non mi avresti mai abbandonato, ma tu che farai, ora che resti solo contro un popolo che potrebbe farti perdere tutto quello che hai conquistato in questi anni”.

Il piccolo uomo lo guardò negli occhi e disse:- Fidati..ci penso io!

E così, con quest’ultimo abbraccio  suggellarono il passaggio di consegne e il Re, affranto ma sollevato, si avviò verso lo scrittoio con passo lento che lo faceva  sembrare ancora più vecchio.

I consiglieri si guardarono, poi indugiarono sullo sguardo del mercante, da lontano lui fece un sorriso ed un cenno di intesa. Un sospiro silenzioso salì dai loro cuori.

 

 

                                                     

 

 

“Signori, sono pronto!”

Il nuovo Re stava davanti ai pesanti intarsi di legno e ferro del portale che si apriva sulla piazza del paese, circondato dalle sue guardie, bardato di tutto punto, ma non troppo appariscente, si era preparato con cura.

Negli ultimi giorni si era fatto preparare tutta una serie di messaggi distribuiti ai suoi nuovi messi che li avevano letti in tutti gli angoli delle strade e, ormai, il popolo era curioso di vedere e sentire cosa avesse da dire questo mercante che aveva spodestato, secondo la loro opinione dovuta all’intruglio nel pozzo, un Re folle e ladro.

Ora era il momento

 si assicurò che la piazza fosse piena e diede il segnale.

Le porte si aprirono.

 

Un grande sorriso illuminò il volto dell’ex mercante, mentre la folla si apriva come acque bibliche al suo passaggio per richiudersi subito alle sue spalle, il che preoccupò non poco le guardie che stavano intorno al loro sovrano.

 Lui era sicuro. Sicuro nel passo, nel sorriso, nello sguardo, ma si guardava bene dal parlare.

Arrivò in cima alla piazza, davanti al pozzo. Ordinò ai suoi servi di attingervi un po’ d’acqua.

Un brusio di gente incuriosita cominciò a serpeggiare tutt’intorno.

Appena il secchio fu pieno lui, da una delle tasche, prese un bicchiere di rame preso nelle cucine, lo immerse in quell’acqua fresca e  bevve tutto d’un fiato.

Per un attimo si guardò intorno, poi all’improvviso, senza nessun preavviso una fiammata gli salì da dentro, un calore che dalle gambe arrivava sempre più su, fino al petto, ancora più su fino alla testa e, trovate precluse altre uscite s’insinuò negl’occhi facendoli avvampare. Poi cessò.

Si girò verso la piazza ormai ammutolita e parlò…

La gente disse subito: "Questo sì che si capisce quando parla."

 

 

Bonifico1 /  Gentile cliente il denaro verrà accreditato nell'arco di 2-5 giorni.. li portano con la diligenza si vede.

Bonifico2 / gentile cliente naturalmente esclusi i week end e le feste comandate..certo logico. I cavalli devono pur riposare..my god!

Bonifico3 / gentile bancario..visto che sono circa 50 km facevo prima a portarli io.

Bonifico4 / gentile cliente lei può portarli naturalmente senza fare il bonifico ma non possiamo darglieli subito. Deve prenotarli.

Bonifico5 / gentile bancario il saldo mi dice disponibilità 4500 euro…come non li posso avere subito…

Bonifico6 / gentile bancario..mi chiudono la luce dell'azienda se non pago entro oggi. Come dice? Faccio un assegno? clic! buonanotte...

Bonifico7 /EPILOGO  gentile bancario, nel ringraziarla per la pazienza avuta nello spiegare a un “folle” come funzionano le cose, volevo solo farle presente che mia moglie ha versato 4390 euro stamattina alle 9. Ma siete pazzi?!

 

 

 Aprì gli occhi. Lenti i sensi riaffiorarono, come polvere che si posa dopo un soffio di vento, il pulviscolo delle sensazioni divenne tutt’uno adagiandosi sulla coscienza e il sonno profondo da cui era stata spazzata lasciò il posto alla veglia.

