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Messaggi del 04/12/2014

Francesco Maria Molza (5)

Post n°731 pubblicato il 04 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[25 Di Francesco Maria Molza]

Non v'ammirate, amanti, se tant'amo;
Che, se dir lo potessi,
E di ciò non temessi,
Certo i' vi farei
Conformi a' desir miei;
Ma perché maggior foco non m'accenda,
Non vo', perché tant'amo, alcun l'intenda.

[26 Di Francesco Maria Molza]

Né v'ammirate, amanti, s'io l'adoro
Ch'ella non è mortale;
Ma perché non mi cale
Troppo scoprir mio bene,
Così resto in catene,
Acciò ch'alcuno non m'aggiunga doglia
E della mia fatica il frutto coglia.

[27 Di Francesco Maria Molza]

Non v'ammirate, amanti, s'in lei spero,
Ché dov'è tal beltade
Sperar si può pietade.
Io l'amo e quella adoro,
E spero aver ristoro;
S'ho perso il tempo, et haver quanto bramo,
Sì che non v'ammirate se tant'amo.

[28 Di Francesco Maria Molza]

Rendete al ciel le sue bellezze sole
E le grazie alle grazie, ove conquiso
Avete ogn'alma, che le mirò fiso,
Di che più pianger che parlar si vuole.
E rendete i costumi alle parole,
L'angelica sembianza e il dolce riso,
E tutti gli onor suoi al paradiso,
E le due stelle al ciel, li raggi al sole.
E rendete ad Amor l'arco e gli strali
E rendete lor prima libertade,
E i cori e l'alma ai miseri mortali.
Che sogn'altrui rendete in quest'etade
Non resterà se non con mille mali
Altro del vostro a voi che crudeltade.

[29 Di Francesco Maria Molza]

Il nodo del tu' amor non fu tenace,
Né gentilezza in te regnò giamai;
Però debbi saper che sempre mai
M'è stato il sdegno tuo tranquilla pace.
Arda ove vuol pur del tuo amor la face,
Ch'io canterò come dianzi cantai;
Ben credo ch'ogn'amor ti darà guai,
Sendo tu troppo oltre il dover' audace.
Li miei pensier giamai non fur sì allegri,
Né mai sì lieta il sol co le sue chiome
Mi vide, poi che fur(on) sparsi al vento
Li tuoi fastidi, a me sì tristi et egri;
Ai quai pensando come del tuo nome
Odir potessi solo, io mi sgomento.

[30 Di Francesco Maria Molza]

Madrigali del Molza

Quell'amorosa fiamma e dolce laccio
Che con egual disio
Arde il cor vostro e mio,
E tien l'un'alma a l'altra insieme stretta,
Perch'è cosa perfetta
Altro nol fe' che Dio,
E durerà mentre fia caldo e ghiaccio;
Ché poi che 'l ciel fe' vostra ogni mia voglia
Cosa esser più non può che ci dispoglia.
Dunque togliete via
Da voi ogni timore,
Però che 'l vostro amore,
E la fiamma, e la fede eterna fia
Io vostro adonque omai, voi sempre mia.

[31 Di Francesco Maria Molza]

Già donna, or dea, nel cui virginal chiostro
Scendendo in terra umile a caldo e gelo
Si chiuse per scamparne il re del cielo
Da l'empie man de l'adversario nostro.
I pensier tutti, e l'uno e l'altro inchiostro
Cangiata vesta con la mente il pelo
A te rivolgo, e quel ch'a gli altri celo
L'interne piaghe mie ti scopro e mostro.
Sanale, ché puoi farlo, e dammi aìta
A salvar l'alma da l'eterno mostro,
La qual sì lungamente hanno schernita
Le sirene del mondo, e fatto inganno.
Non tardar tu, ch'omai della mia vita
Si volge il terzo e cinquantesimo anno.

