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Messaggi del 03/12/2014

Francesco Maria Molza (4)

Post n°726 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

[16 Di Francesco Maria Molza]

Già rotta è la catena e spent'il foco
Che mi teneano il cor fido e soggetto
Al vostro divo aspetto,
Ornato di beltà; ma non di fede
. Amor m'ha conceduto per mercede
Di vincer l'apetito con ragione,
E fuor d'ogni prigione
Trar l'afflitta alma a risco de la morte.
Né per questo mi dolgo di mia sorte;
Che, se 'l ciel agiongeva in questa etade
Fede a vostra beltade,
Sareste stata al mondo alma Beatrice,
E io legato e più ch'altro infelice.

[17 Di Francesco Maria Molza]

Ogni beltà raccolta
Ha natura per far suprema e bella
Vostra beltà, madonna,
Et ha la virtù tolta
Nei cieli ad ogni fisa e mobil stella
Per farne voi sol donna,
Tal che beltà e virtù ch'in voi sol mira
Vede quant'il sol gira.

[18 Di Francesco Maria Molza]

Qual più saggie parole, o più secrete
Dirìan giamai sì aperto il mio dolore
Come voi dal timore
Del mio non saper dir donn'il vedete?
E se vostra beltà, vostro valore
Forse v'ha gionta a tale
Che 'l mio stato mortale
Vostro sdegno gentil mirar non prezza,
Et io 'nanzi a vostri occhi impallidisco
Et ardo e l'ardor mio dir non ardisco,
Morte fin del mio mal
Sarà, che 'l core omai tacendo more,
Se tanto con pietà nol socorrete,
Quanto più bella d'ogni bella siete.

[19 Di Francesco Maria Molza]

S'io pensassi, madonna, che mia morte
Vi fusse sopra ogn'altra dolce e cara,
Di questa vita amara
Sarebbon l'ore assai fugaci e corte;
Ma per mostrarmi il vostro divo aspetto
Or durezza, or pietate,
Credo più tosto amate
Che sol per vostro gioco resti in vita;
Ché s'io mancassi, mancarìa il diletto
Che del mio mal pigliate,
E mia calamitate
Questo seguendo, non sarìa finita.
Ch'io bramo sol veder, donna gradita,
Sazia di me qualunque vostra voglia,
O mia gioia, o mia doglia,
Non curo, poiché vuol così mia sorte.

[20 Di Francesco Maria Molza]

Madonna, io loderò vostra beltade
In semplici parole,
Né vi porrò lodand'egual al sole;
Ma per più vero dire,
E Febo mi perdoni in quest'etade,
Poi ch'a voi bellezza altra non s'apressa,
Che bella siete voi quanto voi stessa.

[21 Di Francesco Maria Molza]

Deh! quanto è dolce amor, che tanto annoia,
Poi che nel mio bel stato m'ha concesso
Negl'occhi di costei veder me stesso.
Ivi parmi seder pien d'ogni gioia,
Con Amor, con madonna e con mia vita
A ragionar insieme
Di lei, di sua beltade e di mia speme.
O dolcezza infinita!
Poi ch'ella doppiamente mi conforta,
Che me ne gli occhi e mia salute porta.

[22 Di Francesco Maria Molza]

Servito v'ho un tempo
Con tanto amor, madonna, e tanta fede
Quanto in voi guidardon già non si vede.
Non ch'io non vedessi che a voi poco
Gradiva il mio servire;
Ma perch'ogni altro gioco m'era grave.
Or perch'in voi comprendo
Il mal, convien pur dire:
Mercè non ha in voi loco,
Vo' provar altri ceppi et altre chiave,
Più vil, ma più soave.
Donatime commiato per mercede
Ch'assai guadagna chi al suo mal provede.

[23 Di Francesco Maria Molza]

La vostr'alma beltà, ch'ogn'altra avanza,
De quale ero soggetto,
A non seguirla più or son costretto;
Perché m'aveggio ognor ch'ogni mia doglia
Vi rendete a piacere,
Vincer vo' di mia voglia il suo volere;
Né seguire vo' più, chi non m'estima,
Abench'in sin da prima
Accorger mi dovea che vostr'altezza
Non degnava mirar a mia bassezza.