Quanto aveva dormito? I fogli degli appunti ancora lì vicino. Angoscia. Sembrava vero quello strano sogno. Volava troppo con i pensieri durante il giorno e quando questi si fondevano all’altro ingrediente che caratterizzava spesso le sue giornate, la mancanza di sonno, ecco che il cocktail era servito. Un sonno lungo e profondo fatto di voli, di viaggi, di parole di  gente di suoni. Mondo in bianco-nero lo chiamava spesso. Quel sogno invece aveva colorato ogni angolo delle sue immagini. Chiuse gli occhi, cercò di fermare i ricordi prima che la ragione, prepotente e aggressiva, avesse modo di nasconderli nei mille cassetti della memoria.

Prese gli appunti, come a darsi la tranquillità della realtà. Era lì...si era addormentato subito dopo aver spento il ronzare insistente della consuetudine che come ogni mattino non dava adito a dubbi sul fatto che fossero le 8.30. All’improvviso si girò verso l’orologio. Possibile? Erano le 8.33. Tre minuti era durato quel lungo sogno.

 Si spogliò entrò nel bagno e mentre il rubinetto faceva scorrere una cascata d’acqua sempre più fresca, lo specchio gli rimandò l’immagine consueta di uno stanco risveglio, emozioni contrastanti, ragione combattuta per ricordare, risentire, rifare la strada fatta, le sensazioni avute, vedere ancora un attimo ma con mente cosciente attraverso quei granelli polverosi in volo per scoprire con razionalità cosa ci fosse oltre.

Il sorso abbondante di fresca acqua mise al tappeto l’inconscio riportando alla vittoria una volta di più i grani della ragione. Il vento che voleva ancora teso su quella polvere oramai quasi posata smise di soffiare.

La doccia fu ordinaria. Avvolto nell’accappatoio, prese il telefono cercando in memoria il numero.

A volte tre minuti sembrano un giorno, a volte bastano per arrivare tardi ad un appuntamento telefonico. Un messaggio di un’insensibilità innata rimandava la voce di un contatto oramai sfuggito alle celle fameliche dell’etere.

Si distese ancora umido di profumo decantato al pino ma intorbidato da grassa lisciva.

Il ricordo tornava. Doveva scriverlo. Doveva decidersi in modo definitivo. Non ci voleva poi molto.

Un blocco vicino al letto, una penna. Un blocco sempre in tasca per gli inevitabili lampi durante la giornata, sfuggiti alla vigile rete cosciente. Come scrivere quegli incredibili tre minuti vissuti da poco?

Lo farò dopo, ora non posso! Esclamò a se stesso.

Si alzò con un balzo dal letto. Doveva assolutamente andare in banca. Doveva assolutamente pagare la bolletta aziendale.

 

Quel pensiero alzò un po’ di polvere posata. Un lampo improvviso venuto dal sogno, un’ultima rimembranza lo bloccò. Un sorriso mosse lo specchio davanti a lui.

 

Un pensiero davvero divertente.

 

Pensa se le cose fossero così anche nella realtà!

 

 

 

 
 
 

ritorno..dove eravamo rimasti..

Post n°31 pubblicato il 04 Ottobre 2010 da paulget

Buongiorno o buonasera a tutti e a tutte.

purtroppo un periodo di grossi problemi mi ha tenuto lontano.

Stando un po' meglio ora riprenderò a postare.

cercherò di mettere un po' d'ordine e quindi molti post verranno cancellati per poi essere ri-postati.

poi ho una nuova serie di cosette legate ad un idea che spiegherò nelle giornate a venire.

Chiedo scusa per questa mia forzata assenza..appunto era forzata..e ringrazio tutti voi se ci siete ancora..ma sì che ci siete!

dai. avanti. si ricomincia.

dove eravamo rimasti..

un abrazo e un beso

 
 
 

Sassi

Post n°18 pubblicato il 14 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget

“Le pietre respirano”.

