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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

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Messaggi di Luglio 2016

Astronomia

Astronomia

Se sa; er sole sta fermo; e chi cammina
Sempre, è la terra che je gira intorno;
E aregola accosì la notte e' er giorno,
La sera, er doppopranzo e la matina.

Qua er sole ce dà luce e ce cucina
Come se coce 'na pagnotta ar forno;
Mentre de là nun ce se vede un corno,
E è freddo e scuro, come giù in cantina.

Er globbo, poi, co' tutto quanto er peso
De montagne, de case e de palazzi,
S'aregge a un filo che lo tiè sospeso;

E quer filo sta in mano der Signore:
Ma si famo però troppo li pazzi,
Lui lo strappa, e ce manna ar Creatore.

Antonio Muñoz
da Strenna dei Romanisti 1941, pag. 44

 
 
 

In trattoria

In trattoria

- Pranza il signore? Abbiamo cappelletti,
Pastina, o riso in brodo con piselli.
Vuol fettuccine al sugo? vuol spaghetti?
Un fritto di carciofi e granelli?

Abbiamo triglie ... con calamaretti,
Manzo con sottaceti o ravanelli,
Braciole di vitello ... timballetti.
Vuole due tordi arrosto proprio belli?

(E che vorrà?) C'è del garofolato,
Rosbiffe ... una porzione di tacchino? ...
Vuole del buon vitello pilottato? ...

- "La mi faccia du ovi a i' tegamino"
(E io minchione, me ce sò sfiatato ...
Je sbatterebbe er grugno ar tavolino)

Adolfo Giaquinto
Giugno 1888
Da: La Satira popolare Romanesca, ecc., E. Perino Editore, 1894, Dispensa 7, pag. 108 (sonetto 105)

 
 
 

