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Post n°7 pubblicato il 16 Gennaio 2013 da eugenioorso58
(IV) Origine della trasformazione del pci La trasformazione del pci, che lo ha portato a diventare nel tempo una componente di rilievo della sinistra neoliberale e neoliberista, è cominciata impercettibilmente (si potrebbe dire embrionalmente) in un passato ormai abbastanza lontano, nell’immediato dopoguerra, molto prima del fatidico sessantotto, quando Palmiro Togliatti, uomo di Stalin e dell’URSS, intelligente e rispettato, sicuramente degno di elogi ma leader per certi versi ambiguo dei comunisti in Italia, ha assunto responsabilità di governo diventando prima vicepresidente del consiglio, e in seguito ministro di grazia e giustizia del governo De Gasperi, partecipando i comunisti di allora ai CLN assieme alle altre forze politiche antifasciste. I punti da considerare sono due, nel caso del pci togliattiano ancora ben ancorato all’anticapitalismo, al mito dell’Unione Sovietica, quale entità collettivistica guida e modello, e a quello rivoluzionario dell’operaio di massa. In primo luogo, la rinuncia alla rivoluzione proletaria e socialista in Italia, paese assegnato al campo occidentale e quindi capitalistico, democratico e liberale. Se in Grecia, nel dopoguerra, è scoppiata una sanguinosa guerra civile, quella del triennio 1946-1949, perché i comunisti filosovietici greci, sicuramente rivoluzionari, non accettavano la monarchia, intendevano liberare una seconda volta il paese e aderire al blocco comunista, la stessa cosa non sarebbe potuta accadere in Italia, pena una nuova guerra mondiale a ridosso della seconda, questa volta combattuta con armi atomiche fra l’est e l’ovest. Stalin non lo voleva e si mostrava intenzionato a rispettare nella sostanza gli accordi con l’occidente (con gli americani e gli inglesi, in poche parole) scongiurando un simile pericolo. Piccolo particolare non però irrilevante c’era all’epoca un ritardo, uno svantaggio sovietico rispetto agli USA in termini di sviluppo delle armi nucleari. Inoltre, l’Unione Sovietica era appena uscita, vittoriosa ma provatissima, con immani distruzioni e perdite di vite umane, dal precedente conflitto. Di conseguenza anche Togliatti, tributario di Stalin, non voleva simili esiti, e ciò ha avuto l’effetto di “tarpare le ali” a un pci ancora (potenzialmente) rivoluzionario, disposto all’insurrezione armata per l’instaurazione del socialismo nella penisola, Yalta o non Yalta. Si può affermare, con (amara) ironia, che la fedeltà nei confronti del paese-guida dei comunisti, il rispetto delle sue esigenze geopolitiche ha allontanato inesorabilmente la prospettiva rivoluzionaria in Italia. D’altra parte, i comunisti greci del kke impegnati nella rivoluzione ricevevano aiuti dalla Jugoslavia di Tito e non da Stalin, che non sembrava entusiasta di quella prospettiva. Quando ci fu l’attentato a Togliatti del luglio 1948, ferito a colpi di pistola dallo studente “qualunquista” e liberale Antonio Pallante, e si materializzò il rischio dello scoppio di una guerra civile in Italia come preludio della rivoluzione, a parte il distrarre la popolazione con le gare ciclistiche e la vittoria inattesa del grande campione Gino Bartali al Tour de France, gli stessi comunisti togliattiani si diedero da fare per placare gli animi (“a sinistra”) e scongiurare la minaccia. In secondo luogo, in qualità di ministro di grazia e giustizia nell’allora governo De Gasperi, Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946 ha concesso l’amnistia ai fascisti (quelli che non si erano macchiati di gravi delitti, in un’interpretazione restrittiva) per poter ricostituire la burocrazia statale in un momento difficilissimo, dal punto di vista economico, sociale e occupazionale, dato che il paese doveva essere ricostruito a partire dall’amministrazione dello stato. L’antifascismo al governo della nazione non aveva quadri sufficienti per raggiungere questo scopo vitale. Togliatti ha concesso l’amnistia in quanto ministro della neonata repubblica italiana (nata il 2 di giugno 1946, in seguito ai risultati del plebiscito monarchia-repubblica), senza coinvolgere nella decisione i dirigenti e la base del suo partito, contrari alla riabilitazione dei fascisti. Se la motivazione più nota era quella della “riconciliazione” fra gli italiani, il motivo più concreto era la necessità di riavviare la macchina dello stato. Con quella scelta, Togliatti ha mostrato di lavorare concretamente per la rinascita di uno stato, e di un intero paese, assegnato dagli accordi fra le potenze vincitrici al campo occidentale e capitalista, a quel punto sotto l’ombrello atomico americano, e che tale sarebbe rimasto nei decenni successivi. Si può affermare che Togliatti, in qualità di ministro comunista della giustizia, ha lavorato sicuramente per il bene del paese (e delle masse popolari provate dal conflitto), ma non altrettanto bene per la rivoluzione proletaria e socialista, favorendo l’avvio della ricostruzione postbellica e la “riconciliazione” all’interno del blocco capitalistico di allora.
(V) Dall’origine della trasformazione del pci alla sua fine La negazione della possibilità concreta della rivoluzione anticapitalista e socialista, viva soltanto come speranza proiettata in un futuro indeterminato, e la collaborazione nella ricostruzione della macchina dello stato accettando la collocazione dell’Italia nel campo capitalistico e nel blocco occidental-americano, hanno costituito i primi segnali, allora difficilmente interpretabili come tali, dell’inizio della trasformazione del pci in qualcos’altro. Un passo successivo è stato l’abbandono dello stalinismo, ma non del filosovietismo, dopo la denuncia dei cosiddetti crimini di Stalin in URSS avvenuta nel 1956, in occasione del XX congresso del PCUS, per opera di Krusčev e di una nuova generazione di burocrati del partito nata (per ironia della sorte e della storia) dall’industrializzazione staliniana dell’Unione Sovietica. Ciò che è accaduto in seguito, nei tempi più vicini a noi, lo conosciamo, e il partito comunista italiano è diventato sempre più interno al sistema, sempre meno “soggetto rivoluzionario” e avanguardia della classe operaia, sempre meno fattore K bloccante – fattore Kommunizm, secondo una definizione del giornalista Alberto Ronchey – di ostacolo al ricambio di governo nel paese, e sempre più di sostegno a quel sistema di potere politico che faceva perno sulla dc. Un sistema politico che non avrebbe retto, in determinate circostanze storiche – si pensi agli anni settanta e al fenomeno destabilizzante del terrorismo, con un morto a settimana – se non ci fosse stato un atteggiamento “costruttivo”, collaborativo e benevolo dell’altra “metà del cielo”, rappresentata proprio dal pci. Se ancora nei primi ottanta in pieno eurocomunismo si parlava, in relazione ai militanti e ai quadri del pci, di “baffoni”, ossia di stalinisti, e di “baffini” figli del sessantotto passati al leninismo (Giorgio Bocca), o addirittura della contrapposizione interna al partito fra “filosovietici” e “revisionisti”, oggi, queste espressioni ancora in uso una trentina di anni fa sembrano appartenere a una lingua morta, e rischiano di non essere comprese. Di sicuro non hanno più alcun senso in questa nuova realtà, anche se numerosi “baffini” dell’epoca e qualche “baffone” esistono ancora in vita. Dal 1956 al dicembre del 1981 il partito comunista italiano è passato, nella via crucis della sua trasformazione che ha rimosso, parzialmente ma non completamente il fattore Kommunizm, da un appoggio sostanziale all’invasione sovietica dell’Ungheria (o da una non vigorosa condanna, se