 

Mi tornano alla mente queste parole mentre cammino lungo la strada delimitata da muri a secco.

Se uno mi chiedesse ora, quanti anni fa ho sentito questa affermazione, mi troverebbe impreparato.

Non saprei trovare un periodo esatto nella memoria.

O forse è solo un' idea.

Idea. “l’essenza, la forma archetipica delle cose di là dai loro aspetti particolari e accidentali, conoscibile attraverso la pura attività intellettiva” scriveva Platone.

 Le idee possono essere sostanza, contenuto, fondamento, nocciolo, nucleo, filo conduttore, o semplicemente sensazioni che nascono dal di dentro, dal fondo di noi stessi, da quella parte di noi stessi che esisteva molto prima che noi potessimo dire “sono consapevole di pensare”.

L’inconscio, che ha a disposizione molti più dati della piccola e giovane coscienza, riesce forse ad avere una visione più globale e integrata delle cose?

 

Le pietre sembrano paragoni forse rozzi ma azzeccati di quel tesoro che abbiamo in fondo al nostro pozzo scuro e che accompagna la nostra coscienza nei riti quotidiani, ma che esisteva già prima di noi.

Prima di me.  Osservo una pietra e penso a quanto ha visto prima di me.

 

“ Ehi parlo con te! Mi senti Guido?”

Il mio compagno di avventure mi agita la mano davanti al viso sorridendo e scoprendo quel suo dente spaccato che rifiuta sistematicamente di riparare.

 “Non è per i soldi Guido - mi disse un giorno- è perché la gente mi presta più attenzione quando parlo o sorrido ora". Quanto mi ha fatto pensare quella frase.

 

“Scusa, stavo pensando a una cosa…”

“Eh…al solito.!.Ascolta, si va a trovare tuo padre oppure no?" Io mi son preparato lo zaino, non è che  cambi idea all’ultimo momento.”

E dicendolo si girò con il suo immancabile filo d’erba in bocca squadrandomi come volesse entrarmi negli occhi.

“Vittorio, no che non cambio idea, ma non sono sicuro che la moto ci possa portare fino a laggiù senza darci problemi”

Si fermò. Ora il suo sguardo era un mezzo sorriso, di quelli che certe persone hanno stampato in faccia quando un campanello d’allarme immaginario suona dentro di loro, quasi che le tue parole avessero toccato dei fili collegati a un sonaglio dentro la loro testa.

 

“Guido – disse guardandomi negli occhi – quanto tempo è che ci conosciamo tu ed io.”

“Non cominciare Vittorio il problema è che…”.

“Il problema, te lo dico io qual è il tuo cavolo di problema Guido!”

“Quando mai ti sei fatto problemi di questo tipo?" Quando mai sei stato indeciso se partire o no, che fosse andare in Inghilterra, oppure in Svizzera?”

“No mio caro tu non me la conti giusta!”

 

Beh, ci conoscevamo da un bel po’ davvero. Da quando..da sempre forse. Il ricordo della mia prima sigaretta lo vede vicino a me mentre m’insegna come far andare via l’odore sputando di continuo la saliva con una gomma in bocca. Mentre faccio scorrere il pensiero al mio primo esame importante, quello delle scuole elementari, giro gli occhi e lo vedo lì due banchi più in là.

E quanti gomiti abbiamo consumato sui banconi di bar e osterie in parte degne di questo nome.

Forse, come l’inconscio, anche lui esisteva prima che venissi al mondo io, come le pietre di quella strada di campagna che innumerevoli volte abbiamo percorso, prima da bimbi con le biciclette, poi da adolescenti con il mondo ancora da scartare, ora da uomini a parlar di puttanate e ricordare il passato a volte, che non era mai e dico mai come lo avremmo voluto.