[24 Di Francesco Maria Molza]

Occhi belli, occhi vaghi, occhi leggiadri,
Occhi di nuovo mille volte belli
E più che belli ancor ben mille volte
Sacri lampi d'amor, fulgori snelli.
Ne' vostri movimenti accorti e ladri
De l'alme che da soi legami tolte,
Seguon volando poi libere e sciolte
Vostro lume giocondo.
Occhi gloria del mondo,
Ove son tutte le dolcezze accolte,
Ed ove mira sempre intento e fiso
Già per lungo costume
Per aver lume - tutto il paradiso.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (1-15)

Post n°725 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XV

La Delfica Sibilla a Delfos nacque, 
la qual, piú tempo innanzi al mal di Troia 
profetizzando, il suo dolor non tacque; 
e vide ancor come la nostra gioia, 
dico Cristo, venir qua giú dovea 5 
a soffrir morte, per trarne di noia. 
Fu la Cumana, che condusse Enea 
per lo ’nferno, a veder di ramo in ramo 
quel frutto che di lui seguir dovea. 
Persica l’altra, e io cosí la chiamo, 10 
nomare udio e ragionar di lei 
che non men vide che quella di Priamo. 
Nel tempo di Silvio Carpento costei, 
re degli Albani, ch’io contai di sopra, 
alluminò di sé Persi e Caldei. 15 
Seguita or la quinta ch’io ti scopra: 
questa, nel tempo che Numa Pompilio 
regnava, dimostrò la sua bell’opra. 
Tanto visse, se è nel ver Virgilio, 
che morí Numa e tenne la corona, 20 
come udirai piú innanzi, Tullio Ostilio. 
Questa, ch’io dico, nacque in Babilona: 
Eritrea si nomò e lá fiorio, 
come per chiara fama si ragiona. 
La sesta Samia nominare udio, 25 
over Beneventana, e questa assai 
profetizzando disse l’esser mio. 
Ne gli anni suoi, apresso mi trovai 
Tullio Ostilio, il quale visse meco 
sí ben, per suo valor, ch’assai l’amai. 30 
Ancor nel tempo, ch’a mente ti reco, 
de la Cimera i piú parlare udia, 
ché la grazia del cielo era giá seco. 
Cacciati i re de la mia signoria, 
sentia de l’Amaltea ragionare 35 
e ricordare alcuna profezia. 
La Pontica sopra il Pontico mare 
apparve al tempo ch’Alessandro visse 
e questa udio tra’ miei molto lodare. 
Ma quella che piú altamente scrisse 40 
la Tiburtina fu, ch’a Ottaviano 
chiaro di Cristo la venuta disse. 
Quei versi che ne fe’ qui non ti spiano; 
la Chiesa i canta al tempo de l’Avvento: 
se veder li vorrai, tu gli hai tra mano. 45 
Or vo’ tornare al mio proponimento 
e seguir oltra la mia lunga tema, 
dove lasciai di Silvio Carpento. 
Dico che, poi che ’l mondo di lui scema, 
Tiberio, il suo figliuolo, il regno guida 50 
sí ben, ch’alcun per forza non istrema. 
E, secondo ch’ancor la fama grida, 
Albula, che allor perdé il suo nome, 
di costui fu sepultura e micida. 
Otto anni tenne d’Alba il dolce pome; 55 
poi, dopo lui, Silvio Agrippa regna, 
che ben prender lo seppe per le chiome. 
Al tempo suo la chiara luce e degna 
d’Omero risprendea poetando, 
secondo che Ieronimo disegna. 60 
Venti e venti anni potean esser, quando 
questo signor, del quale ti ragiono, 
morte li tolse d’Alba ogni comando. 
Or, volendo seguir, sí come io sono 
venuta in fin a qui, l’un dopo l’altro, 65 
Aremol dopo di costui ti pono. 
Fiero fu in arme, ardito e molto scaltro, 
crudele e vago d’occupar l’altrui 
e ’l suo non dare, se potea far altro. 
Io ero ancor donzella, quando fui 70 
subitamente assalita e rubata 
con tutta la sua forza da costui. 
Ma tanto ti vo’ dire, e tu ci guata: 
ch’ogni crudele, ogni superbo aspetta, 
dato il denar, ricever la derrata. 75 
Costui, che ’n questi vizi si diletta, 
nel suo palagio fu con sua famiglia 
fulminato dal ciel d’una saetta. 
Ma ciò che val? ché asempro non si piglia 
da tai giudicii e la piú parte ancoi 80 
un Capaneo o un Neron somiglia. 
Venti e nove anni visse costui, poi 
ch’ebbe la signoria al suo dimino: 
cosí si scrive e dicesi fra noi. 
Apresso lui Silvio Aventino 85 
lo regno prese e qui misura e peso 
prima fu dato a ciaschedun Latino. 
Ben fu per lui il paese difeso; 
sette e trent’anni visse in sua possanza; 
d’Aremol nacque, ch’io nomai testeso. 90 
La sepultura sua tanto li avanza, 
perché diè ’l nome a un de’ miei bei monti, 
che in perpetuo fia la nominanza. 
Apri gli orecchi e tienli attenti e pronti 
a quel ch’or dico, sí che se giá mai 95 
ne parli con altrui, che ’l ver ne conti. 
Un fratello ebbe questo re, assai 
cortese e prode: Iulio Probo dico, 
avol di Iulio Proculo, ch’io amai. 
Di qui deriva poi quel nome antico 100 
de’ Iulii, che nel mio grembo tenni, 
ai quali vidi il ciel giá molto oblico
e talor dritto come stral che ’mpenni.

