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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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Messaggi del 01/11/2014
Post n°582 pubblicato il 01 Novembre 2014 da valerio.sampieri
La dedica di "XIV Leggende della Campagna Romana" di Augusto Sindici (Milano, 1902) contiene interessanti riflessioni sul dialetto romanesco e la sua trascrizione. A MiSTRESS MAGDA HEINEMANN Mia cara figliuola Uscendo dalle porte di Roma io non intesi di far parlare ai raccontatori di queste mie leggende il puro dialetto romanesco, sovente anzi frammischiai ad arte modi di dire, frasi e parole che colsi sulle labbra dei lavoratori nomadi del Lazio, dei piccoli mercanti di campagna, fidarelli e mo- scetti dei castelli romani o dei vicini monti. Parole, frasi, modi di dire costanti e inerenti agli usi, ai costumi, alla coltivazione delle nostre terre; provenienti parte da quel volgare latino di tipo meridionale che tuttora risuona nella Campania, parte puramente romani. Patrimonio nostro antico che respingemmo nel Lazio dopo la invadente influenza toscana, ma che abbandonato, si sarebbe disperso, dissipato ai raggi di un nuovo e problematico incivilimento. Eredità che urgeva raccogliere. Ed è ciò che io feci.... Spiegando chiaramente innanzi ad ogni leggenda il nome, la patria, la professione del raccontatore, ti sarà facile il renderti conto di quanto, o quando io mi allontani dal puro dialetto romano. Ma talora è il poeta che racconta; permettimi allora di parlare in casa mia il mio dialetto, come lo si consente a qualunque cittadino delle varie provincie italiane; e se le idee e le immagini, in questo caso, sono più elevate di quelle che un buttero o un massaro potrebbero avere, non ti sembri troppo strano riflettendo che colui che racconta ha fra le mani una penna e non una marra. Circa l'ortografìa, diversa in parte da quella adoperata finora, debbo una spiegazione. L' ortografia adoperata finora era suppergiù quella del Belli. E quando il Belli volle fissare nella scrittura il parlare dei Romani, premise quest'avvertimento: "la scrittura è mia, e con essa tento d'imitare la loro parola". Con che significava, aver egli mirato soprattutto a rappre- sentare con la maggiore fedeltà possibile i suoni diversi onde quella parola era composta. E così egregiamente fece il dotto commentatore, il professor Morandi, seguendo l' idea principale e direi quasi dominante del Belli. E sono interessanti le osservazioni che il Belli stesso lasciò su questo argomento, mostrando esse bene con quanto studio aveva cercato di rendersi ragione di ciascun suono prima di adottare una od altra rappresentazione grafica di esso. Ma se ci volgiamo a ricercare Tapplicazione che delle stesse norme il Belli fece nella scrittura de' suoi immortali sonetti, sarà facile il rilevare come non solamente in molti casi restò incerto sul miglior modo di rappresentare col solito alfabeto una od altra peculiarità del parlare plebeo di Roma, di guisa che — per esempio — ora scrisse cr esscie e ora cr escie, boja e boia, ecc., ecc., ma si lasciò anche vincere dal desiderio di figurare graficamente altri suoni che nella parola roma- nesca non esistevano più, e così il suo sistema grafico venne complicandosi e a grado a grado si allontanò sempre più da quella semplicità a cui aveva dapprima mirato. I continuatori del Belli poi vennero rincarando la dose, e oggi Topografia romanesca appare irta ancora di accenti e di apostrofi che annaspano la vista senza giovare punto all' intelligenza. Io volli uscire da questa via e ritornare là donde mosse primamente il Belli: limitarmi cioè a rappresentare fedelmente per quanto mi fu possibile i suoni esistenti, e non curarmi più affatto dei suoni che hanno cessato di esistere. Il rappresentare con apostrofi i suoni che oggi più non s'odono, potè parere spediente buono a facilitare l' intelligenza della parola, ravvicinandoci in qualche modo al suo etimo. Ma volendo esser conseguenti in tale metodo, come ora si pone l'apostrofo in tene' per tenere, in porta' per portare, si dovrebbe porlo in esse che sta per essere, in legge che sta per leggere, e cosi anche in tiè che sta per tiene, in vie che sta per viene, ecc., ecc. Inoltre, è da ricordare che la parola romanesca, come la parola degli altri dialetti congeneri, non è in origine una deformazione della parola italiana, ma è una trasformazione diretta della parola latina. Se pertanto si volesse adattare il romanesco ad una grafia etimologica, dovremmo riportarci al latino anziché all'italiano, e, allora, si capirà facilmente che, per non essere inconseguenti, dovremmo finire in tale un arruffio di apostrofi da far perdere la pazienza a qualunque lettore. Doppia ragione pertanto di non addossare alla grafia il compito che è riservato ai glossarj, ai lessici e ad altri simili apparati dichiarativi Ciò premesso in genere, qui soggiungo poche altre avvertenze per farti meglio comprendere il metodo al quale mi sono attenuto. Mantenni dunque tutte le lettere del comune alfabeto italiano nonché i soliti digammi eh e gh, se, ecc., col loro valore consueto ; ma aggiunsi il e per rappresentare il suono palatale del e allorché è seguito da a, da o, o da u. Molto impropriamente si