si preferisce cavillare) alla condanna esplicita del “colpo di stato militare” del generale Jaruzelski, in una Polonia ancora interna al Patto di Varsavia e al blocco sovietico (Riflessioni sui drammatici fatti di Polonia, documento della direzione del pci berlingueriano del 30 dicembre 1981). La Rivoluzione d’Ottobre aveva dunque esaurito la sua spinta propulsiva, ma vi era ancora necessità che continuasse lo sviluppo del socialismo seguendo un’altra strada, cioè una “terza via”, ancora largamente indeterminata, da costruire con gli altri partiti comunisti europei, secondo quanto dichiarava Enrico Berlinguer. Lo storico segretario del pci, ancora comunista benché con il suffisso euro, si è mantenuto al fianco degli operai della Fiat in sciopero, prima e dopo la decisiva sconfitta torinese del 14 ottobre 1980, non desiderando gettare alle ortiche un patrimonio di lotte e tradizioni assieme ai ritratti di Gramsci e Togliatti. Dal 1984, anno della morte di Berlinguer, alla svolta occhettiana della Bolognina del 12 novembre 1989 e ai primi novanta, alla fumosa “terza via” eurocomunista non più apertamente filosovietica (nata con la conferenza di Berlino del 1976), che implicava comunque il bisogno di socialismo e una prospettiva futura – per quanto vaga – di uscita dal capitalismo, il pci sostituì progressivamente l’accettazione passiva, quasi fatalista, di un capitalismo che si profilava vincente, pur senza dichiararlo esplicitamente e in modo chiaro alle masse e agli elettori. L’avvento di Gorbaciov in URSS, con tanto di glasnost (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione) al seguito, contribuì a liberare nuove forze nel pci, sempre più lontane dalla tradizione comunista, tanto che dopo l’infarto e l’abbandono della carica di segretario da parte di Alessandro Natta, nel 1988, alla guida del partito arrivò la segreteria di Achille Occhetto, che si fece carico del “cambiamento” non solo del nome, ma del partito stesso. A suo tempo il Berlinguer eurocomunista si era mostrato contrario all’abbandono definitivo delle tradizioni del pci, e così fecero in quei difficili frangenti esponenti rispettati del partito, in particolare Giancarlo Pajetta e Pietro Ingrao, ma opporsi al “cambiamento” non servì. I tempi erano ormai maturi per un grande salto, non proprio nel vuoto, o nel nuovo ma armi e bagagli dall’altra parte della barricata, e questo si sarebbe ben compreso con il solito senno di poi. Dal Migliore, cioè da Togliatti, al Più Amato, cioè a Berlinguer, le trasformazioni del pci sono state significative, di primo rilievo, passando dallo stalinismo filosovietico e dell’attesa rivoluzionaria all’eurocomunismo (parzialmente e moderatamente) critico nei confronti della potenza socialista, ma alla fine degli ottanta qualcosa di importante cambiò, si delineò un “nuovo mondo” dominato da un Neocapitalismo spietato, finanziario e assolutista, dotato di nuovi agenti strategici, globali, postborghesi e privi di etica, che si avviava a chiudere la partita con l’alternativa collettivista targata URSS. I dirigenti comunisti italiani di allora, vista la malaparata, dovettero decidere in fretta se resistere su posizioni che sarebbero diventate, storicamente, sempre più scomode, oppure se aderire all’epocale cambiamento. I giovani dirigenti, che sostenevano la segreteria Occhetto, fecero la seconda scelta, un po’ per opportunismo e “istinto di sopravvivenza”, un po’ per “esplorare” le nuove possibilità che si delineavano. Ne consegue che l’ultimo, vero segretario di un pci di là a poco morente è stato Alessandro Natta (dal 1984 al 1988), come lui stesso ha dichiarato, mentre il primo segretario del nuovissimo pds è stato Achille Occhetto (in carica fino al 1994). Possiamo considerare Achille Occhetto, con i suoi giovani dirigenti ultrariformisti, fra i quali Massimo D’Alema e Fabio Mussi, il Gorbaciov “de noantri”, un Michail di provincia di nome Achille. Volendo essere buoni, non pensando male almeno per una volta, anche per lui potrebbe valere il detto che vale per il dissolutore dell’URSS Michail Gorbaciov e per la sua Trojka ultrarevisionista, e cioè “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. Così, quella “cosa” in cui si era trasformato il pci diventava ancor più informe e il cambiamento, velocizzandosi, spingeva non tanto verso l’approdo definitivo del revisionismo e di una socialdemocrazia rivendicativa un po’ più coraggiosa di quella tedesco-occidentale, ma verso l’esito finale dell’internità politica, ideologica e culturale dei comunisti italiani a quello che stava diventando sempre di più un Nuovo Capitalismo finanziarizzato, globalizzante e vincente, compendiato politicamente dalla liberaldemocrazia occidentale, anch’essa in trasformazione. Non per caso la soppressione definitiva del partito comunista, ormai altro da sé, è avvenuta nel 1991, alla fine del cosiddetto “mondo bipolare” USA-URSS e del confronto fra l’ovest capitalista e l’est collettivista. Nato come partito comunista d’Italia il 21 gennaio 1921 a Livorno, il pci morì a Rimini, in occasione del XX congresso, il 3 febbraio 1991. Un settantennio di vita, quanto la compianta Unione Sovietica (n. 1922, + 1991). Arco costituzionale (che inglobava a pieno titolo il pci), convergenze parallele (secondo l’Aldo Moro che mediava), consociativismo politico (nei fatti, per governare l’Italia), eurocomunismo (di Berlinguer e dei suoi) sono tutte espressioni di epoche successive a quella dei primi governi unitari antifascisti, da Bonomi a De Gasperi, cui partecipava il pci. Neologismi che sintetizzano le fasi trasformative del pci postbellico, nel suo difficile e contradditorio rapporto con il capitalismo e il sistema politico vigente. In questa lunga marcia di avvicinamento al capitalismo, con progressivo abbandono del mito della rivoluzione socialista e adesione implicita a una più “tranquilla” visione socialdemocratica, sono nate e morte nuove generazioni di comunisti (il pci ufficialmente non aveva correnti), come i miglioristi amendoliani “di destra” e gli ingraiani loro avversari, i berlingueriani del distacco dall’URSS e dal sovietismo e i più ortodossi cossuttiani confluiti, in seguito, nel partito della rifondazione comunista. Alla fine il partito comunista, sempre di più “la cosa” e sempre meno la guida e il riferimento politico per le masse proletarie, è stato sciolto, mentre si faceva avanti una nuova generazione di esponenti insensibili alle grandi questioni sociali insorgenti, alle crescenti disparità che un capitalismo geneticamente mutato e rinvigorito diffondeva, alla sorte di milioni di lavoratori e di soggetti economicamente deboli. Una nuova generazione sempre più disposta, negli anni, a mettersi al soldo della finanza trionfante e delle élite dominanti postborghesi, per sopravvivere politicamente, in posizione subordinata, nel “mondo nuovo”. Per tali motivi, dopo le prime sconfitte operaie degli ottanta la situazione è precipitata e gli attacchi contro il lavoro si sono estesi, negli anni novanta fino ai giorni nostri, investendo le giovani generazioni precarizzate, la stabilità del posto di lavoro e una buona fetta del ceto medio. Se non fossero maturati gli eventi ricordati in questo saggio, sarebbe stato impossibile imporre i dogmi neoliberisti in questo paese senza incontrare alcuna resistenza, e demolire la sovranità nazionale dell’Italia senza contrasto, com’è effettivamente accaduto, ponendo il paese sotto il pieno controllo di organismi sopranazionali privati. Ecco il triste esito di quella che è stata definita la via italiana al Socialismo: il riciclo degli ex comunisti negli apparati ideologici e politici di un capitalismo privo di etica e di socialità, senza alcuna possibilità di ravvedimento e di ritorno a un glorioso passato di lotte, ormai completamente dimenticato. |