 
 
 

La Bella Mano (026-030)

Post n°724 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XXVI

Questa ligiadra et pura mia colomba,
Che trarmi al fin con suoi disdegni spera,
Et quella dolce Man, sol ver me fera,
Più degna assai d'Orfeo che d'altra tromba,

Se avien che nanzi tempo in una tomba
Non chiuda, col mio ben, l'ultima sera,
Della sua fama splendida et sincera
Convien che mille valli ne rimbomba.

Et perché tal poter non vien d'altronde,
Non spero mai che il fonte scemo cresca,
Né il lauro secco già per me s'infronde.

Da calda pioggia, che dagli occhi m'esca,
Verrà nuovo ruscel di lucide onde,
Et verdi rami d'una selva fresca.

XXVII

Un crudo immaginar pien di mercede,
Dipinto in gli occhi vaghi che m'han morto,
Mia vita strugge sì, che al fin m'ha scorto,
Et per più doglia il mio martir non crede:

Sa ben come ardo disiando, et vede
Che fra speranze mi consumo a torto:
Ne basta, in farlo di mie doglie accorto,
Della mia vita acerba tanta fede.

Ma lasso di mia morte mille carte
Ne son già scritte, e il suon de' miei lamenti
Fino alle stelle temo omai rimbomba:

Né già m'assolve in tutto dai miei stenti,
Né mi perdona le mie colpe in parte
Questa innocente et candida Colomba.

XXVIII

Se tanto mio soffrir move a mercede
La man ligiadra, di che Amor m'ha morto;
Né so quanto le piaccia avermi scorto
Al mortal passo, se il mio mal non crede.

Che del mio duol te incresce, or chi nol vede?
Ma chi non ha pietà ch'un mora a torto?
Si stesse del mio ben come tu accorto,
Chi non cura di me né di mia fede.

Ma benché indarno io sparga inchiostro et carte,
Indarno impetri il fin de' miei lamenti,
Et dei miei gridi indarno il ciel rimbomba,

Riprovarò, se forse de' miei stenti
Pietà, se far si può, n'avesse in parte
Questa mia cara, angelica colomba.

XXIX

A Rosello Roselli

Rosello, io fui dinanzi al bel sembiante
Et vidi in forma vera il Paradiso,
Mirando l'eccellentie del bel viso,
E gli atti adorni di vagheze tante:

Io stava al suon delle parole sante,
Al bel tacere, al mover del bel riso,
Quale insensato, et quasi che diviso
Fusse da vita, colla Morte avante.

Ogni altro lume di più accesa spera
Parebbe un'ombra appresso il vivo Sole,
Ch'io vidi sotto l'onorate ciglia.

Onde or pensando agli atti, alle parole,
Non so me stesso s'io son quel ch'io m'era,
Sì mi ritrovo pien di maraviglia.

