Creato da corrr il 15/06/2007

Partigia

politica, cultura, attualità

 

 

Italiani brava gente (aridaje)

Post n°6 pubblicato il 31 Gennaio 2008 da corrr

Battaglione Rommel

di Gianluca Di Feo
Le immagini di un mezzo corazzato dell'esercito italiano colpito da una mina nel deserto dell'Afghanistan svelano un particolare inquietante: i nostri soldati vanno in missione con la palma dell’Afrika Korps hitleriano dipinta sulle jeep
 
La jeep italiana colpita da una mina. Sulla portiera
si riconosce la palma simbolo dell'AfriKa Korps
In Afghanistan sognando El Alamein. Perché sembra proprio che i commandos delle forze speciali italiane vadano in missione con la palma dell'Afrika Korps dipinta sulle jeep. Sì, il simbolo inconfondibile dei reparti di Rommel che portarono la bandiera hitleriana alle porte del Cairo. E poi si ritirarono mollando proprio i parà italiani a coprirgli le spalle. Ora alcune foto di un attentato talebano contro le forze Nato hanno fatto nascere il giallo. Le immagini riguardano una jeep corazzata italiana e un blindato spagnolo colpiti da mine nel deserto afghano verso il confine iraniano. Sono foto sfuggite alla censura del nostro Stato maggiore, finendo sui siti web di Madrid e da lì nel forum di "Pagine di Difesa", la più attenta rivista telematica del settore. La buona notizia è che il veicolo blindato dell'Esercito, una delle nuove jeep speciali Iveco Vtlm, ha funzionato, salvando la vita dell'equipaggio. Il mezzo, progettato proprio per  sopravvivere agli agguanti con ordigni nascosti nel terreno, sta venendo adottato da molte nazioni.
La cattiva notizia è quella palma dipinta sulla fiancata, che riproduce esattamente il simbolo dell'Afrika Korps: è stata omessa solo la svastica. Un'iniziativa di pessimo gusto: estanea alla tradizione militare italiana, ma soprattutto lontana da quei principi democratici che dovrebbero ispirare le missioni all'estero. Gli scatti non permettono di identificare a quale reparto appartenga il veicolo coinvolto nell'attentato: nella zona operano squadre di parà del Col Moschin e di incursori di marina del Comsubin. Nell'autunno 2006 i soldati tedeschi in servizio in Afghanistan vennero fotografati con un simbolo praticamente identico dipinto sulle loro jeep. Le immagini pubblicate sul settimale Stern spinse il ministero della Difesa ad aprire un'inchiesta e sospendere dal servizio sei militari.
(30 gennaio 2008)
espresso.it

 
 
 

Italiani brava gggente

Post n°5 pubblicato il 24 Gennaio 2008 da corrr

Fatti e problemi
Italia coloniale / Peggio delle Fosse Ardeatine
La strage cancellata
di Andrea Semplici

"Mi sono sbagliato: è andata anche peggio", si corregge Angelo Del Boca a proposito del massacro di Debre Libanos (Etiopia). Ricerche recenti fanno triplicare il numero dei monaci vittime dell'ira del maresciallo Graziani: probabilmente 1.600. Accadde 60 anni fa. Ricorre in questo mese l'anniversario dell'attentato che provocò l'episodio più sanguinario di tutta la storia coloniale in Africa. Nigrizia vuol far memoria di "questi martiri giovinetti che la cristianità non ricorda".

Fu un eccidio, una strage premeditata e ingiustificata, il crimine peggiore commesso dal fascismo italiano in Africa. "Nessuno ha mai osato tanto; nessuna potenza coloniale, nella storia pur tragica del colonialismo, si è mai macchiata di una simile colpa": Angelo Del Boca, lo storico che, con grande puntiglio, ha svelato e fatto conoscere a tutti le vicende del colonialismo italiano, non nasconde certo la sua indignazione.
I suoi libri (Gli italiani in Africa Orientale, pubblicati una prima volta da Laterza e poi ristampati negli Oscar Mondadori) avevano già denunciato il massacro del monastero di Debre Libanos, l'uccisione di tutti i monaci copti del più importante centro religioso dell'Etiopia, avvenuta nel maggio del 1937 ad opera del generale Pietro Maletti su ordine del viceré dell'Africa Orientale Italiana, Rodolfo Graziani; ma nemmeno Del Boca aveva osato pensare che quel crimine fosse stato molto più grave e spietato di quanto risultasse dai documenti pubblici.