soleva figurare questo suono aggiungendo al t un i e affìggendo il digamma alla parola seguente ; onde cia, ciaveva, ciò, ecc., di contro a c'è, c'erano, c'ebbe, ecc. Ma t che nell'uso toscano si è veramente conservato {ci à, ci aveva, ci ò, ecc.), nel romanesco invece non ha ragion d'essere; perché in Roma si dice ce in luogo della particella toscana ci quando segue consonante {ce sto, ce so annato, ce viengo, ecc.); quando poi segue vocale, rimane la palatale pura e semplice, e d'» non si sente più nulla. Era dunque il caso di togliere quella mostruosità grafica; e poiché per rimediarvi non restava che adottare il e già in uso nella ortografia di altri paesi, questo feci, ma non sì che, per essere troppo conseguente, mi spingessi fino a dare una grafia nuova a parole che il romanesco ha comuni con l'italiano. In quelle mantenni la grafia consueta; e la mia innovazione si limitò ai soli casi nei quali il romanesco era venuto a trovarsi solo. Quanto agli apostrofi, mi limitai a mantenerli solamente nei casi in cui la soppressione di un suono è accidentale, determinata cioè dalla qualità di altro suono che precede o, che segue, e li omisi quando la soppressione è costante. Così, sempre senza apostrofo gni, sto, sta, sti, ste, pe, co, so, ecc., perché il romanesco non dice più in nessun caso ogni, esto, està, esti, este, per, con, sono ; ma v'annerebbe, m'aveva, feri, s'accora, ecc., perché me, te, se, ve e simili suonano interi quando precedono parola che cominci per consonante {me fa, se trova, ve dico, ecc.). E lo stesso dicasi per le parole che ponno avere doppia funzione, ora cioè in proclisi ed ora in enfasi. Mi spiego. Il romanesco dice: mi e mio, tu e tuo, su e suo, du e due o duo; ma non adopra tali forme indiflferentemente, bensì in casi affatto diversi; dice cioè sempre mi patre, su fio, du sorelle, e dice anche sempre matre sua, fio mio, so dua, ecc. Pur nella proclisi dunque essendo costante la omissione della vocal finale, l'apostrofo deve essere tralasciato. In quanto agli accenti, ti dirò che anche questi li ho adoperati, siccome nell'uso italiano, col doppio ufficio d' indicare la vocale più sonora nei soliti casi in cui si trova fuori della penultima sillaba, e di distinguere il valore di parole omofone. Mentre però nell'italiano si adoperano indifferentemente dai più l'accento grave e l'acuto, io ho adoperato l'accento acuto solamente sull' e sull'o quando queste due vocali hanno suono stretto (perché, benché, volé, tene, mommo, ecc.) ; in tutti gli altri casi ho adoperato l'accento grave (portà, partì, portò, monsù, ecc.). Nella funzione dissimilativa pure ho procurato di non scostarmi dall'uso italiano; ma poiché nel romanesco abbiamo, per esempio, da che ora è particella, ora è presente e ora infinito di dare; l'accento qui non può giovarci se non per una delle due forme verbali, ed io l'ho conservato nell' infinito per analogia di tutti gli in finiti di prima che finiscono in à, lasciando che il senso ajuti a distinguere il da di presente dalla particella omofona. E con questo esempjo parmi di aver chiarite abbastanza le poche differenze che s'incontreranno in queste pagine, rispetto all' italiano, nell'uso dell'accento che potremmo chiamare dissimilativo. Dopo queste avvertenze, ti dirò ancora da ultimo che, con quel che ho fatto, io non intesi punto di raddrizzare le gambe ai cani e di atteggiarmi a maestro di novità. Propongo questa ortografìa che a me oggi sembra razionale, per il vivo desiderio di vedere il mio dialetto nativo fìsso e scritto da tutti in una sola maniera, la più chiara e facile che si possa. Che anzi, se io vedessi proposta una ortografìa più ragionata e ragionevole di quella da me adottata, non esiterei punto ad accettarla per il primo, quando questa fosse da tutti i nostri bravi poeti del vernacolo egualmente adottata. Ti debbo necessariamente aggiungere che nello scrivere queste mie leggende io mi proposi di combattere contro il diboscamento ed in favore delle classi agricole quasi interamente obliate dalla città per la quale soffrono e lavorano. Dopo la pubblicazione della mia prima leggenda, Pantano della Intossicata, vidi a Torino sorgere una Società contro il diboscamento e quindi vidi presentar al Parlamento nazionale la legge Celli. Legge che si proponeva di mettere il chinino a diretta e facile portata della mano dell'agricoltore a prezzi modicissimi e che andrà in vigore fra poco. Dopo la pubblicazione della XIII, La Capocotta, vidi la Croce Rossa sussidiata dal Re buono e leale muovere in soccorso dei centri agricoli, quando i raggi del solleone mietono le turbe dei lavoratori nomadi che per le varie bisogna in quella stagione appunto son costrette di popolare l'ampio Lazio. Il mio scopo civile umanitario fu pienamente conseguito. Debbo da ultimo dichiararti che se condussi a fine il mio lavoro lo debbo unicamente alla stampa italiana tutta, che mi fu sempre prodiga di leali incoraggiamenti e me ne volli mostrar grato riunendo le mie XIV leggende, prima in un volume illustrato, ed ora in una edizione più economica alla portata di tutti, come da me si reclamava. Tuo padre Augusto Sindici. Fonte: https://archive.org/details/xivleggendedell00sindgoog |
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