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Messaggi del 12/12/2014

Il Dittamondo (2-06)

Post n°800 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO VI

Crudel via piú che col parlar non spargo 
vidi Nerone e del mio gran tesoro; 
quanto a sé, niuno fu giá mai piú largo. 
Reti fe’ far da pescar tutte d’oro 
e altri strani e nuovi adornamenti 5 
e ’l Culiseo, che fu sí gran lavoro, 
belle pinture e ricchi vestimenti; 
e tanto in suoi diletti spese e mise, 
che fe’ tornare il cento a men di venti. 
Ma poi che morte da me lo divise, 10 
di Galba Sergio fui, del qual si disse 
che per viltá se stesso il tristo uccise. 
Sette mesi signor con meco visse; 
apresso Otto seguio, che tre, non piú, 
governò il mio, prima che morisse. 15 
Vitellio Lucio dopo costui fu, 
che men di nove, per quel ch’io udío, 
la morte affretta e qui non fu piú. 
Vespasian diece anni tenne il mio, 
lo qual con Tito suo fe’ la vendetta 20 
sopra i Giudei del Figliuolo di Dio. 
Costui d’amare e servir si diletta 
sempre li suoi suggetti e tal fu in armi, 
che piú province mise in mia distretta. 
Qui voglio del figliuol suo gloriarmi 25 
che, poi che ’l suo buon padre venne meno, 
sempre pensò di valermi e d’atarmi. 
Dotato posso dir che fu a pieno 
d’ogni nobil costume e in opra tale, 
che ben fu degno di guidar tal freno. 30 
Ai suoi nemici rendeo ben per male; 
da lui niun si partí giá mai tristo, 
tanto era grazioso e liberale. 
Per mobile tenea e per acquisto 
quanto donava o presentava altrui, 35 
né mai turbato non l’avresti visto. 
Quel dí dicea che si perdea per lui, 
che del suo non donava o facea grazia; 
due anni e mesi il mio tenne costui. 
Domiziano apresso sí mi strazia 40 
da sedici anni, che suo fratel fue, 
benché in men d’uno me ne vidi sazia. 
Sí gravi funno a me l’opere sue, 
qual di Nerone o di Gaio Gallicola: 
certo fu ’l terzo dietro a questi due. 
Vero è che se in mal far la lor matricola 
seguio, e cosí poi similemente 
la vita lor crudelmente pericola. 
E, secondo ch’ancor m’è ne la mente, 
cosí il cristiano costui perseguio 50 
come Nerone dispietatamente. 
Il Panteon dentro dal grembo mio 
allor fu fatto in nome d’una dia, 
la qual si disse madre d’ogni dio. 
Di questa cosí bella profezia 55 
non m’accorsi io allora, ma or ne godo, 
ché veggio che s’intese di Maria. 
Nerva fu poi e di costui mi lodo 
perché a lui spiacque ciò che fatto avea 
Domiziano e seguí altro modo. 60 
Cosí a passo a passo giú cadea 
e su montava, come veder puoi, 
secondo quei signori i quali avea. 
Ma tosto finí meco gli dí suoi: 
dico ch’essendo entrato ne’ due anni, 65 
da quattro mesi visse meco poi. 
Costui da esilio ritornò Giovanni, 
intendi il Vangelista; or puoi udire 
del Santo il tempo, se tu non t’inganni. 
Seguita ora ch’io ti debba dire 70 
del buon Traiano, il qual con gran vittoria 
di vèr ponente vidi giá redire. 
E se far deggio lume a la sua gloria, 
in India, in Persia, in Egitto fe’ tanto, 
che degno sempre fie di gran memoria. 75 
E possoli per ver dar questo vanto: 
che ’n fino a lui niun, dal primo Augusto, 
mi tenne con piú bene e con men pianto. 
Se vuo’ saper qual fu dal capo al busto, 
spia, quando piangea la vedovella, 80 
quanto vèr lei fu temperato e giusto. 
E leggi ancor, se non sai, la novella 
perché Gregorio non fu da poi sano, 
che, pregandone Dio, per lui favella. 
In questo tempo divenne cristiano 85 
con la sua donna e coi figliuoli Eustazio, 
per un miracol molto bello e strano: 
ché, cacciando una cerva, tra lo spazio 
de le sue corna vide in croce Cristo, 
per cui sostenne poi martirio e strazio. 90 
E morto meco Ignazio, ancor fu visto 
lá, dove sparte furon le sue membra, 
iscritto d’or per tutto Cristo Cristo. 
Ohimè lassa, quando mi rimembra 
di sí giusto signore e del riposo, 95 
come la vita d’or trista mi sembra! 
O sommo Bene, o Padre glorioso, 
verrá giá mai a cui di me incresca, 
ch’i’ esca d’esto limbo doloroso? 
Certo io non spero in la gente tedesca, 100 
in greco né in francesco, ché ciascuno, 
com’è fatto signor, sol per sé pesca. 
Or dunque in cui io spero? In niuno, 
che sia qual Romol fu, Camillo o Scipio, 
de’ miei, che porti fede al ben comuno, 105
col qual possa rifare il bel principio?