Del Boca aveva già descritto l'assassinio di 449 monaci, preti e diaconi copti, ma non aveva immaginato, negli anni della sua prima ricerca, che le vittime potessero essere molte di più, tre volte di più. Forse sono stati addirittura 1.600 i religiosi uccisi dalle mitragliatrici del generale Maletti sulla scarpata che precipita verso il Nilo Azzurro. Oggi è la ricerca, cocciuta e meticolosa, di due storici, l'inglese Ian L. Campbell e l'etiopico Degife Kabré Sadik, a rivelare tutto l'orrore di quell'episodio.

Il nuovo studio sull'eccidio di Debre Libanos verrà pubblicato, quest'anno, sul numero 21 della rivista Studi Piacentini diretta da Angelo Del Boca, ma lo storico ha accettato di anticipare a Nigrizia gli elementi essenziali di nuove testimonianze e prove che gettano una luce ancora più sinistra sulle guerre del fascismo in Africa e sull'occupazione italiana dell'Etiopia.


L'attentato
Sono passati sessant'anni: in questo mese cade un triste anniversario che pochi ricorderanno. Era il febbraio del 1937, l'Italia, da meno di un anno, aveva debellato la resistenza etiopica e conquistato l'antico impero dei negus. La guerra di aggressione dell'Italia all'unico stato indipendente dell'Africa subsahariana era finita. Vano e inutile era stato l'appello di Hailè Selassié alla Società delle Nazioni: Mussolini, dal balcone di piazza Venezia, aveva annunciato, a maggio del 1936, la caduta di Addis Abeba e la nascita dell'Africa Orientale Italiana. Ma la resistenza etiopica non era certo stata vinta, ras fedeli al negus stavano organizzando una micidiale guerriglia, le campagne dell'altopiano erano terre insicure per i soldati italiani.

Il maresciallo Rodolfo Graziani aveva sostituito Pietro Badoglio sul trono di viceré di Addis Abeba. E Graziani aveva deciso, il 19 febbraio del 1937, di compiere un gesto rassicurante, una prova spettacolare della pax italiana. "Sì, il viceré doveva dimostrare la "generosità" degli italiani e rompere la cappa di insicurezza che regnava sulla capitale etiopica - dice Del Boca. Per questo decise di distribuire, nel giorno nel quale i copti celebrano la Purificazione della Vergine, la somma di cinquemila talleri ai poveri della città".

Graziani, in questo modo, voleva festeggiare anche la nascita di Umberto, principe ereditario della dinastia Savoia. La cerimonia si svolse sui gradini del Piccolo Ghebì, la vecchia residenza di Hailè Selassié, oggi sede dell'Università di Addis Abeba. La resistenza etiopica decise di colpire proprio in quell'occasione. "Due giovani eritrei, ma probabilmente erano più di due, confusi nella folla dei mendicanti, lanciarono diverse bombe a mano contro Graziani. Le vittime dell'attentato furono sette, ma il viceré fu solo ferito, colpito alla schiena da centinaia di schegge", spiega Del Boca.


La rappresaglia
La vendetta italiana fu immediata: Mussolini, da Roma, ordinò un "radicale ripulisti". Il federale di Addis Abeba, Guido Cortese, scatenò una terribile "caccia ai neri", una rappresaglia feroce e senza pietà. Dice Del Boca: "Per tre giorni soldati italiani, bande armate di fascisti, ascari eritrei ebbero mano libera. Rastrellarono i quartieri più poveri di Addis Abeba: bruciarono i tucul con la benzina, usarono le bombe a mano contro chi cercava di sfuggire ai roghi". Venne data alle fiamme, davanti agli occhi di Cortese, anche la chiesa di San Giorgio.

Terribile il bilancio della vendetta italiana: seimila morti, secondo Del Boca; 30 mila, a leggere le fonti etiopiche. Ma il massacro fu senza fine: Graziani decise di eliminare tutta l'intellighenzia etiopica. I tribunali militari diventarono macchine di morte: tra febbraio e giugno, furono fucilati alti funzionari governativi, notabili del negus, intellettuali, giovani etiopici che avevano studiato all'estero.

