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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
Il Novellino (di Anonimo)
Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)
I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)
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Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)
Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)
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I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)
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Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)
Picchiabbò (di Trilussa)
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Bacco in Toscana (di Francesco Redi)
Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)
La Bella Mano (di Giusto de' Conti)
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Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
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Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)
Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)
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La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
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Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)
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Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)
Messaggi del 12/12/2014
Post n°800 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO VI Crudel via piú che col parlar non spargo vidi Nerone e del mio gran tesoro; quanto a sé, niuno fu giá mai piú largo. Reti fe’ far da pescar tutte d’oro e altri strani e nuovi adornamenti 5 e ’l Culiseo, che fu sí gran lavoro, belle pinture e ricchi vestimenti; e tanto in suoi diletti spese e mise, che fe’ tornare il cento a men di venti. Ma poi che morte da me lo divise, 10 di Galba Sergio fui, del qual si disse che per viltá se stesso il tristo uccise. Sette mesi signor con meco visse; apresso Otto seguio, che tre, non piú, governò il mio, prima che morisse. 15 Vitellio Lucio dopo costui fu, che men di nove, per quel ch’io udío, la morte affretta e qui non fu piú. Vespasian diece anni tenne il mio, lo qual con Tito suo fe’ la vendetta 20 sopra i Giudei del Figliuolo di Dio. Costui d’amare e servir si diletta sempre li suoi suggetti e tal fu in armi, che piú province mise in mia distretta. Qui voglio del figliuol suo gloriarmi 25 che, poi che ’l suo buon padre venne meno, sempre pensò di valermi e d’atarmi. Dotato posso dir che fu a pieno d’ogni nobil costume e in opra tale, che ben fu degno di guidar tal freno. 30 Ai suoi nemici rendeo ben per male; da lui niun si partí giá mai tristo, tanto era grazioso e liberale. Per mobile tenea e per acquisto quanto donava o presentava altrui, 35 né mai turbato non l’avresti visto. Quel dí dicea che si perdea per lui, che del suo non donava o facea grazia; due anni e mesi il mio tenne costui. Domiziano apresso sí mi strazia 40 da sedici anni, che suo fratel fue, benché in men d’uno me ne vidi sazia. Sí gravi funno a me l’opere sue, qual di Nerone o di Gaio Gallicola: certo fu ’l terzo dietro a questi due. Vero è che se in mal far la lor matricola seguio, e cosí poi similemente la vita lor crudelmente pericola. E, secondo ch’ancor m’è ne la mente, cosí il cristiano costui perseguio 50 come Nerone dispietatamente. Il Panteon dentro dal grembo mio allor fu fatto in nome d’una dia, la qual si disse madre d’ogni dio. Di questa cosí bella profezia 55 non m’accorsi io allora, ma or ne godo, ché veggio che s’intese di Maria. Nerva fu poi e di costui mi lodo perché a lui spiacque ciò che fatto avea Domiziano e seguí altro modo. 60 Cosí a passo a passo giú cadea e su montava, come veder puoi, secondo quei signori i quali avea. Ma tosto finí meco gli dí suoi: dico ch’essendo entrato ne’ due anni, 65 da quattro mesi visse meco poi. Costui da esilio ritornò Giovanni, intendi il Vangelista; or puoi udire del Santo il tempo, se tu non t’inganni. Seguita ora ch’io ti debba dire 70 del buon Traiano, il qual con gran vittoria di vèr ponente vidi giá redire. E se far deggio lume a la sua gloria, in India, in Persia, in Egitto fe’ tanto, che degno sempre fie di gran memoria. 