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Messaggi del 05/12/2014

La Bella Mano (031-035)

Post n°735 pubblicato il 05 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XXXI

A Orso Orsini(?)

Orso, né l'Arno già, né il Tebro, o il Nile,
Né il Ren, che bagna et riga il bel paese,
Dove sì altamente amor mi prese
Di cosa tal, che ogni altra mi par vile,

Spegner porian di quel foco gentile,
Che m'arde il cor, pur due faville accese,
Sì, mi fur dentro et con tal forza, apprese,
Mirando alta belleza in atto umile:

Né tutti i quattro i venti insieme accolti
Sgombrar porian la nebbia dei pensieri,
Che mi raduna in core un bel disire.

Hor quando dunque Amor vorrà ch'io speri
che i miei sospir dal petto mi sian tolti,
E in cor, temprato il foco del martire?

XXXII
O mondo, o voglia ardita, onde mi dole;
O van pensier, che la mia mente allaccia;
O tu, donde arde il core et sempre aghiaccia,
Fra noi, per maraviglia, vivo sole;

O pompa delle angeliche parole,
Che a forza de i suoi corpi l'alme caccia;
O dispietato artiglio, onde m'abbraccia
Amor, che m'ha pur giunto ove lui vole:

O rinnovati miei passati affanni,
O fera stella, che il diaspro induri,
Ver cui già far difesa a me non vale:

Et voi, occhi beati et troppo duri,
Nemici congiurati nei miei danni,
Deh, perché a torto, perché tanto male?

XXXIII

Io vidi già sì altere et nove cose,
Che il pensier sol da ogni altra m'allontana,
Vidi nuova sembianza più che umana,
Dove ogni arte Natura, e il Ciel ripose:

Vidi le ciglia tanto aventurose,
Giunte a quegli occhi, ove ogni luce è vana;
Et quella Man, che sol poria far sana
L'alta piaga d'amor, che il cor mi rose:

Seguendo di chi m'arde i passi et l'orme,
Parole udii, che altrui ascoltar non lice,
Fra perle et rose mosse con silentio.

Questi atti nel mio cor con salde norme
Ferno già dolcemente la radice,
Donde or vien frutto amaro più che absentio.

XXXIV

Mentre io potei portar celato il foco,
Che già sì lungamente m'arse il petto,
Strinsi la fiamma, benché a mio dispetto,
Che, chiusa, m'ha infiammato a poco a poco.

Ma poiché pur crescendo non è loco
Nel cor, che basti al dispietato affetto,
Legato et preso al fin, come suggetto
Mercè chiamando, a te conforto invoco.

Guarda la vita mia quando ella è oscura,
Et prendine pietà di tanti guai,
Che son condotto al punto del morire;

E tosto, ahi me, per Dio soccorri omai,
Che se la guerra picciol tempo dura,
Non posso in tanto affanno più soffrire.

