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Il Meo Patacca 08-3

Post n°1287 pubblicato il 26 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ecco alfin della festa principale
Vie 'l tempo, e la Girannola è ammannita,
Già da lontano se ne dà 'l segnale,
E la gente ce sta ben avvertita.
Si sparano sul Monte Quirinale
Altri pezzi, e 'na torcia comparita
Su 'na loggia s'aspetta d'osservarzi
Un popolo di razzi in aria alzarzi.

Il razzo d'un cannello ha la figura,
Che su un bastone tondo viè infasciato
Da carte sopra carte, e poi s'indura
Messo all'aria, assai ben prima incollato;
Vicino a i capi ha doppia strozzatura,
Polvere l'impe con carbon pistato
Quanno ch'è ben asciutto, e lo stuppino
Dalla parte de sotto esce un tantino.

Allor da un forte spago stretto bene
Si lega a una cannuccia, e questa avanza,
Perch'è più longa, e con la man la tiene,
Chi vuò sparallo, e poi la vita scanza:
Lo stuppino, ch'è sotto, ad arder viene,
Perchè col miccio, com'è costumanza,
Colui te gli da foco, e questo cresce;
Di mano il razzo allor, subbito gl'esce.

Ma perchè su in Castello è differente
Il modo di sparalli, io però lasso
Di raggionà di questi, et al presente,
Di quelli a dir l'alte strisciate io passo.
S'incominza, e da loco, ch'è eminente
Ne calan dui, su stese corde abbasso
Con furia tal, che parano saette,
E danno foco a due girandolette.

Non fanno queste gran compariscenza,
Perchè de' razzi c'è poca sustanza,
Nè se pozzono mette in competenza
Della granne, che già sta in ordinanza.
Sol nella quantità c'è differenza,
Che, ce saria per altro l'uguaglianza;
Pur sono, se chalch'un le paragona,
Quelle le serve, e questa la patrona.

Da dui travi addrizzati in quel contorno
A i fianchi della loggia, ma de sotto,
Le piccole girannole s'alzorno,
Quasi all'altra volessero far motto.
Ma il modo, con che i razzi si sparorno,
Che già de prima favano un ridotto
Su le punte dei travi, il dico adesso,
Con raccontà dell'altri il modo istesso.

Allo scuperto in sopra della loggia,
Tavolato majuscolo è disteso,
Che ha sotto i su' puntelli, e ce s'appoggia,
In maniera che stabbile s'è reso;
È largo e longo, e fatto quasi a foggia
D'un cimbolo, ch'in giù quant'è più steso
Più stregnenno si và; ma è differente,
Che nella coda non è storto gnente.

Fatto così di tavole 'sto piano,
Tutto tutto quant'è di busci è pieno,
Ce se mettono i razzi, a mano a mano,
Che di quelli non son nè più nè meno.
Sol però le cannuccie indrento al vano
Passano delli busci, ma il ripieno,
Ch'è il razzo stesso, perch'è un pò grossetto,
Non passa, e l'impedisce il buscio stretto.

Su 'sto palco una selva ecco apparisce
Di razzi, et un canneto sotto pende,
Poi di polvere il piano si rempisce,
Ch'accanto alli stuppini si distende.
Principio allor si dà, dove fornisce
Il tavolato, e il foco lì s'accende,
Arde de posta la materia arsiccia,
E la stuppinerìa tutta s'appiccia.

Ecco un spruzzo di razzi, e basso e stretto
In tel principio, e poi s'alza e si slarga;
D'una fontana giusto fa l'effetto,
Che sbruffanno all'in sù sempre s'allarga;
Più che crescenno và, più dà diletto
La spampanata risplennente "e larga;
Vien giù massa di lumi, e rimpe l'occhio,
E ogni razzo in calà, ce fa 'l su' scrocchio.

Come assai folte grondano le stille
D'acqua piovana in tempo della state,
Così appunto una pioggia di faville
Cascà si vede, doppo le scrocchiate;
Si spandono per aria, a mille a mille,
E resta, (ancora queste dileguate,
Ch'in poco tempo se ne fa 'l consumo),
D'una festa sì bella, erede il fumo.

Le due girannolette sorelline,
E la girannolona majorasca,
Li scoppi, che si sentono in tel fine,
Quanno la razzarìa, tutta giù casca,
Le sfavillate jofe e pellegrine,
Di botte, fumo e foco una burasca,
Son cose belle sì, ma a parlà schietto,
Il finir troppo presto è il lor difetto.

