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Messaggi di Giugno 2016

Il Trecentonovelle 90-92

Post n°2915 pubblicato il 22 Giugno 2016 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XC

Un calzolaio da San Ginegio tratta di tòrre la terra a messer Ridolfo da Camerino, al quale essendo venuto agli orecchi, con belle parole lo fa ricredente del suo errore, e perdonagli.

Ancora mi conviene tornare a una delle novelle di messer Ridolfo da Camerino, la quale sta in questa forma. Uno calzolaio della terra di San Ginegio, la qual tenea il detto messer Ridolfo, fu una volta sì presuntuoso che cominciò a parlare e a trattare per via di stato contro al detto messer Ridolfo; di che gli venne agli orecchi. Essendo il detto messer Ridolfo nella detta terra, e saputo che ebbe il convenente del fatto, non corse a furia, come molti stolti fanno; e non volle che queste cose paressino, se non come da calzolaio. E ancora non volendo mostrare viltà, ma più tosto magnanimità, mostrò d'andare a sollazzo per la terra; e andando dove questo calzolaio stava con la sua stazzone, e messer Ridolfo si ferma e dice:
- Perché fa' tu quest'arte? - E quelli dice: - Signor mio, per poter vivere - . E messer Ridolfo dice: - Non ci puoi vivere con essa, non è tua arte e non è tuo mestiero, e non la sai fare -; e toglie le forme e falle portar via.

Il calzolaio poté assai dire, che non si trovasse senza le forme; e non sapendo che si fare, e non potendo pensare quello che questo volesse dire, se ne va più volte a messer Ridolfo a richiedere le sue forme. Alla per fine v'andò una volta, e trovò messer Ridolfo con una brigata di valentri uomini; e avvisandosi, se chiedesse le forme dinanzi a tanti, gli verrebbe meglio fatto di riaverle, considerando il detto messer Ridolfo per vergogna più tosto gliene rendesse; e fattosi innanzi, in presenza di tutti dice:
- Signor mio, io vi priego mi rendiate le mia forme, ché io non posso lavorare, né far l'arte mia.

E messer Ridolfo guarda costui, e dice:
- Io ci t'ho detto, che non è l'arte tua di cucire ciabatte e fare calzari.

E 'l calzolaio disse:
- O se questa non è l'arte mia, che sempre ce l'ho fatta qual è la mia?

Disse messer Ridolfo:
- Ben ci hai domandato; l'arte tua è di stare per questo bello palazzo, e darti alle cose più alte; e io voglio tener quelle forme, per imprender di cucire, e di fare le scarpe e' calzari, se mi bisognassi.

Questo calzolaio, continuando le sue domande, e messer Ridolfo facendo risposte strane e chiuse, e gli omeni che qui erano pareano come smemorati a udire il calzolaio domandare le forme e le risposte che 'l signor facea. Stati per alquanto spazio, e messer Ridolfo dice:

- Questo ciabattino che voi vedete qui, ha trattato di tormi la signoria; e io, sappiendo ciò, e veggendo che l'animo suo de' esser grandissimo, e non da tirare li cuoi con li denti, ma più tosto da esser signore in questi palazzi, gli ho tolto le forme, però che, se cerca questo mestiero e parli che questo debba essere il suo, di quello non ha a fare alcuna cosa, però che non è suo mestiere, ma è molto vile e basso al suo grand'animo.

Questo calzolaio si scusava, e cominciorongli a tremare li pippioni: e messer Ridolfo dice:
- Nella tua mal'ora, non ti pure scusare, ch'io so ogni cosa, e voglioti condannare in presenza di costoro -; e disse a uno che andasse per le forme.

Quando il calzolaio udì questo, s'avvisò che con le dette forme il dovesse fare uccidere. Giunte le forme, dice messer Ridolfo:
- Dappoi che ci hai detto innanzi a costoro che questo è il tuo mestiero, e io ti voglio credere, e rendoti le forme; ma lascia stare il mio mestiero che non è da te, né da tuo pari, e torna a tagliare e a cucire le scarpe nella tua mal'ora; e va' e fammi lo peggio che puoi.

Al calzolaio cominciò a tornare lo spirito; e disse:
- Signor mio, - inginocchiandosi, - io prego Dio che vi dia lunga e buona vita; e della grazia che mi avete fatta vi dia quel merito che alla vostra virtù e alla vostra misericordia si richiede. Io per me non sono da tanto che mai ve lo potesse meritare; ma bene siate certo d'una cosa che l'animo mio, e ciò che io posso, è tutto dato a voi.