[32 Di Francesco Maria Molza]

Tant'è 'l piacer quant'altro è il mio desio,
Castità, donna, è 'n voi quant'è bellezza;
All'alta impresa il mio desir avampa,
Voi, donna, l'altre e 'l sol le stelle imbruna,
Beato il dì che 'l cor tant'alto alzai,
E mia donna gentile, onesta, bella,
Di tanta donna il ciel non altro è degno.
O mio dolce desir, o bella impresa,
Perché non pia quant'è madonna bella?
Più ch'io la miro, in lei grazie più trovo,
Il ciel non altro a tanta impresa alzòmi.
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (3)

Post n°730 pubblicato il 04 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.


Quel dolce lume, che mi gira e volve
Pure in se stesso, e l’aer del bel viso
Gentile, onesto, e l’angelico riso
Ch’ogni dolcezza e leggiadria involve,

È quel che vil pensieri in me risolve
Come cereo corpo in foco miso,
E dove lo ’ntelletto ho sempre fiso,
Finchè sotterra sarò trita polve.

Or ben vorrei con questa debil penna
Consecrare il suo nome e farlo eterno,
Ma mancami scïenza, ingegno ed arte.

E ’l mio signor sorridendo m’accenna
Dicendo; io veggio bene e chiaro scerno
Che annoverresti pria le stelle sparte.



Altro non contempl’io se non quel sole
Ch’è fra le donne un sì altero mostro,
E cui non fregian perle o oro o ostro,
Ma virtù ornan sue sante parole.

E di me stesso assai forte mi dole,
Dopoi che ’l debil mio povero inchiostro
Non può descriver, quel che ’l mondo nostro
Non pure onora, ma adora e cole.

Divin poeti, Virgilio e Lucano,
Ovidio
, Stazio, e tu fiorentin Dante
Insieme col Petrarca e Claudiano,

Perchè non siete voi all’opre sante,
Sicchè cantassi il viso più che umano,
Che fece il mondo e ’l cielo sì ammirante?



Io non posso ritrar tanta bellezza
Quanta è ’n costei, nè già di ciò m’anmiro;
Che mai rotò in più cortese giro
Il cielo allora, quando tutt’adornezza

E leggiadria, costumi e gentilezza
Posaro in questo orïental zaffiro;
E perch’io son mortal, meco m’adiro,
S’io presumo descriver tant’altezza.

Conciò sia cosa che i celesti ingegni
Degna materia avrebbono a lor penne,
Cantando sua biltade e sua virtute.

Or non volendo far miei versi indegni
Di questa bella Dea che dal ciel venne,
Deh state, rime mie, deh state mute.

 
 
 

L'arte di prender moglie

Post n°729 pubblicato il 04 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

L'arte di prender moglie

L'arte de pijà' moje, da 'na parte
E' la cosa più facile der monno;
E Adamo e Eva quanno se sposonno
Feceno tutto quanto senza l'arte...

Che ce vò' a pijà' moje in fine in fonno?
Vòi sposa' 'na regazza? fai le carte.
Vai in chiesa, a Campidojo, poi se parte
Pe' fa' tutte le cose che ce vonno;

Ritorni; doppo un anno, a bon bisogno,
Te nasce un fio che nun t'arissomijaj
Quattro cazzotti ... e questo è er matrimogno.

Ma noi de 'st'arte ce n'avemo tanta:
Nun volemo sape' come se pija,
Voressimo sape' come se pianta.

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Il Dittamondo (1-16)

Post n°728 pubblicato il 04 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XVI