Post n°6 pubblicato il 16 Gennaio 2013 da eugenioorso58
(I) Sinistra politica neoliberale ed ex comunisti Le metamorfosi della cosiddetta sinistra politica in liberaldemocrazia, all’interno della quale, nei decenni del dopoguerra si situavano sempre di più i comunisti “occidentali”, dagli anni cinquanta e soprattutto dal sessantotto a oggi sono numerose e qualitativamente rilevanti. Per quanto riguarda i comunisti italiani costretti nel campo occidentale, il percorso, lungo e accidentato, che li ha portati dallo stalinismo alla dissoluzione del pc, e oltre nel postmortem con la sequenza pds-ds-pd, ha determinato, una volta giunto a compimento, la loro sostanziale internità alla sinistra neoliberale, quale componente di rilievo dell’ala sinistra nell’unico partito neocapitalistico. Un partito opaco, non troppo visibile soprattutto in occasione delle campagne elettorali, ma fortemente centralizzato e costruito intorno agli interessi privati della classe neodominante globale, l’unica che può decidere le politiche strategiche da applicare nei paesi occidentali, e quindi anche in Italia. L’internità degli ex comunisti alla sinistra tributaria del grande capitale finanziario, l’accettazione piena del sistema politico liberaldemocratico occidentale, sempre più assolutista e lontano da una (presunta) “volontà popolare”, ha comportato un “giù la testa” di rilevanza storica sul piano socioeconomico, che ha favorito, all’interno di paesi europei occidentali come l’Italia, le peggiori dinamiche neocapitalistiche oggi in pieno sviluppo: globalizzazione economica delocalizzante, imposizione di una moneta straniera e privata, distruzione della socialità, svalorizzazione del lavoro, liberalizzazioni e privatizzazioni, eccetera, eccetera. Non a caso oggi, la sinistra politica neoliberale e in particolare gli ex comunisti ammaestrati, fagocitati nel sistema di potere vigente, sovente mostrano di essere i servitori più zelanti di questo capitalismo, zelanti come furono, in altri evi della storia umana, i “conversi” che aderivano per imposizione (e paura) a una religione dominante. Quei conversi che desideravano accreditarsi, agli occhi dei nuovi padroni, offrendo una prova di continua devozione e, appunto, di zelo. Altrimenti avrebbero perso i loro beni e forse la loro stessa vita, o avrebbero dovuto vagabondare per il mondo, per terra e mare cercando un nuovo approdo, come fecero gli ebrei irriducibili. Se gli ebrei conversi, in forza di paura o per opportunismo, hanno assunto nel vecchio continente cognomi che testimoniavano la loro devozione religiosa, ad esempio, in Italia Amadio, Graziadio o Servadio, gli ex comunisti superstiti, passati attraverso numerose metamorfosi “devozionali” capitalistiche nei decenni passati, oggi aderiscono numerosi al pd, che è, appunto, un partito democratico approssimativamente sul modello dei democratici americani, e difendono a spada tratta, per conto delle Aristocrazie finanziarie dominanti, il lager euroglobalista della moneta unica in cui è costretta l’Italia. Senza le metamorfosi “devozionali” degli ex comunisti il direttorio euroglobalista di Monti non avrebbe potuto reggere per tredici mesi, a suon di finanziarie e controriforme antipopolari, e Marchionne non avrebbe potuto imporre i suoi modelli contrattuali con venature schiavistiche in questo paese. Sovranismo, dirigismo economico statale, nazionalismo (o meglio, nazionalitarismo) rappresentano per gli ex comunisti espressioni blasfeme, non tanto perché memori dei precetti comunistico-marxisti otto e novecenteschi (internazionalismo proletario, collettivismo, scomparsa dello stato nello stadio finale comunistico), ormai definitivamente abiurati e dimenticati, ma in quanto espressioni radicalmente contrarie alle logiche nuovo-capitalistiche, finanziarie e globalizzanti. La globalizzazione di matrice neoliberista ha sostituito impropriamente il vecchio internazionalismo proletario. I processi di globalizzazione economico-finanziaria, quali insiemi di politiche strategiche e di trattati imposti ai paesi, hanno una sostanza concreta, sono reali, causano profonde trasformazioni sociali e determinano il futuro dei popoli, mentre l’internazionalismo proletario, preconizzato nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 da Marx ed Engels, non ha avuto luogo, non è mai stato realizzato. La rivoluzione nel punto più basso dello sviluppo capitalistico, l’Ottobre Rosso, non ha impedito la continuazione della grande guerra, né ha potuto “contaminare” i punti più alti dello sviluppo, nell’Europa occidentale e insulare, realizzando l’internazionalismo comunista proletario, che è sopravvissuto come mito e pura speranza fra le masse dominate. Il dirigismo economico dello stato presuppone la piena sovranità, monetaria e politica, dello stato stesso. Ma ciò che sarebbe rimasto, dopo la rivoluzione proletaria, era un semi-stato leniniano nella fase socialista, in attesa della scomparsa definitiva e liberatoria dello stato nello stadio finale comunista. Le attese dei vecchi comunisti non si sono concretate, e la storia è andata in tutt’altra direzione. In verità, la stessa URSS di riferimento è diventata la prima potenza comunista della storia umana dotandosi di un apparato statale esteso e solidissimo (almeno fino a una certa epoca), di potenti forze militari, e accettando la realtà del socialismo realizzato in un solo paese. Da un paio di decenni a questa parte, il capitalismo neoliberista e finanziarizzato sta ridimensionando in modo efficace e progressivo gli stati – vedi quello italiano prigioniero dell’unione europide – privandoli della sovranità, a partire da quella monetaria, e riducendone le funzioni. La prospettiva, in Europa, è quella del superamento degli stati nazionali e dell’avvento di un unico governo sopranazionale, che deciderà per tutti, ma che non sarà “eletto dal popolo” e non sarà una sua espressione. Globalizzazione neoliberista e governo sopranazionale possono apparire, anche se non lo sono per genesi e sostanza, come veri e propri sostituti nuovo-capitalistici dell’internazionalismo proletario unificante e del semi-stato socialista destinato a scomparire con il pieno avvento del comunismo. Possiamo affermare che la globalizzazione in atto è l’esatto opposto dell’internazionalismo proletario di marxiana memoria, e il governo sopranazionale atteso, nell’Europa dell’euro, è uno strumento di dominazione globalista e non una sorta di approdo storico definitivo, che comporterà la liberazione dell’uomo dall’oppressione del vecchio stato “borghese e imperialista”. Ma forse è vero che gli opposti in qualche misura si attraggono, e sono nate persino folli teorie che postulano una “globalizzazione buona”, democratizzata, a vantaggio delle masse (denominate capziosamente moltitudini), in grado di realizzare la “democrazia globale” sull’intero pianeta. Sopravvivenze truffaldine e alterate, nei loro connotati, dell’internazionalismo proletario e dell’approdo definitivo allo stadio comunistico? Utili sostituti ideologici e propagandistici, non corrispondenti alla realtà economica, sociale e politica del presente, dei miti marxistico-comunisti ormai smessi, che hanno attraversato più di un secolo di storia? Sta di fatto che il neocapitalismo ha vinto, affermando la sua realtà economica, sociale e politica, mentre il comunismo storico novecentesco realmente esistito (secondo l’espressione di Costanzo Preve) è stato sconfitto e si è dissolto, trascinando con sé nella caduta i suoi miti.