E così si partì in quell'ora, che mai non pensò, né in detto né in fatto, se non ad esaltazione del suo signore. E 'l detto messer Ridolfo per questo ne divenne al suo populo sì amato che tutti parve che con un fervente amore ad ogni suo bisogno.

Oh quanto egli è da commendare uno signore quando per uno vile uomo gli è fatto simile offensa, che egli se ne curi come curò costui, mostrando la sua magnanimità e l'animo liberale, il quale il fa grande e montare fino alle stelle, per aver annullate e fatto poca stima di quelle cose le quali molti vili fanno maggiori, temendo che ogni mosca non gli offenda.


NOVELLA XCI

Minonna Brunelleschi, essendo cieco, di notte guida altrui ad imbolare pesche; e alcun altro furto per lui piacevolmente fatto.

Minonna Brunelleschi da Firenze fu ne' miei dì, e fu cieco, come che in molte cose passava gli alluminati, per tale che niuno suo vicino era che, se aveva a mettere cannella in botte di vino, non mandasse per lo Minonna che la mettesse; e io più volte il vidi che mai non versava gocciola di vino, giucava a zara e andava solo sanza niuna guida. Avea costui un suo luogo alle Panche, e avea per vicino un Giovanni Manfredi, vocato Giogo. Avea appostato il Minonna nella vigna di questo Giogo certi peschi carichi di bonissime pesche; e una sera di notte ebbe due compagni, e disse:
- Volete voi venire meco in tal luogo per le pesche?

Dissono costoro, ch'erano capitati a casa sua, ed erano fiorentini:
- O noi non sappiamo il luogo noi.

Dice il Minonna:
- Non ve ne caglia; verrete, come io vi guiderò, e recate questo sacco.

Costoro due guardano l'un l'altro, dicendo:
- Questa è ben gran cosa, che gli alluminati sogliono guidar e' ciechi, e questo cieco vuol guidare gli alluminati.

Infiammorono via più d'andare, e dissono:
- Andiamo, per vedere tanto nuova cosa.

Andorono, e troppo bene di campo in campo il Minonna gli ebbe guidati; e giugnendo per entrare nella vigna, dov'erano li peschi, questa era molto bene affossata, e con buona siepe. Dice il Minonna:
- Lasciate andare me innanzi; venite in quaggiù, ché ci dee essere una cotale callaietta nascosa -; e coloro dietro.

Quando fu alla callaia, dice il Minonna:
- Or passate qui, e tenete da man ritta, e vedrete i peschi.

Costoro così fanno, e così truovono ciò che dice; e 'l Minonna con tutto ciò fu a' peschi quand'eglino; e coglievane egli per amendue loro: in fine egli empierono 'l sacco; e 'l Minonna volea che gliel mettessono in collo. Costoro non vollono, e pigliono questo sacco il meglio che possono, e tornansi a casa e vannosi a letto.

La mattina il Minonna ed ellino se ne vanno a Firenze, e questi due non potendosi tenere che la detta novella non divolgassino, pervenne la detta cosa agli orecchi di Giovanni Manfredi. Non potendosi il detto dar pace, sanza dir alcuna cosa, la seguente notte se ne va con alcuno nell'orto del Minonna, e tagliato molti belli cavoli che v'erano, e colti quelli frutti che poté portare, e fare danno, fece.

Arriva la novella al Minonna, e subito si pensa essere stato Giovanni Manfredi; e comincia a soffiare che parea un porco fedito, con un naso sgrignuto e con un leggìo di drieto per ispalle, che parea un dalfino quando sopra il mare si getta soffiando a indovinare tempesta. Subito si mette la via fra gambe, e caccia il capo innanzi con la foggia, come andava, per andare alle Panche; e passando con questo impeto dalla bottega di Caperozzolo, di fuori nella via era uno bariglione su uno desco con non so che cose da fare o lattovari o savori in molle, e davvi sì fatta entro che 'l bariglione e 'l desco, con ciò che v'era, andò per terra; e va pur oltre a suo cammino. Caperozzolo, o suo lavoratore, che pestava dentro, vedendo questo, esce fuori e guata dietro al Minonna, gridando:
- Morto sie tu a ghiado, o non vedi tu lume? che perdere postù gli occhi.

