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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)
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Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)
Picchiabbò (di Trilussa)
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Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
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Messaggi del 09/12/2014
Post n°773 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXVIII Dal principio mio al dí che fue Cartagine distrutta, eran giá iti lustri cento ventuno e poco piue. In questo tempo, che qui meco additi, Bruto mandai, che i Lusitan percosse 5 sí, che piú tempo ne funno smarriti. La pace di Mancin tanto mi cosse, ch’io il fei gittar tra i nemici legato, dove a la fin rimase in carne e in osse. Qui torno a Scipio, del qual t’ho parlato, 10 ch’avendo posto a Numanzia l’assedio, e chiusa tutta intorno d’un fossato, tanto fu grave a’ Numantini il tedio sí de la fame e de gli altri disagi, che, disperato ognun d’ogni rimedio, 15 ne’ belli alberghi e ne’ ricchi palagi e ne le gran ricchezze il fuoco mise e cosí la cittá converse in bragi. Apresso il danno, per diverse guise, per non dar di sé gloria ai lor nemici, 20 senza pietá l’un con l’altro s’uccise. I Gracchi scelerati e infelici, superbi, ingrati come Luciferro, fenno lor setta a morte de’ patrici: de’ quali alcuno fu morto di ferro, 25 alcun secondo legge per sentenza ed alcuno annegato, s’io non erro. In questo tempo fu la pistolenza per le locuste sí grande e acerba, ch’io piango ancor di tanta cordoglienza: 30 ché in prima consumâr le biade e l’erba e poi, cadute in mar, gittâr tal morbo, che di sei tre e piú di vita isnerba. E se qui il vero bene allumo e forbo, quel c’hai veduto nel mille trecento 35 e quarantotto non parve piú torbo. Poi, dopo questo gran distruggimento, ch’ancor piangea ciascun dolente e lasso il danno ricevuto e ’l suo tormento, per li Franceschi mi fu morto Crasso: 40 e quanto trista fui de la sua morte e de’ compagni suoi a dir qui lasso. Ma qui mi lodo di Perpenna forte, che tanto a la vendetta mi fu caro, ch’io l’onorai con tutta la mia corte. 45 Seguita ora a dir del pianto amaro che i Cimbri e gli Ambron sentir mi fenno, quando il guadagno in Rodano gittaro. La gran franchezza di Sulpicio impenno, lo qual Popedio e Supidio sconfisse 50 e vendetta di lor fece a mio senno. Un altro Crasso fu, che, fin che visse, cupido il vidi e sí ghiotto de l’oro, che degno fu che tal sapor sentisse. Di Metello mi lodo, e qui l’onoro, che piú pirati, che correan lo mare, prese e distrusse e cacciò d’ogni foro. E l’isole in ponente Baleare condusse sotto me per sua vertute, ma non senza gran forza dèi pensare. 60 In questo tempo per le bocche acute di Mongibello uscîr sí alte fiamme, che tai da poi non funno mai vedute: onde i padri e i fanciulli con le mamme di Catania fuggîr con tanta fretta, 65 ch’a pena dir potresti piú tosto amme. Gli Allobrogi e i Galli, una gran setta, fun per Igneo Domizio morti e lesi, come gente superba e maladetta. Di Bituito re contare intesi 70 che Fabio dispregiava e la sua gente, come se giá gli avesse tutti presi, quando sconfitto fu tanto vilmente, ch’al Rodan giunto, per la calca molta ruppesi il ponte e non valse niente. 75 Quivi, se a dietro volean dar la volta, cadean tra i morti e, se fuggiano innanzi, bevean de l’acqua, ch’era grave e molta. Non funno i Numantin, ch’io dissi dianzi, a la morte piú fieri né sí acerbi, 80 né con pensieri di migliori avanzi, che quei Franceschi miseri e superbi che Quinto Marcio a pie’ de l’Alpi strinse, sí che perdero il vin, le bestie e l’erbi. Né certo mai pintore non dipinse 85 di tanta gente maggior crudeltate, né con penna scrittor carta ne tinse. Qui noto il tempo de la mia etate: dico che Olimpiades cento cinquanta e nove avea, men forse una state, 90 se la memoria dal ver non si schianta. |