Soppellito Aventin dove hai udito, 
prese Silvio Procas la signoria, 
che fu bisavo al mio primo marito. 
Or qui di grado in grado par che sia, 
parlando, iscesa dove a Orosio piace 5 
prender principio de la storia mia. 
In questo tempo appunto per Arbace 
la monarchia giú cadde de li Assiri, 
che fu sí grande al mondo e tanto aldace. 
Onde, se ben dirittamente miri, 10 
conoscer puoi ch’allor la mia s’avanza, 
che quella cadde a gli ultimi sospiri. 
Tre anni e venti tenne la possanza 
d’Alba costui con tanto valore, 
ch’assai ne prese il popol suo baldanza. 
Due figliuoli ebbe e l’un fu Munitore, 
Amulio l’altro; ed al primo scadea 
la signoria, però ch’era il maggiore. 
Ma non andò cosí, come ir dovea, 
ché Amulio a Munitore tolse il regno, 20 
e tolse la sua figlia Silvia Rea. 
Poi, sí come uomo d’ogni vizio pregno, 
a la dea Vesta la vergine diede, 
perché di lei mai non fosse sostegno. 
Ma nota, figliuol mio, che non procede 25 
le piú volte cosí a l’uom la cosa, 
come nel suo pensier ragiona e crede. 
Dico che, stando ne l’ordine ascosa, 
due figliuoli ebbe, come che si scriva, 
da cui non so, ma bei quanto una rosa. 30 
Gittar li fece lungo la mia riva 
questo crudele, avolti ne le fascia, 
e lei ancor soppellir viva viva. 
L’opinione in fra gli autori lascia 
se funno o no lattati da una lupa, 35 
ché d’altro cibo convien ch’io ti pascia. 
Cosí l’avaro e il crudele occupa 
lo regno tutto; ma, se guardi bene, 
la fine, se mai fe’, fu rea e strupa. 
Qui di Saturno e Laius mi sovene, 40 
che mandâr per morire i lor due figli, 
dai quai sentiron poi tormenti e pene. 
Folle è qual crede che, per suoi consigli, 
rimuover possa l’ordine del cielo, 
se non con santi preghi in che vigigli. 45 
Cresciuti i due gemelli e messo il pelo 
e stando coi pastori a la foresta, 
tenean di signoria costumi e stelo. 
Un dí, siando insieme a una festa, 
fu preso l’uno e al suo zio menato; 50 
l’altro fuggí per tema de la testa. 
Ma vedi: spesso avièn ch’uomo è turbato 
di cosa e piange perché li è contrara, 
che poi li torna in grandezza e in istato. 
Similemente a costui parve amara 55 
la sua presura e dove temea forte 
li tornò poi in dolce cosa e cara: 
ché per questa cagion fun grandi in corte 
con Munitore e vendicaro ancora 
la madre lor de la spietata morte. 60 
Cotale posso dir ch’era io allora 
qual è il pomo maturo in su la rama, 
che poi si guasta, se piú vi dimora. 
Ora il cielo, che ogni cosa chiama 
a ordinato tempo, li suoi lumi 65 
volse vèr me, per darmi onore e fama. 
E i due gemelli, che per bei costumi 
nomar potrei Castore e Polluce 
e di beltá, per quel ch’aviso, lumi, 
s’innamorâr de la mia bella luce. 70 
Ma l’un fu morto e qui si tace il come; 
l’altro rimase sol signore e duce. 
Dal nome di costui presi il mio nome; 
e certamente il primo sposo fue, 
che sentisse il piacer del mio bel pome. 75 
Piú e piú gioie portai de le sue 
e, in fra l’altre, una maggior cintura 
che Dido non fe’ far del cuoio del bue. 
Pensa al mondo non è cosa sicura; 
e folle è qual ci crede fermo stato, 80 
ché quel ch’è piú è pien d’ogni paura. 
Questo marito mio, ch’i’ t’ho contato, 
essendo presso a Caprea, al palú, 
apparve un tempo con vento turbato. 
Tonando, la tempesta cadde giú; 
e, come che rapito o morto fosse, 
per me da poi non si rivide piú. 
Se di lui m’arse il core e se mi cosse 
pensar lo dèi, ch’a dirlo mi sarebbe 
rinnovellare un duolo a le mie osse; 90
e dir non tel saprei, sí me ne increbbe.

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (2)

Post n°727 pubblicato il 04 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

Chi è costei, Amor, che quando appare
L’aer si rasserena e fassi chiara?
E qual donna è con lei tenuta è cara,
Per le virtù che prendon nel suo andare.

Negli occhi vaghi allor ti metti a stare,
Nel cui lume natura non fu avara,
Signor, sicchè da te e lei s’impara
Di non poter parlar, ma sospirare.

Benchè se fosse Omer, Virgilio e Dante
Ne’ miei pensier con lor versi sonori,
Non porrian mai ritrar la sua biltade.

Perocchè Dio da’ suoi eccelsi onori,
La produsse quaggiù nel mondo errante,
14Per mostrar ciò che può sua deitate.

