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Messaggi di Luglio 2016

Allumà

Post n°2997 pubblicato il 27 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

ALLUMÀ
[Bernoni]: È usato per "vedere", "scorgere", "osservare", "adocchiare". È molto probabile che allumà rappresenti la forma romanesca di allumare (cioè, "illuminare", "accendere") presente nei versi di Dante ("Quando colui che tutto il mondo alluma") e del Tasso ("Quei pochi a cui la mente il vero alluma"). Il verbo, comunque, deve essersi modellato su allumer della lingua francese. Circa il diverso significato di allumà e di allumare va presa in seria considerazione una utilizzazione gergale del verbo tra i Sette Colli; altrimenti, si deve parlare di "accezione" già prodotta sul poetico allumare della lingua italiana.
Giuseppe Berneri: ... Son le vasche maiuscole [grandi assai], ma tonno / non hanno el giro, perché son'ovate [ovali], / e sopra l'orlo poi, di tratto in tratto, / ce s'alluma [ci si vede] un cantone assai ben fatto ... ("Meo Patacca", III, 12).
G. G. Belli: ... Ma a mé! 'gni vorta che tu bussi, io striscio,/ e un po' un po' che ciallumo [ci adocchio; ci scopro] de ciafrujo [pasticcio; imbroglio], / passo, nun m'arimovo, e vado liscio. ("A Menica-zozza").
[Chiappini]: volg. Adocchiare. Fra quele ciriole n'ò allumata una che ppesava 'na libbra. - Nei paesi vicini a Roma si adopera per Accendere: Caterina, alluma la lucerna.
[Vaccaro Ge., Bell.]: ALLUMÀ. (dal lat. volg. Adluminare, attrav. Franc. Allumer) v.t. Allumare: scorgere, scoprire col lume degli occhi. Adocchiare.
"Ma a me! 'gni vorta che ttu bbussi, io striscio, / e un po' un po' che ciallumo de sciafrujjo, / passo, nun m'arimovo, e vvado liscio." (Belli, T1-0106, A Menica-Zozza; S-0107)
"Perch'io t'allumo ccqui sta bbagattella / de patume all'usanza de paggnotta." (Belli, T1-0168; Er pane casareccio; S-0173)
"Jerzera arfine, fascenno lunari, / manco si avessi li piedi indovini, / passo davanti ar caffè de crapettari / e tte l'allúmo llí ttra ddu' paìni." (Belli, T2-1658, Li salari arretrati; S-1655)
[Ravaro]: Adocchiare, scorgere, osservare di nascosto; illuminare, accendere. Dal. Lat. Volg. Alluminare.
Bernini: Alluma un po' chi so coloro || Peresio: E Renzo pure hor co' i ricordi alluma || Berneri: Poi la lanterna alluma et io non erro || Micheli: Rebeve bigna … giacché allumo in terra !! Belli: E tte l'allúmo llí ttra ddu' paìni || Dell'Arco: Allumato er filaro che je garba || Roberti: De guardà er sole, d'allumà lontano.
[Vaccaro Gi, Nun c'è lingua come la romana]: Allumà'. Vedere, Scorgere. Nel romanesco letterario attestazioni in:
Bernini, Fontana di Trevi (a. I, sc. IV); Peresio, Jacaccio (c.II, o.81, ecc.; tot. 33); Berneri, Meo Patacca (c.III, o.6 e 14); Lavandare (I int.); Micheli, Libbertà (c. XI, o. 37); Povesie (43.5); Avviso straordinario; Belli, Sonetti (168.3; 1658.8).
Il termine gode di una certa fortuna ancora nel Novecento, per esempio in Dell'Arco, Ottave (Ottobrata.3) e Marzi, Gaimoni (Er cippo de la lumaria.6).
[VS]: Fazio degli Uberti, Dittamondo, V.3.24: "Vedi il Carro, che intorno al polo rota; / vedi Bootes, che guida il timone; / di cui Boetes alluma la gota. "
Giovanni Guidiccioni, Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545), 18: "Spense quel sol ch’or la celeste corte / Alluma e ’l cerchio bel di latte imbianca!"
Giovanni Guidiccioni, Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545), 30: "E sì soavemente alluma e ’ncende / L’alma, cui più non è cura molesta,"
Giovanni Guidiccioni, Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545), 37: "Fidi specchi de l’alma, occhi lucenti, / Che con dolci, amorosi e chiari lampi / M’aprite il cor perché del foco avampi / Ch’arde ed alluma le più nobil menti,"
Olimpia Malipiero, in Atanagi, Dionigi, ed., Rime di diversi nobilissimi, et eccellentissimi avtori, in morte della Signora IRENE delle Signore di Spilimbergo (Venice: Domenico & Gio. Battista Guerra, fratelli, 1561), p. 142. : "Felice Irene, che 'l superno chiostro / Allumi co ' l tuo novo alto splendore;"
Celio Magno, Rime, 129: "ben n'hai cagion: ch'in questo giorno eletto / colui ch'al sole i raggi alluma e indora, / nascendo venne a far tra noi dimora, / cangiato il ciel con vil, povero tetto.".