XXX

Anime belle, nello eterno chiostro
Servate da Natura all'altra etate,
Et che, leggendo, spesso per pietate,
Piangete dell'ingiusto dolor nostro,

Hor quando mai si vide al tempo vostro,
Rose d'inverno, et ghiaccio a meza stade?
Dove s'accolse mai tanta beltate,
Come in costei, del ciel mirabil mostro?

Chi vide mai tra voi sì vaghi lumi,
Lumi non già, ma ben Diana e il Sole,
Che l'un, per maraviglia, l'altra allumi?

Con l'arte dell'angeliche parole,
Che fan volger per forza ai colli i fiumi,
Et fra le perle germinar viole?

(continua)

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (1)

Post n°723 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Cino Rinuccini fu un poeta fiorentino del XIV Secolo, del quale sono note una trentina di poesie.

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

Venuto sono or uom di duro sasso
Per la fe ch’a Amor porto; e dentro al core
Non parla altri se non il mio signore,
Che di lei ragionando tiemmi a spasso.

Così senza pensier la vita passo,
Mia fortuna obliando e ’l mio dolore,
Nè penso altro che perla, rosa o fiore
Con che s’adorni; e così qui trapasso.

Ond’io ringrazio te, serena Dea,
Che scendesti dal ciel sol per conforto
Di chi riguarda il tuo vezzoso viso.

E poi ringrazio Amore, che d’uom morto
Fatto m’ha vivo, per la fe ch’avea
Fitta in mio cor di voi, di paradiso.



Io porto scritto con lettere d’oro,
Nella mia mente delle donne donna,
Il perchè d’esser servo a cotal donna
Assai m’è caro, più che tutto l’oro.

Quando i biondi capelli in lucent’oro
Veggio annodati da man di tal donna,
Lieto ardo tutto per biltà di donna,
8E più m’affino che nel foco l’oro.

Ond’io ringrazio te, caro signore,
Che di tal donna m’hai or fatto amante,
Che vince di color balasci e perle.

E sempre te chiamar vo per signore,
E lei per donna, e star pallido amante
A l’ombra delle sue guance di perle.




Tal donna già non vide il mio Petrarca,
Quanto Laura sua leggiadra e bella.
Temè che Dio non la facesse stella
Anzi nel cielo un sol, perchè poi scarca

Di sì dolci pensier fosse sua barca;
Qual è costei, che ’l core or mi martella,
E l’arco e la faretra e le quadrella
Tolto ha a Cupido, e sì signoril varca.

Nè pur Smirna, Mantova, nè Arpino,
Atene, ma sè stesso e ’l suo concive
Dante, Guitton, Sennuccio e Franceschino,

Arnaldo, Guido, Fazio e s’altri vive
O visse, are’ chiamato, e Messer Cino
Nelle lode di questa; e nove dive.

 
 
 

Francesco Maria Molza (3)

Post n°722 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

[11 Di Francesco Maria Molza]

Non pur degl'occhi solamente è questo
Proprio valor, o delle chiome terse
Che amor scherzando dolcemente inonda;
Ma il vezzoso parlar, che ogni cor mesto
Rallegrar puote, e spesso gir disperse
Angoscia e noi face, ove più abonda
Di ria fortuna inimicabil onda
A chi v'ascolta, le voglie empie e felle
Disperde sì che vince ogni destino
E sa di gir al ciel tutto il camino.
Tale il motore eterno de le stelle
Fra le cose più belle
Pensòvi prima il mondo fece a noi
Per far voi bella a suo diletto poi.
Ma l'andar, ch'ogni grave aspro martôro
Consolar suole, ogni mio senso invola
Sì dolcemente ch'a morir mi mena,
E quanto dal parlar lieto e ristoro
Di vita che può bene una parola
Di voi ritormi d'ogni grave pena
Tutte si perde, e non vi trov'appena
Che fatto dubio al debole intelletto
Qual più di vostra man debbia aver grato,
O il viver, o il morir che li sia dato;
Perché del sacro e glorïoso aspetto
Sempre nuovo diletto
Mi vien, né da la vita ho alcun gioire
Ch'un altro non ne provi nel morire.
Così pietade il cor, fausto mio sole,
V'allumi in modo che s'adorni sempre
A non soffrir ch'a sì leggiadra sorte
La mia ferma speranza, come suole,
Fede non tenga, e sì il mio duol contempre
Vostra vertude con l'usate scorte,
Che senza tema di futura morte
Ogni loco rimembri il vostro nome,
E meco il porti con sì largo volo
Che questo ne ragioni e l'altro polo,
E gli occhi vaghi, e l'anelate chiome,
Dolci del mio cor some,
Pindo celebri insieme et Helicone
Tal ch'ogni lingua vi conosca e sone.
Sopra il monte Tarpeo, canzon, n'andrai
Là dove come al lor segno ne vanno
Per aver vita tutti i pensier miei.
Ivi inchinando chi adorar tu dei,
Obliar ti fia lieve ogni altro affanno.
Dille che del mio danno
Mi pasco, e che più bella nella mente
La porto assai che nel mio dir non sente.