La murata viva

La leggenda della murata viva

Correva l'anno 1450 e la città di Roma era colma di pellegrini che erano giunti da ogni parte per recarsi alla Basilica di S. Pietro e pregare sulla tomba del Santo, essendo l'anno del Giubileo ed il papa regnante era Niccolò V. Quell'anno la città di Roma, fu segnata da due tragedie che rimasero nella storia e che causarono tante vittime. Una fu il terribile incidente accaduto sul Ponte Sant'Angelo che, causò la morte di circa duecento persone. Il ponte era il luogo di passaggio d'obbligo per chi doveva recarsi alla Basilica e quindi era continuamente gremito di gente che vi transitava. Accadde che una mula ed un cavallo si imbizzarrirono menando quindi calci con le zampe e colpendo i poveretti che stavano transitando. La calca era tanta e la gente era atterrita, per cui molti cercavano di scappare altri spintonavano ed il risultato fu che parecchi rimasero schiacciati da quelli che spingevano ed altri vennero spinti e caddero giù nel fiume morendo annegati. Il passaggio sul ponte era molto stretto perchè vi erano anche delle casupole che ingombravano il transito dei pellegrini. L'altro fatto grave fu l'epidemia di peste che colpì la città seminando tante vittime. Niccolò V, non perse tempo e scappò dalla città andando a rifugiarsi nel castello di Fabriano, per paura di essere contagiato dalla terribile malattia, e vi rimase dal giugno fino a ottobre di quell'anno. Questa cosa certamente non gli fece onore, anzi lo fece oggetto di aspre critiche. Tra i pellegrini che erano giunti in città vi era un penitente che proveniva da S. Giacomo di Compostela e vestiva di miseri stracci e senza calzari. Senza il bastone, portava l'acqua in una zucca appesa al cordone che gli legava la vita. Egli errava così da quattordici anni, ed era originario del Galles e per questo era conosciuto come il Gallese. Ma era una persona colta poiché conosceva tante lingue, ma non parlava mai e per evitare di rispondere parlava solo la sua lingua madre. Per meritare l'indulgenza occorreva certo visitare le basiliche maggiori, ma soprattutto bisognava confessarsi.
Così, quando giunse alla Basilica di San Pietro, egli ritrovò la pace nel contemplare l'interno della Chiesa osservando i ricchi mosaici che decoravano le mura e le innumerevoli lampade votive. Inoltre nell'altare della confessione vi erano le sacre reliquie; il legno della croce, le spine della Corona, la Veronica, i chiodi del supplizio e la Lancia di Longino. Dopo aver ammirato tutte queste sacre reliquie, egli andò a cercare un padre confessore e finalmente trovò un domenicano che era disponibile ad ascoltarlo, per cui si sedette accanto a lui e disse: " Padre, ho bisogno di confessarmi ma i miei peccati sono tanti" ed allora il domenicano disse: " Non ti preoccupare figliolo parla ed io ti ascolto !" . Così il Gallese confessò i suoi peccati, ma il vero peccato che aveva generato la sua penitenza non lo confessò, così nulla era cambiato nel suo animo. Egli poi uscì dalla Basilica ed iniziò a vagare per la città. Mentre stava camminando a passo lento per la stanchezza, udì una vecchia che sembrava una zingara che stava parlando di una Murata Viva che viveva in uno degli oratori che circondavano la Basilica e viveva lì da ben quattordici anni. Sentendo ciò il Gallese si avvicinò alla vecchia e disse: " Murata Viva hai detto ? Come fai a sapere che è ancora viva ?" e quella: " Lo so perchè ogni giorno prende il pane e la brocca d'acqua e le sue mani sono sempre più bianche. Io lo so perchè vengo a Roma ogni tre anni ed il giorno che l'hanno murata io ero qui. Fu lei che chiese la clausura per espiare un suo peccato, era una straniera, bellissima e quel giorno c'era tanta di quella gente che sembrava la festa di maggio." Una donna che aveva ascoltato la zingara intervenne e disse: " Altro che clausura, io lo so di chi parli, quella doveva essere torturata dal carnefice per tutti i peccati che aveva commesso e meritava di essere bruciata viva !" . Allora il Gallese rivolto a quest' altra disse: " Tu sai come si chiama e da dove viene ? " e l'altra: " No non so nulla io so soltanto quello che ho già detto, forse deve essere una gallese ma non ne sono sicura, se vuoi saperne di più domandalo a quel cieco laggiù, egli è nato a Roma e quando ci vedeva ha visto e sentito tante cose !". Il Gallese allora andò verso il cieco e gli pose la stessa domanda, al che il cieco gli rispose che sapeva le stesse cose che sapevano gli altri e poi gli chiese per quale motivo voleva sapere della Murata, ma il Gallese non rispose, così dopo avergli dato una monetina se ne andò.
La zingara lo accompagnò presso un portico dove a terra c'era della paglia e lì poteva dormire. Il Gallese si stese e si addormentò, la mattina seguente proseguì il suo cammino e vagabondando fino al tramonto giunse in un luogo ove c'era un pilastro ed una cella. Era il luogo ove era rinchiusa la Murata e quella era l'ora che le portavano il cibo con la brocca d'acqua. Quando vide quelle mani bianche che prendevano il cibo, egli si avvicinò e disse: " Oh anima penitente, dimmi chi sei.....Io ho girato il mondo poiché anche io sono un penitente e soffro. Non ti conosco ma tremo ed ho paura, ti prego parlami". In quel momento apparve il cieco che gli rispose: " E' inutile che tu le parli, non la tormentare, tanto ella non parla con nessuno da quattordici anni. La sua è una storia terribile !". Il Gallese rispose: " La sua storia non è niente in confronto alla mia poiché il mio peccato è peggiore del suo !". Il cieco allora sentendo ciò gli disse: " Se allora vuoi proprio sapere la verità sulla storia della Murata vieni stanotte prima dell'alba!".
Il Gallese, continuò il suo girovagare e poi si fermò presso una locanda per mangiare un po' di pane nero ed olive e bere un po' di vino, ma dopo un po' lo stomaco gli doleva e vomitò, forse erano i sintomi della peste. Poi, quando fu notte fonda, prima che giungesse l'alba si trovò presso la Basilica aspettando che arrivasse il cieco. Il cieco non venne, ma giunse la zingara. Ella si avvicinò al Gallese e gli disse: " Dammi una moneta e ti dirò della Murata Viva". Così, dopo aver preso la moneta iniziò a raccontare: " Dunque devi sapere che ella era molto bella e veniva dal nord. Era assai ricca poiché di famiglia nobile e viveva in un castello con la sua famiglia. Quando i suoi genitori morirono rimase sola con suo fratello. Anche lui era molto bello e non aveva mai conosciuto una donna. Con il tempo i due fratelli furono presi da una insana passione che andava oltre l'amore fraterno. Lui si era innamorato di sua sorella ed era preso dal desiderio di possederla, ma ella lo sfuggiva. Una sera egli preparò un liquore ove aveva messo una sostanza afrodisiaca. La fece bere alla sorella e poi, presi entrambi dal desiderio, giacquero nello stesso letto e si amarono.
Dalla loro unione nacque il frutto dell'incesto e giunse poi il giorno del parto. Entrambi atterriti da questa cosa, volendo uscire da questo incubo, decisero di eliminare la creatura nata e la strozzarono per poi gettarla in un pozzo".
Il Gallese sentendo questa terribile rivelazione rivolgendosi alla zingara gridò: " Come fai a saperlo vecchia ?". E intanto si graffiava il viso a sangue, al che la zingara guardandolo rispose: "Tua sorella è lì, murata viva e non uscirà nemmeno per la morte!".
Ormai fuori di sè per il terribile segreto che lui teneva nascosto e che la zingara gli aveva rivelato facendogli rivivere quei terribili momenti, il Gallese fuggì via urlando e piangendo dalla disperazione finchè giunse davanti al pilastro della Murata e lì si gettò a terra singhiozzando. Dalla cella, nel silenzio buio della notte, si udì allora una voce flebile che, dopo quattordici anni, parlò a quel povero corpo rantolante e disse: " Và,! E ti siano tutti i tuoi peccati perdonati !".
Poi non si udì più nulla, solo lo zampillio di una fontana lì vicino.