Post n°772 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Ar Pincio |
Post n°771 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Abdelkader Salza, Bari, Laterza 1913 V Della signora Veronica Franca [Non ama più colui, che la prese con la beltà sua caduca; ora la ragione, vinto il senso, la fa desiderosa di riavvicinarsi all'uomo virtuoso, da lei trascurato per quello.] Signor, la virtù vostra e 'l gran valore e l'eloquenzia fu di tal potere, che d'altrui man m'ha liberato il core; il qual di breve spero ancor vedere collocato entro 'l vostro gentil petto, e regnar quivi, e far vostro volere. Quel ch'amai più, più mi torna in dispetto, né stimo più beltà caduca e frale, e mi pento, ché già. n'ebbi diletto. Misera me, ch'amai ombra mortale, ch'anzi doveva odiar, e voi amare, pien di virtù infinita ed immortale! Tanto numer non ha di rena il mare, quante volte di ciò piango: ch'amando fral beltà, virtù eterna ebbi a sprezzare. Il mio fallo confesso sospirando, e vi prometto e giuro da dovero mandar per la virtù la beltà in bando. Per la vostra virtù languisco e pèro, disciolto 'l cor da quell'empia catena, onde mi avolse il dio picciolo arciero: già. segui' 'l senso, or la ragion mi mena. VI Risposta d'incerto autore per le rime [L'uomo è lusingato e lieto del pentimento di lei, e spera di provarle la sua fede.] Contrari son tra lor ragion e Amore, e chi 'n Amor aspetta antivedere, di senso è privo e di ragion è fuore. Tanto più in prezzo è da doversi avere vostro discorso, in cui avete eletto voler in stima la virtù tenere; e, bench'io di lei sia privo in effetto, con voi di possederla il desio vale, sì che del buon voler premio n'aspetto: e, se 'l timor de l'esser mio m'assale, poi mi fa contra i merti miei sperare, ché s'elegge per ben un minor male. Io non mi vanto per virtù d'andare a segno che, l'amor nostro acquistando, mi possa in tanto grado collocare; ma so ch'un'alma valorosa, quando trova uom che 'l falso aborre e segue il vero, a lui si va con diletto accostando: e tanto più, se dentro a un cor sincero d'alta fé trova affezzion ripiena, come nel mio, ch'un dì mostrarvi spero, se 'l non poter le voglie non m'affrena. VII D'incerto autore [Un amante, non corrisposto da Veronica, si lamenta della crudeltà di lei, e la supplica umilmente di riamarlo, invocando l'aiuto d'Amore.] Dunque l'alta beltà, ch'amica stella con sì prodiga mano in voi dispensa, d'amor tenete e di pietà rubella? Quell'alma, in cui posando ricompensa di molt'anni l'error la virtù stanca, dar la morte a chi v'ama iniqua pensa? Lasso, e che altro a far del tutto manca orribile ed amara questa vita, e rovinosa in strada oscura e manca, se non che sia col mal voler unita d'una bellezza al mondo senza eguale la forza insuperabile, infinita? Ma perché da l'inferno ancor non sale Tesifone e Megera ai nostri danni, se scende a noi del ciel cotanto male? Ben sei fanciul più d'ingegno che d'anni, Amor, e d'occhi e d'intelletto privo, se 'l tuo regno abbandoni in tanti