A marzo, Graziani ordinò lo sterminio degli indovini e dei cantastorie che stavano annunciando, nelle loro profezie, la fine dell'occupazione italiana. Il comandante dei carabinieri in Etiopia, Azolino Hazon, tenne una tragica contabilità: il 2 giugno del 1937 annotò nelle sue statistiche che, solo i carabinieri, avevano passato per le armi "2.509 indigeni".

"Non è finita. Graziani vuole catturare i due attentatori - rivela Del Boca. Le indagini militari italiane avvertono il viceré che i due eritrei si sarebbero addestrati al lancio delle bombe nella città sacra di Debre Libanos. Graziani non ha una sola esitazione: ordina al generale Maletti di occupare il monastero più importante dell'Etiopia".

Debre Libanos, città conventuale, tremila tucul e due grandi chiese in muratura, a un passo dai canyon del Nilo Azzurro, nel cuore della regione dello Shoa, è il centro del potere della religione copta: il convento fu fondato, nel XIII secolo, da Tekle Haymanot, l'evangelizzatore cristiano degli altopiani. Per secoli il potente superiore dei monaci di Etiopia è sempre stato scelto fra i religiosi di Debre Libanos. "Graziani ordina a freddo un'autentica, spietata razzia - osserva Del Boca. Vuole far sparire la città sacra dei copti, vuole distruggere il Vaticano degli etiopici. Il generale Maletti è un esecutore zelante: nella sua marcia verso Debre Libanos brucia 115.422 tucul, 3 chiese, 1 convento, e uccide 2.523 etiopici". Una contabilità da macabro ragioniere.

Maletti occupò Debre Libanos il 19 maggio del '37 e, subito dopo, ricevette un messaggio da Graziani: "Abbiamo le prove della colpevolezza dei monaci". Il viceré ordinò: "Passi per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore".


Lezione "opportuna e salutare"
Sono gli storici Campbell e Sadik, a questo punto, a scoprire i particolari di questa tremenda esecuzione: hanno raccolto testimonianze, ascoltato i racconti dei superstiti, hanno soggiornato a lungo nel convento. I monaci, i sacerdoti, i giovani diaconi di Debre Libanos furono condotti dagli uomini di Maletti in uno stretto vallone a venti chilometri dalla città. É la gola di Zega Weden, erosa dal torrente di Finka Wenz.

I monaci, secondo la ricostruzione dei due storici, vennero spinti sull'orlo del crepaccio, schierati su una fila con alle spalle i precipizi. Vennero uccisi a colpi di mitragliatrice: erano troppi per i fucili delle truppe italiane. Via via che cadevano, gli ascari dell'esercito italiano gettavano i corpi nel crepaccio. Campbell e Sadik sono riusciti a ritrovare un ragazzo che scampò all'eccidio: aveva 14 anni e si finse morto. Il vecchio di oggi non può dimenticare quanto accadde in quel tragico giorno di sessant'anni fa.

I due storici sono scesi fra le rocce del crepaccio di Zega Weden: hanno trovato ancora le ossa di quei monaci sventurati, hanno raccolto le prove di quel lontano massacro che l'Italia ha dimenticato. Graziani, dopo il massacro, non ha un solo ripensamento, nemmeno un dubbio: l'eccidio dei preti e dei diaconi di Debre Libanos è, per il viceré italiano, un "romano esempio di pronto, inflessibile rigore. É stato sicuramente opportuno e salutare". E ancora: "Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell'Etiopia con la chiusura del convento di Debre Libanos".

Angelo Del Boca, per anni, ha ritenuto che le vittime del massacro fossero "solo" 449, ma le nuove testimonianze rivelano che, sulle gole del Nilo, furono uccisi fra 1.200 e 1.600 monaci. Moltissimi erano giovani e ragazzi, catechisti e diaconi. Scrive amaro Del Boca: "Sono stati martiri giovinetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi".

L'eccidio di Debre Libanos fu il detonatore della rivolta etiopica: nell'estate del 1937 la ribellione contro l'occupazione italiana è generale. A novembre Graziani è sostituito con Amedeo d'Aosta. Ma la seconda guerra mondiale è alle porte, l'impero africano del fascismo italiano sta per crollare. I cantastorie ci avevano visto bene.