75 E possoli per ver dar questo vanto: che ’n fino a lui niun, dal primo Augusto, mi tenne con piú bene e con men pianto. Se vuo’ saper qual fu dal capo al busto, spia, quando piangea la vedovella, 80 quanto vèr lei fu temperato e giusto. E leggi ancor, se non sai, la novella perché Gregorio non fu da poi sano, che, pregandone Dio, per lui favella. In questo tempo divenne cristiano 85 con la sua donna e coi figliuoli Eustazio, per un miracol molto bello e strano: ché, cacciando una cerva, tra lo spazio de le sue corna vide in croce Cristo, per cui sostenne poi martirio e strazio. 90 E morto meco Ignazio, ancor fu visto lá, dove sparte furon le sue membra, iscritto d’or per tutto Cristo Cristo. Ohimè lassa, quando mi rimembra di sí giusto signore e del riposo, 95 come la vita d’or trista mi sembra! O sommo Bene, o Padre glorioso, verrá giá mai a cui di me incresca, ch’i’ esca d’esto limbo doloroso? Certo io non spero in la gente tedesca, 100 in greco né in francesco, ché ciascuno, com’è fatto signor, sol per sé pesca. Or dunque in cui io spero? In niuno, che sia qual Romol fu, Camillo o Scipio, de’ miei, che porti fede al ben comuno, 105 col qual possa rifare il bel principio? |
Post n°799 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°798 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Er bollettino straordinario - Er bollettino seconn'edizzione: Cor fatto der marito ch'ha legato La moje e l'ha bruciata sur pajone... - Quann'è successo? - Indove sarà stato? - Lo sentite che dice lo strillone?... Er fatto der marito ch'ha bruciato La moje vivai... - Ahi core de Nerone! - L' hanno aripreso ? - L' hanno carcerato? - Leggete e sentirete er gran delitto... - DI' piano di', nu' me stordì' l'orecchia : Tiè' qua er sordo... Vedemo che c'è scritto: "A Miranda, città del Portogallo, Nel millecinquecent'... E' robba vecchia, Cià cojonato, possin'ammazzallo! Trilussa Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°797 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Sestina |
Post n°796 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO V La grazia che nel mondo al Padre piacque di far, com’hai udito, fu la pace quando il Figliuol de la Vergine nacque. Morto Ottavian, che fu tanto verace e grazioso a governar lo ’mperio, che quanto piú ne parto e piú mi piace, il gener suo e privigno Tiberio, del qual parlar di sopra m’hai udito, eletto fu a tanto magisterio. Prudente il vidi e molto in arme ardito e fortunato e di sottile ingegno, d’alta scienza e con parlar pulito. Ma poi ch’egli ebbe ben preso il mio regno, divenne avaro e senza coscienza, simulatore e d’altri vizi pregno. Al tempo suo la umana semenza vita recoverò col benedetto sangue, che sparse la somma Potenza. Qui ti vo’ dir, perché ti sia diletto, Pilato fe’ confinare a Vienna, dove s’uccise d’ira e di dispetto. E non vo’ che rimanga ne la penna ch’Erode ed Erodiade lá moriro sí pover, che vendero e gonna e benna. Ma di quel ch’or dirò ancor sospiro: finí Ovidio, nel tempo ch’io dico, in esilio cacciato del mio giro. Diciott’anni fu meco questo antico e, facendo in Campagna sua dimora, provò il velen quant’è del cor nemico. Dopo costui fu dato il mio allora al suo nipote Gaio scelerato, del qual parlar m’è gran dispetto ancora. Superbo il vidi, avaro e dispietato e di lussuria sí acceso e pieno, che ne la propia carne usò il peccato. Bestia dir puossi, ché fu senza freno; ed el cosí come bestia fu morto e quattro anni mi tenne o poco meno. A Claudio poi fu il mio tesoro porto: qui Pietro a seminar quel seme venne, che poi fe’ sí buon frutto nel mio orto. Otto anni e sei questo signor mi tenne, lo qual Bretagna con l’isole Arcade ritornar fece sotto le mie penne. 