affanni. Te, cui non ebbe di servir a schivo Giove con tutta la celeste corte, e ch'a Dite impiagar festi anco arrivo; te, del cui arco il suon vien che riporte spoglie d'innumerabili trofei, contra chi più resiste ognor più forte; te, cui soggetti son gli uomini e i dèi, non so per qual destìn, fugge e disprezza, con la mia morte ne le man, costei. Ma, se contrario a quel che 'n ciel s'avezza, ella sen va da le tue forze sciolta, per privilegio de la sua bellezza, a la tua stessa madre or ti rivolta, ch'unico essempio di beltà fu tanto, pur piagata da te più d'una volta: e, s'a lei toglie la mia donna il vanto d'ornamento e di grazie, a lei che giova l'esserti madre poi da l'altro canto? èe vinta da costei Venere è in prova, e se Minerva in scienzia e in virtute a costei molto inferior si trova, tanto più scegli le saette acute: ché più gloria ti fia di questa sola, che di tutt'altre in tuo poter venute. Per l'universo l'ali stendi, e vola di cerchio in cerchio, Amor, e sì vedrai che questa il pregio a tutte l'altre invola; e, s'al tuo imperio aggiunger la saprai, quanto 'l tuo onor sovra i dèi tutti gìo, tanto maggior di te stesso verrai: benché lo sventurato in ciò son io, che, benché stata sia costei sicura da l'armi ognor del faretrato dio, non è stata però sempre sì dura, che non abbia ad Amor dato ricetto per pietà nel suo sen, non per paura Com'ad ubidiente umil soggetto, ad Amor ansioso e di lei vago l'adito aperse del suo gentil petto; quinci 'l suo desir proprio a render pago, al suo arbitrio d'Amor l'armi rivolse, qual le piacque a fermar solingo e vago: sì che, dovunque saettando colse col doppio sol di quei celesti lumi, a sé gran copia d'amadori accolse, e con leggiadri e candidi costumi dilettò 'l mondo in guisa, che la gente d'amor per lei vien ch'arda e si consumi. Gran pregio, in sé tener unitamente rara del corpo e singolar beltate con la virtù perfetta de la mente: di così doppio ardor l'alme infiammate senton lor foco di tal gioia pieno, che, quanto egli è maggior, più son beate. Anch'io lo 'ncendio, che mi strugge il seno, sempre più bramerei che 'n tale stato s'augumentasse e non venisse meno, s'io non fossi, né so per qual mio fato, in mille espresse ed angosciose guise da lei, miser, fuggito e disprezzato: ché, se 'l trovar l'altrui voglie divise da le nostre in amor, è di tal doglia, che restan le virtù del cor conquise, quanto convien ch'io lagrimi e mi doglia di vedermi aborrir con quello sdegno, che di speme e di vita in un mi spoglia? E, s'io mi lagno, e se di pianto pregno porto 'l cor, che 'l duol suo sfoga per gli occhi, miser qual io d'Amor non ha 'l gran regno. Non basta che Fortuna empia in me scocchi tanti colpi, ch'altrui mai non aviene che 'n questa vita un sì gran numer tocchi; ché sospirar e pianger mi conviene di ciò, che la mia donna, fuor d'ogni uso, al mio strazio più cruda ognor diviene; e s'io, del pianto il viso smorto infuso, del cielo e de le stelle mi richiamo, ed or Amor, or lei gridando accuso, che poss'io far, se, in premio di quant'amo, giunto da l'altrui orgoglio a tal mi veggo, che la morte ancor sorda al mio mal chiamo? E col pensier, ond'io vaneggio, or chieggo d'Amor aita, ed or per altra strada sempre invano al mio scempio, oimè, proveggo. Ma, poi che 'l ciel destina, e così vada, che per sicura e dilettosa via, dove 'l ben trovan gli altri, io pèra e cada, sàziati del mio mal, fortuna ria; poi, di me quando sarai stanca e sazia, qual tuo gran