(II) Affermazione della sinistra neoliberale e morte del comunismo storico La grande svolta storica e sociale, il cambio di evo e di modo di produzione sono stati annunciati, una prima volta, dal sessantotto apparentemente antagonista, quando la sinistra ideologica si è separata da quella sociale e operaia confluendo in seguito e in buona sostanza, negli apparati ideologico-culturali e propagandistici del capitalismo. Altri consistenti segnali del cambiamento, drammaticamente concreti, sul piano politico e sociale ce li offrono le sconfitte operaie degli anni ottanta. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo ricordare la sconfitta degli operai Fiat, in sciopero da più di un mese, a causa della “marcia dei quarantamila” nella Torino dell’automobile il 14 ottobre 1980, e il successivo blitz confindustrial-governativo per l’abolizione della scala-mobile, nel 1984, con il decreto di San Valentino dell’allora esecutivo Craxi. Ma è stata la crisi irreversibile del cosiddetto blocco orientale e dell’Unione Sovietica, nel triennio 1989-1991, che ha dato nuovo impulso al neocapitalismo rampante, eliminando il suo più insidioso nemico, e di conseguenza ha accelerato la trasformazione politica, economica e sociale. La dissoluzione finale dell’URSS ha rappresentato un momento topico della trasformazione della sinistra politica e del riciclaggio dei comunisti sconfitti, a quel punto diventati ex a pieno titolo, almeno nell’Italia della svolta occhettiana della Bolognina. Oggi, giunti a compimento del processo di trasformazione, si parla indistintamente di sinistra, o al più si distingue per stigmatizzare l’”eterodossia” di qualche frangia falsamente radicale e massimalista nella sinistra (sel di Vendola, i resti di rc e del pdci). Ma si tratta pur sempre di una sinistra complessivamente neoliberista e neoliberale, rispettosa dei rapporti sociali e di produzione dell’epoca, che non violerebbe mai e poi mai, se non ambiguamente a parole rivolgendosi al suo elettorato, i tabù sociali, economici e politici imposti dal neoliberismo. Vietato ipotizzare seriamente il ripristino della sovranità nazionale, vietato anche soltanto immaginare l’uscita dall’euro, vietato negare apertamente, con chiarezza spietata, che precarietà e licenziamento libero servono per la futura crescita economica, per l’impulso all’occupazione e per la modernizzazione del mercato del lavoro. Il “capitalismo concorrenziale” è la nuova divinità, per tutti, anche per i sinistri neoliberali e i comunisti riciclati. E pensare che un tempo lontano i comunisti, quando esistevano veramente e si chiamavano bolscevichi, erano nemici giurati non solo dello sfruttamento capitalistico di massa e della proprietà privata dei mezzi di produzione, del parlamentarismo introdotto dalla classe dominate, ma della stessa sinistra, allora borghese, alla quale attribuivano la funzione di “quinta colonna” e il compito di imbrogliare le masse, rendendole inoffensive per il sistema capitalista. Oggi soltanto un personaggio del calibro di Silvio Berlusconi, quando si trasforma in macchietta politico-mediatica davanti alle telecamere, agita in campagna elettorale il “pericolo comunista” come se fosse incombente e reale.
(III) Unificazione della sinistra e degli ex comunisti nel partito unico neocapitalistico La distanza storica (ed etica) fra i comunisti storicamente esistiti e questa sinistra, che è un prodotto nuovo-capitalistico e neoliberale, ci pare incolmabile, addirittura plurisecolare, anche se l’intero processo di trasformazione, velocizzatosi a partire dagli anni novanta, ha richiesto soltanto qualche decennio. Incommensurabile ci sembra la distanza fra un Togliatti, o un Pajetta, e un Occhetto, o ancor peggio, un Veltroni, un D’Alema e un Bersani (chiedo umilmente perdono per il paragone!). Lo stesso Enrico Berlinguer che ha staccato definitivamente la spina del filosovietismo creando l’eurocomunismo occidentalistico, accettando l’”ombrello” atomico della Nato e dichiarando di sentirsi al sicuro nell’occidente a guida americana, era comunque ancora un comunista, al vertice di un partito ormai orientato verso la socialdemocrazia rivendicativa, ma con tracce ancora visibili di solidarietà operaia e di anticapitalismo. Oggi il cordone ombelicale con la tradizione comunista novecentesca, da Antonio Gramsci fino a Palmiro Togliatti, e persino con quella berlingueriana del dopoguerra, è stato definitivamente tagliato, e anzi, i “conversi” tendono a nascondere pudicamente, con vergogna, le loro lontane origini. Il “mai stato comunista” di Veltroni, tende sempre di più a diventare: comunismo, e che cos’è? Persino un certo patriottismo presente nel vecchio pci, che mal si sposava con l’internazionalismo proletario, è venuto definitivamente a mancare, se gli ex comunisti sono disposti ad affidare, senza battere ciglio, il controllo della moneta, la politica economica e quella estera alla Bce, alla Ue e alla Nato. Ciò che conta, nel concreto, sono le politiche che questi camaleontici apostati di una religione “atea”, eredi degeneri di ascendenti gloriosi, sottoscrivono acriticamente e avallano. Pensiamo al caso grottesco di Pier Luigi Bersani, ex comunista riciclatosi con successo al servizio dell’unionismo europide e del liberalismo politico, che prevede sciagure bibliche per i ceti meno abbienti (in parte significativa suoi elettori) nel caso dell’uscita dell’Italia dall’euro, sostenendo che ciò avvantaggerebbe soltanto i più ricchi, i quali possono permettersi di investire grandi capitali all’estero, mentre comporterebbe un impoverimento generale in termini di redditi e piccoli patrimoni per il resto degli italiani! La minaccia bersaniana, in poche parole, è quella di una miseria più grande che seguirebbe l’attuale impoverimento in caso di abbandono dell’euro e di riacquisizione della sovranità monetaria. Impaurire elettorato e popolazione con la minaccia di piaghe bibliche, se si abbandonerà la strada segnata dal neoliberismo, come nel caso dell’abbandono dell’euro, è una caratteristica comune a tutti questi individui, in relazione ai compiti assegnatigli dai dominanti globali. E’ chiaro che così dicendo Bersani, ex comunista e devoto cameriere neoliberista, mente sapendo di mentire e cerca di terrorizzare i suoi elettori, perché è proprio la moneta unica da lui difesa strenuamente che avvantaggia i più ricchi, e in primo luogo quelle élite finanziarie euroglobaliste al cui servizio lui stesso opera. In pratica, milioni di dominati postproletari, ivi compresa una buona fetta del ceto medio, non hanno oggi alcuna rappresentanza effettiva all’interno del sistema, anche se votano “a sinistra”. La spinta che un pd al governo darà alla diffusione del denaro elettronico e alla scomparsa del contante costituirà un’altra evidente prova di quanto qui si afferma. Il risultato non sarà il recupero dell’evasione fiscale, come millantato, ma commissioni in crescita per i gestori delle carte di credito, che si arricchiranno ancor di più, e controllo orwelliano delle abitudini di ciascuno, attraverso i pagamenti elettronicamente tracciati. La sinistra pidiina al governo, con o senza Monti continuerà sulla strada montiana dell’aumento di una fiscalità razziatrice e punitiva nei confronti della popolazione, dai lavoratori dipendenti alla piccola impresa, e quindi proseguirà il trasferimento di risorse dal lavoro al capitale finanziario, in buona parte esterno all’Italia. Le produzioni nazionali non solo non saranno incentivate, ma in nome del nuovo “internazionalismo globalista” e antisovranista saranno progressivamente smantellate in molti settori, o offerte su un piatto d’argento agli Investitori esteri. Le manifestazioni devozionali ultraliberiste non sono una caratteristica esclusiva degli ex comunisti e della sinistra neoliberale, ma anche di personaggi politici nati a sinistra e poi riciclatisi a destra senza alcun pudore. Pensiamo agli ex socialisti italiani schieratisi a destra dello spettro politico, come Maurizio Sacconi, ministro del lavoro e del welfare con Berlusconi, che ha contribuito a mazziare in ogni occasione i lavoratori dipendenti (da lui odiatissimi), o come Renato Brunetta, la cui statura etica aderisce perfettamente a quella fisica, che ha perseguitato a lungo, in quanto ministro del IV esecutivo Berlusconi, i dipendenti pubblici, non soltanto con l’imposizione (piuttosto ridicola) dei tornelli negli uffici. Lo spostamento di risorse dal lavoro alla grande finanza internazionalizzata (giornalisticamente nota come Mercati & Investitori), la cessione della sovranità nazionale e l’occupazione dell’Italia, hanno avuto il fattivo sostegno di ex comunisti “metamorfici” come Giorgio Napolitano, in posizione chiave nelle istituzioni repubblicane, mentre al grande attacco scatenato contro i “santuari” del lavoro dipendente, regolare e stabilizzato, hanno partecipato individui come Pietro Ichino, giuslavorista al soldo del capitale, che fu comunista, poi diessino, poi pidiino e oggi montiano di ferro posizionato al centro. Non necessariamente, quindi, gli ex comunisti, e gli ex socialisti e altri ancora di sinistra, si sono riciclati nei ranghi della sinistra politica neoliberale. Ma tutti questi individui hanno qualcosa di molto importante in comune: una sola tessera in tasca, che non mostrano mai agli elettori. Fanno parte dell’unico, opaco partito della riproduzione neocapitalistica, programmaticamente coeso e diviso in fazioni solo nel momento elettorale liberaldemocratico. |
Post n°5 pubblicato il 08 Gennaio 2013 da eugenioorso58
Tasse e spesa pubblica sono i due principali ingredienti del disastro neocapitalistico prossimo venturo? Forse, ma dipende da come i due ingredienti si combinano e dagli esiti sociopolitici del disastro annunciato. Se le tasse aumentano e la spesa pubblica si abbassa drasticamente, spietatamente tagliata da “agende” criminali come quella euromontiana, allora si va verso il baratro fiscale, o fiscal cliff per gli anglofili, il temuto abisso macroeconomico che potrà inghiottire interi paesi un tempo “sviluppati”. L’economista e sociologo Luciano Gallino in un suo articolo pubblicato di recente da Repubblica, ha intravisto il baratro fiscale nella tanto celebrata ’”agenda Monti” e ha provato a fare un po’ di chiarezza, gettando uno sguardo nella voragine macroeconomica prossima ventura. Vero che le linee programmatiche di Monti hanno significato, e significheranno anche in futuro, + tasse e – spesa pubblica (anche se Monti nega in campagna elettorale, mentendo sapendo di mentire), innescando un’inarrestabile caduta a vite dell’economia nazionale, della produzione e dell’occupazione. Senza ombra di dubbio si tratta di politiche intrinsecamente e volutamente recessive. Vero che il debito pubblico italiano, cresciuto di qualche centinaio di miliardi di euro negli ultimi cinque anni, dagli 1,7 miliardi del 2008 agli oltre 2,0 miliardi dell’ottobre 2012, è impagabile, o meglio, si potrà ridurre significativamente solo al prezzo di condannare il paese alla miseria, quella vera, per decenni. A niente è valso aumentare la pressione fiscale, esplosa nei tredici mesi del direttorio Monti, perché la crescita del debito non si è arrestata, a fronte di continui tagli alla spesa sociale. La sola spesa per interessi che il ricatto del debito comporta, valuta da Gallino in circa 80 miliardi medi annui a un tasso del 4%, è tale da vanificare comportamenti neocapitalisticamente “virtuosi”, in aderenza al trattato-capestro sulla stabilità, coordinamento e governance europide del marzo 2012, per un rientro ventennale al 60% del rapporto fra debito e pil. Tutto vero, e anche i calcoli macroeconomici presentati da Gallino nel suo breve intervento sono convincenti. I 2.000 miliardi di debito attuali sono destinati a crescere, anche applicando pedissequi l’art. 4 del predetto trattato, perché, se andrà bene, il pil crescerà di un'inezia, ma se andrà male si ridurrà ulteriormente a fronte di un continuo aumento del debito, pareggio o non pareggio di bilancio in costituzione. Scrive Gallino che con il baratro fiscale di mezzo – cioè + tasse e – spesa pubblica – non si può sperare di ridurre il debito pubblico alla metà dell’attuale, debito che verso la fine del 2015 potrà crescere fino a 2.200 miliardi. Il disastro è annunciato, ma ciò non significa che non si seguirà quella strada infernale, che poi è quella seguita finora, costellata di drammi sociali e contrazioni continue della produzione, squisitamente euromontiana, tracciata in agenda dai referenti sopranazionali di Monti. Sì, perché lo scopo è proprio quello di “ridefinire” il ruolo dell’Italia, nel prossimo futuro, in un contesto economico-geopolitico globale e dentro i recinti dell’unione europoide. Un ruolo decisamente minore, da paese neopovero perfettamente inserito nel nuovo ordine neocapitalistico, che per Gallino corrisponde alla discesa dell’economia italiana in serie D. Il bello è che Bersani e Vendola, anche nel caso (non troppo probabile e non troppo gradito ai poteri esterni) di ampia vittoria elettorale e di governo del paese con le proprie e sole forze, senza dividere con Monti il governo, seguiranno nella sostanza e nelle linee politico-strategiche essenziali il percorso finora seguito da Mario Monti. Quindi non ci sarà scampo, e il declino dell’Italia, l’immiserimento di gran parte della popolazione, la perdita di rilevanza internazionale saranno cose fatte entro il decennio in corso. Questo è il vero disegno della classe neodominante globale, malcelato da vuoti slogan come il rigore nella crescita. A poco serviranno le piccole deviazioni “a sinistra” del programma – in presenza dei trattati europei vincolanti, del fiscal cliff incombente e del fiscal compact recepito in costituzione – agitate dai truffatori Bersani e Vendola, per imbonire un elettorato socialmente e politicamente imbecille, come la carota che fa muovere l’asinello. Tuttavia, ci può essere una traccia di speranza nello sfacelo annunciato. Tasse in aumento e spesa pubblica in diminuzione, all’origine del baratro fiscale, rappresenteranno i componenti di una bomba, sociale e geopolitica, pronta a detonare nel decennio in corso. Un “terrorista” in pectore e un dinamitardo potenziale come lo scrivente non può esimersi dal cogliere l’opportunità rivoluzionaria che un simile disastro sottende. O meglio, l’opportunità “sfascista” che potrà dare una chance alla via rivoluzionaria per l’uscita dalla trappola elitista dell’euro e dal neocapitalismo ultraliberista finanziarizzato. Non tutto il male viene per nuocere, si suol dire, e forse sarà così anche per noi. Spingendo troppo l’acceleratore sulle politiche recessive – come è accaduto in Italia con Monti e come potrà accadere nel prossimo futuro, dopo le elezioni – si rischia di cadere in una spirale incontrollabile, fatta di tasse in aumento, spesa pubblica in diminuzione e pil in crollo, nella persistenza del ricatto del debito. Ciò comporterà l’innesco della bomba sociale e geopolitica con effetti distruttivi ben oltre i confini dei paesi in recessione. Se ciò accadrà in Italia, in conseguenza dell’applicazione testarda, negli anni a venire, dell’”agenda” euromontiana originale o della sua copia bersanian-vendoliana, è probabile che si raggiungeranno e si valicheranno i limiti di sopportazione sociale, umana e psicologica in conseguenza dell’applicazione di tali politiche, volutamente recessive. Non potranno non esserci reazioni diffuse, in tal caso, perché la compressione dei dominati non potrà procede all’infinito, come invece “è in agenda”. Non si potrà tollerare una disoccupazione al 50%, con annessa distruzione della metà del tessuto produttivo nazionale. Particolare non secondario, l’Italia è ancora un gigante manifatturiero ben più importante della Grecia, o della Spagna, e la sua destabilizzazione peserà come un macigno sia all’interno dell’unione monetaria sia negli altri circuiti dell’economia globale. La contraddizione fra l’illimitatezza neocapitalistica, nella creazione del valore e negli espropri di ricchezza e di diritti, e i limiti dell’elemento umano, pur manipolato, sottomesso e idiotizzato, esploderà come una bomba grazie alle politiche recessive in difesa dell’euro (e di un’idea dell’Europa che