Perché quei viaggi, quelle scorribande, quelle che a noi sembravano avventure di vita vissuta ci avevano lasciato dentro sempre una malinconia o un rimpianto, un “se” oppure un “ma” e poco serviva dire, come faceva lui, che con i “se” o i “ma” non si gioca a calcio e neanche si vive.

 

A quanto corrispondevano tutti quegli anni, rapportati al respiro di quelle pietre che sempre ho trovato al loro posto al mio ritorno.

Questo è quello che avevo pensato in quel momento e non se la moto ci potesse lasciare o no in strada.

Ho sentito la pochezza di questa mia vita, la velocità con la quale corre via, l'infinitesima parte in rapporto a quei sassi intorno a me.

E mi son chiesto se era ancora tempo di far finta di niente e tenere separati ancora la mia piccola e fallace coscienza dalla pietra, dura vecchia e saggia che è il mio inconscio.

Posso sentire respirare le rocce mi chiedevo.  Sbagliavo la domanda.

Posso sentir respirare il mio inconscio era la domanda giusta.

E, se il passato non si può cambiare, potrei cambiare il futuro?

Altro quesito errato.

Posso cambiare il mio passato era quello giusto.

E in un attimo in quello che per me è stato un secondo, ma chissà per Vittorio quanto, ho capito questo mentre mi guardava con quel piglio indagatore.

Devo vivere il presente come vorrei fosse il mio passato nel futuro.

E cosa dovrei spiegare a Vittorio. Questo?

Un “qualcuno” un “qualcosa” da dentro mi disse: è sempre stato con te, se lo sarà ancora non dipende da te ma dalla sua coscienza. Non puoi fingere di non esser cambiato.

 

Allora, staccai i miei occhi dai suoi e voltai lo sguardo verso il mare. Appoggiai con una pacca la mano su una pietra calda per il sole che attendeva il gatto di turno che nella fresca serata sarebbe andato a godersi quel giaciglio così tiepido.

E, con calma, gli dissi:

 

“Lo sai che le pietre respirano?”

 

 

 

 

 

 
 
 

Di mocassini, di persone e di ombre.

Post n°17 pubblicato il 09 Agosto 2010 da paulget
Foto di paulget

Il sognatore su di una grossa moto vede sul marciapiede un collega che lui sa essere il migliore nel loro settore in città. Si accorge in quel momento in cui è roso dall'invidia,d’avere un pene lunghissimo, e sottilissimo ravvolto a fune, che gli ostacola la guida. L’ombra come il solito coprì la scena.

La sognatrice entra in un palazzo dai grandi saloni.

Nascosta, assiste al turpe lavoro che là dentro, per opera di una megera, si va compiendo: giovani donne vengono pietrificate e quella di turno, come tutte le altre, lascia fare limitandosi a chiedere che non le venga fatto sentir dolore. Un ombra oscurò la scena

 Il sognatore scorrazza spensierato e frivolo nel deserto a bordo di un carretto trainato da un cane. Si ritrova a casa dei suoi genitori, dove un sacerdote dice che nel deserto è giusto andarci solo per trovare Dio.

L’ombra arriva puntuale a chiudere il sipario avvolgendo i suoi genitori insieme al prete.

 

 

L’uomo si era alzato presto quella mattina.

Con gesti automatici e consueti aveva preparato il poco caffè “Touba” che gli era rimasto.

Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e più o meno imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.

Aveva acceso la radio con un gesto, che per tanto abituale e inconsapevole,  poteva essere compiuto anche dal gatto di casa. A volte il gatto lo faceva pure.

Il tempo per le abluzioni quotidiane aveva portato via gli ultimi cinque minuti prima della recita automatica del solito rito, dove “bismillah al-rahmani rahim e amin , scivolavano nell’aria come il caffè preparato o l’accensione della radio.