45 Ben dèi pensar che sí lungi contrade non s’acquistâr, che non vi fosser molte battaglie gravi e piú colpi di spade. E benché or sian disoneste e sciolte le mie parole e la novella strana, 50 nondimen voglio che tu qui m’ascolte. Una donna ebbe costui, Messalana, tanto lussuriosa, che palese con l’altre lupe stava ne la tana. Cosí la trista il suo onore offese; 55 cosí la trista il suo signore abassa, né mai di cotal fallo si riprese, e, per quel che si parla e si compassa, a cosí fatto vizio mai costei non fu veduta sazia, ma sí lassa. 60 Or qui è bel tacere omai di lei, ché troppo è lungo a dir ciò che si dice di questo fallo e de gli altri suoi rei. In questo tempo apparve la fenice in Egitto, la qual veduta fue 65 prima in Arabia per piú lunga vice. Cinquecento anni vive e ancor piue e, quando a la fin sua apressa, questa si chiude ove arde poi le membra sue. Il collo ha che par d’oro, e la sua testa, 70 sí bel, ch’abbaglia altrui col suo splendore e, per corona, una leggiadra cresta. Il petto paoneggia d’un colore di porpora e il dosso suo par foco e com’aguglia è grande e non minore. 75 Tutti i nobil colori a loco a loco fra le sue penne ha sí ben ritratto, che ’l pavon vi parrebbe men che poco. E perché noti ben ciascun suo fatto, un vermicel de la cenere nasce, lo qual, crescendo, trasforma in questo atto. Incenso e mirra è quello onde si pasce; e sappi ben che mai non è piú d’una; castitá guarda ne le belle fasce. Ma qui ritorno a dir la mia fortuna, 85 la qual seguio, come udir potrai, acerba e dura quanto mai alcuna. Morto costui di tosco, io mi trovai del dispietato e superbo Nerone, per lo qual caddi di ricchezza assai. 90 De la mia vesta nel piú bel gherone, lassa!, questo crudele il foco mise, seguitando il voler senza ragione. Piú senatori e ’l suo fratello uccise e la sua donna e odi se fu rio, 95 che per lo corpo la madre divise. Lo primo fu che i cristian perseguio e morir fece di veleno ancora Seneca, ch’era del mondo un disio. La fine sua molto mi piacque allora, 100 perché fu tal quale a lui si convenne, ben che ’l ciel troppo a ciò voler dimora, ché tredici anni e piú trista mi tenne. |
Post n°795 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°794 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913 XIII Della signora Veronica Franca [La donna disfida a morte l'amante, che è con lei corrucciato; tuttavia, s'egli cercherà pace, s'azzufferà sì con lui, ma nelle voluttuose risse d'amore.] Non più parole: ai fatti, in campo, a l'armi, ch'io voglio, risoluta di morire, da sì grave molestia liberarmi. Non so se 'l mio «cartel» si debba dire, in quanto do risposta provocata: ma perché in rissa de' nomi venire? èe vuoi, da te mi chiamo disfidata; e, se non, ti disfido; o in ogni via la prendo, ed ogni occasion m'è grata. Il campo o l'armi elegger a te stia ch'io prenderò quel, che tu lascerai; anzi pur ambo nel tuo arbitrio sia. Tosto son certa che t'accorgerai quanto ingrato e di fede mancatore fosti e quanto tradito a torto m'hai. E, se non cede l'ira al troppo amore, con queste proprie mani, arditamente ti trarrò fuor del petto il vivo core. La falsa lingua, ch'in mio danno mente, sterperò da radice, pria ben morsa dentro 'l palato dal suo proprio dente; e, se mia vita in ciò non fia soccorsa, pur disperata prenderò in diletto d'esser al sangue in vendetta ricorsa; poi col coltel medesmo il proprio petto, de la tua occision sazia e contenta, forse aprirò, pentita de l'effetto. Or, mentre sono al vendicarmi intenta, entra in steccato, amante empio e rubello, e qualunque armi vuoi tosto appresenta. Vuoi per campo il segreto albergo, quello che de l'amare mie dolcezze tante