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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Post n°851 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CXI Ad Angiolo Galli Tal son né miei pensier, qual'io già fui, Se non che ogni mia spene è più fallace; Et qual solea già pur senza pace Amor meco si sta, non con altrui. Così nelle tempeste io non so cui M'invochi, se non quella che mi sface: Et quando penso alla mia ardente face, Il cor meco s'adira, et io con lui. Così mi vivo ancora, et nelle fiamme Arde la sera, et, quando è l'alba, agghiaccia La mente, che a quell'ora Amor l'assale: Così nel cor la bella Donna stamme, Che mi tien stretto tra le crude braccia, Come al principio dello eterno male. [Poesia] Risposta di Angiolo Galli Se la speranza antiqua ora ne fui La qual vidd'io in te già più vivace Che mai carbone ignoto di fornace, La colpa è tua et non già d'ambedui. Giovane bella ha sempre dubbi sui Ch'el lontanato Amor ne sia verace; El dapresso è un calor di mille brace, Qual maraviglia dunque se tu rui? Non creder cor de donna mai s'enfiamme Per lontan foco, anz'ello più s'agghiaccia Et fa per gelosia altro rivale. Torna a quel seno de le dolce mamme Adunqua, Giusto mio: s'ella t'abraccia Felice appresso te non fu uom tale. CXII Sguardo ligiadro donde Amor mi sforza, Et mena in parte, ove di me disfido; O luce mia fatal, segno mio fido, Che tramutar mi fai sì spesso scorza, Tu stai nel pensier mio con quella forza, Che al fin suo spinse l'infelice Dido; E in mezo del mio petto hai fatto nido D'un foco, che per verno mai non smorza. Et così, lasso, d'una in altra doglia L'oltraggio, la vergogna et la mia fede Mi guida a crudel morte a poco a poco, Senza mai satiar l'ingorda voglia Di quella fonte viva, onde procede L'amaro che mi strugge in gentil foco. CXIII Non veggio, ove m'acqueti lasso, o dove Pieghi il doglioso cor, perché io respiri: Volger non posso, ove il mio mal non miri, Et l'idol mio scolpito ivi non trove. Il bel parlar, che sorridendo more, Et tra il vezoso sguardo i bei sospiri, Il cor m'infiamman sì, che fra i martiri Di abandonarmi ha fatto mille prove. Così mi strugge il cor, se per orgoglio Avien che l'atto peregrino adorno Tacendo gli occhi santi inchine a terra: Ma più di quella man crudel mi doglio, Che per antica usanza ciascun giorno Mille volte il mio core et mille afferra. CXIV L'alto pensier, che spesso mi disvia, Et mena ove Madonna el mio cor siede, Al caro albergo ove la mente riede Quando all'usata fiamma Amor m'invia, Vuol che io dipinga l'alta leggiadria Per far di sua grandeza al mondo fede; Et chieda delle altrui colpe mercede A questa di pietà nimica, et mia. Ma quello adamantino et fiero smalto, Onde arma il cor sì duro e il freddo petto, Che verrà mai, come convien, che squadre? O giunga penne al debile intelletto In guisa, che volando poi tanto alto, Ritragga in carte cose sì leggiadre? CXV Poi che la dolce vista del bel volto Laddove scritte le mie voglie stanno. Agli occhi miei, ch'altro bramar non sanno, E il caro nudrimento al cor fu tolto, Io, che dal nodo ardente ancor disciolto, Non son, che il Ciel non vuol ch'esca d'affanno, Talor me stesso co 'l pensier m'inganno, Giungendo fili al rete ove so avvolto. Così mi pasce il cor di rimembranza La man, che il furor mio fatta ha immortale, E gli occhi pien di vera leggiadria, Però mentre questi occhi di mortale Aran, convien che a lor sempre ella sia Sua luce, suo riposo, et sua speranza. CXVI Poi che il mio vivo sol più non si vide, Cieco gli giorni miei vo consumando; Dicendo fra me stesso sospirando, Dove or fan giorno le mie luci fide? Or del mio mal gl'incresce, or di me ride; Or sola va di me forse parlando: Poi mi sollevo, et dico: lasso or quando Vedrò chi sol mi piace, et sol m'uccide? Or seco duolsi di mia lontananza; Or la sua casta mente volge in parte, Dove seguir non puolla pensier vile; Or rende gratie a chi gli dà tanta arte, Che in punto mi sfida et dà speranza; Et che la fè sopra ogni altra gentile. CXVII Hora che il gran splendor del ciel risorge, Et fuggon stelle et segni il maggior lume, Continuando il suo antiquo costume L'Aurora il dolce vago al mondo scorge, Solo il mio cor non cura, et non si accorge Come entro a poco a poco si consume; Et scorran gli miei giorni, come un fiume; Onde ver me già Morte la man porge. Et lui pur disioso ivi rivolto, Dove arde il mio bel foco, et vivo splende, Et fa seren le luci mie tranquille: Et, qual vicino ardor di fiamme folto, Di lungi il gran disio tutto mi accende, Or che fia stando in mezo le faville? CXVIII Quando talor condotto dal disio Con gli alti pensier miei trascorro in parte, Per iscolpir, se mai potesse, in carte Quegli occhi che fan foco nel cor mio, Ritrovo altra opra, che mortale: ond'io, Fra tante maraviglie ivi entro sparte, Perdo l'ardire et la ragione et l'arte, Sì che me stesso et l'alta impresa oblio. Ma poiché l'occhio del pensier si sbaglia, Et le virtudi afflitte, in sé imperfette, Soffrir non pon l'alteza dell'obietto, La voglia che sospinse l'intelletto In mezo al cor, come ella può m'intaglia Cose ligiadre assai, ma non perfette. CXIX Rimena il villanel fiaccato et stanco Le schiere sue, donde il mattin partille, Vedendo di lontan fumar le ville, E il giorno a poco a poco venir manco. Et poi si posa: et io pur non mi stanco Al tardo sospirar, come alle squille: (Io me ne ingegno che ognior più sfaville Il foco et l'esca nel mio acceso fianco). Et sognar, tristo, infin che l'alba nasce, E il giorno disiar sempre il mio male, Col fiero rimembrar di mille offese. Così dì et notte piango; et così pasce La fragil vita questa, a cui non cale Vedermi dentro al foco, ch'ella accese. CXX Luce aspettata tanto agli occhi miei, Che tua virtù dal terzo Cielo imprendi, Quanto mirabilmente il cor mi accendi, Et quanto fai di me più che non dei. Tu mi fai non voler quel che vorrei, Et quel che vo fuggendo pur mi rendi: Tu dove più mi duole ognior mi offendi, Et nel mio mal sempre sì accosta sei. Io son già vinto; et non so far difesa Contro sì nuovi colpi, ma il disio Non scema perché manche la speranza: Che il gran disio, dove ho la mente accesa, Letè ben so non metteria in oblio, Né tempo, né destin, né lontananza. |
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