Fonte: Cecilia Gatto Trocchi "Storie e luoghi segreti di Roma" - Newton Compton

 
 
 

Sposetta fresca

Post n°2974 pubblicato il 19 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

Sposetta fresca (1)

Come va? Nun vedete? Va benone.
Cerco d' aranchellamme (2) come posso.
Giro; ma si me dànno 'no strattone (3)
quanto je casco para-para addosso.

Nun vedete che straccio de trippone? (4)
Tutti nun hanno che da dì "Quant' è grosso!".
Magnà, nu' magno; appena quer boccone.
Quello che me va proprio è er vino rosso.

Anzi, commare mia, incora aspetto
quer quadro de Sant' Anna (5). Me lo date,
che me lo vojo mette' a capo letto?

Ah! Sabbito passato uscii co' Nino
e stiedi a la Riceli (6). Infatti, er frate
me benedì la panza cor bambino.

Gicci Zanazzo
4 aprile 1883
Da: Vox populi

Note:
1 Sposa novella. - 2 Di andare avanti (arranchellasse, arrancare, arrampicarsi, sforzarsi, tirare avanti la vita a stento). - 3 Un urtone. - 4 Che po' po' di pancia. - 5 S. Anna, protettrice delle partorienti. - 6 Chiesa di S. Maria in Aracoeli sul Campidoglio, dove si adora un miracoloso Bambin Gesù, che veniva trasportato in carrozza a passo lento nelle case di infermi gravi e anche delle donne gravide che stentavano a partorire.

 
 
 

Lo Sposo c’aspetta...

