Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Messaggi del 11/12/2014
Post n°792 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME Un falcon pellegrin dal ciel discese Con largo petto e con sì bianca piuma, Che chi ’l guarda innamora e ne consuma. Mirand’io gli occhi neri e sfavillanti La vaga penna e ’l suo alto volare, Mi disposi lui sempre seguitare. Sì dolcemente straccando mi mena, Ch’altro non chieggio se non forza e lena. 31 I dolci versi ch’io soleva, Amore, 32 Quando il rosato carro ascende al cielo |
Post n°791 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO III Da poi ch’io t’ho degli offici trattato e de l’insegne, è buono udir la gloria che ricevea qual era triunfato. Dico che quando con ricca vittoria tornava alcun d’alcuna signoria, 5 in questo modo accrescea sua memoria: che per tutto il paese far sentia chi ’l volesse veder, quel cotal giorno ch’io triunfava il cotal che venia. Era in su quattro ruote un carro adorno 10 e tanto bello, che vi si perdea alcuna volta l’uom mirando intorno. Di sopra ad esso una sedia avea di preziose pietre e d’un lavoro, ch’a riguardarla un miracol parea. 15 Qui su sedea, qui su facea dimoro colui che n’era per suo valor degno, vestito a bianco e la corona d’oro. Quattro cavalli, i piú bei del mio regno, conducevano il carro e tanto bianchi, 20 che piú la neve o ’l cigno non disegno. Camelli, forti muli e poco stanchi venian dinanzi con le ricche some, guidati da ragazzi duri e franchi (e sopra quelle erano scimie, come 25 usiamo ancoi, e molti babbuini), con piú altri animai, ch’io non so il nome, leopardi, leonze e porci spini, ed eranvi giraffe e, sopra quelli, 30 uomini come nani piccolini, gran leofanti, e questi avean castelli sopra il dosso con ghezzi neri e strani, struzzoli, pappagalli ed altri uccelli. Qui vedevi leoni e fieri cani: 35 e sappi che seguiano in questo modo, secondo i luoghi che m’eran lontani. Apresso, i presi stretti a nodo a nodo venian legati e quivi ciascun messo, secondo ch’era degno e di piú lodo: per questo avresti conosciuto adesso, 40 quando preso vi fosse o duca o re, ch’al sinistro del carro eran piú presso. E color che fidati avea da me di morte e di prigione, era ciascuno d’un segno pileato sopra sé. 45 Tutti i gran fatti suoi ad uno ad uno dal destro lato cantava una gente, col ben che fatto avea al mio comuno. Da l’altro, a ciò che fosse conoscente di non prender superbia a tanto onore, 50 un’altra andava ancor similemente: e questa ogni suo vizio e suo disnore ponea in versi, per sí fatta guisa, che giá ne vidi altrui mutar colore. Poi, dietro il carro, imagina ed avisa 55 veder marchesi, conti e gran baroni sotto le insegne de la mia divisa. E imagina veder li ricchi doni che fatti avea a coloro, che a le imprese portavan fama di miglior campioni. 60 Col capo raso, scoperto e palese, dopo costoro era alcun che menava li miei, che scossi avea d’altro paese. Ogni mia bella strada s’adornava: su la terra zendadi, erbetta e fiori 65 erano sparti e quivi si danzava. In contro a lui veniano i senatori con la milizia a piè e il popol mio, vestiti a compagnia di bei colori. Veniano apresso con vago disio 70 le madri, le donzelle e i pargoletti con tanta festa, che mai tal s’udio. Pensar ben dèi ch’a veder tai diletti venian signor di luoghi assai lontani ed alte donne con gentili aspetti. 75 Giovani bagordare a le quintani e gran tornei e una e altra giostra far si vedea con giochi novi e strani. Cosí andava questa ricca mostra per render laude e sacrifizio a Marte, 80 ch’era in quel tempo la speranza nostra. A chi volea, le mense erano sparte senza pagare e ciascun sí fornito, che parea quasi incantamento e arte. E poi ch’egli era fuor del tempio uscito, 85 sopra il suo carro ne venia ad agio, con l’ordinato modo c’hai udito, in fino al piè del mio nobil palagio. Quivi scendea ed io con tanta festa poi l’abbracciava e con sí dolce bagio, 90 che detto avresti: – Maraviglia è questa! – |