XXXV

In quella parte, dove i miei pensieri
Miran quegli occhi vaghi, anzi quel sole,
Che scorge al glorioso fin la gente,
Convien che le dolenti mie parole
Per forza pieghi, avenga ch'io non speri
Trovar parlando posa al cor dolente.
Divina luce, che sì dolcemente
Mia vita ardendo, al foco mi consumi,
A te rivolgo tutti i miei sospiri:
Et se pur dai martiri
Non mi dan pace o triegua quei bei lumi,
Più misurata guerra al cor si faccia:
Quelle spietate braccia,
Ond'io cotanto oltraggio ancor sostegno,
Apra s'io ne son degno,
La natural bontà, che dal ciel hai,
Commossa da pietà di tanti guai.
Quello infinito ben, di che io ragiono,
Et quell'alta speranza che indi nasce,
Gli spirti invola nel parlar ch'uom face:
Talché l'alma ingannata allor si pasce
D'ombre soavi, che raccolte sono
Nel cor, che disiando ognor si sface:
Così si annoda la mia lingua et tace,
Che volea dir della mia acerba vita;
Et di bontade or parla et di salute,
Sì forte è la virtute
Di quello alto subietto che la invita,
Che ragionando eterno ne divento.
Nel ben passato io sento
Il mal presente, et me medesmo oblio;
Et morto è quel disio,
Che m'avea scorto a lamentar del foco,
Che mi va consumando a poco a poco.
La meraviglia del crudel mio stato,
Che dolcemente vien da dolce parte,
Fa che il mio mal non creda chi l'ascolta,
Benché il parlar sia certo in mille carte.
O mio soccorso tanto disiato,
Per voi, mirate quanto l'alma è involta
E stretta sì, che mai non fia più sciolta,
Se non rompe la man che già la prese,
Quella catena d'oro, ove la stringe.
L'angoscia che dipinge
A color' tanti le mie guance accese,
Et chi m'affredda in un punto et scolora
Trapassa ad ora ad ora
L'usato sì, che il fin spero da poi.
So ben ch'altri che voi
Del mal, che m'invaghisce et che m'incende,
Né la cagion né le parole intende.
Et per più doglia so che stella cara
Dispone gli atti vostri, et che Natura
Vi fece umana et di pietate amica.
Quel vago impallidir, che il fronte oscura,
E il subito infiammar, dove s'impara
Morire et ritornar, vie più m'intrica.
Lasso, a me non val, dolce nemica.
Né forza di pianeti, o d'altre tempre,
Né cangiar quei bei lumi, ond'io tutto ardo.
Se l'amoroso sguardo
In voi accogliete, perch'io mi distempre
Si, che io ne mora senza aver mercede:
Et sete di mia fede
Accorta, nel mio fronte il cor mirando:
Così m'ha posto in bando
D'ogni sperar costei del ciel Sirena,
Che a forza con suoi sdegni alfin mi mena.
Io veggio ben, ch'io non son degno a tanto
Se non soccorre vostro alto valore,
Alma gentil, che nei miei detti onoro:
Beltà scesa dal ciel perdona al core;
Et, per Dio, scusa l'anima che alquanto
Trasporta il gran disio, quando m'accoro:
Ardo in un punto e agghiaccio, vivo et moro,
Mentre che sospirando tu sorridi
In guisa che visibilmente impetro:
Amor poi ch'io mi spetro,
Giugne al felice duol più nuovi stridi,
Et qui fra il troppo lume vengo meno:
Né posso in mano il freno
Tener della ragion, cara mia luce,
In tanto mi conduce
L'angelica belleza, e il bel cordoglio,
E il mio giusto dolore ove io non voglio.
Se per destin, canzone, o per pietate
La man leggiadra, e sopra ogni altra bella,
La qual prende a diletto i dolor miei,
Ti porgerà colei,
Che il mio cor volge in questa parte e in quella,
Dilli, per che toccarla a me non lice,
Et poi, lasso infelice,
Mira l'alta eccellentia che m'uccide,
Che mal per me si vide
Il fronte, il viso, et quella bionda treza,
Poi che mia morte fan di sua belleza.

 
 
 

Indice di Rime inedite del 500

Post n°734 pubblicato il 05 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del Cinquecento (Romagnoli, Dall'Acqua, Bologna 1918) è reperibile, in versione testuale, sul sito Biblioteca italiana.
Il volume contiene 293 componimenti. I poeti più rappresentati sono (tra parentesi il numero di poesie):
Latino Latini (39)
Francesco Maria Molza (32)
Luigi Alamanni (21)
Borso Arienti (15)
Tarquinia Molza (12)
Cesare Caporali (12)
Claudio Tolomei (12)
Cesare Cremonini (11)
Torquato Tasso (10)

I post

Francesco Maria Molza
(01-05)
(06-10
(11-15)
(16-24)
(25-32)
Giovanni Falloppia
Anonimo
Tarquinia Molza (post 1)
Tarquinia Molza (post 2)
Luigi Alamanni
Pietro Bembo
Torquato Tasso
Battista Guarini
Ettore Cavalletto
Alessandro Bovio
Antonio Minturno
Angelo Di Costanzo
Mario Bandini
Veronica Gambara
Tommaso Castellani

Borso Arienti
Cesare Caporali (XI-1) (XI-2)
Nicolò Amanio
Cesare Cremonini
Diomede Borghesi (XIV-1) (XIV-2) (XIV-3)
Giovanni Andrea Gesualdo
Francesco Panigarola
Antonio Montecatini
Giambattista Guarini
Giovan Francesco Bruni
Giovanni Guidiccioni
Domenico Veniero
Giovanni Muzzarelli
Andrea Navagero
Carlo Montecuccoli

Pietro Barignano
Giovanni Mahona
Antonio Cinuzzi
Orazio Vecchi
Claudio Tolomei
Carlo Coccapani
Salomone Usquè
Orazio Ariosti

Lodovico Dolce
Gabriele Zerbo
Ottaviano Brigidi
Rodolfo Arlotti

Pier Giovanni Silvestri
Ferrante Gonzaga
Latino Latini (XXXIX-1) (XXXIX-2) (XXXIX-3)
Nino Nini
Geremia Guglielmi
Cesare Malvicini
Annibale Di Osma
Scipion Da Castro
Annibale Pocaterra
Luigi Putti
Alessandro Guarini
Anonimo