Lo Sposo c’aspetta la Sposa pe sposà (1)

Lí ffora nun c’è un cazzo c’arifiati:
qua ddrento nun c’è un’anima vivente.
Dove diavolo mó sse sò fficcati,
je pijja a ttutti quanti ’n accidente?

Che sserve de stà a ffà ppiú l’ammazzati,
si nun ze sente un cane nun ze sente!
Oh, ssai che ffàmo? annamescene in prati (2)
a ggiucà a bboccia e ppoi... Zitto! viè ggente.

Ma bbuggiaratte, Iddio te bbenedichi,
è un anno che ssagrato (3) a la parrocchia,
che mommó rriviè er tempo de li fichi.

Sí, ffamme sceggne er latte a le ginocchia! (4)
Lo sai perché tte sposo? pe l’amichi:
c’ar fuso mio nun pò mmancà cconocchia. (5)

Note:
1 Sposo, ecc., colla o stretta.
2 Adiacenze del castello S. Angiolo, già Mole Adriana.
3 Bestemmio.
4 Fammi nausea.
5 Equivoco; e vale: «Ti sposo in grazia degli amici, che mi v’inducono, ecc.»

Giuseppe Gioachino Belli
Terni, 9 ottobre 1830
(Sonetto 80)

 
 
 

Er gallo e er cane

Post n°2972 pubblicato il 18 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

Er gallo e er cane

Prima che spunti er sole
la matina abbonora, quanno er celo
arissomija un tantinello ar mare,
quanno che l'aria pare
ch'odori de viole,
er Gallo arza la testa,
sgrulla (1) la cresta e fa: chicchirichì.
Una matina, un Cane, ner sentì
l'aritornello solito, je disse:
- Zitto! che se er padrone te sentisse
te tirerebbe er collo! Nu' lo sai
ch'er mi' padrone è un omo ricco assai?
Nun ha bisogno mica
d'arzasse accusì presto, capirai:
è tanto stracco! È stato co' l'amica...
- Io - fece er Gallo - canto solamente
pe' svejà chi lavora, chi fatica,
chi se guadagna er pane onestamente.
Lo vedi er campagnolo,
er vignarolo, l'ortolano? Stanno
già in piedi e se ne vanno
tutti contenti a lavorà in campagna;
se questi qui nun s'arzeno, er padrone
co' tutti li quatrini mica magna!
Io canto espressamente, e Dio ne guardi
se 'sta povera gente
se svejasse più tardi!
- Ahó? nun me fa' tanto er socialista,
- je disse er Cane - intanto nun m'incanti (2):
nun m'hai da di' che canti cór pretesto
de svejà chi fatica e chi lavora;
piuttosto di' così: - Canto abbonora
perché la sera vado a letto presto!

Note:
1 Scrolla.
2 Non mi inganni.

Trilussa

 
 
 

Li più fanatichi

Li più fanatichi

Lallo Fabrizi, Posta, Cappellini,
Bighimèo, Giggi Zuffi, Montanari,
lo speziale Spadorcia, Nino Ilari,
Padron Peppe Nicola, Signorini

er cantante, Gargiulo, er sor Buonini,
De Rossi, Bufolone, Pio Linari,
Sestieri er capo de l'anticajari,
Mondei, Pollastri e Simico' Marini.

Poi c'è er Sor Pietro l'oste de l'Archetto,
Oreste Raffaelli, Turchi Erico,
e ... Costantino Massi ve l'ho detto?

Pentenè, Sabatello, Tavoloni,
e un' antra massa che nun ve li dico
pe' nu' scocciavve tanto li carzoni.