mi fu ministro insidioso e fello? Or mi si para il mio letto davante, ov'in grembo t'accolsi, e ch'ancor l'orme serba dei corpi in sen l'un l'altro stante. Per me in lui non si gode e non si dorme, ma 'l lagrimar de la notte e del giorno vien che in fiume di pianto mi trasforme. Ma pur questo medesimo soggiorno, che fu de le mie gioie amato nido, dov'or sola in tormento e 'n duol soggiorno, per campo eleggi, accioch'altrove il grido non giunga, ma qui teco resti spento, del tuo inganno ver' me, crudel infido: qui vieni, e pien di pessimo talento accomodato al tristo occhio porta ferro acuto e da man ch'abbia ardimento. Quell'arme che da te mi sarà pòrta, prenderò volentier, ma più, se molto tagli, e da offender sia ben salda e corta Dal petto ignudo ogni arnese sia tolto, al fin ch'ei, disarmato a le ferite, possa 'l valor mostrar dentro a sé accolto. Altri non s'impedisca in questa lite, ma da noi soli due, ad uscio chiuso, rimosso ogni padrin, sia diffinita. Quest'è d'arditi cavalier buon uso, ch'attendon senza strepito a purgarsi, se si senton l'onor di macchie infuso: così o vengon soli ad accordarsi o, se strada non trovano di pace, pòn del sangue a vicenda saziarsi. Di tal modo combatter a me piace, e d'acerba vendetta al desir mio questa maniera serve e sodisface. Benché far del tuo sangue un largo rio spero senz'alcun dubbio, anzi son certa, senza una stilla spargerne sol io; ma, se da te mi sia la pace offerta? se la via prendi, l'armi poste in terra, a le risse d'amor del letto aperta? Debbo continuar teco anco in guerra, poi che, chi non perdona altrui richiesto, con nota di viltà trascorre ed erra? Quando tu meco pur venissi a questo, per aventura io non mi partirei da quel ch'è convenevole ed onesto. Forse nel letto ancor ti seguirei, e quivi, teco guerreggiando stesa, in alcun modo non ti cederei: per soverchiar la tua sì indegna offesa ti verrei sopra, e nel contrasto ardita, scaldandoti ancor tu ne la difesa, teco morrei d'egual colpo ferita. O mie vane speranze, onde la sorte crudel a pianger più sempre m'invita! Ma pur sostienti, cor sicuro e forte, e con l'ultimo strazio di quell'empio vendica mille tue con la sua morte; poi, con quel ferro ancor tronca il tuo scempio. XIV Risposta d'incerto autore [L'amante disfidato si dichiara vinto senza contrastar con arme, e s'arrende alla bella inimica, al cui dominio offre volentieri il cuore.] Non piu guerra, ma pace: e gli odi, l'ire, e quanto fu di disparer tra noi, si venga in amor doppio a convertire. La mia causa io rimetto in tutto a voi, con patto che, per fin de le contese, amici più che mai restiamo poi: non mi basta che l'armi sian sospese, ma, per stabilimento de la pace, d'ogni parte si lievino l'offese. Che nascesse tra noi rissa, mi spiace; ma se lo sdegno in amor s'augumenta, che tra noi si sdegnassimo, mi piace: e, se pur ragion vuol ch'io mi risenta e vendicata sia l'ingiuria mia, de la qual foste ognor ministra intenta, voglio con l'armi de la cortesia invincibil durar tanto a la pugna, che conosciuto alfin vincitor sia. Né questo da l'amor grande repugna, anzi con queste e non mai con altre armi ogni spirto magnanimo s'oppugna. O se voleste incontra armata starmi, se voleste tentar, con forza tale, se possibil vi sia di superarmi, fôra 'l mio stato a quel di Giove eguale; forse troppo è la speranza ardita, che studia di volar non avendo ale. èomma felicità de la mia vita sarebbe, in questo stato, che teneste da nuocermi la mente disunita; ma, s'a l'opere mie ben attendeste, così precipitosa ne lo sdegno a ciascun passo meco non sareste. L'ira è bensì de l'affezzion segno, ma che attende a introdur nel nostro petto, quanto può, l'odio con acuto ingegno; così 'l languir, giacendo infermo in letto, segno è di vita, perché l'uom, ch'è morto, cosa alcuna patir non può in effetto: ben per l'infermità vien altri scorto a morir, e, quant'è