Post n°790 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti LXVI Quanto posso m'ingegno trar d'affanni Quest'alma, che nudrita in pene e in doglie, Fra misere speranze et crude voglie Ha consumato suspirando gli anni. Posson poi tanto in lei gli dolci inganni Dei due begli occhi, ove il mio ben s'accoglie, Che quanto più mi sforzo, men si scioglie Dal crudel laccio, et più segue i suoi danni. Qual Circe, o qual Sirena, o qual Medusa, Con erbe, o canto, o venenoso sguardo, M'ha trasformato dalla forma vera? Et m'ha la mente sì d'error confusa Per un caldo disio, donde io sempre ardo, Che l'alma ceca sempre teme et spera? LXVII Lasso, ben so che sì non arde il cielo Or che il fronte d'Apollo più sfavilla, Come entro 'l cor m'infiamma una favilla, Ma fuor mi strugge d'amoroso gelo. Poi nanzi a gli occhi Amor m'ha posto un velo, Sotto 'l qual lagrimando il duol distilla, Sì ch'io non veggio parte omai tranquilla Per attemprar la fiamma che mal celo. Né aspetto mai più luce; né men foco Spero mai dentro al cor, né fuor men ghiaccio; Ma ceco pianga sempre, avampi et treme, Se quella bella man non scioglie il laccio, Che sì soavemente a poco a poco Mia vita strugge, e il cor m'annoda et preme. LXVIII Un novo et sì sfrenato raggio d'oro, Che ogni splendore offende di sua luce, Mia vita nelle fiamme in guisa adduce, Che quanto più divampo, più namoro. Ardo in quell'ora et dolcemente moro, Mentre che al vago ardor mi riconduce Lei, che m'ha scorto al fin della mia luce Con quella man, che nei miei pianti onoro. Suavi stridi, onde il ciel si risente, Et lagrime pietose notte et giorno, Et quei sospiri, ond'io già il mondo rempio, Son frutti delle angoscie di mia mente, Che sempre vede il bel costume adorno, Che scese giù dal cielo a nostro esempio. LXIX Che pensi, cuor di tigre: a che pur guardi Sdegnosa al cielo; et poi ti volgi a terra? Cerchi di rinforzar l'aspra mia guerra, Che sì ti discolori et subito ardi? So ben che ti lamenti de tuoi sguardi, Che affatto non mi fan metter sotterra: Et più di quella man, che il cor m'afferra; Parendoti il mio fin che venga tardi. Ma fai qual vuoi di me, crudel, vendetta; Et premi et pungi il cor da ciascun lato, Che a te soccorso ancor quest'alma chiede. Et s'alcun merto alfin per lei si aspetta, Spero dopo la morte esser beato, Soffrendo passion per vera fede. LXX Riposo, ove non fu mai tutto intero, Et pace, ove è sol guerra, affanno et doglia, Cercando per empir l'ardente voglia, Che satia non fia mai per quel ch'io spero: Et duol credendo esser più saldo et fiero, Che Amor dai lacci d'oro il cor mi scioglia, Son giunto a tal, ch'io ne fo quel che voglia Errando d'ogni parte nel pensiero. L'uno è cagion che nel mortal mio affanno Ricorra a quei begli occhi per soccorso, Ove al mio foco s'apparecchia l'esca: L'altro, ch'io viva ove è il maggior mio danno; Ne resti mai colei che il cor m'ha morso, Infin che del mio corpo l'alma n'esca. LXXI Ora che il Sol s'asconde, et notte invita Al dolce sonno ogni animal terreno, Al freddo cerchio d'ombra, al ciel sereno Arde il mio cor dolente, et chiama aita. Poi pensa la cagion della ferita Acerbamente ascosa nel mio seno, Et rivolgendo ognior la scerne meno, Tanto è la sua virtù vinta et smarrita. Tal che non sa pensar se è fiamma o doglia Quel che mi strugge et arde a parte a parte, O pure altro martir che sì m'incende. Or se a conoscer quel gli manca l'arte, Che fia nella cagion, che a ciò m'invoglia, Che al remo è più celata, et men s'intende? LXXII Che giova la cagion de' nostri guai Cercar con gran disio dovunque