Il Minonna fece vista di non udire, e va pur via, e giugne alle Panche, ed entra nell'orto, e va tastando li cavoli con ciò che v'è, dolendosi forte, e massimamente de' cavoli de' quali spesso mangiava gran minestre; e stette alcun dì, mostrando non sapere chi ciò gli avesse fatto. Alla per fine pensò che la cosa non rimanesse qui. Una sera ebbe due contadini, e pregolli fussino con lui, e così fu; ché venuta la notte, con due sacca e con coltellini andorono all'orto di Giovanni Manfredi, dove era un campo d'agli di smisurata bellezza, e de' quali il detto Giovanni sempre ragionava, e questi agli divegliendo a uno a uno, tagliarono li capi e mettevano ne' sacchi, e 'l gambo rificcavono nella terra, e così tutti gli ebbono divelti e portati i capi e lasciati i gambi nel luogo loro.

Da ivi a due dì, essendo e Giovanni e Minonna al Trebbio, dove usavono, il Minonna si dolea de' cavoli suoi. Dice Giovanni Manfredi:
- Io vorrei che mi fussino stati innanzi tolti gli agli miei, che si guastassino come pare che si guastino.

Dice il Minonna:
- Come? egli erano così belli.

E quelli dice:
- E' sono tutti appassati da ieri in qua.

Dice il Minonna:
- Saranno forse bruciolati.

Costui se ne va, e comprende troppo bene che 'l Minonna abbia fatto qualche cosa; ed entrato nell'orto, tira uno aglio, tirane due, e' poté assai tirare che trovasse il capo a niuno. Subito immaginò quel che era; e l'altro dì, essendo al Trebbio, non si poté tenere il Giogo che non dicesse:
- Minonna, almeno ne avestù lasciato qualche uno.

Disse il Minonna:
- Ha' tu il farnetico?

Disse il Giogo:
- Io l'ho bene, quando tu m'hai tolto gli agli miei.

Dice il Minonna:
- Di' tu de' cavoli miei? mandastegli tu a vendere alla Ciacca?

- Che Ciacca, che sia mort'a ghiado?

- Anzi sia tu.

- Anzi tu -; e vanno l'un contro all'altro per darsi.

Aveano centocinquant'anni tra amendue, e uno era cieco, e l'altro avea gli occhi arrovesciati che pareano foderati di scarlatto. La gente fu su, feciono fare la pace; al Minonna rimasono gli agli, al Giogo i cavoli e mai non si vollono bene, e sempre borbottavano niuno per ammendarsi, aveano i piè nella fossa, e imbolavano agli e cavoli: averebbono ben tolto altro, perché cane che lecchi cenere non gli fidar farina.


NOVELLA XCII

Soccebonel di Frioli, andando a comprare panno da uno ritagliatore, credendolo avere ingannato nella misura, e 'l ritagliatore ha ingannato lui grossamente.

Fu in Frioli nel castello di Spilinbergo già uno ritagliatore fiorentino; e andando uno friolano, che avea nome Soccebonel, a comprare panno, cominciò a domandare del panno di qualche bel colore, però che volea fare una cioppa da barons. Lo ritagliatore dice:

- Vuo' tu celestrino?
- No.
- Vuogli verde?
- No.
- Vuogli sbiadato?
- No.
- Vuogli cagnazzo?
- No.
- Vuogli una cappa di cielo?
- Sì, sì, sì.

Avvisossi al nome, che vi fosse il sole e la luna, e le stelle, e forse gran parte del Paradiso. Fatto venire questo cappa di cielo, furono in concordia del pregio per quattro canne. Il ritagliatore truova la canna, e dice a Soccebonel:
- Piglia costì, e comincia a metter su la canna.

Il friolano metteva, e tirava il panno più su che la canna, quando uno sommesso, e quando più, e stavasi tanto attento che ad altro non guatava. Il fiorentino, che nel principio subito se ne fu avveduto, quando mettea il panno su la canna lasciava mezzo braccio della canna a drieto, e quando più, sì che ogni quattro braccia tornavano al buon uomo forse tre e mezzo. Misurate le quattro canne, e pagato, il friolano se ne fa portare il panno; e perché lo 'nganno s'occultasse, dice il venditore:
- Vuo' tu far bene? attuffalo in una bigoncia d'acqua e lascialo stare tutta notte, sì che bea bene, e vedrai poi panno ch'el fa.