 
 
 

Li gnocchi a la romana

Li gnocchi a la romana

(Ricetta d'un coco cispatano)

Si tu vôje fà li gnòccole rumane
Aje da piglià duj' ette (1) de farine,
Sissanta cràmme i' burre de Milane
E sette russe (2) d'ove de calline.

Li mette tutte in une chinchiline, (3)
Perchè cusì l' allàsche (4) a mane a mane
Cu 'latte (5) fresche de li Sarrafine (6)
Pe cucenàlle al foche piane piane.

Doppe sfriddate (7) sopre na tièlle
L' arrance a mustacciole, e pô' ce mette
Lu burre, 'i pammisciane e la cannelle.

Cinche menute al forne e sonche fatte.
Questa riggetta (8) quà me la screvette
Lu coche de Marama Sciattapatte! (9)

Note:
(1) Etto. (2) Rossi. (3) Concolina. (4) Sciogli. (5) Con latte. (6) Serafini, il primo negoziante di latte in Roma. (7) Sfreddate. (8) Ricetta. (9) Chantanpat.

Adolfo Giaquinto
Marzo 1890
Da: La Satira popolare Romanesca, ecc., E. Perino Editore, 1894, Dispensa 7, pag. 107 (sonetto 104)

 
 
 

Affiarà

Post n°2995 pubblicato il 26 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