pregio e qual acquisto fia? E tu, Amor, dentro e fuor mi struggi e strazia, ché tanto m'è 'l mio affanno di contento, quant'ei l'orgoglio di madonna sazia. Ben ai successi de le cose intento, di lei m'assale immoderata t'ma, che 'n lei vendichi 'l cielo il mio tormento. Questo fa in parte la mia gioia scema, anzi, s'io voglio raccontar il vero, son sempre oppresso da una doglia estrema: ché, se meco madonna usasse impero, gratissimo il servirla mi saria con affetto di cor vivo e sincero; ma, che invece di spender signoria, a dilettar la circostante turba mi strazie sotto acerba tirannia, questo m'afflige l'animo, e mi turba. N', per le mie querele e i miei lamenti, l'opera incominciata ella disturba, ma, quasi mar nei procellosi venti, nel mio chieder mercé via più s'adira, e cela di pietà gli occhi suoi spenti: da me torcendo altrove i lumi gira, e gran materia è di sua crudeltate quanto per me si lagrima e sospira. O donna, pregio de la nostra etate, anzi di tutti i secoli, se 'n voi non guastasse l'orgoglio la beltate, ond'avvien che 'l mio amor così v'annoi? E, s'a morir davanti non vi vengo, ancora offesa vi chiamate poi: quanto faccio, e di quanto ch'io m'astengo, di me le vostre voglie a render paghe, vi spiace, e merto di vostr'odio ottengo. Ma, perché 'l vostro sdegno ognor m'impiaghe, dolci son di quel volto le percosse, e de le vostre man candide e vaghe. Qualunque affetto in voi giamai si mosse, tutto fate con grazia: de' vostri atti chiunque il dotto e buon maestro fosse. Quai tenesse con voi natura patti, ancor de l'ire vostre e de l'offese tutti gli uomini restan sodisfatti. Farvi perfetta a tutte prove intese l'influsso, donator d'ogni eccellenza, e benigno la man verso voi stese: quinci del ciel l'altissima potenza si vede in molti effetti discordanti, c'han di virtute in voi tutti apparenza. Oh che dolci, oh che cari e bei sembianti, ch'alte maniere quelle vostre sono, da farvi i dèi venir qua giuso amanti! E se, com'io pur volentier ragiono de le grazie, che 'l ciel tante in voi pose con singolar, non più veduto dono, non mi teneste d'ogni parte ascose quelle vostre divine e rare parti, di che vostra persona si compose, non fôran sì angosciosi da me sparti sospiri, né di lagrime vedresti avampando, cor misero, innondarti. Ma, dond'avien che 'n me, lasso, si desti la speme, che per prova intendo come faccia sempre i miei dì più gravi e mesti? E pur chiamando di mia donna il nome, vera, unica al mondo eccelsa dea, convien ch'a lei mi volga, e ch'io la nome. Deh, non mi siate così iniqua e rea, che 'l mio mal sia 'l ben vostro e che m'ancida quella vostra beltà, che gli altri bea! Ma quell'Amor, che v'ha tolto in sua guida, e che tien nel cor vostro il suo bel seggio, la crudeltà per me da voi divida; ch'io piangendo umilmente ancor vel chieggio. VIII Risposta della signora Veronica Franca [Veronica risponde dicendosi ancor soggetta ad uomo indegno, che le fa trascurare ogni altro amante. Forse un giorno, libera dal giogo, verrà a chi ora la supplica invano.] Ben vorrei fosse, come dite voi, ch'io vivessi d'Amor libera e franca, non còlta al laccio, o punta ai dardi suoi; e, se la forza in ciò d'assai mi manca, da resister a l'armi di quel dio, che 'l cielo e 'l mondo e fin gli abissi stanca, ch'ei s'annidasse fôra 'l desir mio dentro 'l mio cor, in modo ch'io 'l facessi non repugnante a quel che più desio. Non che sovra lui regno aver volessi, ché folle a imaginarlo sol sarei, non che