non ha nulla che vedere con i popoli), grazie al pareggio di bilancio imposto e all’approssimarsi del baratro fiscale. Sembra che ciò sarà inevitabile, perché strutturalmente questo capitalismo non può reggersi senza velocizzare la creazione finanziaria del valore, oltre i limiti di sopportazione sociale e dell’economia reale, e senza i continui espropri di risorse e di diritti nei confronti delle masse e del patrimonio pubblico. I segnali di ulteriori peggioramenti della situazione concreta non mancano, anche in questi giorni. Oggi l’Ansa riporta la notizia che la disoccupazione giovanile, in novembre 2012, ha raggiunto il 37,1%, secondo i dati Istat, mentre i disoccupati nel paese, giovani e meno giovani, sono sempre 2,9 milioni, come nel mese di ottobre. Nell’eurozona, secondo i dati Eurostat ripresi dall’Ansa, il tasso di disoccupazione a novembre 2012 è quasi del 12%, pesando situazioni come quella spagnola e quella greca, indubbiamente più compromesse di quella italiana. E’ chiaro che gli indicatori macroeconomici e occupazionali non la smetteranno di volgere al brutto, nei prossimi mesi, in Italia e altrove in Europa, non esclusa l’apparentemente solida Germania. Per quanto possano creare, con l’uso dei media, una realtà parallela per imprigionare la nuova classe povera, la realtà, quella vera, fatta di disoccupazione e disperazione, di decadimento dei livelli di vita e di dissoluzione culturale, non potrà che riemergere in tutta la sua crudezza, una volta raggiunto il baratro. Davanti al precipizio, non basteranno più la paura indotta dal sistema in funzione di ricatto, le menzogne sullo spread, le richieste sempre più immotivate di rigore, lacrime e sangue, le stesse “cariche di alleggerimento” degli sbirri durante le manifestazioni, e si scateneranno forze sociali del tutto impreviste, destinate a modificare il corso della storia. Il disastro prossimo venturo, riassunto nella suggestiva espressione “baratro fiscale”, ci renderà qualche speranza, nonostante i danni cagionati dall’esplosione della bomba e le vittime innumerevoli rimaste sul terreno. In fede Eugenio Orso |
Post n°4 pubblicato il 07 Gennaio 2013 da eugenioorso58
Offerta e mercato elettorale Offerta è un’espressione riferita al mercato e fa da contrappeso alla domanda. E’ sufficiente che la domanda e l’offerta si incontrino in qualche punto perché il mercato regga, si autoregoli e funzioni ottimamente, assicurando le magnifiche e progressive sorti dell’umanità, o almeno così fanno credere schiere di economisti, giornalisti e politici, diffusori dell’ideologia liberista. Il libero mercato senza lacci e lacciuoli ottimizza e democratizza, anche se qualche bieco “comunista” (come lo scrivente) sospetta che abbia soltanto la funzione di concentrare la ricchezza nelle mani di pochi, escludendo progressivamente le masse. Cosa centrano le elezioni anticipate italiane con questo discorso? Semplice: anche quello della politica liberale e democratica è ormai diventato un mercato in piena regola, che vende con sistematicità i suoi prodotti valendosi del marketing elettorale, della pubblicità e dei media. Solo che qui il prezzo da pagare non è facilmente quantizzabile, perché si tratta del nostro stesso futuro. Un economista classico, agli albori del capitalismo, ha deciso che ogni offerta crea la sua domanda – J.B. Say interpretato da J. Mill nel 1808, secondo il quale la domanda sarà sempre pari all’offerta. Ammettendo per assurdo che ciò sia vero, è vero, in buona sostanza, anche per il mercato elettorale, che è uno fra i tanti e nemmeno il più importante. Per questo assistiamo impotenti allo spettacolo della politica ridotta a mercato, meno determinante della finanza, ma ancora più importante dell’ortofrutta. Se c’è un mercato ci devono essere dei prodotti da vendere, e più di uno possibilmente (anche se in molti casi abbastanza simili) visto che siamo in democrazia. In estrema sintesi, ecco una lista di prodotti che il sistema è in grado di offrire per soddisfare la domanda, nell’occasione denominata corpo elettorale, in vista delle prossime elezioni: - Bersani con Vendola - Ancora Monti (e, in subordine, Casini, Fini) - Maroni - Ingroia - Berlusconi, ma controvoglia - Rimasugli e frattaglie Infine, ci sono gli abusivi o i semiabusivi, non proprio di marca anche se si danno il bollino blu: - Beppe Grillo e i suoi Segue una breve analisi, non tecnico-politologica o rigorosamente programmatico-economica, dell’”offerta politica” liberaldemocratica nella futura rappresentazione scenica elettorale. Prodotti italiani sul mercato elettorale - Bersani con Vendola. Il lib-lab che avanza, fintamente sbilanciato a sinistra. Vedi Fassina in aperta polemica con Monti, che lo attacca per ricambiarlo, il tremebondo Damiano già ministro del cs con Prodi, o lo stesso Vendola, animale politico non di primo pelo che fu delfino di Bertinotti. Si tratta di un’”agenda Monti” un po’ addolcita, come si fa con la pillola per i bimbi costretti a ingoiarla, fidando ancora una volta sull’inganno ultradecennale del lib-lab, lo stesso che ha indotto i lavoratori ad accettare l’abolizione della scala mobile e le continue riforme delle pensioni. Le controriforme fatte da Monti sono intangibili, e il pd-cs non violerà mai e poi mai il divieto di rimetterci mano per disfarle. Napolitano docet e i suoi severi moniti di non toccare ciò che ha fatto Monti saranno vangelo per i democrat al governo. Tuttavia, poiché il mercato del lavoro e le pensioni dovranno essere ancora riformati, approfondendo e velocizzando i cambiamenti strutturali in senso neoliberista, la sola cosa che potranno fare questi guitti, arrampicandosi sugli specchi, sarà di diluire un po’, nel tempo, le ulteriori perdite di diritti e di reddito dei lavoratori e dei pensionati. Il tutto con la piena complicità della cgil, ormai completamente integrata nel pd-cs, che sventola il gagliardetto laburista soltanto in campagna elettorale. In ciò il senso più proprio dell’unione elettoralistica fra “Il coraggio dell’Italia” di Bersani e l’”oppure Vendola”, che hanno movimentato il cinodromo delle primarie correndo contro il levriere Renzi.
- Ancora Monti, con contorno di “società civile”, partitini già in parlamento e ex ministri del suo governo. E’ chiaro che si tratta delle liste predilette dai dominanti globali e dall’alta finanza occidentale, oltre che dalla chiesa cattolica. Mai nessuno come Monti, mi pare, ha avuto un così grande “consenso” fuori dall’Italia, dalle istituzioni private sopranazionali ai media stranieri che contano, dalle principali cancellerie europee (senza fare nomi, perché non serve) ad una chiesa cattolica, sempre meno universale ed eterna, ma sempre più sottomessa al neocapitalismo e squallidamente opportunista. Logico che sia così, perché la germania è ancora il paese dominante in Europa che contribuisce a schiacciarci, l’unione è il nostro lager nell’era della globalizzazione e il Vaticano è pur sempre uno stato estero, con una propria bandiera e propri interessi. La più pura ed autentica espressione delle politiche euroglobalistico-neoliberiste è racchiusa nell’agenda del professore, non in quella di Bersani, che è soltanto un’imitazione un po’ edulcorata, il voglio ma non posso di chi deve rigare dritto davanti allo sguardo del padrone, ma nel contempo lusingare il suo elettorato. L’originale è sempre meglio delle imitazioni, per chi ha scelto di stare da quella parte e di servire, più o meno consapevolmente, gli interessi dominanti. Le sparate montiane sulle tasse, in campagna elettorale, non spostano i termini della questione, perché le tasse che alimentano la spesa pubblica saranno sempre di più a carico delle cosiddette classi subalterne, ben monitorate nella (finta) lotta all’evasione. Che poi siano della partita politici professionisti come Casini e Fini, portatori d’acqua con le orecchie e tutto il resto del corpo (non escluse le parti intime), o individui come Ichino, ex comunista riciclato nemico dei lavoratori pubblici e privati, poco conta. Le linee programmatiche, in agenda, sono già tracciate da tempo, e tali rimarranno, con o senza di loro.