guardi, Anima semplicetta, poi che tardi Da lei per noi mercè s'impetra omai? Gli occhi sereni, et gli amorosi rai, Che escon sì caldamente de suoi sguardi, Son la cagion del foco, ove sempr'ardi, Et della gran tempesta, ove tu stai. Secreta lor virtù mandò giù al core Con vana spene et le faville et l'esca, Onde convien che eternalmente avampi. Così a mia voglia un tempo m'arse amore: Ma par che omai di giorno in giorno cresca La fiamma sì, che non so donde scampi. LXXIII Né pianto ancor, né priego, né lamento Giamai contra costei mi valse o vale: Et io seguendo vo sempre il mio male; Et par che di mia morte sia contento. Doglioso et stanco, et d'affanno lento, Come uom trafitto da pungente strale, Vo lagrimando dietro a cui non cale, Et per campagne et boschi caccio il vento. Così tutto il mio tempo all'ombra, al sole In van sospiro, in van ritento in versi Da questa fera l'ultimo soccorso. Ma che giova, alma trista, ognior dolersi? Non cura nostre doglie, né parole Costei che in vista umana ha cuor d'un orso. Giusto de' Conti La Bella Mano |
Post n°789 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco |
Post n°788 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME Entra dell’Ariète, sicchè i fiori Vestono i colli e gli arbuscei le fronde, In verde prato gir vestita a bianco Vidi una donna con cerchio di perle, Composto con grand’arte in lucent’oro. I suoi biondi capelli un nodo d’oro Rilegava sì ben, che invidia al sole Facea, mischiando i bianchi e’ rossi fiori, Annodandogli tutti in verdi fronde, Per avvolgerli insieme colle perle, Et adornarsi sotto il manto bianco. Fiso guardando tra ’l bel nero e bianco Negli occhi, che parean ciascuno un sole, Abbagliai sì ch’io caddi come i fiori Con lor succisi gambi, o come fronda Quando è spezzato il ramo; nè più l’oro Riconosceva, nè color di perle. Allor trasse la man bianca di perle Disotto al prezïoso vestir bianco, Dove una ruota avea trapunta in oro, E chinò la man bianca giù a’ fiori Ricoprendomi tutto colle fronde. Così dormi’ infino all’altro sole. Ma poi ch’io mi svegliai non vidi il sole, Ch’era sparito, e la fronte di perle Col suo serico adorno vestir bianco Di varj nodi tutto ornato a oro; E secche si eran già le verdi fronde, E spenti tutti e bianchi e’ rossi fiori. Allor gridai; o ben mondani, o fiori Caduchi e lievi, o fuggitive perle, Ed o fragile e debíl vestir bianco, Ed o vani pensier nel fallac’oro, Voi non durate a pena un brieve sole Rivolgendovi come al vento fronde. Sicchè la fe ch’a voi, o fiori o fronde, Avea, abbandono e perle e bianco e oro, E a te mi raccomando eterno sole. 28 Se giammai penso alla mia vita affisso Quant’ella è frale, e come morte strugge Ciò ch’è nel mondo, e come il tempo fugge, Spesso contra di me m’adiro e risso. E dico; fa che ’l tuo cor sia discisso Da’ ben mondan, co’ qua’l’anima adugge: Nè irato leon per febbre rugge Quant’io me riprendendo in questo abisso. Ed ogni dì muto nuovo consiglio, Pensando ed ordinando la mia vita; Così deliberando a morte corro. E sempre avvien che pure il piggior piglio; Onde l’anima trista sbigottita Merzè, Iesù, ti grida in questo borro 29 Non fur vinte giammai arme Latine, Nè la Greca scïenza fu avanzata, Nè nulla fu sì di bellezze ornata Che vincesse le donne Fiorentine. Ben fu formata da virtù divine Questa che per Idea dell’altre è data, Ed ha in se virtù, che chi le guata Fanno gentil, leggiadre e pellegrine. O gioghi Parnasei, o sante Muse, O Minerve, o Apollo, o gran poeti, Perchè non siete in polpa, in ossa, in vena? Voi non aresti mai rime diffuse Nè mai dettati versi tristi e lieti; Sol canteresti la latina Elèna. |
Post n°787 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La poverella |