ch'un sì gran dio regger credessi; ma da lui conseguir in don vorrei che, innamorar convenendomi pure, fosse 'l farlo secondo i pensier miei. Ché, se libere in ciò fosser mie cure, tal odierei, ch'adoro; e tal, ch'io sdegno, con voglie seguirei salde e mature. E poi ch'Amor anch'io biasmar convegno, imaginando non si troveria cosa più ingiusta del suo iniquo regno. Egli dal proprio ben l'alme desvia; e, mentre indietro pur da ciò ti tira, nel precipizio del tuo mal t'invia. E, se 'l cor vostro in tanto affanno ei gira, credete che per me certo non meno, sua colpa, si languisce e si sospira; e, se voi del mio amor venite meno (nol so, ma 'l credo), anch'io d'un crudel angue soffro al cor gli aspri morsi e 'l rio veneno. Così, quanto per me da voi si langue, vedete ristorato con vendetta de le mie carni e del mio infetto sangue. E, se 'l mio mal vi spiace, e non diletta, anch'io 'l vostro non bramo, e quel ch'io faccio contra voi 'l fo da l'altrui amor costretta; benché, s'oppressa inferma a morte giaccio, com'è ch'a voi recar io possa aita nel martìr, ch'entro grido e di fuor taccio? Voi, s'a lagnarvi il vostro duol v'invita meco, nel mio languir soverchio impietra e rende un sasso di stupor mia vita: via più nel cor quella doglia pen'tra, che raggela le lagrime nel petto, e l'uom, qual Niobe, trasfigura in pietra. Il vostro duol si può chiamar diletto, poiché parlando meco il disfogate, del mio, ch'al centro il cor chiude, in rispetto. Io vi rispondo ancor, se mi parlate; ma le preghiere mie supplici il vento senza risposta ognor se l'ha portate, se pur ebbi mai tanto d'ardimento, che in voce o con inchiostro addimandassi qualche mercede al grave mio tormento. E così portar gli occhi umidi e bassi convengo, e converrò per lungo spazio, se morte al mio dolor non chiude i passi. Del mio amante non dico; ché 'l mio strazio è 'l dolce cibo, ond'ei mentre si pasce divien nel suo digiun manco ognor sazio. E dal suo orgoglio pur sempre in me nasce novo desio d'appagar le sue voglie, ch'unqua non vien che riposar mi lasce; ma dal mio nodo Amor l'arretra e scioglie: forse con lui fa un'altra donna quello, ch'egli fa meco; e qual dà, tal ritoglie. Così di quanto è 'l mio desir rubello ai desir vostri, a la medesma guisa ne riporto supplizio acerbo e fello. Fors'ancor voi del vostro amor conquisa altra donna sprezzate, e con la mente dal piacerle v'andate ognor divisa; e, s'a lei sète ingrato e sconoscente, in suo giusto giudizio Amor decide ch'un'altra sì vi scempia e vi tormente. Fors'anco Amor del comun pianto ride, e, per far lagrimar più sempre il mondo, l'altrui desir discompagna e divide; e, mentre che di ciò si fa giocondo, de le lagrime nostre il largo mare sempre più si fa cupo e più profondo: ché, s'uom potesse a suo diletto amare, senza trovar contrarie voglie opposte, l'amoroso piacer non avria pare. E, se tai leggi fùr dal destìn poste, perché ne la soverchia dilettanza al ben del cielo il mondan non s'accoste, tant'è più 'l mio dolor, quant'ho in usanza d'innamorarmi e di provar amando quest'amata in amor disagguaglianza Ben quanto a l'esser mio vo ripensando, veggo che la fortuna mi conduce ove la vita ognor meni affannando; e, se potessi in ciò prender per duce quella ragion, ch'or, da l'affetto vinta, d'Amor sotto l'imperio si riduce, sarebbe nel mio cor la fiamma estinta de l'altrui foco, e di quel fôra in vece del vostro l'alma ad infiammarsi accinta. E, se l'ordine a me mutar non lece, s'a