- In un impeto di forzato orgoglio, Maroni che gestisce una lega ridimensionata, mazziata dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, simula il ritorno ai vecchi “valori” leghisti, alla padania dei mille campanili e alla difesa intransigente dei soli interessi del nord. Nel gioco delle parti rifiuta in toto Monti e il suo programma. Fa sempre comodo un piccolo serbatoio di voti, e di partecipazione “popolare”, anche se fortemente sospetto di populismo. Sensibile agli umori di ciò che rimane della base leghista e desidero di riconquistare qualche voto perduto, da un lato, e dall’altro consapevole che da solo – in compagnia dei “duri e puri” superstiti e di nessun altro – concluderà ben poco, l’ex ministro degli interni sta ancora procedendo tastoni a meno di due mesi dall’appuntamento elettorale. Ma sembra che propenda, per ragioni di sopravvivenza e di giunta in alcune regioni all’accordo con il cav.
- Ingroia. Antonio, celebre magistrato fuori ruolo prestato alla politica. Come dire, l’immagine “vincente” dietro la quale si nascondono i massimalisti edulcorati, decaffeinati, o addirittura castrati, i falsi verdi del business ecologico, della moda e della voga, la sinistra radicale del “giù la testa!”, gli arancioni del de Magistris, i resti dell’idv, disintegrata sapientemente dai media e dai suoi stessi esponenti. Su questo c’è ben poco da dire. Una particina, nel grande spettacolo liberaldemocratico, spetterà anche a loro. Il compenso? Qualche seggio e qualche posto nelle commissioni parlamentari. Probabilmente saranno briciole, ma l’istinto di sopravvivenza, che anima queste screditate burocrazie politiche, prevale su ogni altra considerazione. Personalizzazione delle liste, parlamentarismo sfrenato e subalternità alla liberaldemocrazia: Lenin e Gramsci rabbrividirebbero.
- Berlusconi, ma controvoglia. Nel senso che il sistema politico italiano, controllato da forze esterne, ci offre le ultime performance del cavaliere senza troppa convinzione, talora a denti stretti. I media riflettono la sua immagine di redivivo, ma si scatenano polemiche, come in passato, sulle sue numerose presenze televisive. Si spera, in certi ambienti, che il suo sia un falso populismo ad uso e consumo di una parte del corpo elettorale, per farlo tornare al voto con la lusinga antieuro, antiunionista e antitedesca. Il personaggio è contradditorio, disposto per convenienza (e sondaggi) a cambiare idea in una manciata d’ore. L’ha dimostrato ampiamente, dopo l’improvviso rientro da una sorta di semipensionamento, proclamando prima il fallimento dell’esecutivo di Monti e poi chiedendo al Quisling di guidare tutti i moderati. Uno come lui non è del tutto controllabile, ma solo se messo con le spalle al muro potrebbe dare il “peggio” di sé. Ad esempio, potrebbe essere portato a esagerare con antieuropeismo e ritorno alla lira, con gli attacchi alla germania e allo spread, dietro il quale si celano gli interessi sovrani della classe dominante, e lo farebbe senza mezze misure, scatenando polemiche, rinfocolando odi e rancori in Italia e anche nel resto d’Europa. Solo in questo ultimo caso – Berlusconi che si gioca il tutto e per tutto, senza tener conto dei danni che potrà fare al sistema e all’eurounionismo – si potrà rompere il sacro voto astensionista e andare alle urne, per il cav in divisa da guastatore avversato da tutti, ma con tutte le cautele del caso: turandosi il naso, tappandosi le orecchie, trattenendo il respiro e guardandosi le terga.
- Rimasugli e frattaglie. Si tratta delle comparse meno importanti. Fra queste – che meritano soltanto un fugace cenno (e forse neanche quello) – ci sarà la lista-movimento del fanatico liberal-liberista Oscar Giannino, giornalista al servizio dell’omologazione mercatista e noto pagliaccio mediatico, per come si veste, per come si rade e come si atteggia. Deluso da Monti, Giannino correrà da solo rischiando il flop elettorale, ma naturalmente lo farà per “Fermare il declino”. Povero Giannino! Il solo “voto utile” ultraliberista è quello alle liste di Monti, e al suo movimentino resteranno forse le briciole. Fra tutte le “offerte politiche” precedenti soltanto quella di un Berlusconi impazzito, messo alle strette – che si scaglia a corpo morto contro euro, unione, germania, lista monti e sinistra neoliberista – potrà tornarci utile, applicando alle prossime anticipate l’unica logica oggi possibile, in morte (apparente?) dell’antagonismo politico, quella peggiorista del tanto peggio tanto meglio. Scardinare è meglio che morire nella più assoluta impotenza, perché ci porge comunque una speranza, una prospettiva futura di lotta pur fra mille difficoltà e sofferenze. Se coloro che si oppongo al liberismo e alla liberaldemocrazia sono definiti nella migliore ipotesi “populisti” (nel senso neolinguistico di comunisti + fascisti), e nella peggiore “terroristi”, allora, in queste contingenze sommamente negative, è necessario che i “terroristi” cerchino finalmente un detonatore per far esplodere la bomba. Infine, non resta che il semiabusivo Grillo, con i suoi M5S: - Beppe Grillo e i suoi. Su questo tema ho già scritto qualcosina, in passato, e quindi non mi dilungherò. Nonostante la chiara presa di posizione a favore del reddito di cittadinanza (ma senza troppe specifiche in merito), l’impianto programmatico dei grillini è piuttosto confuso. Tracce di liberismo che si confondono con la difesa e il ripristino del sociale. Accettazione della democrazia parlamentare a fronte di un rifiuto dei soliti e tradizionali partiti, sui quali una democrazia parlamentare, pur ridottasi a validare scelte politiche esterne come quella italiana, dovrebbe reggersi. Eccetera, eccetera. Il voto alle liste di Grillo – non a Grillo come leader maximo, che non si presenta – potrà di certo significare che una parte degli italiani, comunque minoritaria, ha riconquistato un po’ di coscienza sociopolitica, ed ha compreso che il sistema, così com’è, ci porta dritti alla morte o a nuove forme di schiavitù e alienazione, attraverso il suicidio con motivazioni economiche, la mancata assistenza sanitaria, la carenza prolungata di lavoro e di reddito. Ma l’internità al sistema liberale e democratico, del quale inevitabilmente si accettano le regole se si corre per i seggi in parlamento, funge da contraltare al positivo, ancorché parziale ritorno di coscienza di una parte dell’elettorato che vuole “cambiare le cose” e vota i candidati della lista. La riaffermazione della coscienza politica e sociale si frangerà inevitabilmente contro gli scogli sistemici, per (a) l’impossibilità di ottenere un’ampia maggioranza dei seggi in questa situazione, ampia maggioranza assoluta che può consentire di modificare la costituzione da soli, partendo, ad esempio dall’art. 81 del famigerato fiscal compact, per (b) il “cordone sanitario” che si creerà intorno ai parlamentari M5S con il fine di isolarli, per (c) i tentativi di spaccare quella rappresentanza parlamentare con la lusinga, o attraverso gli scandali mediatici e le inchieste della magistratura, per (d) la difficoltà di “cambiare le cose” a livello legislativo e di contrastare validamente l’esecutivo in parlamento, se si farà ampio uso del voto di fiducia. E per altri motivi ancora. I parlamentari M5S rischieranno, nella prossima legislatura, un nulla di fatto o addirittura la dissoluzione del loro movimento. Se il prodotto, corrispondente al movimento di Grillo, diventerà anche lui di marca, entrerà nei ranghi, parteciperà alla divisione dei pani e dei pesci del sub-potere politico nazionale, e addio reddito di cittadinanza, insieme a tanti altri buoni propositi, mentre se non lo farà quasi sicuramente lo distruggeranno. Del resto, nel parlamento italiano c’è una lunga storia di scissioni e frammentazioni in gruppetti e partitini, che parte dal dopoguerra e arriva ai giorni nostri. Vista l’”offerta politica” che il mercato elettorale italiano ci riserva, si potrebbe concludere che non ci resta che piangere. E’ quasi certo che sarà così, ma c’è pur sempre la probabilità, statisticamente piccola, del verificarsi di un evento imprevisto di grande portata, del manifestarsi di una “singolarità” che sconvolga la pianificazione degli spettacoli elettorali e rimetta in discussione la sorte del paese, che oggi ci pare segnata. Quanto potrà reggere ancora il fiscal compact, e tutta l’architettura della falsa Europa dell’euro, e quali rischi concreti per l’economia mondiale si nascondono dietro il fiscal cliff, nonostante l’accordo raggiunto? |