Post n°786 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO II Però che spesso avièn che l’uom domanda de le mie insegne e sí de’ miei offici, è buon ch’io cibi te di tal vivanda. Tu dèi saper che le prime radici si funno i re, che fenno i senatori, 5 li cui figliuoli eran detti patrici. Consoli seguitaro e dittatori e costor fun tra’ miei sí grandi e tali, che potean comandar come signori; tribuni ancora apresso questi, i quali fun per la plebe in Sacro monte eletti, dico a difesa di tutti i lor mali. Fun censori, questori e fun prefetti, vescovi ancor sopra le cose sacre, edili per guardare ai miei difetti. 15 A pro de’ grandi e de le genti macre funno pretori, che le questioni traeano a fin, quand’erano piú acre. Fun ciliarche e fun centurioni, maestri e reggitor dei cavalieri 20 e, diretro da lor, decurioni. Con piú valor, con piú alto pensieri donna mai non si vide, com’io fui, né ordinata piú ne’ suoi mestieri. Io tel dirò, perché tu ’l dica altrui: 25 in fra gli altri dolor, m’è or ch’io veggio tal far tribun, che l’uom non sa dir cui. Or se seguir dirittamente deggio, dir mi convien de l’una e l’altra insegna, con le qual vinsi quanto qua giú veggio. 30 La piú vittoriosa e la piú degna, la piú antica e con piú alte prove, e quella che nel mondo ancor piú regna, l’aquila è, che dal ciel venne a Giove per buono augurio, quando pugnar volse 35 co’ figli di Titano e anco altrove. Costui per arme in vessillo la tolse in fin ch’el visse e certo a lui s’avenne, ché giusto fu, e ’l ciel per tal lo sciolse. Questa per sua Dardano poi tenne; 40 questa Ganimede trasse a la luna, dove pincerna con Aquario venne; questa portò Enea in sua fortuna per l’Africa in Italia, sí che poi un idol fu a la gente comuna; 45 e questa a Prisco con gli artigli suoi trasse il cappel di capo e gliel rimise, come chiaro per Livio saper puoi: onde Tanaquil l’abbracciò e rise, tanto dolce diletto n’ebbe al core 50 del bello annuncio in che speranza mise. Per questo, Prisco, poi che fu signore, la prese in tanto amore e sí l’avanza, che da piú parti le era fatto onore. Con questa Mario strusse la possanza 55 de’ Cimbri, come il mio Sallustio scrive, quando Rodan cambiò volto e sembianza. Con questa Cesar cercò molte rive, Pompeo, Catellina e piú miei figli e Ottavian, ma con penne piú vive. 60 E se cucito non le avesse i cigli per sua viltade Carlo di Buemme e rotto il becco e schiantati gli artigli, di bei rubini e d’altre care gemme tu le vedresti una ricca corona 65 di sopra a gli archi e al gambo dell’emme. Poi la seconda, di che l’uom ragiona che piú temuta fu per tutte terre e piú gradita da ogni persona, si fu, con l’Esse, il P, il Q, e l’Erre 70 d’oro scolpiti dentro al campo rosso: e con questa fornio giá molte guerre. E perché meno qui rimagni grosso, trattar ti voglio con brievi parole de’ due colori quanto dir ne posso. 75 L’oro, ch’è giallo, è appropiato al sole e ’l sol ci dá prudenza e signoria e lume a ciascun ben che far si vole; il rosso a Marte dato par che sia e Marte dio di battaglie si crede, che porge altrui vittoria e maggioria: ond’io, che in questi dei avea fede, d’oro lo scudo vermiglio adornai, che al tempo di Numa il ciel mi diede. Ancor le quattro lettere formai, 85 come da alcuno puoi avere udito, con argomento d’intelletto assai. Queste mostravan che come col dito istá la carne e l’unghia, cosí meco era il senato e il popolo unito. 90 E in esse ancora intender puoi quel preco che giá di Cristo ragionar udisti, che ’n su la croce fe’, parlando seco, allor che disse ne’ sospir piú tristi Cristo, ch’è salvator di tutto il mondo: 95 Salva Populum Quem tu Redemisti. E in altro ancor lo ’ntendo, ch’io nascondo. |
Post n°785 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME |
Post n°784 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Donna, la vostra lontananza è stata a me, vostro fedel servo ed amante, morte tanto crudel quanto insperata. Nel gentil vostro angelico sembiante abitar l'alma e 'l mio cor vago suole, e ne le luci sì leggiadre e sante: queste fùr risplendente unico sole sovra i miei dì, senza lor tristi e negri, e di quel pieni, ond'uom via più si duole, come sono a me adesso orbati ed egri, in questa sepoltura de la vita, che non fia, senza voi, che si reintegri. Con voi l'anima mia s'è dipartita, anzi 'l mio spirto e l'anima voi sète, e tutta la virtù vitale unita: e, s'uom morto parlar vien che si viete, non io, ma di me parla in cambio quella, che ne le vostre man mia vita avete. Questa non pur vi scrive e vi favella per miracol d'Amor, in cotal guisa, che, ne l'esser io morto, in voi vive ella; ma, stando dal cor vostro non divisa, vi susurra a l'orecchie di segreto, e 'l mio misero stato vi divisa. Né perciò del mio male altro ben mieto, se non ch'agli occhi vostri ei si figura con spettacolo a voi gioioso e lieto; e, mentre meco ognor v'innaspra e indura, superate ne l'essermi crudele le fiere mostruose a la natura. Lasso, ch'io spargo ai venti le querele, anzi è un percuoter d'onde a duro scoglio, quanto mai di voi pianga e mi querele. Mosso s'insuperbisce il vostro orgoglio, sì come 'l mar a l'impeto de' venti, mentre a ragion con voi di voi mi doglio: ed or, per far più gravi i miei tormenti, per levarmi 'l ristoro, ch'io sentia nel formarvi propinquo i miei lamenti, n'andaste a volo per diversa via, quando men sospettava, a dimostrarvi in tutti i modi a me contraria e ria. Qual neve sotto 'l sol, piangendo sparvi con quest'orma di vita, e con quest'ombra vana e insufficiente a seguitarvi; anzi, da' miei sospir caccia e sgombra, col vento, ch'a voi venne, si risolse, che spirando al bel sen fors'or v'ingombra. Empio destin, ch'altrove vi rivolse dal mirar lo mio strazio e quella pena, che infinita al mio cor per voi s'accolse! Troppo era la mia vita alta, serena, darvi in presenzia de la mia gran fede col vicin pianger mio certezza piena, e riceverne asprissima mercede di presenti minacce e di ripulse, contrario a quel ch'a la pietà si chiede. Ben certo allor benigno il ciel m'indulse: e troppo chiara ancor nel sommo sdegno la luce de' vostr'occhi a me rifulse. Di gustar quel piacer non era degno, ch'io sentia, nel vedervi, aspro e mortale far più sempre 'l mio duol, con ogni ingegno: or lasso piango il mio passato male, quando a le mie d'amor gravi percosse non fu in dolcezza alcun diletto eguale. Amor d'acerbo colpo mi percosse, di quel che di piacer è in tutto privo, quando da me, madonna, vi rimosse. Dianzi fu 'l viver mio lieto e giulivo, ed or, a prova del mio mal cotanto, sento 'l mio ben, mentre di lui mi privo. Deh tornate a veder il mio gran pianto; venite a rinovar l'aspre mie piaghe, senza lasciarmi respirar alquanto: di ciò contente fian mie voglie e paghe, che 'l mio duol, da voi fatto ancor maggiore, mirin da presso lame luci vaghe. A me fia d'alta gioia ogni dolore; e in gran pietà riceverà lo strazio, e in dolce aita ogni aspra offesa il core, pur ch'a noi ritorniate in breve spazio. X Risposta della signora Veronica Franca per l'istesse rime [Non potendo ella, invaghita d'un uomo a lei caro su tutti, corrispondere ad altro affetto, s'è allontanata da Venezia, perché nella sua assenza si mitighi l'ardore di chi l'ama senza speranza.] In disparte da te sommene andata, per frastornarti da l'amarmi, avante ch'unqua mostrarmi a tanto amore ingrata: né mia colpa fia mai ch'alcun si vante giovato avermi in opre od in parole, senza mercede assai più che bastante; ma s'uom, seguendo ciò che 'l suo cor vuole, di quel m'attristi, ond'ei via più s'allegri, meco non merta, e mi