Brega (Nino Ilari?)
Da "Li fanatichi p' er gioco der pallone", originariamente pubblicato su Orazio Còccola: fojo romanesco, Roma, Tip. editrice industriale, 1894

Così com'è il soneto appare poco significativo, poco più che una sfilza di nomi. La Strenna del Romanista 2008, dal quale ho tratto il volumetto "Li fanatichi p'er gioco der pallone", dedicava, invece, un non breve articoletto alla spiegazione  del gioco del pallone (sembrerebbe il gioco della pallavolo) ed all'ambiente circostante. Con tali spiegazioni anche questo sonetto sostanzialmente amorfo acquistava un valore del tutto diverso.

 
 
 

Su li conti sentirai lo strillo!

Su li conti sentirai lo strillo!

A fa' l'amore, semo tutti boni!
E qualunque scopetta,
a diciott'anni, già fa la ciovetta
pe' côre appresso a tutti li carzoni:
S'aggiusta 'gni momento li riccetti
e s'ariguarda sempre a lo specchietto
pe' véde si er rossetto
je s'è sbaffato, dopo li bacetti.
Tanto, a casa, c'è mamma che ce penza
e che s'arza abbonora la matina
e je lava, je stira, je cucina...
Lei smucina sortanto a la credenza
pe' grattà quarche cosa che je piace;
ma si trova er panino ch'è rifatto
e drentro ar piatto nun ce sta er preciutto,
è fenita la pace!
E come ce pretenne, doppotutto ...

Ma er giorno che se sposa e cià famija,
allora je s'abbasseno le penne
e s'accorge che, in fonno, a fa' la fija,
nun era tanto brutto1

E, a la matina, come je ce scoccia,
d'arzasse presto pe' la colazzione!
Se veste e je fa male la capoccia,
perché manco fenisce l'orazzione
che già barbotta: "A pranzo che se magna?".
E appena va a contà sur tavolino
li sordi ch'er marito j'ha lassato,
je ce gira er boccino: "Sì' ammazzato!
Che ce devo comprà co' 'sta migragna?
Quann'ho preso la pasta, er pecorino,
er pane, er sale, l'ojo, l'accidente,
ho fenito li sordi; se fa presto
a di' "Stasera, famme trovà er resto!".
Come fussi la serva!
Ma quella magna senza spenne gnente!
È la padrona quella che sospira!".

E quanno torna a casa, stracca morta,
la sporta è moscia e, drento ar portafojo,
nun j'è rimasta più manco 'na lira! ...
"Ma com'ho fatto a spenne tutto quanto?".
E se rifà li conti un'antra vorta:
"Pecorino e guanciale, ho speso tanto;
tanto p'er pane, tanto p'er sapone,
un chilo de spaghetti, l'ajo, l'ojo,
la verdura, er limone,
trentacinque un cascè p'er rifreddore,
duecento lire ho dato a lo stagnaro
che m'ha fatto sturà lo sciacquatore ...
e er conto sorte paro! ...
Mo' me rimane a da': "Cento ar fornaro,
perché da ieri che me l'avanzava,
duecentotrenta a quella che me lava,
e pe' magnà la pasta e la verdura,
so' mille...novecento...settantuno!
e che je do stasera a la cratura?
E noi, che se magnamo, sarvognuno?".

Giulietta Picconieri
Casa e bottega - Angelo Signorelli Editore, Roma, 1953, pag. 13-16

 
 
 