Post n°3 pubblicato il 03 Gennaio 2013 da eugenioorso58
Estratto da un’ANSA di oggi, 3 gennaio 2013: ROMA - "Il nome della lista? Qualcosa tipo 'Con Monti per l'Italia". Lo dice lo stesso Mario Monti a Uno Mattina parlando della lista - unica - che sarà presentata per il Senato, mentre sul numero e sui nomi delle liste per la Camera, spiega Monti, bisognerà attendere i prossimi giorni: "dipende dall'interpretazione della legge". Finalmente sappiamo qualcosina di più sulle liste di Monti, e sul probabile nome della sua aggregazione centrista. Non si tratta di pettegolezzi politici senza costrutto, poiché il listone unico al senato è stato creato per impedire che Bersani stravinca anche lì, com’è probabile che accadrà alla camera. In altre parole, il pd-cs ha la quasi certezza di vincere (febbraio è vicino), ma non è opportuno che vinca troppo, perché allora si ridurrebbe l’”influenza” montiana sul nuovo esecutivo. La ricetta “più Monti e meno laburismo” è quella maggiormente gradita dalle élite esterne che hanno in pugno l’Italia e dettano le agende politiche. Il sistema abbisogna anche dell’apporto dei voti di Vendola, naturalmente, ma tutto ciò che va promettendo il predetto, alleato di Bersani per convenienza elettoralistica, è aria fritta. Pur trattandosi di aria fritta, sarebbe però spiacevole un successo troppo ampio della cosiddetta sinistra massimalista (oggi in verità più minimalista che massimalista), perché il poeta barese dovrebbe concedere qualcosina al suo elettorato tirando per la giacca Bersani (o minacciando di far cadere il governo), e perciò, complice il segnale “forte” dello spread in discesa proprio all’ingresso di Monti nell’arena politica, i quozienti della sinistra lib-lab (neoliberista in pectore) devono essere temperati da quelli del neocostituito centro filomontiano. Alla camera, invece, ciascuna camarilla che si nasconde dietro l’immagine del professore si presenterà con un proprio simbolo e una propria sbrodolata di nomi, interpretazioni della legge elettorale permettendo. Di tanto in tanto movimentano la scena i battibecchi fra un Berlusconi “volatile” e incompreso (da Monti), che parte all’attacco, e il professore, che cerca di ignorarlo con fair play freddamente anglosassone, o comunque mostra di attribuire alle sue dichiarazioni il minor peso possibile. Nonostante questi penosi battibecchi fra "moderati", la costruzione del centro procede spedita, in vista di una scadenza elettorale ravvicinata, e la “conversione” del Monti tecno-politico alla politica politicante sembra definitiva. E allora è bene precisare che non c’è nulla di peggio dell’”agenda Monti”, o di un compromesso fra questa agenda e quella di Bersani, per le sorti del disgraziato paese in cui viviamo. Si tende al pareggio del bilancio, stabilito costituzionalmente, facendo il funerale alle produzioni e ai consumi nazionali, e ogni spesa deve trovare rigorosamente la sua copertura, ma sempre a scapito dei soliti “ceti meno abbienti” e dei soliti lavoratori. Gli elementi della cosiddetta agenda Monti, sostenuti dal suo “movimento” in via di costituzione, in estrema sintesi sono il rigorismo contabile e di bilancio, privo di ogni sensibilità per le questioni sociali, e il perseguimento degli interessi sovrani delle élite finanziarie dominanti, come ho già scritto in altra sede. L’intera agenda è costruita intorno a interessi privati espressi dai centri decisionali della nuova classe alta. Si ripropone in forma inedita il conflitto Capitale-Lavoro, e l’agenda montiana ne è una prova. Questa è la sostanza concreta della pseudorivoluzione aristocratico-liberista che si oppone a quelle entità del passato, come la cgil, che Monti stesso definisce in pubblico conservatrici. Persino Bersani, che ha appoggiato l’esecutivo Monti fino all’ultimo senza sfiduciarlo, si prende la sua tiratina d’orecchi, perché dovrebbe essere più coraggioso, silenziando la parte lib-lab del pd, definita dal professore immancabilmente conservatrice. E’ più che mai necessario, per essere completamente in linea con l’”agenda Monti”, cancellare il lab(urista) mantenendo il solo lib(erale). Sono stati dunque i presunti conservatori che hanno impedito a Monti nei tredici mesi precedenti, pur avendolo appoggiato più o meno scopertamente, di piantare ancor di più in profondità il coltello nel cuore del paese. Ma non è detto che in futuro il Quisling anglofono non ci riesca, stendendo l’Italia definitivamente, per tutta la prima metà del secolo. Complici lo spread in discesa e l’approvazione incondizionata di santa Romana chiesa, Monti spera che il suo “movimento” (propagandisticamente non si parla, in tal caso, di partito) acquisisca sufficienti consensi elettorali per fungere da “ago della bilancia”, e controllare saldamente i governi. Anche se il centro moderato – smisuratamente e smodatamente liberista – non vincerà le elezioni, il suo peso, in termini di seggi, dovrà essere adeguato allo scopo, cioè a imporre le linee programmatiche montiane a qualsivoglia futuro governo. In altre parole: ancora e sempre Monti, dopo Monti, anche se vi sarà un altro nominativo alla presidenza del consiglio. Poco importa che lo spread con il bund sia miracolosamente sceso (sappiamo chi lo ha fatto scendere) per appoggiare i montiani e consentirgli di rastrellare qualche voto in più, nelle anticipate di febbraio. Monti dichiara con sicumera, per nascondere il fatto che i “grandi prenditori” finanziari intervengono in suo favore, che la discesa dipende dall’accordo sul “baratro fiscale” (fiscal cliff) e da una rinnovata fiducia dei capitali, stranieri e nostrani, nei confronti dell’Italia. Merito suo? Lui vuol far credere di sì, reggendo il sacco a quelli che stanno manovrando lo spread a favore del suo prezioso centro politico. Ma per quale motivo ci sarebbe tanto da fare, a livello internazionale, per appoggiare Monti e farlo apparire come il salvatore in loden della penisola, se non per il motivo che il centro filomontiano e un Monti rientrato al governo perseguiranno gli interessi delle élite dominanti e dei capitali finanziari che contano? Il gioco è fin troppo chiaro, ma in tanti cadranno nella trappola elettorale, votando per le liste e i partitelli di Monti. In tantissimi non si accorgeranno, fino all’ultimo, che non si sta Con Monti per l’Italia, ma, esattamente al contrario di quanto si è indotti a credere, ci si mette Con Monti contro l’Italia. In fede Eugenio Orso |
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