disfar o corregger quel non viene, ch'o ben o mal una volta il ciel fece, posso bramar che chi cinta mi tiene d'indegno laccio in libertà mi renda, sì ch'io mi doni a voi, come conviene; ma, ch'altro in ciò fuor del desir io spenda, e questo ancor con non picciola noia, non è che più da voi, signor, s'attenda. Ben sarebbe compìta la mia gioia, s'io potessi cangiar nel vostro amore quel ch'in altrui con diletto mannoia. A voi darei di buona voglia il core, e, dandol, crederei riguadagnarlo nel merito del vostro alto valore: così verrei d'altrui mani empie a trarlo, e in luogo di conforto e di salute aventurosamente a ben locarlo. Anch'io so quanto val vostra virtute, e de le rare eccellenti vostr'opre molte sono da me state vedute. Chiaro il vostro valor mi si discopre, e s'io non vengo a dargli ricompensa, Amor non vuol che tanto ben adopre. Com'io 'l potessi far, da me si pensa; e, se, dov'al desio manca il potere, il buon animo i merti ricompensa, che v'acquetiate meco è ben dovere: forse ch'a tempo di miglior ventura ve ne farò buon effetto vedere. Tra tanto l'esser certo di mia cura conforto sia, ch'al vostro dolor giovi, e mi faccia stimar da voi non dura, fin che libera un giorno io mi ritrovi |
Post n°770 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
L'assicurazzione de la vita Dice ch'a Roma c'è 'na compagnia De gente ch'assicureno la vita; Io 'sta frescaccia nu' l' ho mai capita, E dico ch' è 'na gran minchioneria. Anzi me pare propio 'na 'resia. Perché quanno ch' è l'ora stabbilita Ch'er Padreterno la vò fa' finita, Che t'assicuri? l'ossa de tu' zia? E' 'na speculazzione immagginata Pe' fa' sòrdi a le spalle de la gente Che ce crede e ciaresta buscarata. L' ha approvato er sor Checco, er mi parente, Co' tutto che se l'era assicurata, E' morto tale e quale d'accidente. Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°769 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXVII S’io t’ho parlato di Scipio sí largo, non ti maravigliar, ché fu sí degno, che volentier la fama ancor ne spargo. Ma perché forse troppo qui ti tegno, piú breve intendo ragionare omai degli altri buon, che seguio nel mio regno. Apresso questo, Flaminio mandai sopra Filippo re di Macedona, dal qual sentito avea tormento assai. E preso il regno a patti e la persona, a Navide si volse e quello ancora fece di lui e di Lacedemona. Ricco triunfo li fu fatto allora, come reddio co’ riscossi e coi presi, de’ quali il carro e sé quel dí onora. D’uno Amilcare ancor parlare intesi, che guastava co’ Boi Piacenza e Parma, il quale, al fine, lui e i suoi, offesi. Non saggio è quel che ’l nimico rispiarma da poi che, combattendo, in fuga il mette e che, se può, nol prende e nol disarma. Non saggio fu Pompeo, quando ristette di Cesare cacciare, avendol vinto; non fu Ettor, se a Talamon credette. Qui lodo Furio, che mai vidi infinto di perseguire i Boi, che con vittoria avean del campo Marcello sospinto. Qui lodo Fulvio, del qual fo memoria che in Ispagna di Lucio fe’ vendetta sí alta e grande, ch’assai mi fu gloria. Qui di Cornelio e Glabrio mi diletta parlar, li quali confinaro Antioco con pace, a forza, in parte acerba e stretta. E Scipio mio cacciò sí d’ogni loco Annibale, che ’n Prusia, per tristizia, prese ’l velen, col qual poi visse poco. Cosí di Paolo ancor prendo letizia, che Crasso vendicò e Perseo prese, prese il figliuol, ma taccio la giustizia. Una schiatta Basterna allor discese a passar sopra il ghiaccio la Danoia, per guastare e disfare il mio paese. Novella udio di questa gente croia di subito, la qual molto mi piacque: che ’l ghiaccio ruppe e ’l fiume poi l’ingoia. 