AFFIARÀ
[Bernoni]: Deriva, senza dubbio, da flagrare della lingua latina, che vale "fiammeggiare", "avvampare", "ardere". (I popolani romani hanno sempre detto e continuano a dire fiara per "fiamma" o "vampa"). C'è però da osservare che affiarà viene usato fra i Sette Colli, almeno da tre secoli, nel senso esclusivo di "assalire con la celerità propria d'una vampata"; e si deve subito avvertire che siffatto verbo risulta coniugato solo nella sua forma riflessiva affiarasse (cioè, "slanciarsi rapidissimamente come improvviso scoppio di incendio", "avventarsi").
Giuseppe Berneri ( 1634-1700): ... Non così và di pecorelle a caccia / nelle campagne un'affamata lup Butta l'ago e le forbice pe'a, / come inverzo la gente, 'st'animale, / s'affiala [sic!], e se pò farlo fà del male ... ("Meo Patacca", IX, II4).
G. G. Belli (1791-1863): ... Che vòi! appena fu arrivato sù, / je s' affiarò a la vita, e for de sé / la sbramò [sbranò] senza faje dì Gesù ... ("Er lupo-manaro").
Trilussa ( 1871-1950): ... Che te ne fai dell' ale tutte d'oro / se poi l' ucelli barberi / agguattati sull' arberi / te s'affiareno addosso co' l'artiji? ("La Farfalla e l'Ape").
Nel Belli si trova il participio passato di affiarà con il significato di "avventato": ... quann' ecchete, affiarato com' un farco, / un sguizzero [svizzero] der Papa duro duro ... ("La pisciata pericolosa").
[Chiappini]: Affiarasse, Affiararse, Affiararsi. Avventarsi, Sfogarsi addosso a qualcuno.
[Vaccaro Ge., Bell.]: AFFIARASSE. (v. denom. Dall'ant. it. fiara, fiamma, deriv. Dall'adattamento del provenz. flar, lat. flagrare, con pref. d'avvicinamento.illat. ad -af-) v. intr. Pr Avventarsi addosso a qualcuno, dopo essersi adirato. Lambire come fiamma: Affiarasse com'un cane, com'una tighera.
Belli, Li nobbili: "e ppe un capello / poi te s’affiara indov’azzecca azzecca." (T2-1632, S-1630)
Belli, La mollichella a galla: "Sto sciníco de pane che ss’è mmosso / nun paro tutto io, pasciocca mia, / quanno ar vedette me t’affiaro addosso?" (T2-1848, S-1812)
[Vaccaro Ge., Tril.]: AFFIARASSE. v. sopra. Sara ch'arinacciava, 'na carzetta Butta l'ago e le forbice pe' tera E je s'affiara come 'na saetta (Zanazzo, Le pretese de 'gnor Abbramo).
Trilussa, Lupi e Agnelli, La Farfalla e l'Ape: Che te ne fai dell'a le tutte d'oro/ se poi l'ucelli barberi / agguattati sull'arberi / te s'affiareno2 addosso co' l'artiji?
Trilussa, Libro muto, In finestra: Ma appena che la sente un Gatto rosso, / ch'è l'amico der sole, arruffa er pelo, / je raschia un soffio e je s'affiara addosso.
[Ravaro] riporta la sola forma riflessiva "affiarasse": Avventarsi come una fiamma alimentata dal vento, lanciarsi contro una persona con violenza e rapidità. Deriv. Da "fiara" (fiamma).
Berneri: Presto s'affiala e resta intimorito. || Beli: Poi re s'affiara, indove azzecca azzecca || Zanazzo: E je s'affiara come una saetta || Trilussa: Je raschia un soffio e je s'affiara addosso || Fefè: S'affiara contro ... la campagna aperta || Dell'Arco: Lavoranno de gommiti, e s'affiara.
[Malizia]: Affiarasse. Verbo che dà l'immagine della fiamma alimentata e spinta dal vento; nella stessa maniera si comporta chi si getta a capofitto contro una persona per usarle violenza.
[VS]: Jandolo, Torre de la Serpentara: "Quanno sente però che lui l'abbraccica / e l'arza pe' buttalla drento ar fosso, / a l'improviso je s'affiara addosso / e, disperata, se lo strigne a sé!".
Giuliani, Via dell'Orso (Er fattaccio): "Mia, la stella de carta: / a fatica se stacca da la via; / ma come sfiora un tetto, come odora / er celo, ce s'affiara."
Trilussa, Picchiabbò, 7: "E tutti ciaveveno da fa' quarche raccomannazzione. Dice: - Per carità, nun je grattate la panza, sennò ve s'avventa! Ve s'affiara come una saetta... Me raccomanno de nun tinticallo sotto a la coda, ché ce teme. Ve potrebbe, sarvognuno, sartà all'occhi ... E' tanto dilicato ..."
Dell'Arco, Ottave, Er sacco de Roma: "Guarda er Tevere: arriva a pecorone, / lavoranno de gommiti, e s’affiara / a testa bassa incontro ar murajone:"
Torini, Rigoletto, XIII: "Poi, mentre er temporale fa rumore, / quello debbotto je s’affiara addosso / e la trafigge: er sangue schizza rosso / e Girda, zitta, appoco appoco more."

 
 
 

Er vino de Genzano

Post n°2994 pubblicato il 26 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

Er vino de Genzano

I

Come imbocca a Genzano
a la prima osteria,
a fojjetta a fojjetta brucia l' ore.
L'odore der trebbiano
è troppo forte in bocca
e se la sciacqua co la marvasia.

II

Hai stappato la boccia
e sversi er chianti, a goccia a goccia a goccia,
in un bicchiere de cristallo. Pietro,
damme er genzano in un bicchier de vetro.

III

Una ventata spalla l'Infiorata
e dar tinello de via Livia cola
colore der rubbino
una marrana: a galla
er petalo de rosa, de viola,
de garofolo
e bevo fiori e vino.