Andrea Semplici

Onore al macellaio

Rodolfo Graziani è passato alla storia come "il macellaio" dell'Etiopia. Fu un uomo feroce, arrogante, esaltato. Eppure qualcuno sta pensando di dedicare al sanguinario viceré dell'Africa Orientale Italiana un museo.
Graziani è nato a Filettino, piccolo paese di montagna in provincia di Frosinone. Negli anni '80 era sindaco di Filettino il senatore missino Romano Misserville e l'amministrazione comunale decise di trasformare la vecchia casa di Graziani in museo dedicato al viceré fascista. "Riuscimmo a ottenere anche 350 milioni dalla Regione Lazio - ricorda il sindaco di oggi, Franco Pesci. Venivano anche dieci pulman al giorno a visitare la casa di Graziani. Si facevano le fotografie là davanti. Il paese ci guadagnava. Graziani è una figura storica: quella era una buona idea".

Nel 1990 cambiò l'amministrazione di Filettino: la nuova giunta di sinistra decise di impiegare i fondi in un Museo della Montagna. Nel 1995, nuovo ribaltone politico in questo paese di 600 abitanti, spopolato da una inarrestabile emigrazione. Vince il Polo, ma il sindaco, pochi mesi dopo la sua nomina, muore. Nuove elezioni, nel novembre del '96, e nuova vittoria del Polo: sindaco è Franco Pesci di Alleanza nazionale ("Ma scriva del Polo"). E l'idea del museo da dedicare a Graziani riprende a camminare. "Graziani ha donato al paese l'ufficio postale, l'ambulatorio, la farmacia - dice il sindaco. Perché non dobbiamo ricordarlo? Pensiamo a un museo nella sua casa: verrebbe tanta gente a visitarla, sarebbe un bene per Filettino. Abbiamo parlato con gli eredi di Graziani e loro sono d'accordo. Altre sale potremmo dedicarle a un umanista sempre nato qua attorno, Martin Fireditico".

Storia balorda e squallida: "il macellaio", l'uomo dell'eccidio di Debre Libanos, forse avrà il suo museo, mentre la stele di Axum, rubata dagli italiani nella città sacra dell'antichità etiopica, dono personale del ministro delle colonie Lessona a Benito Mussolini, è ancora davanti al Circo Massimo a Roma. Perfino l'abuna Paulus, massima autorità copta in Etiopia, ha scritto a papa Giovanni Paolo II implorando la sua mediazione per la restituzione della stele, simbolo della grandiosità della storia etiopica. Ma, con le elezioni amministrative alle porte a Roma, chi rischierà una contrapposizione radicale sulla nostra storia coloniale compiendo una gesto di dignità e giustizia? Più semplice pensare a un museo al "macellaio". (A.S.)

 
 
 

Morto il partigiano Boldrinilo storico "comandante Bulow"Saluti a pugno chiuso

Post n°4 pubblicato il 22 Gennaio 2008 da corrr
Foto di corrr

Aveva 92 anni e si è spento nella sua Ravenna, che aveva liberato
Fu tra i costituenti. Medaglia d'oro al valor militare e presidente dell'AnpiLo storico comandante partigiano 'Bulow' e presidente onorario dell'Anpi. Aveva 92 anni e dall'8 gennaio era ricoverato in gravi condizioni all'ospedale di Ravenna.

Per molti anni presidente nazionale dell'Anpi, era nato nella città romagnola il 6 settembre 1915. Da tempo viveva in un cnetro gestito da un amico sacerdote.

Il 4 dicembre 1944 i partigiani di Boldrini, comandante della 28/a Brigata Garibaldi 'Mario Gordini', e i reparti alleati dell'VIII Armata britannica liberarono Ravenna con un'offensiva combinata. Esattamente due mesi dopo 'Bulow' fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare, con una grande manifestazione pubblica nella piazza di Ravenna, dal generale Richard McCreery, comandante dell'Ottava Armata.