Hor mentre la materia è già tutt'arza,
E in fumo, svolicchianno, s'è disperza,
De fatto se ne viè nova comparza,
Che da quella di prima è un pò diverza;
Fiamma questa non è, pell'aria sparza,
Che solo a un batter d'occi si sia sperza,
Ma ben goder la pò la gente accorza,
Perchè, non così subbito si smorza.

È questo un foco artifizìaro, e messo
Su i tetti della loggia, et è uno spasso
Il vedè razzi in quantità, che spesso
Schizzan di qua e di là, d'alto e d'abbasso.
L'occhio ce se confonne, e nell'istesso
Confonnersi ci ha gusto, et al fragasso
De i scoppi assai gagliardi, ce s'accorda
Il chiasso delle genti, e l'aria assorda.

Ci son poi certi razzi mazzocchiuti,
Che vanno su per aria, lenti lenti,
E quanno a un certo segno son venuti,
In giù se ne ritornano pesenti;
Scoppiano e partoriscono, minuti,
Più razzetti in un sbruffo, e partorenti
Puro questi son doppo, e in modi ignoti,
Nascon da un razzo sol, figli e nipoti.

Un'altra sorte poi ce n'è, che puro
Fa del fragasso, quanno cala, e scoppia,
Foco sbruffa in più parti, e in te lo scuro
Una luce, in più luci si raddoppia:
Scappa la gente a metterzi in sicuro,
E chalched'uno, in tel cascà si stroppia.
La folla più si stregne, e più s'aggruppa,
E con difficoltà poi si sviluppa.

Oltre i già detti, un'insolente razza
Ancor ce n'è, ch'a pochi la perdona.
Scurrenno va, come una cosa pazza,
E salta, e gira, et a più d'un la sona:
Va serpeggianno, e par che dia la guazza
A questo e quel. Mò verzo una perzona
S'avvia, mò verzo un'altra el corzo addrizza,
Poi torna arreto, e in altro loco schizza.

Questi son certi razzi a posta fatti,
Pe' mettere in bisbiglio i circostanti,
El nome se gli dà di razzi matti
Perchè so' sregolati e stravaganti;
Fanno ben spesso, che la gente sfratti
Da dove stava, e dove pò si pianti.
Chi smarrisce il compagno, e chi 'l parente,
E chi fiottà, chi schiamazzà si sente.

C'era una giovenotta capo ritto
Co' scuffie e sfettucciate in sul crapino,
E benchè havesse un abbito un po' guitto,
Del capo il conciamento era zerbino.
In quel gran parapiglia, tutto afflitto,
Il marito, ch'a quella era vicino,
Lontano spinto fu. Fece 'sta cosa
Un'ondata di gente impetuosa.

Lui gira, e cerca, e in mezzo della folla
Pe' poterci passà, fa le su' prove,
Rifibbia gomitòni, e te l'azzolla,
S'incoccia chalched'uno, e non si move.
Chiama, e strepita forte: "Gnora Tolla!
E dove sete gnora Tolla? e dove?"
Lei non lo sente, e lui s'impazientisce,
Quanto la cerca più, più la smarrisce.

Pur si tribbola assai quella meschina,
Che fra la gente sta smarrita, e sola;
Va sguercianno qua e là la poverina,
E non s'arrischia a proferì parola.
Smorta, com'una rapa, si tapina,
Poi fatta rascia, com'una brasciola,
Chiama il marito a nome, e il chiama invano
Che lo portò la calca assai lontano.

Come attorno alla trippa il gatto sgnavola,
Che sta a un ciodo attaccata, e lui discosto,
Come fanno le mosche in su una tavola
Dove zuccaro, o mele fu riposto,
Come i moschini attorniano la cavola
D'un caratel, che pieno sia di mosto;
Così del caso accortosi, furòne
Gira intorno a costei più d'un moscone.

PATACCA lì vicino attento stava,
Sol pe' vede, se quanno si fornìva
Laùt el foco, e perchè assai durava,
Ce pativa aspettanno, ce pativa.
Subbito che 'sta festa si spicciava,
Dell'altre alla comparza si veniva:
Di mette in mostra quel, che lui teneva
Di già ammannito, l'hora non vedeva.