IV

Un bucale per omo
brinato da la grotta
e nun se sciupi
manco una goccia! Er gotto pieno in mano,
io t'offro l'occasione d'èsse omo.
Come sfuma l'effetto der trebbiano
tornamo (l'uno azzanna l'artro) lupi.

Mario Dell' Arco
Strenna dei Romanisti, 1968, pag. 88

 
 
 

L'unico rimedio

L'unico rimedio

Si sposti l'argomento, bona sera!
Nun c' entra qui si quello porta addosso
un abbito turchino, o nero, o rosso,
si viè da Bari, o Rieti, o Bordighiera:

Qui c'entra si la cosa è farza o vera!
È vero o no che, appena un pezzo grasso,
o dà le dimissione o viè rimosso,
finisce o drento o accanto a la galera?

E, allora, dato che nun c'è rimedio
pe' via che manca 'na vaccinazzione
contro er gratteggio, ar pezzo grosso-medio,

senz'aspettà che sia arivato in cima,
un sett'ott'anni, o più, de recrusione
nun se potrebbe già dàjeli prima?

Armando Fefè
Strenna dei Romanisti, 1968, pag. 131

 
 
 

Ceccarius

Post n°2992 pubblicato il 25 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

Ignoro il titolo della lirica qui sotto riportata, scritta da Ceccarius (Giuseppe "Peppino" Ceccarelli, nato a Roma il 26 gennaio 1889, morto 17 febbraio 1972) il 22 gennaio 1918, durante la sua prigionia.

Quanno che io ho potuto scrive a casa
me so riccommannato
perché m'avessero mannato
un po' de robba pe' sarvà la fame
pane, cacio, polenta, der salame.

E so sessanta giorni ch'ho aspettato
annanno in giro benché fussi fiacco
pe' sape' si mai fusse arrivato
er sospirato er benedetto pacco.

E l'aspettavo come regazzino
aspettavo che a notte la befana
scennesse abbasso in fonno der camino
p'attaccà li regali ar pedalino.

Ma ieri finalmente m'hanno detto
ch'er pacco era rivato, che piacere
me so sentito n'antro pell'effetto:
ormai potrò magnà! saluto er bere!

Ma quanno ho aperto er pacco ciò trovato
camicie, maje, carze, fazzoletti
fasce de lana, un pacco d'impiccetti
e corvatte e mutanne! Rovinato!

Mamma ha pensato pelli raffreddori
e m'ha sarvato contro li dolori,
e io coperto de tutta sta robba
seguito a fa diggiuno e a divorà la sbobba.

Ceccarius (Giuseppe "Peppino" Ceccarelli)
Dal suo diario, 22 gennaio 1918

 
 
 

L'omo

Post n°2991 pubblicato il 25 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

L'omo

Prima che Adamo se magnasse er pomo,
er Cane, che sapeva er dietroscena
già preparato pe' fregà er prim'omo,
pensò: - Povero Adamo, me fa pena:
giacché purtroppo j'ho da fa' l'amico,
adesso je lo dico. -
E je lo disse: - Abbada a quer che fai!
Se magni er pomo perdi l'innocenza,
diventi un birbaccione e servirai
a fa' li studi su la delinquenza;
sta' attent'a li consiji der Serpente
che te vorebbe mette ne li guai... -
Adamo chiese: - E come vôi che faccia
a conservamme l'anima innocente
se Dio me fabbricò co' la mollaccia (1)?
Eppoi, che ce guadambio (2)? Nun c'è gusto
de campà tanto senza capì gnente,
con un cervello che nun vede giusto.
Io, ne convengo, faccio una pazzia
a commette er peccato origginale:
ma er giorno che conosco er bene e er male
me formo una coscenza tutta mia.
Sarò padrone e schiavo de me stesso,
bono e cattivo, giudice e accusato
e, a l'occasione, inteliggente o fesso.

Note:
1 Fango, creta.
2 Guadagno.