Si portava appresso quel nome di battaglia per le sue capacità militari. Durante una riunione clandestina disse che non si poteva abbandonare la pianura al nemico tedesco, che era necessaria la 'pianurizzazione' della guerra partigiana, fino a liberare Ravenna. I suoi compagni lo ascoltarono poi uno di loro (poco dopo fucilato dai nazisti) sentenziò: 'Mo' chi sit, Bulow?, cioè 'Ma chi sei, Bulow?', alludendo al generale tedesco che sconfisse Napoleone.

Dopo la guerra Boldrini fu componente dell'Assemblea Costituente, parlamentare dal '53 al '94, presidente Anpi, oltre che dirigente nazionale del Pci: "La tua azione - ricordò da presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in un messaggio di auguri per il novantesimo compleanno - è sempre stata ispirata a principi di libertà e di democrazia, valori che nel ruolo di presidente dell'Anpi hai promosso presso le nuove generazioni, mantenendo desta la memoria storica di quell' eroico e drammatico periodo fondante della nostra repubblica".

E proprio alla battaglia per non far affievolire i valori della Resistenza Boldrini ha dedicato tutta la sua vita.

 
 
 

Memoria labile: i fascisti ci riprovano

Post n°3 pubblicato il 14 Gennaio 2008 da corrr
Foto di corrr

Il comitato promotore:: C’è la “voce identitaria” della comunità perugina. C’è un polemista che pubblica per l’Insegna del Veltro di Claudio Mutti. Ci sono diversi camerati del Movimento Nazional-Popolare. L’autore del best-seller “Omaggio alla Rsi”, il curatore del Calendario della memoria coi nomi di 378 caduti della Repubblica sociale. Stimati docenti universitari dell’Associazione Amici del Tricolore. Ex parà responsabili della cultura nel fu Msi, animatori della Fondazione Evola. Avvocati che su mandato di Luca Romagnoli hanno fatto causa a Pino Rauti. Organizzatori di concerti di rock identitario, volantinatori dei mercati generali. C’è Paolo Signorelli, l’ideologo del socialismo nazionale, già militante di ON e del Fronte Sociale, rinviato a giudizio per la strage di Bologna (successivamente assolto per non aver commesso il fatto) e condannato nel 1988 per “banda armata”. C’è Antonella Ricciardi, singolare figura di giornalista-pubblicista, con articoli sparsi dal “Corriere di Aversa” a “Orion” e “Ordine futuro”, con al suo attivo interviste a personaggi del calibro di Erich Priebke, Adriano Tilgher, Roberto Fiore, Alessandra Mussolini, Stefano Delle Chiaie, Costranzo Preve. Un dirigente dell’Ugl,  un organizzatore di feste d’area in quel di Ostia, un neoborbonico, un avvocato ex-balilla, l’autore dei sei tomi “Benito Mussolini l’uomo della pace”. Candidati di Alternativa sociale, reduci della Decima, diversi firmatari dell’appello in favore della libertà d’espressione dello storico negazionista Robert Faurisson. C’è Giano Accame, repubblichino, giornalista, redattore de “Il Borghese”, relatore al convegno dell’Istituto Pollio del 1965 con una tesi sulla controrivoluzione dei colonnelli greci, direttore di “Area” con Alemanno. C’è Sergio Tau, regista televisivo con sintomatici interessi per la storia saloina ed autore – con Accame – di una collana di dvd sugli intellettuali di destra. C’è Claudio Mutti, professore, editore, fascista rosso, autore di “Nazismo e Islam”. E rocker appartenenti alla Milizia di San Michele Arcangelo.

Si definiscono “un gruppo di cittadini di varia estrazione politica e sociale (!), studiosi della storia e della cultura”. Si sono autoproclamati “Comitato promotore Foggia città martire” (e non c’è neppure un foggiano). Chiedono che la città diventi simbolo della barbarie anglo-americana e Alleata. Chiedono un giorno – il 20 ottobre – per celebrare l’evento.
Ma se gli si domanda se per caso sono fascisti cominciano a girare in tondo come un dirigibile, o scartano di lato, deragliano su argomenti paralleli, tacciono fintamente disinteressati, fintamente superiori; o ansiosi rinfacciano all’interlocutore i silenzi sulle repressioni sovietiche degli anni Trenta o sulle foibe titine. In perfetto stile Rai Fiction.