45 Un altro Scipio in quel tempo nacque, lo qual per sua vertú tanto s’avanza, che quasi qui d’ogni altro mio si tacque. E come di costumi e di sembianza seguio Troilus Ettor, prese costui 50 de l’Africano nome e simiglianza. A ragionar brevemente di lui, Numanzia prese e fe’ del sangue lago del Barbarin, che minacciava altrui. A ’ngegno prese e per forza Cartago; 55 poi l’arse tutta e qui finio la guerra, che trafitta m’avea d’altro che d’ago. La ruina e ’l dolor di quella terra non fu minor che ’l pianto, che si sparse in Troia allora che Ilion s’atterra. 60 Né fu minore il fuoco ancor che l’arse, né d’Ecuba maggior l’acerba morte, che quivi quel con la reina parse. Cento venti anni fu la briga forte tra lei e me; or pensa se m’aggrada 65 la fine udir de la sua grave sorte. Asepedon rubellò la contrada di Macedona, ond’io mandai Metello, che vinse lui e ’l regno con la spada. Cosí Mummio lo gran tesoro e bello 70 di Corinto consuma; parte ebbi io e parte il fuoco converse in ruscello. Qui vidi me e vidi il regno mio per queste alte vittorie in tale stato, che ’l piú del mondo mi portava fio. 75 Ma com vedi ciascun ben, che ci è dato per la fortuna, poco aver fermezza, cosí dopo ’l seren venne il turbato: ché, dove io era in tanta grandezza, in ne la Spagna Viriato apparve ch’assai mi fe’ sentire al cuor gravezza. E, secondo ch’udire allor mi parve, peggio m’avrebbe fatto, se non fora che, tradito da’ suoi, di vita sparve. Da notare è l’alta risposta ancora 85 che Cipio fe’ a coloro che ’l tradiro, che chieser premio di tal fallo allora: “Non piace a li Roman, non han disiro che i cavalieri uccidano il lor duca, né premio dar di sí fatto martiro”. 90 Cotale asempro è buon che tra’ buon luca. |
Post n°768 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Questa la tua fedel Franca ti scrive, |
Post n°767 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO PRIMO CAPITOLO XXVI Cotal, qual io ti conto, fu il mio Scipio e tal mi convenia, se ’l ciel dovea ridurre a buona fine il bel principio. Lo padre e ’l zio giá perduti avea avvolpinati a forza e per ingegno 5 da Asdrubal, che la Spagna possedea, quando, con prego assai onesto e degno, per vendicare il danno ricevuto, da me partio questo mio sostegno. Non è da trapassar lo bello aiuto 10 di Claudio e di Valerio, il cui ben fare fece ben fare al popol mio minuto. Non è ancora da voler lasciare sí come Fabio del figliuol li piacque la morte, piú che ’l fallo perdonare. 15 Qui ritorno a colui, che propio nacque per me, che, poi che ne la Spagna giunse, a far mio pro un’ora non si tacque. Piú e piú volte Asdrubale compunse; prese Mago, di ch’io feci gran festa, 20 e la nuova Cartago strusse e munse. Ad Annibal mandò Claudio la testa d’Asdrubal, de la qual rider s’infinse: credo per piú celar la sua tempesta. E tanto Scipio i suoi e sé sospinse 25 a dí a dí, prendendo le province, che tutta Spagna in poco tempo vinse. Poi, ritornato a me questo mio prince, ed essendo al Consiglio disperato, mostrò l’ardire onde ogni roman vince. 