 

Tu vuoi ch’io parli, Amor, della bellezza
D’un miracol ch’è al mondo,
Il qual non ha secondo;
Come il potrò io far senza tua aita?
Aiutami, signor, dammi fortezza
Ch’io sopporti tal pondo,
E fa ch’io sia facondo
A ritrar sua biltà, ch’è infinita.
Se ’l mio intelletto, ch’ha virtù finita,
Tal leggiadria e tal miracol novo,
E ’l foco in ch’io mi trovo
Mostrar non può, fanne tu degna scusa
E dì che mal s’ausa
Lingua mortale a parlar del divino,
Ch’ha ’n se la bella donna dentro ascusa.
Perchè umìl mi dichino
A domandar perdono, a voi dicendo
Ch’io non posso ridir quel ch’io comprendo.

I capei d’oro, la spaziosa fronte
Dove ridon le rose,
Nere ciglia amorose,
Con una via di latte che divide
Dall’altro a l’uno infin ch’al naso smonte,
Dove drittura pose
Natura, e dove ascose
Degli occhi il lume di mie stelle fide,
Disparir fanno il sol, dove Amor ride;
Con guance che di perla orientale
Hanno color, nè tale
Più visto fu la piccioletta bocca,
Co’ sottil labbri fiocca
Soave odore da’ suoi nivei denti
E ’l mento è sì pulito, che si scocca
Policreto e sue genti.
Quando riguardo tal bellezze fiso,
Non so s’io sono in terra o ’n paradiso.

La svelta gola è colonna polita,
Che sostien la cervice
D’esta bella Fenice,
Con color cristallin che sempre splende.
E l’ampie spalle ov’è biltà compita,
E’ bracci a cui ne lice
Ciò che ’l pensier ne dice,
Se tra lor fossi, o beata tua vita.
Le bianche man, le sottilette dita
E ’l suo latteo petto e le mammelle,
Che chi da lor si svelle,
Non può dolce sentire in alcun loco.
Per onestà vo poco
Trattar dell’altre parti ascoste, Amore.
Il suo soave andar saetta foco
A chi ’l guarda nel core;
Ond’io contento ciò ch’è maraviglia,
E spesso dico il suo fattor somiglia.

Fra divine bellezze Amore ha ascoso
Un cor tanto gentile,
Con vago aspetto umìle,
Da fare innamorar te, sommo Giove.
Nel suo bel viso siede ogni riposo,
E ciascun atto vile
Vi pere, sicchè simile
Si vien d’ogni virtù, che da lei piove.
63Negli occhi suoi, se avvien ch’ella gli muove,
Si veggon cose ch’uom non sa ridire,
Ma convienvi perire
Siccome occhio mortal nel divin sole.
Con qual degne parole
Potrei io mai ritrar la sua virtute?
Far nol so io, ma chi in un punto vuole
Veder tutta salute,
Guardi il miracol che dal terzo cielo
Produsse Dio quaggiù nel mortal velo.

Per lei son io, signor, venuto a tale
Che or d’un sasso duro
Tutto mi trasfiguro
E diveng’uomo e poi pallido amante.
O contraria a Medusa, a me non vale
Fuggir, sicchè sicuro
Da te più non mi furo,
Perchè mi sgrida Amore; ond’io tremante
81A lui m’assegno, ed a te vengo avante,
Che siedi com’ei vuol nella mia mente,
Ad esso obbedïente.
Comanda tu, che mi sentenzi a morte.
O trista, o dura sorte!
Allor guard’io se alcun atto pietoso
Rimaso è ’n te, ch’hai ’l cor di diamante,
E veggio sì cruccioso
Il tuo aspetto, ch’altro non mi giova
Che chiamar morte, morte, morte a prova.

Descritto hai, Canzon mia, piccola parte
Di quel ch’io ho dentro, che non so mostrare.
Ma basti questo a fare
Muover gli amanti che truovi a pietade
Dì loro in veritade,
Che per la fe ch’ad una donna porto,
Io son venuto al punto ov’io son morto.
E poi con umiltade,
Nelle man della bella donna mia,
Raccomanda lo spirto che va via.

 
 
 
 
 

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