Fascisti timidi:: Nell’estate del 1943 Foggia subì una serie di pesanti bombardamenti. È indiscutibile. Sotto le bombe e i mitragliamenti a bassa quota caddero moltissimi civili. Le cifre ufficiose, accettate come ufficiali dalla pigrizia intellettuale e dal conformismo politico di più d’una generazione di storici di professione, parlano di oltre 20mila morti. In realtà, di pari passo col dilettantismo della ricerca (molti nuclei familiari accorpati alla cifra finale del massacro risultarono in realtà semplicemente sfollati e mai cassati dall’elenco presunto), gli eventi del ’43 hanno segnato – da sempre – il cavallo di battaglia di tutte le destre cittadine. La continua, costante, reiterata richiesta di riconoscimenti che dal Msi in poi ha contrassegnato negli anni schiere di neofascisti foggiani, non poteva che nascondere propositi riabilitativi. Sancire per decreto che anche gli altri, i “vincitori”, erano crudeli quanto i “vinti”, assegnava patenti di legittimità anche ai nostalgici del duce.

Ecco perché l’elenco di città martirizzate è rigorosamente italiano. Niente Etiopia, niente Jugoslavia. Gli alleati – per costoro – sono ancora tali solo tra virgolette. E non c’è nessuna responsabilità storica da accollare al fascismo dominante. Segni inequivocabili di revanscismo, piccole pose da guerrieri dell’onor perduto. Immersi nell’acido liquido della vischiosa propaganda qualunquista. Rintracciabili in controluce, come spie di un contrattacco complicato da affrontare. I fascisti ci stanno riprovando. E nel piattume di contorno, non è detto che non ci riescano. Del resto, se Foggia è medaglia d’oro al valor militare per non meglio circoscritti meriti resistenziali, è altrettanto possibile che diventi città simbolo dei vecchi e dei nuovi nostalgici. Un po’ come Hiroshima, come Dresda. Simbolo della violenza criminale degli anglo-americani come Coventry lo fu del terrore nazista. E tutti ad annuire. Come se la violenza fosse un elemento addizionale della guerra, e non il suo principale argomento dialettico. Come se il semplice esercizio della vendetta, della ritorsione, della carneficina non fosse equamente distribuito, allo scatenarsi degli istinti privati.
È dibattito usurato: in guerra vince chi fa più danno al nemico, senza scrupoli di sorta. Le ragioni e i torti risiedono altrove. Il codice etico è un optional. E che siano i fascisti a sventolarci purezza sotto il naso è altamente ironico. Oltre che offensivo.

 
 
 

La falsa tolleranza

Post n°2 pubblicato il 22 Giugno 2007 da corrr
Foto di corrr

Vabbè, io sbaglio perchè mi inkazzo. E sbaglio. La persona saggia, civile e rassegnata dovrebbe fare una semplice alzata di spalle e al limite spolverarsi la polvere dalle scapole. E ci si sente signori. Io no, son cafone. Maleducato. Io mi incazzo e mi ritengo felice perchè proclamo la liberazione del mio stomaco e del mio fegato da tossine, tossine e tossine. E questo è il preambolo. Il fatto è che c'è una cretina (fegato, depurati!) che scrive, sul suo blog gentilmente ospitato da libero, cazzate madornali come questa: scrive la balda giovanotta a favore di quel grande uomo che è stato Benito Mussolini. Dice (scrive) che dovrebbe essere tollerato, dato che siamo in democrazia, inneggiare al Porco Pelato. Che lerciume pidocchioso, penso io, dire (e scrivere) questo. La mia intolleranza è tale che per il fascismo e per i fascisti si dovrebbe delimitare geograficamente un ambito ben preciso. Il loro posto è nelle fogne. Punto. E non per niente la Costituzione Italiana nata dopo venti anni e passa di dittatura vieta la ricostituzione del partito fascista. Non per niente la legge Mancino vieta l'esposizione di simboli fascisti, come la croce celtica ed il fascio. Non per niente la legge contro le violenze negli stadi vieta le bandiere delle squadre di calcio con le effigi riconducibili all'uomo esposto come un porco a testa in giù a piazzale Loreto.

Ok, va bene. Sono intollerante. Con gli intolleranti. Il fegato regge.

 
 
 
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