30 Qui passo a dir ciò che fu consigliato per Fabio e per lui; ma ben t’accerto che ’l suo buon dir piacque a tutto ’l senato. Con poca gente nel cammino esperto si mise e poi passò, senza periglio, dove il lito african li fu scoperto. Di tanta grazia ancor mi maraviglio: che ’n breve tempo in campo uccise Annone ed anche a Sifax re diede di piglio. E questo posso dir fu la cagione 40 che le cittá d’Italia ritornaro la maggior parte a la mia intenzione. E perché gli African da poi mandaro per Annibal, che ben diece e sette anni m’avea fatto sentir tormento amaro, 45 diliberata fui da’ suoi affanni: pianse il partir, perché fra tanto spazio veduta non m’avea dentro da’ panni. Di molti Italiani fece strazio; ma pria che giunto fosse a l’altro lito, 50 per malo agurio fu del cammin sazio. E poi che ebbe il gran valore udito di Scipio, dubitando in fra se stesso, pensò far pace per alcun partito. E tanto seguitò di messo in messo, 55 che ’l dí fu posto e data la fidanza; poi funno insieme, come fu promesso. Qui era il grande orgoglio e la baldanza; qui era la virtute e l’ardimento del mondo, potrei dire, e la possanza: 60 ché vo’ che sappi che ’l gran parlamento che Dario scrive ch’a Troia fu fatto povero fu a tanto valimento. Livio ti conta l’accoglienza e l’atto e ’l bel parlar di questi due gran siri 65 e come si partîr senza alcun patto. Però passo oltre e vegno ai gran martiri de la battaglia, che fu sí aspra e forte, che lungo tempo poi funno i sospiri. Non saprei dire di ciascun la sorte, 70 né che fe’ Scipio né Annibal; ma, pensa, piú vergogna temea ciascun che morte. Pure a la fine il Sommo, che dispensa le grazie sue come a lui piace, volse che sopra gli African fosse l’offensa. 75 Ma sappi che Annibal mai non si tolse del campo, in fin che colpo vi si diede: l’ultimo fu, tanto ’l partir li dolse. E posso per ver dire, e farne fede, che in quel giorno la vittoria presi, 80 onde al mondo per me legge si vede. Apresso questo, i gran Cartaginesi per voler d’Annibal, che si partio, domandâr pace e fu tal ch’io la ’ntesi: però che tutti sotto al regno mio 85 vennero gli African, ch’eran sí bravi: seguitâr loro e fenno al mio disio. Portate funno a Scipio le chiavi de la cittá ed el v’entrò co’ suoi; poi arse lor ben cinquecento navi. 90 Apresso, a me tornato, saper puoi ch’io il trionfai con la sua milizia e pensar non potresti a li dí tuoi la festa, ch’io ne feci, e la letizia. |
Post n°766 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°765 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME |
Post n°764 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
L'ottobbrata de Nannarella I Giuvedi avemo fatto l'ottobrata In de la vigna de li mi' padroni; Ciavessimo l'arosto, l'insalata... Stassimo propio come signoroni. Ce riuscì bene puro la giornata... Un'aria che slargava li pormoni: Ma 'gni vorta ch' io faccio 'na vignata Bisogna sempre che me s'arimponi. Doppo magnato, Checca e Celestino Se messeno a ballà' la tarantella; Io sonavo appoggiata a 'n tavolino. 'N der mejo scappò fora Cinicella, E un po' ch'è matto, un po' ciurlo dar vino Nun prese e me sfasciò la tammurella? II Nove mesi doppo Si, ditemel'a me, commare Irene, So' dua o tre mesi che me ne so' accorta Quela regazza lì nu' sta più bene, Nun è più Nannarella de 'na vorta. L'occhi infossati, le ganasse piene De lagrime, la céra mezza smorta. Sempre intanata, sempre fra le scene, Nu' mette er piede mai fòr de la porta. S'esce, è de sera. Nun pò fa' le scale; Si le fa, Je vie' subbito l'affanno; Quela regazza deve avé' un gran male, Io, commarella mia, vado pensanno Che diavolo je pò avé' fatto male... - Eh, fija! L'ottobbrata de l'antr'anno! Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02