Quando uscì di casa, intento a pensare al discorso che avrebbe dovuto fare al suo collaboratore che il giorno prima aveva incasinato  un affare già chiuso e che lo aveva tenuto sveglio quella notte in cerca di soluzioni più o meno intelligenti e rapide, un odore di fiori e di erba bagnata lo avvolse, come una forza che vuole entrare, penetrare, o per lo meno farsi sentire parandosi davanti gridando “ehi!!! Mi vedi? Sono qui! Davanti a te! Dietro a te!

 

L’uomo ebbe un brivido che lo infastidì non poco facendogli  pensare quanto fosse assurdo che ci sia un fresco del genere ancora la mattina presto per poi passare il resto della giornata a ripararsi da un sole che non risparmiava niente e nessuno.

Tornò ai suoi pensieri e si avvio con passo svelto fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati.

Un camion che passava lo spinse ancora di più sul limite della carreggiata finendo con i suoi sandali scamosciati sull’erba bagnata. Una sgradevole sensazione lo avvolse di nuovo. Anche la rugiada ci mancava.

Ora, mentre pensava agitato se si sarebbero asciugate in tempo le macchie di bagnato sulle sue Stonefly nuove prima del suo arrivo alla riunione, ricordava le parole che la sera prima al telefono il  presidente della società in persona, un attimo prima di chiudere la comunicazione, gli aveva lasciato lì, come un discorso in sospeso, come un "ma" come un "se"..

“Sono sicuro che lei, con la sua presenza, la sua persona sempre precisa è curata, la considerazione che per questi e altri motivi gode nell’ambiente, saprà sicuramente prendere la decisione migliore per la nostra azienda.”

Esatto! E lui sarebbe dovuto arrivare con le scarpe macchiate da quell'erba bagnata. E poi cosa ci voleva a coprire con l’asfalto anche i bordi della strada.

 

Già prima che il progetto fosse messo in pratica, con il geologo impegnato a correre fra un punto e l’altro in vari appezzamenti di terreno, alla ricerca di una continuazione della scarica elettrica, si sapeva benissimo che un giorno si sarebbe alzato dalla sua sedia  portatile per dire:  qui! Questo è il posto adatto, qui si può scavare. Indifferentemente da dove si sarebbe trovata l'acqua, avrebbero dato il via ai lavori dell’ennesimo Château d'Eau.

Il fatto che quello fosse un terreno coltivato e che sarebbe stata completamente snaturata l’area era un problema secondario.

Il terreno, come quasi tutti, era di proprietà dello Stato e lo stato li affittava, con contratti anche di novantanove anni certo, che davano la sensazione a chi lo lavorava e ci viveva che fosse suo quasi di diritto dopo la seconda generazione.

 Lo Stato decideva. Lo Stato poteva in certi casi espropriarlo, se poi la società che doveva occuparsi dei lavori era una grande riserva di voti per il presidente in carica il gioco era fatto.

E quello scemo di ragazzo senza palle si era fatto metter i piedi in testa da una massa di contadini e allevatori proponendo dei siti alternativi e nuovi sondaggi!

Era bastata una telefonata.

Era già risolta la questione. Mancava solo il dover recuperare affidabilità agli occhi degli altri soci che partecipavano all’impresa.

L’uomo  si avviò, con questa sua bella convinzione e sicurezza alla riunione che lo aspettava, guardando di tanto in tanto i suoi bei mocassini inglesi in attesa che il caldo in arrivo facesse il suo lavoro e li riportasse alla perfezione originaria.

E con questa “speranza” si avviò verso la sede aldilà della strada, mentre il sogno assurdo fatto nell’unica ora in cui era riuscito a prender sonno, tornò nella sua mente strappandogli un sorriso per quanto irrazionale e ridicolo fosse.

 

 

La donna al volante era nervosa.

Lo sapeva! Ne era sicura!  Aveva ritardato di quei dieci minuti maledetti l’uscita da casa.

E ora il serpente di macchine che portava al centro di quella caotica metropoli la aveva avvolta fra le sue spire.