Costui così fece; e la mattina lo scola alquanto dall'acqua, e mandalo al cimatore, che l'asciughi nella soppressa e che lo cimi. Cimato il panno, e Soccebonel va per esso, e dice:
- Che de' tu avere?

Dice el cimatore:
- E' mi par nove braccia; da' nove soldi.

Dice costui:
- Come nove braccia? oimè! che di' tu?

Il cimatore il truova, e dice:
- Vedilo, misuralo tu.

Rimisuralo, e non lo truova più; e dice:
- Per lo corpo della madre di Jesu Cristo, che mi serà stato furato.

E va al ritagliatore, e va di qua, e va di là; l'uno gli dicea:
- Questi panni fiorentini non tornano nulla all'acqua.

E il ritagliatore dicea:
- Guarda dov'egli stette la notte che 'l mettesti in molle, che chi che sia non l'avesse imbolato.

Un altro dicea:
- Questi cimatori sono tutti ladri.

E un compagno del ritagliatore, che forse sapea il fatto, dicea:
- Vuo' ti dica il vero, gentiluomo? Ché non è molto che io udi' dire che uno levò un braccio di panno fiorentino, e la sera l'attuffò, come tu facesti questo, in uno bigonciuolo d'acqua, e lasciovvelo stare tutta notte, la mattina quando andava per trarlo dell'acqua, egli lo trovò tanto rientrato che non vi trovò nulla.

Dice Soccebonel:
- Au, può esser cest?

E que' rispose:
- Sì, può esser canestre.

Or così costui credendo ingannare, rimase ingannato, e fu per impazzarne; e la cappa di cielo tornò che non arebbe coperto un ciel d'un piccol forno; e la cappa da barons si convertì in un mantellino, che parea un saltamindosso. E così avviene spesse volte che tanto sa altri quant'altri.

 
 
 

Ar teatro Costanzi

Foto di valerio.sampieri

La Satira popolare Romanesca. Sonetti di A. Giaquinto è un'opera pubblicata da E. Perino Editore nel 1894. L'opera fu pubblicata in fascicoli, contenenti ciascuno 16 sonetti in dialetto romanesco, ed era prevista l'uscita di 40 dispense, al costo di 5 centesimi l'una, da suddividere in 4 volumi, come recita l'ultima di copertina. Giulio Vaccaro afferma che l'opera era suddivisa in tre volumi di complessive 384 pagine; ipotizzo, ma non dispongo di concreti elementi per affermarlo con certezza, che il quarti volume fosse dedicato ai sonetti in dialetto "cispatano".

Ar teatro Costanzi

(Tra ddu' paini che stanno a vvede' er ballo)

- Varda che esposizzione de presciutti
Da fà peccà millanta Sant'Antoni!
Nun vedi, certi, ssi che presciuttoni!
- Davvero propio sà che nun sò bbrutti.

E llì Pietruccio mio come te bbutti
Nun pôi sbajà, perche so' tutti bboni,
O freschi, o sfumicati, o fallaccioni
Siconno me sso' saporiti tutti.

- In que' la ciccia llì nun c'è trichina!
- Ma cchi lo sa? A le vorte sta intanata;
Che cce capischi drento a la porcina?

E ssi vedrai che quanno l'hanno presa
Te pensi che nun l'àbbino assaggiata
A l'ufficio d'iggiene ... de l'impresa!

Adolfo Giaquinto
Novembre 1893
Da: La Satira popolare Romanesca, ecc., E. Perino Editore, 1894, Dispensa 7, pag. 97

 
 
 