 

 

 
 
 

Il Dittamondo (1-18)

Post n°733 pubblicato il 05 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XVIII

Ben hai udito brevemente i casi: 
come donzella fui e venni sposa 
e come poi vedova rimasi. 
Tal era io allor, quale una rosa 
ch’apre le foglie e si fa d’ora in ora 
a gli occhi altrui piú bella e piú formosa. 
Numa Pompilio di me s’innamora, 
lo qual del mio piacer tanto fu degno, 
quanto alcun altro ch’io sapessi allora. 
Venti e venti anni e due tenne il mio regno 
con tanta pace, che, quando vi penso, 
ancor per maraviglia me ne segno. 
A far nobili templi puose il senso, 
a ciò che quivi fosson venerati 
tutti i suoi dei con mirra e con incenso. 
Magico fu e ne li scongiurati 
dimon credette, sí che dopo morte 
nel suo avello i libri fun trovati. 
Giustizia tenne viva, ferma e forte; 
piú leggi fece e presene d’altrui, 
le quali onorâr lui e la mia corte. 
Pomponio fu il padre di costui: 
dico Sabino e di Tazio parente, 
dal quale offesa e poi servita fui. 
Questo mio sposo fu tanto intendente, 
che per trovar Pitagora si diede, 
lo qual solo a natura puose mente. 
Ad Acronia passò, la qual si crede 
ch’Ercules fosse cagion del suo sito 
e per Ovidio ancor se ne fa fede. 
Visse signore il tempo c’hai udito; 
morio di morbo e in Gianiculo monte 
fu con gran pianto apresso soppellito. 
Chiusa nel manto e ’l vel sopra la fronte, 
nascosa Egeria a la selva sen gio, 35 
dove Diana la converse in fonte: 
e ben che questa trasformasse in rio, 
assai mi parve minor maraviglia 
che quando Ersilia suso al ciel salio. 
Asciutti gli occhi tristi, e le mie ciglia 40 
nel pianto doloroso, Tullio Ostilio 
vago di me per sua donna mi piglia. 
E se con pace m’accrebbe Pompilio, 
costui con guerra; e dritto assai gli avenne, 
sí destro il vidi e di fermo consilio. 45 
Tanto fu fiero e aspro in arme, che nne 
piansono i Fidenati alcuna volta, 
che contro a lui aperte avean le penne. 
La guerra incominciò acerba e folta 
contro gli Albani e Mezio lor signore 50 
per poca cosa, dico, e non per molta. 
Qui fu l’aspra battaglia e ’l gran dolore 
da tre a tre e Tito Orazio solo 
allora mi tornò l’anima al core. 
Chi ti potrebbe dire il pianto e ’l duolo 55 
del vecchio padre, che, dopo i tre morti, 
vide a morte dannar l’altro figliuolo? 
Ben den, come qui Tullio, essere accorti 
i gran signor: cioè che la pietade 
talor chiuda a giustizia le sue porti. 60 
Costui vid’io di tanta nobiltade, 
che primo usò corona e real vesta 
ch’altro Latino e simil dignitade. 
Costui in sul Po, dove ancor par la testa, 
fe’ la cittá d’Ostilia bella e cara: 65 
la fama il grida e ’l nome il manifesta. 
Con gli occhi tristi e con la bocca amara 
cacciò i Sabini al malizioso bosco, 
i quali contro a lui preso avean gara. 
E tanto fu mortale ancora il tosco 70 
lo quale ai Veienzii fe’ sentire, 
che ’l color ne cambiâr di vivo in fosco. 
L’abitar suo, com’hai potuto udire, 
in Velia fu e lá di ricche mura 
fe’ un palazzo, ch’assai n’avrei a dire. 75 
Molto ebbe, in fin che visse, di me cura 
e, non meno che ’l mio secondo sposo, 
accrebbe con beltá la mia cintura. 
Di Mezio re ancor prendo riposo 
che squartar fe’ e disfar la sua schiatta, 80 
perché di lui tradir era stato oso. 
L’anima al fin del corpo li fu tratta, 
dove star si credea più sicuro, 
da folgor, che per l’aire si baratta. 
E se qui il tempo a punto ben misuro, 85 
due anni e trenta avea dal dí ch’io ’l tolsi 
a quel che venne sí turbido e scuro. 
Certamente di lui tanto mi dolsi 
quanto donna de’ far di buon marito; 
e non sola io vestire a ner mi volsi, 90
ma 'l popol mio, sí ne 'i vidi smarrito.