[12 Di Francesco Maria Molza]

Madrigali del Molza

S'io parlo, io dico il vero,
Che se non fusse la mia donna eletta,
Non avrìa il mondo in sé cosa perfetta.
Chi potrìa mai disïare il disìo,
O sperar la speranza,
Privo d'oggetto tal ch'ogni altro avanza?
Pensi ognun di costei come facc'io,
E volga gli occhi ne' begli occhi suoi,
E mi risponda poi.
Dirà che quanto penso,
E quanto veggio con giudizio in terra,
È vedere e pensare un bene immenso,
E più che amore spesso
Ne parla con sé stesso,
E dice: o Amor, tu sarai quel che sei
Sin che se' in grazia a lei.

[13 Di Francesco Maria Molza]

Veramente, madonna, in me l'ardore
Tanto non è quanto bellezza in voi,
Ch'uom viver non potrebbe in tanta doglia
Bene quant'in amor esser mi voglia;
Né perché tutti e soi
Pungenti strali in me spendesse Amore
Potriami accrescer punto di martìre,
Ché gionto son a quel ch'uom può soffrire.

[14 Di Francesco Maria Molza]

Madonna, s'io credessi ch'a pietade
Vi movesse il mio grave, aspro martìre
Poco mi curerei poi di morire;
Ma per vedere il vostro divo aspetto,
Pieno di crudeltade,
E voto di pietade,
Credo che sol bramati che mia vita
Non finisca e manchi; ché 'l diletto
Che del mio mal pigliate
È vostra volontate:
Morto ch'io fusse, non serìa finita,
Che brama' sol veder trista mia vita.
Dunque lasciate ormai l'acerba voglia,
Ch'ogni tormento e doglia
Che per voi porto mi diletta e piace.

[15 Di Francesco Maria Molza]

Guardate, amanti, io mi rivolgo a vui,
Perché so ben ch'altrui
Intender già non può che stato è il mio.
E giudicate poi che piango a torto,
Amo quanto si può, né per conforto
De li amorosi affanni altro desìo
Che veder gli occhi de la diva mia;
Et ella acciò ch'io sia
Fra gli infelici amanti il più infelice,
Quest'amor mi disdice,
E sol tanto mi mostra del bel viso
Ch'io veda che 'l mio mal la move a riso.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

La Bella Mano (021-025)

Post n°721 pubblicato il 03 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XXI

Amor, quando me vene
Dinanzi quella Luce,
Che di belleze avanza il primo Sole,
Io sento fra le vene
Piacer, che mi conduce
Ladove il sommo bene albergar suole:
Allor mi vien parole
Dal cor sì altere e nove,
Et ciascun pensier tale,
Che imaginar mortale
Tanto non sente già, né lingua move:
Ond'io grande mi tegno,
Che il ciel di tanto ben mi fesse degno.

Ben debbo il mio destino,
Che mi condusse et spinse,
Laudare, essendo in me così cortese;
Et quel voler divino,
Che al bel laccio mi strinse,
Et sì soavemente il cor m'accese:
Laudar debbo l'offese
Della spietata voglia;
E il disdegnoso petto,
Che d'indurato affetto
Ha fatto il smalto, perché ognor mi doglia:
Che lei che il cor m'ancide,
Avanza ogni altro ben che mai si vide.