Er beccamorto

"L'assistenza ai moribondi e il seppellimento dei morti.
Nei secoli passati, in Roma, le numerose confraternite che raggruppavano gli esercenti lo stesso mestiere, avevano dalle disposizioni del regolamento, l'assistenza scrupolosa agl'infermi e la sepoltura dei defunti. Questi vincoli umanitari vennero ad affievolirsi, con l'affacciarsi dei tempi moderni, più inclini all'individualizzazione, in maniera tale che l'assistenza e il seppellimento dei morti viene fatto da persone stipendiate.
Già ai tempi del Belli questi aspetti negativi apparivano evidenti: i due sonetti sui beccamorti, che qui riportiamo, indicano come costoro desideravano vivere sulla pelle degli altri ...
I due sonetti del Belli, che qui riportiamo sul mestiere, se così vogliamo chiamarlo, del beccamorto, sono di una freschezza e vivacità che manifestano come il poeta sapeva cogliere, dal vivo, degli avvenimenti [sic] ...
N.B. Nel 1817 vi fu in Roma un'epidemia da tifo petecchiale che fece una vera strage; nel 1836 si ripetèuna forte mortalità."
Brano tratto da: "Vecchi mestieri romani. Origine del nome delle vie e le caratteristiche poesie di G. Belli e curiosità varie. L'E.D.I. - Roma - Centro Studi Storia Locale Roma e Lazio, 1965 (?), pagg. 36-38. Il volumetto è il V numero della serie di una pubblicazione mensile, inizialmente curata da Umberto Maraldi e successivamente dalla storica Libreria di Remo Croce. Per quel che ne so, furono almeno dieci i titoli della Collana "Roma de 'na vorta".

Er beccamorto

Tu ccapischi cor culo, abbi pascenza:
nun dico questo, ch’averebbe torto.
Bell’e bbono è er mestier der beccamorto
quanno Iddio vò mmannà la providenza.

Io dico, e sto discorzo è una sentenza,
che cquanno er tempo de l’istate è scorto,
sò spicciati (1) li cavoli pell’orto, (2)
e ssi (3) ppoi vôi maggnà mmagni a ccredenza.

Sta Roma è un paesaccio mmaledetto
dove l’inverno nun ce more un cane,
e tte se tarla puro er cataletto.

Oh vvedi pe abbuscà un boccon de pane
quanto s’ha da pregà Ddio bbenedetto
perché illumini medichi e mmammane!

Note:
1 Finiti.
2 Cioè: «è finita la raccolta, è finito il guadagno».
3 Se.

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 23 novembre 1831 - Der medemo
(Sonetto 261)


Li bbeccamorti

E cc’affari vòi fà? ggnisuno more:
sto po’ d’aria cattiva è ggià ffinita:
tutti attaccati a sta mazzata vita...
Oh vva’ a ffà er beccamorto con amore!

Povera cortra (1) mia! sta llí ammuffita.
E ssi (2) vva de sto passo, e cqua er Ziggnore
nun allúmina un po’ cquarche ddottore,
la profession der beccamorto è ita.

L’annata bbona fu in ner disciassette. (3)
Allora sí, in sta piazza, era un ber vive, (4)
ché li morti fioccaveno a ccarrette.

Bbasta...; chi ssa! Mmatteo disse jjerzera
c’un beccamorto amico suo je (5) scrive
che cc’è cquarche speranza in sto Collèra.

Note:
1 Coltre.
2 E se.
3 Nel 1817, anno del tifo petecchiale.
4 Era un bel vivere.
5 Gli.

Giuseppe Gioachino Belli
18 marzo 1834
(Sonetto 1115)

Note: [Morandi] (vol. 3, pag. 197)
Mazzata: Ammazzata: maledetta.
Cortra: Coltre mortuaria.
In sto Collèra: In questo colera che dal 1823 in poi aveva flagellato ora l' una o l' altra parte d' Europa, e nel 37 invase davvero anche Roma. - Cfr. il sonetto; L' incontro ecc., 21 genn. 43.

Note [Teodonio]
1 E che affari vuoi fare? nessuno muore. - 3 mazzata: ammazzata (maledetta). - 7 allùmina: illumina. - 8. è ita: se ne è andata (è bell'e finita). - 14 Collèra: colera.

Note [VS]:
Il sonetto è riportato anche in "Nun sai c'a lo spedale ce se more?" (Newton Compton, 1994, pag. 12), Marcello Teodonio scrive: "Tutto il sonetto si articola su un ragionamento apparentemente paradossale. Per il beccamorto la morte è un affare; e siccome era da un po' che non "fioccaveno" le epidemie (come Belli stesso scrive in una nota che rivela ancora una volta il suo scrupolo documentario) per lui diventa fondamentale l'aiuto di quello che lui ritiene il suo naturale alleato: il medico. Tutto dunque, il bene e il male, è relativo e questa scoperta parte dallo spirito di negazione di ciò che è convenzionalmente ammesso: "su questa inerzia del pensiero, del luogo comune", scrive Giorgio Vigolo, "il Belli fa sprizzare la scintilla della contraddizione, del dubbio, della negatività in generale come principio attivo della coscienza"."
Il sonetto è riportato anche da Pietro Gibellini, in "Sonetti erotici e meditativi", Adelphi, 2012, Sonetto 143, pag. 292, ma senza note proprie (tranne quella al verso 8: ita = andata).
N.B.: ho già pubblicato questo sonetto, senza note, nel post 1395.