sprezza, e non cole. Quei sì, che son d'amor meriti intègri, quando, per far a me cosa gradita, per me ti sono, i tuoi dì tristi, allegri: e nondimeno tu con infinita doglia sentisti che mai cose liete non m'incontrár dal tuo amor disunita. Che mi prendesti a l'amorosa rete, presa da un altro pria, vietò mia stella; non so se per mio affanno, o per quiete: basta che, fatta d'altro amante ancella, l'anima, ad altro oggetto intenta e fisa, rendersi ai tuoi desir convien rubella. Con tutto questo, e ch'al mio ben precisa la strada fosse, e fattomi divieto, dal tuo seguirmi poco men che uccisa, con giudicio amorevole e discreto tanto stimai 'l tuo amor senza misura, quanto più al mio voler fosti indiscreto: e, di te preso alcuna dolce cura, bench'a me tu temprasti amaro fele col tuo servirmi, in ciò non ti fui dura: e, per te non avendo in bocca il mele di quell'affetto, ch'entro 'l sen raccoglio, che in altrui pro convien che si rivele, liberamente, come teco soglio, ti raccontai ch'altrove erano intenti i miei spirti; e mostraiti il mio cordoglio. Or, perché teco ad un non mi tormenti, tentando invan ch'a mio gran danno io sia pietosa a te, con tuoi dogliosi accenti, da te partimmi; e, non potendo pia esserti, almen veridica t'apparvi : non rea, qual da te titol mi si dia. Quanto è 'l peggio talvolta il palesarvi, effetti d'alma di pietate ingombra, dov'altri soglia male interpretarvi! Benché, se vaneggiando erra et adombra il tuo pensier, che da ragion si tolse, seguendo Amor per via di lei disgombra, non però quel, ch'ad util tuo si vòlse da me, da cui 'l desir tuo si raffrena, che d'ir al precipizio piè ti sciolse, a meritar alcun biasmo mi mena; anzi di quel, ch'aiuto in ciò ti diede, la mia chiara pietà si rasserena: ché, s'io mossi da te fuggendo 'l piede, fu perché le presenti mie repulse m'eran de la tua morte espressa fede. E quante volte fu che ti repulse da sé 'l mio sguardo, o ti mirò con sdegno, so che 'l gran duol del petto il cor t'evulse. Ch'io ti vedessi d'alta doglia pregno morirmi un dì davante, eccesso tale era a me sconvenevole ed indegno. Da l'altra parte, assai potev'io male risponder al tuo amor: non men che fosse il tentar di volar non avendo ale. E che far potev'io contra le posse di quell'arcier, che, del tuo bene schivo, d'oro in te, in me di piombo il suo stral mosse? Ma d'òr prima anco al mio cor fece arrivo la sua saetta, stand'io ferma intanto, mirando incauta l'altrui volto divo. Quinci un lume, ch'al sol toglieva il vanto, m'abbagliò sì, che non fia che s'appaghe d'alcun ben altro mai l'anima tanto. E, perch'errando 'l mio stil più non vaghe, io parti' per disciorti dal mio amore, con le mie piante a fuggir pronte e vaghe. èo che la lontananza il suo furore mitiga; e quando tu, del viver sazio, pur vogli amando uscir di vita fuore, te, con quest'occhi, e me insieme non strazio. |
Post n°783 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME |
Post n°782 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
'Na frittata in campagna - Sor oste. - Che ci vòle? - Una frittata. - De quant'ova? - De quattro. - A regazzino. Va' de là, pia quattr'ova de giornata. - De giornata? So' tutte cor purcino. - Di' piano. La padella? - Sta attaccata. L'erba pepe? - Sta sotto ar tavolino, - Damme lo strutto. - Nonna ce s'è ontata Le scarpe. - Damme l'ojo de' llumino, Sverto, nun t'addormì'. Tiè' qui 'sto piatto, Sbattece l'ova, - Nun vedete? E' sporco De semmolella; cià magnato er gatto. - Mejo! Accusì je vie' più saporita. - C'è cascata 'na mosca? - Ingrassa er porco. - Sor oste, 'sta frittata? - Ecco, è servita. Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°781 pubblicato il 11 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti LXI Non porrà mai con tutta sua durezza. Questa selvaggia, o con più rea sembianza, Levar dal petto mio l'alta speranza Che già fermata è sì, che nulla apprezza. Ben può suo sdegno insieme et sua vaghezza Disfar di me quel poco che ne avanza; E il resto di mie spoglie in la bilanza Tener tra vita et morte in tanta asprezza. Ma per ritrarmi dall'ardente laccio, Indarno ver di me si mostra dura, Da tal benigna stella vien mia sorte. Dico l'errante fera, che ognior caccio, Leggera et sciolta sì che nulla cura, Di sua beltà superba et di mia morte. Solo fra l'onde senza remi o sarte, A meza notte priva d'ogni luce, Mi trovo in picciol legno, et è mio duce Errore et Caso, non Ragione et Arte. Quando io son combattuto d'ogni parte Un nuvol di sospir, che mi conduce Vicino al mortal passo, al cor m'adduce Cagion, ch'io mi lamenti in mille carte. Et più pavento allor, ch'io mi ricordo Che, stando dentro al legno ben non veggio Come fortuna intorno mi minaccia. Il mio fido soccorso è fatto sordo, Morta è pietà per me dove la chieggio, Chiuse ha mia speme le pietose braccia. Deh torci gli occhi dallo soperchio lume, Anima dolorosa, che due stelle Ti par la vista, che ti mena al fine, Et pensa chi vien tosto omai la sera; Sì che io già sento rinforzar gli venti, Et la fortuna infin dentro del porto. Ben fora tempo omai ridursi in porto, Ch'io veggio intorno già sparito il lume, Et al mio navigar turbati i venti: Et le tranquille mie due care stelle Mi stan celate in tutto, da la sera Ch'io vidi al viver mio sì pronto il fine. Di quinci lasso di mia vita il fine, Quindi si mostra al mio soccorso il porto, Et al pigliar consiglio vien la sera: Ma sì m'abbaglia un dispietato lume, Ch'io sprezo il segno di mie fide stelle, Et la salute mia commetto ai venti. Se mai s'acquetan gli turbati venti, Sì che, venendo la tempesta al fine, All'orizzonte sorgan le mie stelle, Io scamperò fuggendo in qualche porto, Nanzi ch'un'altra volta il maggior lume Trapassi il monte, et torni l'altra sera. Ma pria mi giugnerà l'ultima sera, Che mai levar dall'Ostro senta i venti Per isgombrare il ciel nanzi al bel lume: Et prima Amor trasporterammi al fine, Ch'io volga vela per ritrarme in porto, Durando il corso delle crude stelle. Se tanto a me nimiche son le stelle, Che voglion ch'io sospir mattino et sera Su l'onde errando et mai no arrivi a porto, Movansi d'ogni parte tutti i venti, Sì che una volta veggia trarmi al fine Per non veder per gli occhi mai più lume. Leggiadro et vago lume di mie stelle Scorgimi a miglior fine innanzi sera Con più suavi venti in qualche porto. LXIV Fra scogli in alto mar, pien di disdegno, Colma ho la vela; e il sol già si nasconde; Et solo mi ritrovo, et non so donde Conforto aspetti omai per mio sostegno, Non veggio lume in porto o stella o segno, Non luna che le corna aggia ritonde, Ma tenebrose nebbie, et turbide onde, Et giunto al duro fin mio stanco legno. In tanto, di me dubbio, disperando Scorgo il maggior periglio, et lì m'avento Per venir tosto all'ultimo sospiro; Ma lei, che d'ogni ben mi tiene in bando, Sostien ch'io non perisca in tanto stento, Perché sia sempiterno il mio martiro. LXV Se l'alma non s'accorge dell'inganni, Non posso lungamente omai soffrire: Smarrita è l'arte, et manco vien l'ardire, Et la ragione è morta tra gli affanni. La guerra è lunga et crudel troppo, et gli anni Men freschi, stanchi sotto il gran martire: La spene m'abbandona, e il gran disire Sempre più ardente trovo né miei danni. Il cor che né sue imprese tante volte Quante ne ardisce, è vinto da costei, Talor si sdegna, et pur meco s'adira. Così mi vivo, et non è chi m'ascolte Dè miei pensier, che tutti son di lei: Onde la mente a doppio ne sospira. Giusto de' Conti La Bella Mano |
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02