Felice l'ora e il giorno,
Che in forma tanto umile
Apparve a noi mia matutina Stella
E il mondo, che fu adorno
Di spirto sì gentile
Et di persona sì leggiadra et bella:
Ma più beata quella
Anima eletta e pura,
Che scesa giù dal cielo,
Si avolse nel bel velo;
Che tanto ha fatto onore alla Natura:
E il loco ove già nacque
La bella donna, che a me tanto piacque.

Virtute et Gentileza
Quaggiù discese, Amore,
Quando Madonna venne in questa vita;
E il ciel d'ogni belleza
Fu privo et di splendore
D'allor, che nelle fasce fu nudrita.
Perché alla più fiorita
Et più perfetta etade
Il tempo la rivolse,
In lei sola si accolse
Quanto si vide al mondo di beltade.
Ond'io ringratio e lodo
Chi pria mi strinse a sì leggiadro nodo.

Ricca pioggia di rose
Nelle sue trecce bionde
Cadea, quando di lei pria 'namorai,
Negli occhi il sol s'ascose
(Né sa far nido altronde)
Per più colmarmi d'infiniti guai:
Et di amorosi rai
Ardeva il suo bel viso
E il fronte di colei,
Che è uno specchio agli occhi miei,
Formato veramente in Paradiso.
Dunque sian benedette,
Amor, tue forze et l'arco et le saette.

Canzon, se vai dinanzi al mio Tesoro,
Adorna tua persona;
Et poi cortese del mio mal ragiona.

XXII

Questo mirabil mostro di natura,
Che il cor m'ha pien di speme et di disire,
Non ha, chi verso lui la vista gire,
Umano aspetto, né mortal figura.

Chi di virtù, di fama, et di onor cura,
Chi forse aspetta al ciel fra noi salire,
In lei si specchi, et segua; e il volto mire,
Dove il maestro pose ogni sua cura.

Di lei ne vien divine le parole;
Beato il viso e il guardo, ove due stelle
Si mostran dal seren dell'alme ciglia;

L'andar celeste, et gli atti santi, et quelle
Caste bellezze angeliche, che sole
Il mondo han tutto pien di maraviglia.

XXIII

Mirate omai, per dio, l'aspetto sagro,
E il fronte, dove il nostro Sol s'oscura:
Mirate dove pose mia ventura
Virtude, perch'io aghiaccio e perch'io flagro:

Mirate in terra l'alto simulagro,
D'onde tant'arte Policleto fura,
Et gli occhi, ove risorge per natura
Il fonte, ond'io mi pasco, dolce et agro:

Mirate un altro Sole, et di più lume,
Che il mondo errante al camin dritto invia:
Et che ne volge a più salda speranza:

Mirate insieme ogni real costume,
E il vero esemplo d'ogni leggiadria
Et delle stelle l'ultima possanza.

XXIV

Dal terzo Ciel nel bel sembiante umano,
Ove ogni stella quanto può diffonde,
Cade virtù sì fatta, che confonde
Chi presso il guarda, et strugge di lontano;

Et col poter, che poi lui preso ha in mano,
Cangiato ha le sue prime trecce bionde;
Et tolto ogni beltà, che vede altronde,
Per far quanto è quaggiù caduco et vano.

Rubato al Sole ha le dorate chiome,
Et quelle luci ladre, e il chiaro viso,
A Venere l'andare et la parola.

Così agli Dei fa forza; et non so, come
Chi può consenta, il cielo e il paradiso
Impoverir, per arricchir lei sola.

XXV

Questa finice, che battendo l'ale,
Dall'oriente a l'occidente viene
Nel fronte la sembianza ha di quel bene,
Di che sì poco al cieco mondo cale:

Negli occhi quello angelico fatale
Foco s'accende di salute et spene,
Che qualità da quella cagion tiene,
Che può far solo l'anima immortale.

Cangiando clima cangia il suo bel manto,
Et si rinova nelle fiamme come
Il mondo, quando il veste Primavera.

Ma sol casta bellezza del bel nome
L'ha fatta degna: et questo è quel che tanto
Fe' gia costei sopra gli augelli altera.

(continua)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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