 
 
 

Lo sciopro de le sigherare

Lo sciopro de le sigherare (1)

A chi, a chi? a noi certe storture?
che semo diventate noi romane;
semo, pe crilla (2), fije de puttane
boja, come 'st'impiastri de buzzure? (3)

A loro tutto, si tutte le cure,
e a noi? forsi perché ciamanca er pane?
Domani qui nun ce s'accosta un cane,
nun ce venimo più: semo figure! (4)

Piuttosto a fà cicoria co' li denti
ch'a fasse mette' i piedi su la panza
da 'sti mor'ammazzati de parenti (5).

Passa via! su ragazze, aria a li tacchi (6)
si ciànno da trattà co' sta ' roganza (7)
damo in der culo a loro e a li tabachi.

Giggi Zanazzo
11 agosto 1880
Da: Vox populi.

Note:
1 Lo sciopero delle sigheraie, sigaraie (operaie che fabbricano sigari). - 2 Eufemismo, "per Cristo" - 3 Buzzure, buzzurre, eran chiamate a Roma le donne del Nord. - 4 Ne siamo capaci. - 5 Ossia dagli Italiani venuti a Roma dopo il Settanta, che altrove il popolano chiamava "fratelli". - 6 Modo di dire per "andiamocene". - 7 Arroganza.

 
 
 

La preghiera de 'na madre

La preghiera de 'na madre
(Miseria e dolore)

«Madonna mia, Madonna benedetta,
Voi che fate le grazzie in tutte l'ore,
Fateme guarì bene 'sta pupetta
Nun me fate più vive ner dolore!»

Ma che peccati à fatto 'sta fijetta
Che sta male ogni tanto?... Pòro amore!
Ogni vorta che tossi, sento ar core
Come che me ce dassero 'na stretta!

«Madonna mia, su 'sto monnaccio infame
Lotto co' la miseria e co' la fame!
Nun ciò gnisuno che me dà un conforto!

E mi' marito, poveretto, è morto
L'antr'anno sur lavoro!.... E mo' 'sta fìa
Me s'è ammalata e io me so' avvelita!

Levàtejela voi 'sta malatìa,
E doppo, appena che sarà guarita.
Fate che mòra io, Madonna mia! »

Antonio Camilli
Roma, 1904
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 52

 
 
 

Te lo dicevo!

Post n°2910 pubblicato il 20 Giugno 2016 da valerio.sampieri
 

XXXII.

Te lo dicevo!

Vedi si (1) che vò dì nun dàmme retta,
Nun volé fà quer che te dico io?
Puro (2) tu' madre, fija benedetta,
Te s' ariccommannava, e lo sa Dio!

Che te dicevo? «Bàdece, (3) Nenetta: (4)
Quello nun è pe' te, fa' a modo mio,
Lui te canzona, tu' se' poveretta.
Sur più bello te pianta, e allora addio!»

Embè? Doppo ch'ha fatto er piacer suo,
T' ha piantato davéro, e che j' importa
A sto vassallo (5) mo der male tuo?

Tutti accusi, je piji 'n accidente
A st' ominacci! Pur a me 'na vorta....
- Pur a voi, mammamia? diteme.... - Ah, gnente!

Note:
1 Se. - 2 Pure, eppure. - 3 Badaci, bada. - 4 Da Maddalena formano Nèna, Nenetta, Nenaccia. - 5 Birichino, becero.

Luigi Ferretti.
Centoventi sonetti in dialetto romanesco, Firenze, G. Barbèra, Editore, 1879, pag. 80

 
 
 

Notte di luna calante

Post n°2909 pubblicato il 19 Giugno 2016 da valerio.sampieri
 

Non sono mai stato un fan di Modugno, ma questa canzone mi è rimasta impressa, anche se avevo soltanto nove anni.