E non poteva fare altro che abbandonarsi alla corrente di quel fiume fumoso che sarebbe sfociato nella centrale piazza dell’Indipendenza.

Un ragazzino che avrà avuto dieci anni camminava con in testa un sacco di erba e di semi.

Un camion stracolmo di arachidi cercava in tutti i modi di farsi largo fra le macchine per passare nell’altra fila dove la corrente sembrava più forte.

Il semaforo, per l’ennesima volta passò da rosso a verde e lei per l’ennesima volta sentì montare la rabbia dentro. Possibile che io debba stare qui, ferma, a guardare un incrocio che non esiste più?

L’ennesimo camion diretto alla spremitura delle arachidi passò di corsia e schizzo aldilà di quel crocevia oramai senza regole. In un attimo gli fu dietro accelerando per non perdere l’“ariete” che avrebbe segnato il percorso anche a lei.

Fu un attimo. L’attimo seguente  allo scarto di lato del rimorchio davanti a lei e se lo trovò davanti.

 

Il ricordo, che gli sarebbe rimasto nella mente per anni, la straordinaria lucidità con cui, in quell’istante che parve eterno notò, assurdo quasi come un sogno, i mocassini color ocra ai piedi dell’uomo, mentre volava sul cofano della sua macchina per sbattere poi sul parabrezza immediatamente trasformato in una tela degna del miglior ragno.

 

 

 

 

L'uomo con i suoi mocassini oramai asciutti , decise in quel momento di attraversare quel caos di macchine e camion che gli si parava davanti.

I semafori in quei casi sono veramente “creature ornamentali”. Segnano un confine che non c’è.

E, ridicoli come possono essere solo in quell’angolo di terra che si affacciava sull’Atlantico, continuavano a cambiar colori neanche fossero alberi di Natale che aveva visto tante volte nei suoi viaggi in Europa.

Non la vide arrivare,  solo un ombra poi una forza sovrumana lo sollevò da terra e poi il colpo.

Quel colpo che non avrebbe mai dimenticato. Il mondo si oscurò, per poi esplodere in mille galassie luminose. Poi fu il buio.

 

 

Il sognatore sta scalpellando il legno di un pavimento per giungere alle venature più pure. E’ molto stanco ma un vecchio al suo fianco lo induce a continuare perché-egli dice- il Profeta ha svolto più lavoro di te. Il sognatore insiste e intanto il Vecchio muore. Il sognatore piange a dirotto e il vecchio si siede dicendogli che è contento di averlo visto piangere per lui. Dopodiché torna a morire.

 

                            ...............................................................................

 

Aprì gli occhi.

Ancora scosso dall’ultimo sogno, li chiuse di nuovo come a voler tenere ferme ancora per un po’ quelle immagini. Qualcosa di strano. Qualcosa di diverso aveva attirato la sua attenzione.  L’’ultima parte del sogno era uguale ma nello stesso tempo diversa dalle altre.

Qualcosa gli sfuggiva. E strinse ancora un po’ le palpebre neanche la forza con cui avrebbe stretto fosse direttamente proporzionale al ricordo, alla possibile reminescenza che stava cercando.

 

Ma fu subito un tripudio di odori, di suoni.

Stava sognando di nuovo?

Aprì gli occhi e i suoni rimasero. Gli odori divennero ricordi e i ricordi lacrime.

Di gioia. Di commozione vera. Ora ricordava cosa fosse quella sensazione diversa nell’ultimo sogno. Mancava l’ombra, quella che chiudeva sempre il sipario sulle sue precedenti visioni inconsce.

 

Il gatto gli saltò addosso. E stirandosi come solo i gatti sanno fare emise un miagolio che non aveva mai sentito prima.

Si alzò dirigendosi verso la cucina. Sedette con la testa fra le mani, e con gesto ormai abituale, cercò la cicatrice lasciata dall’operazione con cui un chirurgo sveglio e intraprendente, mesi prima, lo strappò dal buio in cui era precipitato.