più 'l mal possente, al fin s'affretta in termine più corto. Del vostro sdegno subito ed ardente, s'è in voi punto ver' me d'amore, attendo che siano tutte le reliquie spente. E per questo talvolta anch'io m'accendo, e non per ira, ma per dolor molto batto le man, vocifero e contendo: vedermi del mio amor il premio tolto, né questo pur, ma in altretanta pena vederlomi in su gli occhi (oimè!) rivolto, per disperazion questo mi mena a quel che più mi spiace; e pur l'eleggo, poi che 'l preciso danno assai s'affrena. Con la necessità mi volgo e reggo, dappoi che la ruina manifesta de le speranze mie tutte preveggo; ma non perciò nel cor sempre mi resta di piacervi talento e di servirvi, anzi in me più tal brama ognor si desta. La mia ragion verrei talvolta a dirvi, ma, perché so che romor ne sarebbe, col silenzio m'ingegno d'obedirvi. Non so, ma forse ch'a taluno increbbe del viver nostro insieme; che 'l suo tosco, nel nostro dolce a spargerlo, pronto ebbe. Insomma dal mio canto non conosco d'avervi offeso, se 'l mio amor estremo meritar pena non m'ha fatto vosco; ma seguite, crudel: questo mai scemo non diverrà, ma nel mio cor profondo vivo si serberà fino a l'estremo: vivrà di questo il mio pensier giocondo, benché per tal cagion di pianto amaro, di lamenti e sospiri e doglia abondo. Ecco che nel duello mi preparo, con l'armi del mio mal, de le mie pene, de l'innocenzia mia sotto 'l riparo. Non so se 'l vostro orgoglio ne diviene maggior, o se s'appiana, mentre mira ch'io verso 'l pianto da le luci piene: ben talor l'umiltà estingue l'ira, ma poi talor l'accende, onde quest'alma tra speranza e timor dubbia si gira. Ma, d'armi tali pur sotto aspra salma, mi rendo in campo a voi, madonna, vinto, e nuda porgo a voi la destra palma. èe non s'è l'odio nel cor vostro estinto, mi sia da voi col preparato ferro un mortal colpo in mezzo 'l petto spinto: pur troppo armata, e so ben ch'io non erro, contra me sète; ed io del seno ignudo l'adito ai vostri colpi ancor non serro. Quel dolce sguardo umanamente crudo son l'armi, ond'ancidete il tristo core, in cui viva, bench'empia, ognor vi chiudo: gli strali e 'l foco e 'l laccio son d'Amore l'alte vostre bellezze, a me negate, onde cresce 'l desio, la speme more. Queste in mio danno, aspra guerriera, usate; e quanto più di lor sète gagliarda, tanto più pronta a le ferite siate. Qual cosa dal ferirmi vi ritarda? Forse vi giova che d'acerba fiamma, senza morir, per voi languisca ed arda. Lasso, ch'io mi distruggo a dramma a dramma, n', de la mia nemica il mio gran foco punto il gelido petto accende o infiamma: ella si prende i miei martìri in gioco, misero me, ché pur a nove piaghe dentro 'l mio petto non si trova loco. Di quella fronte e de le luci vaghe, e del dolce parlar fùr gli aspri colpi, che 'n parte fêr quell'empie voglie paghe. Volete ch'io non pianga e non v'incolpi, e di quanto in mio scempio avete fatto di voi mi lodi, e non sol vi discolpi? L'armi prendete ad impiagarmi ratto, e 'l mio duol disgombrando con la morte fate degno di voi magnanimo atto. A riconciliar l'irata sorte, onde 'l ciel mi minaccia oltraggio e scorno, pigliate in man la spada, ardita e forte. Ecco che disarmato a voi ritorno, e, per finir il pianto a qualche strada, ai vostri piedi umìl mi volgo intorno: del vostro sdegno la tagliente spada, s'altro non giova, omai prendete in mano, e sopra me ferendo altèra cada. Ripetete pur via di mano in mano, mentre dal segno alcun colpo non erra, e che l'oggetto avete non lontano: breve fatica queste membra atterra, lacere e tronche d'amorosa doglia, non punto accinte a contrastar in guerra; e, s'ancor ben potessi, non n'ho voglia, ma di morirvi inanzi eleggo, pria ch'alcun riparo in mia difesa toglia. Potete, se vi piace, essermi ria; e, quando usar l'asprezza non vi piaccia, potete, se vi piace, essermi pia. Quanto a me, pur ch'a voi si sodisfaccia, vi dono sopra me podestà franca, legato piedi e mani e gambe e braccia; e vi mando per fede carta bianca, ch'abbiate del mio cor dominio vero, sì che veruna parte non vi manca. Del resto assai desio più, che non spero, né so se, in via di straziar, m'abbiate fatto l'invito, o se pur da dovero. Aspetterò che voi me n'accertiate. |