Domenico Modugno - Notte di luna calante (1960)

Oh, oh oh oh,
Oh, oh oh oh,
Oh,oh oh oh,
Oh, oh oh oh,
che profumo di mare.
Oh, oh oh oh,
piove argento dal cielo.
Notte di luna calante,
notte d'amore con te.
Lungo le spiagge deserte
a piedi nudi con me.
Notte di luna d'estate,
ultima notte d'amor.
Quando col vento
l'autunno ritornerà,
nulla di noi resterà.
Oh, oh oh oh,
Oh,oh oh oh,
Oh, oh oh oh,
Oh,oh oh oh,
che profumo di mare.
Lungo le spiagge deserte
a piedi nudi con me.
Notte di luna d'estate,
ultima notte d'amor.
Quando col vento
l'autunno ritornerà,
nulla di noi resterà.
Oh, oh oh oh,
che profumo di mare.
Oh, oh oh oh,
piove argento dal cielo.
Oh, oh oh oh,
oh oh oh,

 
 
 

I tempi beati

I tempi beati

Viva la faccia delli tempi antichi
Ch'erìmo, se po dì, tutti fratelli ...
La panza se teneva pe li fichi,
Annamio alla rivista coll'ombrelli.

S'aridunamio in otto o nove amichi,
Er vino lo bevemio a caratelli; (1)
Er fucile ... ma che pe li nemichi! ..
Nun l'adopramio manco pe l'ucelli.

Basta a dì dar trentuno ar quarantotto
Diciassett'anni sani de servizio
Io nun ho mai sparato che sia un botto.

Ma alora è incuminciato er precipizio
Finì la pacchia (2) e dovei fa fagotto;
Per me ... viva li preti e er Sant'Uffizio.

Note:
1. A botti
2. Cuccagna.

Augusto Marini
1870
Da: Cento sonetti in vernacolo romanesco, Perino 1877, pag. 27

 
 
 

La purce

Post n°2907 pubblicato il 19 Giugno 2016 da valerio.sampieri
 

La purce

Una Purce sbafatora,
che ciaveva l'anemia,
pe' guarì 'sta malatia
succhiò er sangue a una Signora,
ch'a quer pizzico fu lesta
d'arzà subbito la vesta.
Dice: - Bella impertinenza
de venimme su le gamme!
Chi t'impara a pizzicamme?
Chi te dà 'sta confidenza?
Bada a te, brutta carogna,
se me capiti fra l’ogna... (1) -
Ma la Purce impertinente,
che per esse più sicura
s'era messa a fa' la cura
da la parte de ponente,
ner sentisse di' 'ste cose
fece un zompo (2) e j'arispose:
- Com'è mai che a un certo tale,
che te pizzica l'istesso
tanto forte e tanto spesso,
nun je strilli tale e quale?
Puro quello, a modo suo,
nun te succhia er sangue tuo?
Sai perché? Perché a 'sto monno,
speciarmente a le signore,
j'aritintica (3) l'onore
solamente co' chi vònno... -
La Madama, a sentì questa,
calò subbito la vesta.

Note:
1 Le unghie.
2 Un salto.
3 Gli si risveglia. Propriamente: fa di nuovo il solletico

Trilussa

 
 
 

Primavera

Post n°2906 pubblicato il 18 Giugno 2016 da valerio.sampieri
 

Primavera
A Nino Ilari

I.

Guarda si quant'è bella Primavera! ...
L'arba apparisce piena de sprennore,
Se sente 'na dorcezza drent' ar core
E l'aria è più gentile e più leggera.

La rondinella co' la caponera
Fanno allegria su tra le piante in fiore ...
Indove guardi è bello, è vita è amore ...
Pare che er paradiso è sceso in tera!

Guarda que' la rosetta appena nata!
Pare che chieda un bacio ar firmamento
Tramezzo a st'aria dorce e sprofumata?...

Ecco che spunta er sole; che allegria
Che fanno l'uccelletti!... I' sto momento
Tutto parla d'amore e poesia!

II.

M a'mmezzo a tutta quanta 'sta bellezza
Ce stanno tanti e tanti disgrazziati
Che soffreno dar giorno che so' nati
Senza avè mai un sorriso e 'na carezza,

Loro non sanno che vordì dorcezza,
Come presempio tanti carcerati
Che nun ce ponno avè la contentezza
D'arimirà 'sti fiori sprofumati!

Er ceco nun po' vede mai 'sto sole
E 'sto ber cielo tutto turchinello!
Pe' lui nun ce so' fiori e né viole.

E tra 'st' incanto, io innarzo 'na preghiera
Pe' l'omo disgrazziato e poverello
Che nun je ride mai la Primavera!

Antonio Camilli
Roma, 1904
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 53, 54

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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