Molti mesi erano passati. E il primo risveglio a casa dopo tanti all’ospedale fu quanto di più diverso poteva aspettarsi.

Il gatto, accucciato vicino alla ciotola del cibo emise un miagolio. La voce in lontananza del muezzin arrivava ovattata dentro il "pacco" di cinguettii, di automobili che sfrecciavano veloci, di discorsi fatti ad alta voce fuori dalla bottega di calzolaio di fronte a casa sua.

Diede da mangiare alla bestiola, restando lì a fissarla  mentre gustava il suo cibo intervallato da strusciamenti fatti sulla sua gamba.

Prese il caffè Touba dal vaso. E in un attimo tutti i profumi del suo passato lo accecarono come uno schiocco di sole in una piantagione di arachidi nella periferia di Dakar.

Donne pazienti, colorate e sorridenti avevano tostato quei chicchi miscelati con il djar e altrettanto pazientemente, con mano sapiente da una vita di automatismi insegnati e in parte imposti, avevano separato il seme di djar piccante prima della macinatura che avrebbe reso pronto per l’uso quel caffè tanto strano quanto profumato.

Ora, mentre lo sorseggiava piano, sentiva inconfondibile il retro gusto piccante dato da quella spezia etiope miscelata al caffè.

Fu il caffè migliore della sua vita.

Le abluzioni durarono un’eternità.

E i “bismillah al-rahmani rahim e amin quella mattina erano muti. Non provenivano più dalla sua bocca. ma da dentro di sé.

Sentiva il suo corpo, la sua persona , distante, quasi la guardasse dal di fuori.

E mentre, in meditazione terminava la preghiera, capì.

 

Uscì nell’aria ancora dolcemente fresca del mattino che dava quel brivido stupendo, fra gli alberi mossi da una piccola brezza e i fili d’erba bagnati da una magia della notte che aveva posato il suo nutrimento sulle foglie e gli steli assetati. Quelle foglie ricche di rugiada dissetate da una natura, da sempre madre giusta e premurosa.

Si tolse i mocassini oramai inzuppati, e camminò a piedi scalzi fra l’erba umida, salutando con una gioia mai provata prima i bottegai che riaprivano le loro attività.

Arrivò al bivio che dava sulla statale che lo avrebbe portato verso l’ufficio dopo tanti mesi di assenza.

Ma vide l’altra strada. Quella che non aveva mai notato. Quella opposta alla direzione che era solito prendere in quel crocevia.

Quella che portava alla Langue du Barbare, quella lingua di terra che separava il fiume dall’oceano. Il luogo della sua infanzia e giovinezza, popolato di donne che  tostavano il caffè, e di uomini che si preparavano alla pesca.

 

Si sedette su di una pietra fra l’erba ai bordi della strada con le scarpe in mano.

Gli salì alla mente il ricordo dell’ombra  scomparsa dai suoi sogni. La rivide con gli occhi di allora ma la consapevolezza di oggi. Un po’ ridicola e un po’ minacciosa.

E lui la aveva incontrata e  accettata, e ne aveva scoperto la parte positiva.

E quella mattina, all’ospedale un po’ di giorni dopo il risveglio dal coma, lo specchio gli aveva restituito un’immagine diversa da quella cui era abituato. Gli aveva restituito ciò che lui non amava vedere. E lui quel giorno decise di guardare quell’immagine.

E la maschera, l’identità di copertura, in cui si è ciò che gli altri vogliono che noi si sia o quello che noi amiamo pensare di essere, quel giorno non prese forma.

 

 

Si mise i mocassini impolverati e a braccetto della sua nuova vita si avviò verso la costa. Di tempo ne aveva ora.

La mano nella tasca strinse forte la lettera di dimissioni che conteneva. La avrebbe consegnata più tardi.

 

 

 

 
 
 
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