Post n°793 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO IV Seguita ora a dir de l’alta gloria, del nipote di Cesare, Ottaviano, e d’ogni sua vertú qui far memoria. Dico che quanti nel tempo pagano ne fur, né poi, niun come costui 5 liberamente tenne il mondo in mano. Prudenzia e fortezza trovai in lui e vidil tanto temperato e giusto, che d’esser sua molto contenta fui. Costui a’ suoi contrari fu robusto 10 e con gli amici benigno e pietoso e ’l primo fu che si fe’ dire Augusto. Insomma, il vidi tanto grazioso, ch’io l’adorava, s’avesse voluto, come s’adora Cristo glorioso. 15 E quel che fece in contro a Cassio e a Bruto e contro a gli altri del gran tradimento, ben ti sarebbe a vederlo piaciuto. Qui non ti posso dire a compimento di Cleopatra e di Antonio come 20 si dier la morte per fuggir tormento. Al fine, essendo corso col suo nome per Grecia, per Egitto e per la Spagna, con gran triunfo a lui sol diedi il pome. Poi quel che fe’ Tiberio ne la Magna: 25 per lui l’opra fu tal, ch’io credo ancora che Germania e Pannonia il piagna. Non molto dopo questo, poi dimora che ’l mondo si ridusse tutto a pace e degno fu che Cristo nacque allora. E questo fu quel tempo che veracemente dir posso ch’io fui nel piú colmo e ch’io vidi il mio stato men fallace: ché tanta terra quanta aombra un olmo nota non m’era, ch’io non soggiogassi; 35 pensa s’a ricordarlo me ne dol mo. Tu mi pregasti ch’io ti raccontassi qual fui donzella e fino a cui crebbi e com povera venni ti mostrassi. E sai che giá t’ho detto come io ebbi 40 sette mariti re e come apresso co’ miei figliuoli adornai li miei trebbi; che a passo a passo era ita in fino adesso in su la rota, come va l’uccello di ramo in ramo su per l’arcipresso; 45 e tanto traslatai di questo in quello, che posta fui al sommo de la rota per questo mio signor, di cui favello. Onde, se ben per te si stima e nota, io t’ho giá fatto di due punti chiaro 50 e segue che nel terzo si percota. In questo tempo, ch’io dico sí caro, poco era fatto sacrifizio a Marte, per che le porte a Giano si chiavaro. Di Saturno e de gli altri la piú parte 55 era l’onore: e cosí il popol mio riposar vidi e ciascun viver d’arte. E s’io dicessi quel gran nover ch’io de’ cittadin trovai, non è cuore ch’a vederlo ora non venisse pio. 60 Morto fu di velen questo signore e per lo molto onore e benefizio ch’ebbi da lui, ne portai gran dolore. In questo tempo spirò in Brandizio Virgilio mantovano, le cui ossa 65 fun traslatate a piú nobile ospizio. Similemente perdé ogni possa de’ membri suoi e del bel dire Orazio e io nel Campo mio gli fei la fossa. E perché qui rimagni alquanto sazio, 70 l’etá del mondo è ben ch’io ti rammenti e de la mia di uno in altro spazio. Cinque mil censettantanove e venti anni erano iti dal tempo che Adamo sol s’avea visto e senza vestimenti, 75 in fino al dí, che del Vergine ramo nacque il bel Fior ch’alluminò il mondo e ch’è la mia speranza e ’l mio richiamo. E io potevo avere tutto a tondo da settecento diece cinque e piue 80 in fino al punto che qui ti secondo. Quando la legge portata mi fue, n’avea trecento e Italia penai ad acquistar da cinquecento in sue. E poi che Scipio in Africa mandai, 85 i’ dico quel che Cartago disfece, con la giunta di sei io mi trovai averne da sessanta volte diece. E questo mio signor, che sí mi piacque, come hai udito, e che tanto mi fece, 90 cinquanta sei e mezzo in sul mio giacque. |
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il 25/12/2023 alle 09:06
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