 
 
 

Il Dittamondo (1-17)

Post n°732 pubblicato il 05 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XVII
 
Da Dio dico che vien ciascuna grazia,
allor ch'io penso nel principio mio
come fu poco e poi quanto si spazia.
Questo mio bene e questo mio disio 
fu ne la vita sua sí fatto e tale, 5 
che ciascun mio l’avea per un iddio. 
Per povertá ch’avesse o alcun male, 
com’i’ t’ho detto, essendo pastore, 
non perdé mai l’animo reale; 
ma del poco ch’avea facea onore 10 
a’ suoi compagni ed era tanto giusto, 
che lo tenean come lor signore. 
Bel fu del volto, di membra e del busto, 
forte, leggero e di grande intelletto 
e temperato molto nel suo gusto. 15 
E poi che di me amar prese diletto, 
caldo né freddo né pioggia d’autunno 
il tenne un dí a far mio pro nel letto. 
Per gran disdegno, le Sabine funno 
per lui rapite d’una e d’altra terra, 20 
a la gran festa fatta di Nettunno. 
Per questo, se la mente mia non erra, 
tanto dolor ne gli offesi s’impetra, 
che qui mi cominciâr la prima guerra. 
Il mio signor, che ’n ciò mai non s’arretra, 25 
Macrone uccise e la sua spoglia offerse 
a Iuppiter, che nominò Feretra; 
e le cittá, ch’eran tanto diverse 
e di me schife, a la mia signoria, 
per sua vertú, sottomise e converse. 30 
Per doni e per promesse fu Tarpia 
condotta a me tradir; ma, ne la fine, 
il danno fu pur suo, s’ella fu ria. 
Vidi col pianto le donne Sabine 
de’ padri e de’ mariti far la pace 35 
e i due farsi uno ne le mie confine. 
Ingrato è ben colui, a cui l’uom face 
onore e pro, e pien di gran superba, 
se il beneficio ignora e s’ello il tace. 
Dico ch’io era tra questa gente acerba, 40 
quando m’apparve questo signor degno, 
qual è l’agnel senza pastore a l'erba. 
E cosí ’l ciel, ch’era gravido e pregno 
per farmi donna a governare il tutto, 
costui elesse a cominciare il regno. 45 
Pensa s’i’ era allor di poco frutto: 
ché, per necessitá, fe’ nel mio sito 
la casa di rifugio e di ridutto. 
Morto costui, cosí come hai udito 
di sopra dirmi, de la morte ascosa 50 
diverse opinion ne fu sentito. 
Ma quello, in che la gente piú riposa, 
Proculus fu, il qual parlò da poi, 
al qual dien fede piú ch’ad altra cosa. 
“E’ m’ha detto, diss’el, ch’i’ dica a voi 55 
che, senza fallo, il mondo sarebbe 
di Roma tutto e acquistato per noi. 
E poi che ragionato cosí m’ebbe, 
sopragiunse: - Dirai ch’egli usin l’armi 
contro a le quali niun valer potrebbe -. 60 
Dal ciel discese per annunciarmi 
ciò ch’io v’ho detto; e poi al cielo ancora 
che ritornasse in fra le stelle parmi”. 
Per questo, in pace il popol mio dimora, 
che contro ai senatori era sdegnato: 65 
e nominato fu Quirino allora. 
Perché tu veggi ben ciascun mio stato, 
notar ti vo’ dal principio del mondo 
quel tempo ch’era in fine a qui passato. 
E ciò da me non dico, ma secondo 70 
Orosio, che gli ha partiti e distinti 
e compreso n’ha il vero in fin al fondo. 
Lustri ottocen settanta sei e vinti 
eran passati e cotanto piue 
quanto tu sai che d’un fa quattro quinti; 75 
ed eranne da ottanta otto e due 
da l’arsion di Troia in fino a me, 
se quarant’otto mesi vi pon sue. 
E questo primo mio marito e re 
da due e mezzo visse meco e stette 80 
(or pensa quanto bene in poco fe’) 
e forse ancora un mezzo men di sette, 
dal giorno che di Fausto Laurenza 
li fe’ sentire il mel de le sue tette, 
in sino al fine che l’alta Potenza, 85 
com’hai udito, lo trasse suso al cielo, 
i’ dico a la sua quinta intelligenza, 
lá dove il padre con benigno zelo 
racchiuse lui ne le sue ardite braccia 
e ricoperse col suo caldo velo, 90 
sí che poi non sentio freddo né ghiaccia.

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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