Trilussa

Dalle note di Claudio Costa:
Prima edizione in volume in "Favole romanesche", 1908.
Verso 2: er dietroscena = il restroscena (ossia l'inganno del serpente);
Verso 5: j'ho da fa' l'amico = gli debbo fare l'amico. Ma "amico" nel vecchio gergo romanesco dei "birbi" significava spia (Zanazzo, Tradizioni II, p. 457) e nel contesto in esame tale accezione cade a proposito.
Verso 9: diventi un birbaccione. Fino a le Favole 1935: "diventerai bojaccia".
Versi 11-12: versi aggiunti in Le favole 1941
Verso 13: Adamo chiese era "- Si - fece Adamo" fino a "Le favole" 1935.

 
 
 

Poesie romanesche

Post n°2990 pubblicato il 24 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

Poesie romanesche
di Antonio Muñoz - Staderini Editore, Roma, 1940

Dalla "Rassegna Italiana" (agosto-settembre 1941-XIX):
"Ingegno poliedrico, cui la vasta e non mai superficiale cultura non impedisce di esercitarsi nelle discipline creative più diverse, il tutore dei monumenti e dei tesori archeologici dell'Urbe addandona, per un po', cattedra, ufficio e zona di scavo e dà libero corso ai suoi sentimenti di quirite moderno nato nel rione Ponte, con una raccolta di liriche in vernacolo, che si riallacciano, senza plagio, alla tradizione illustre dei Belli, dei Pascarella, dei Trilussa.
Il cimento è stato superato, a parere nostro, con invidiabile disinvoltura e rivela, nel nuovo poeta romanesco, una elaborazione, forse lenta, ma non faticosa, di motivi d'ogni genere, quasi mai culturali, però, scaturiti invece, dal contatto immediato della vita d'ogni giorno, popolaresca, borghese, largamente civica. E non mancano, nemmeno, le effusioni intime, o sentimentali, contenute in un decoro espressivo, che non ha nulla dell'immaginifica verbosità di certi verseggiatori dialettali, che traducono pari pari nell'idioma plebeo le loro prurigini, concepito in una sfera affatto letteraria, cioè asfissiante per ogni genuino germe di vita popolare.
Il Muñoz ha ripartito la sua materia, affidata prevalentemente alla classica forma del sonetto, in vari gruppi distinti per categorie di contenuto (Malinconie, Profili e macchiette, Amore, Paggine de storia, Cose de Roma, Cose de 'sto monno e via dicendo), ma i differenti toni elegiaco, satirico, bonariamente filosofico, scanzonato, di umorismo, senza preoccupazioni cerebrali o moralistiche si alternano, nell'uno e nell'altro gruppo di liriche, facendo comparire dovunque l'individualità completa dell'autore. Particolarmente indovinati ci sembrano il poemetto biblico "La Creazzione", il dittico "La padrona ammalata" e "Nun so' romano?".

Da "Il Messaggero" (6 ottobre 1941-XIX):
"Se Antonio Muñoz, archeologo e scrittore di cose d'arte è particolarmente caro al cuore dei romani, anche la figura del Muñoz poeta è simpatica e amabile. Egli parla ai suoi concittadini nel dialetto dei padri, nel dialetto di Giacchino [sic] Belli, e la sua musa ha molti momenti di arguzia e di felicità. Versi cordiali, sugli amici e per gli amici, senza nessuna pretesa di immortalità. A questa sua attività di poeta Antonio Muñoz dà un piglio faceto, scherzoso: ma spesso il cuore si commuove, l'anima trema in una vera illuminazione dei sentimenti, che sono sempre fini e nobili. Talvolta sono sonetti improvvisati al levare delle mense eppure essi conservano un tal quale profumo d'arguzia e di delicatezza che dimostrano come il loro autore sia, soprattutto, un uomo di cultura e di gusto. Un sonetto dedicato al Ministro Bottai, un altro dedicato al Maestro Bernardino Molinari, un altro ancora dedicato alla Contessa Amadei sono tra le composizioni in cui prevale la faceta ed affettuosa vena conviviale. Altre poesie come "L'ostessa de' Prati", "Er vecchio arzillo" e "Musica" sono vibranti d'una nostalgia quasi pinelliana: altre, infine, come "Strade deserte", "Senza la luna" e "Solitudine" sono dettate da una accoratezza nella quale le prerogative della più autentica poesia risultano immediatamente nell'incanto di chi legge e di chi ascolta".