Guido Novello da Polenta

Ho già parlato di Guido Novello da Polenta (1290 circa) nel post n°1905 del 9 agosto 2015, pubblicando -unitamente a tre ballate e un sonetto- delle brevi note biografiche tratte dal libro "Rime scelte de' Poeti Ravennati Antichi, e moderni defunti." Aggiuntevi nel fine le memorie Istoriche spettanti alle loro Vite, ed Opere Poetiche. In Ravenna MDCCXXXIX. Per Antonmaria Landi. Stampat. Camerale ed Arcivesc.
Integro le notizie su questo autore con quelle riportate da Natalino Sapegno nel Volume 10, "Poeti Minori del Trecento", di La Letteratura Italiana Storia e Testi Edita da Ricciardi nel 1952.
"Guido di Ostasio da Polenta, signore di Ravenna: diede ospitalità a Dante negli ultimi anni della sua vita; morì nel 1330. Le sue rime, insieme con quelle di Giovanni Quirini e di altri, documentano la diffusione del gusto stilnovistico e della maniera toscana anche in zone di cultura periferica. Ma in Guido gli elementi del linguaggio nuovo si innestano sul fondo di una tradizione genericamente provenzaleggiante."
Le tre ballate ed il sonetto che ho già pubblicati sono i seguenti:
D' Amor non fu già mai veduta cosa (ballata);
Madonna per virtute (ballata);
Novella gioja il core (ballata);
Tanta ha virtù ciascun, quanto intelletto, (sonetto).
Il Sapegno riporta  le ballate "Novella zoia 'l core" e "D' Amor non fu zamai veduta cosa", come può notarsi in lezione leggermente diversa. Di tali ballate pubblico le annotazioni di Sapegno.

Novella zoia 'l core: la ballata nella versione del Sapegno è divisa in due strofe di 4 e di 8 versi, l'ultimo dei quali recita "come om senta il suo gentil valore". Al verso 7, Sapegno annota: montare ecc., salire a una condizione privilegiata.

D' Amor non fu zamai veduta cosa: anche questa ballata è divisa in due strofe, con lievi variazioni rispetto alla mia precedente versione. Le note di Sapegno sono assai doviziose:
4. simil: altrettanto bello e leggiadro.
5. Così porto, ecc.: il mio desiderio si modella sul'immagine della donna che la mia facoltà immaginativa mi dipinge nel cuore, quando gli occhi hanno occasione di vederla.
9. che 'l piacer, ecc.: fuoco che fa crescere ognor più intorno alla mia mente (li acquista) la bellezza di lei ('l piacer), che mi spinge sempre maggiormente a desiderarla.
11. sperando, ecc.: mentre spero che la virtù, che costringe ogni donna a sentire pietà, mi faccia aver pace di tal guerra, come è giusto che l'abbia chi la chiede con umiltà.

Ballata: Era l'aire sereno e lo bel tempo

Era l'aire sereno e lo bel tempo
e cantavan gli augei per la riviera,
e in quel giorno apparve primavera
quand'io te vidi prima, bella zoia.

Ben fosti zoia, ché tal m'apparisti
e col novo color nel tuo bel viso,
che già dalla mia mente non si parte.
E quando sono in più lontana parte,
più mi sovvien del tuo piacente riso,
sì dolcemente nel mio cor venisti
per un soave guardo che facisti
da' tuoi begli occhi che mi mirar fiso,
sì che zamai da te non fia diviso,
tanta allegrezza mi da' fuor di noia.

Note (Natalino Sapegno):
4. bella zoia: formula tradizionale ripresa anche da Dante (Vita Nova, XV, 4): "quand'io vegno a veder voi, bella gioia".
13. zamai, ecc.: Cfr. Dante, Inferno, V, 135.
14. fuor di noia: senza alcuna angoscia.

 
 
 

Er cane e la cagna

Post n°2968 pubblicato il 17 Luglio 2016 da valerio.sampieri
 

Er cane e la cagna

- Sei cambiata, Fifì mia:
- disse un Cane a 'na Cagnola -
prima annavi sempre sola,
mó vai sempre in compagnia.
Da che stai co' la Duchessa
che te porta in carettella (1),
Fifì mia, nun sei più quella,
te sei troppo compromessa!
Tenghi un cane pe' cantone (2)
che te manca de rispetto:
mó un burdocche (3), mó un lupetto,
mó un bassotto, mó un barbone...
Prima, invece, eri più bona,
nun ciavevi tanta smagna (4) ...
- Eh, lo so! - disse la Cagna -
M'ha guastato la padrona!

Note:
1 In carrozza.
2 Ad ogni angolo di strada.
3 Bulldog.
4 Smania.

Trilussa

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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