Bisbiglià sente intanto i formicotti,
Ch'attorno a Tolla favano spasseggio,
E dal foco d'amor già mezzi cotti,
Di quella tutti annavano al corteggio;
S'accosta, e la pastura a tanti jotti
Penza levà, che non pò havè per peggio,
Che quanno se n'accorge, o che gl'è detto,
Che si perda alle femmine il rispetto.

Domanda con creanza, se ch'è stato,
Subitamente fu riconosciuto,
E ciamato pe' nome, e salutato,
E ci hebbe da vantaggio il benvenuto;
Di Tolla il caso gli fu raccontato
Da uno di coloro, il più saputo.
Lui s'accosta, la guarda, e queto queto
Si tira con modestia un passo arreto.

Ma lei, che spesse volte haveva inteso
PATACCA mentovà da su' marito,
E lodà molto, e sempre l'havea creso,
Com'era appunto, un giovane compito,
Vedenno che di lei penzier s'è preso,
E che non solo, non è gnente ardito,
Ma savio, rispettoso, et onorato,
Consolatasi un pò, ripiglia fiato.

Gli chiede in grazia, ch'a cerca glie vada
El su' marito Titta scarpellino,
Che starà tra la folla in quella strada,
Perchè perzo se l'era lì vicino;
Che l'havrìa cognosciuto ad una spada,
Che haveva alla turchesca, a un barettino
Da marinaro e camisciola gialla,
A un mazzo di fettuccie in su 'na spalla.

"Non accurre vogliate affatigarvi,
- Disse allor MEO, - nel darmi i contrasegni,
Ch'io lo cognosco, e pozzo assicurarvi,
Che bisogno non c'è, che me s'insegni;
Ma non è cosa sola qui lasciarvi,
Vostrodine pe' tanto, non si sdegni
Di venir via con me, che non conviene
De fa' più qui 'sta fiera, e non sta bene.

Non voglio propio che restiate sola,
Ma da una ciospa, ch'è de garbo assai,
Che ha qui vicina la su' rampazzola
Ve menerò pe' favvi uscì de guai.
Starete da 'sta bona donnicciola,
Che col penziero già ricapezzai,
Fin che quà torno, e de trovà m'ingegno
Vostro marito, e a lui vi riconsegno".

Sentì la donna, e un bel pezzetto, incerta,
Considera penzosa i fatti suoi;
Ma riflettenno a sì cortese offerta
Disse: "Farò, quel che volete voi".
'Sta bona volontà lui, clia scuperta,
Dice alla gente: "Ogn'un si scanzi. A noi!
Cos'è 'sta buglia? Tutti si slargorno,
Tolla e PATACCA liberi passorno".

C'è talhora un astuto bottegaro,
Ch'in tel cuccà la gente, ce se spassa;
Aggiusta chalche sorte di denaro
In strada, dove il popolo più passa;
Ecco truppa di gonzi, tutti a un paro,
A coglier la moneta ogn'un s'abbassa;
Ma il bottegar, ch'è tristo, e stà alla mira,
Perch'a un filo è legata, a sè la tira.

Ciascun di quei marmotti si stordisce,
E resta for di sé, se all'improviso
La moneta dall'occhi gli sparisce,
E l'un coll'altro allor si guarda in viso.
Così ogn'un de i cascanti ammutolisce,
Nè più fa 'l Ganimedo, nè il Narciso,
Ma resta come un tonto, allor che vede
Sparir la bella donna, e appena il crede,

Serve a costei de bravo, e glie fa scorta
PATACCA, che scarpina con la Gnora,
Và dov'abbita Tutia, e giù alla porta
La fa venì fischiandoglie de fora.
Lei gnente si trattiè, ch'assai gl'importa
A PATACCA ubbidir; lui dice allora:
"Vi consegno 'sta giovane, tenete,
Et il perchè, da lei lo saperete".

Tolla glie lassa, e quella su la mena,
E qui succede un caso assai gustoso,
Perchè sopra c'è Nuccia, c'ha gran pena
Pe' li suspetti del su' cor geloso;
Era venuta lì con Tutia a cena,
Per annar poi pel giro luminoso
Delle pubriche strade, or queste, or quelle
A vedè feste, et altre cose belle.

Un altro caso pur a MEO successe,
E di questo di Tolla, assai più brutto,
E poco ce mancò, che non facesse
Steso sbiascì lo scarpellin frabutto,
Com'il garbuglio poi, principio havesse
Lo dirò adesso, raccontanno il tutto;
E se il foco a Castello è già mancato,
Più di quello non parlo, e piglio fiato.

Fine dell'Ottavo Canto.

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