 
 
 

L'arca de Noè

Post n°2989 pubblicato il 24 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

L'arca de Noè - Poemetto romanesco
di Antonio Muñoz - Staderini Editore, Roma, 1942

Dal "Giornale d'Italia" (28 agosto 1942-XX):
Il nuovo libro dialettale di Antonio Muñoz si intitola "L'arca de Noè, poemetto romanesco" - Staderini Editore ed è dedicato ai combattenti romani con l'augurio che possa offrire un'ora di svago a quei bravi figlioli che espongono la vita per la gloria d'Italia nel nome immortale di Roma.
Detto questo, può sembrare non ci sia altro da aggiungere. A che varrebbe una critica letteraria, dopo lo spontaneo e chiaro giudizio da parte dei lettori a cui questa minor fatica, anzi questo svago del dotto archeologo e storiografo dell'arte, intende rivolgersi?
Senonché, a tacere, si corre un altro rischio: che dietro il paravento dell'attualità patriottica, ci si voglia esimere dal pronunciare un apprezzamento posato e coscienzioso. Mentre noi vogliamo pur dire che questa "qualche altra cosa" è una squisita collana di sonetti argutissimi di forma impeccabile e di satira tanto sottile, quanto garbata. Dalla minaccia del diluvio all'ingresso nell'Arca, al ritorno del sole e dell'arcobaleno, sino all'approdo e alla rinascita del mondo: "Aveveno gran prescia d'annà via - Speramo d'incontrasse 'n'antra vorta - Buongiorno - Grazie della compagnia!".
Il risveglio, l'invenzione del vino, l'inutilità della grande prova sino alla minaccia di un nuovo diluvio, che è quanto dire del Giorno del Giudizio ("Se riapriranno abissi e cataratte - e andremo tutti quanti a precipizio - Ne la valle der santo Giosafatte ...") sono fra i sonetti più felici ed efficaci".

Dal "Popolo di Roma" (5 ottobre 1942-XX):
"Antonio Muñoz pubblica in questi giorni qualche altra cosa, come ha voluto definire nella presentazione della raccolta di sonetti intitolata: "L'arca de Noè" che appare per i tipi dell'Editore dei romanisti nella bella e nitida veste consueta. Qualche altra cosa che il poeta dedica ai combattenti nelle terre lontane che tanta buona accoglienza hanno riservato all'ultimo suo volume di Poesie romanesche da indurlo a raccogliere un'altra trentina di sonetti in un poemetto che con stile brioso e scanzonato racconta il grande viaggio del biblico patriarca sul suo barcone ospitale. E certo i migliori riguardano l'imbarco dell'eteroclito serraglio dove, approfittando della confusione, purtroppo anche gli animali nocivi riuscirono a portare a salvamento la loro trista specie. La narrazione si svolge con quel garbo proprio dell'Autore che magari altera un po' lo stile romanesco non proprio tutto disseminato di fiori, pur di non varcare certi limiti".

 
 
 

Mancipazzione

Mancipazzione

È bbello de vedè la vocazzione
Der cosidetto Popolo Soprano,
Che a fforza de progresso, e ppiano ppiano,
Ottiè de filo la 'mancipazzione.

Bello è vvedeje fà l'opposizzione
A tutti li guverni e ar Vaticano,
E cercà' a bbuggiaralli a mmano a mmano
Pe' ffasse la bevuta der padrone.

Però, nun sò ccapì; ppiù fann'acquisto
Li popoli de dritti e ppadronanza,
E ppiù lo stato loro se fa ttristo.

A fforza d'abburrasse de diritti
Ie crescheno le crespe ne la panza,
E ppiù sò' mmancipati ppiù sò guitti!

Adolfo Giaquinto
Maggio 1890
Da: La Satira popolare Romanesca, ecc., E. Perino Editore, 1894, Dispensa 7, pag. 109 (sonetto 106)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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