Post n°3043 pubblicato il
02 Ottobre 2015 da
Praj
L’immaginare che un giorno troverò conforto, sperare che qualcuno o qualcosa mi sorreggerà, che un evento o una filosofia mi renderà felice per sempre, sono le basi del conflitto, del disagio, del malessere… Questi scompensi, disequilibri, vengono proprio dall’incomprensione del fatto che non posso essere diverso da ciò che sono e che non ho margini reali per l’auto determinazione. Non essere ciò che sono è impossibile, perché qualunque cosa o situazione che promana dal Tutto si manifesta come una necessità assoluta, come una forza, un’esigenza ineluttabile. Non ho dunque alcuna scelta, devo attuare la convergenza d'indirizzi e spinte che s'individuano in me. Questo vale per me come per ognuno, evidentemente. Il mio destino è questa danza che si mette in azione e che mi sincronizza con la manifestazione diversa che mi sta intorno, la quale va esprimendosi nell'infinità dei fenomeni, momento dopo momento, ovunque. Partendo dunque da questa primaria sensazione esistenziale nasce il disagio, il quale scaturisce appunto dalla contrapposizione generata dal credermi un qualcuno in grado di fare quello che liberamente vuole e la danza oceanica dell’energia cosmica che invece mi “costringe” altrimenti, a passi "obbligati". Questa mia voglia di danzante indipendenza sorge dal desiderare, funzione intrinseca dell'ego. Seppure non c’è alcun desiderio manifesto, in realtà il desiderio è sempre presente. E’ l’effetto del percepirmi separato, potenzialmente libero. Sebbene possa trovare questo determinismo inaccettabile perché sembra neghi la mia irrinunciabile identità e possibilità di scelta, per il Tutto ciò è irrilevante. Questo perché è solo nel Tutto che si trova il compimento della completa espressione dell’assoluta libertà. La presunta parte dipende necessariamente dal Tutto: quindi non ha mai potere reale in sé. Allora non c’è niente da accettare. Perché anche come ego sono, nei fatti, semplicemente forma del Tutto-Uno. Quando tuttavia io sono il Ciò che è, dis-identificato, e non ho nessuna considerazione di ciò che sono, o non sono, quando non c’è secondo, io divengo l’accettazione stessa, perché non rimane nulla da accettare. Non ho perciò niente da aggiungere con una accettazione personale. In questa comprensione, essa diviene chiaramente superflua. Ogni accettazione secondaria va e viene, non è che un ombra effimera dell’accettazione essenziale. Per cui se anche volessi sviluppare una modalità di gestione dell’accettazione creerei solo una sorta sovrapposizione mentale inutile. Nonostante possa credere di poter accettare in quanto persona, in realtà non è mai la mia accettazione che accade. E’ sempre l’accadere impersonale del ciò che è, l’aldilà di un me che non c’è.
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