 
 
 

Rime inedite del 500 (VII)

Post n°799 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

VII

[1 Di Angelo Di Costanzo]

Di Angelo Di Costanzo

Sospir, ch'uscite da quel nobil core
Per la bocca di perle adorna e bella,
Deh ditemi di me qualche novella:
Son vivo, ivi entro, o pur son morto e fuore?

Regna pur là del mio vivace ardore
Quell'empia voglia e di pietà rubella?
O forse, oimè!, per mia maligna stella
Sete voi messi d'alcun novo amore?

Hor se ciò vuol mio fato iniquo e rio,
Tornate indietro e solo il vostro intento
Sia pur tosto drizzato al morir mio.

Ch'io per minor mio mal resto contento,
Pur che fuor non vi spinga altro disio,
Che sia vostro soggetto il mio tormento.

[2 Di Angelo Di Costanzo]

Di Angelo Di Costanzo

Quei sospir caldi, che dal fondo interno
Escon ad or, ad or dal vostro core,
Donna d'ogni virtù, vivace fiore
E del rio secol nostro onor eterno

Non si creda che sian, s'io ben discerno,
Segni di vostro mal forse, o d'ardore
Che umana passïon non ha vigore
In corpo, ond'abbia cura il re superno.

Ma son le voci di ben mille amanti
Che dentro il vostro cor pudico e saggio
Tormentando tenete in doglia e 'n pianto.

Le quai per sì leggiadro e bel vïaggio
Escono a palesar gli onesti e santi
Vostri pensieri, e 'l lor soverchio oltraggio.

[3 Di Angelo Di Costanzo]

Di Angelo Di Costanzo

Lasso, s'ogni falcon quando si vede
Colomba più di lui lieve e spedita
Volar innanzi, di periglio uscita,
Ch'ei d'arriciarla più non spera o crede.

Riservando il suo volo ad altre prede
Tosto ch'egli ha la prima voce udita,
Che da lontano a ritornar l'invita
In pugno al cacciator veloce riede.

Perché non ritorna anco il mio pensiero,
Che già sei anni il chiamo? E per mio male
Che più m'ascolti e torni omai non spero.

Forse l'aver seguìto obbietto tale
Benché sia stato indarno, il fa sì altiero
Ch'abitar più non degna in cor mortale.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Er bollettino straordinario

Post n°798 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Er bollettino straordinario

- Er bollettino seconn'edizzione:
Cor fatto der marito ch'ha legato
La moje e l'ha bruciata sur pajone...
- Quann'è successo? - Indove sarà stato?

- Lo sentite che dice lo strillone?...
Er fatto der marito ch'ha bruciato
La moje vivai... - Ahi core de Nerone!
- L' hanno aripreso ? - L' hanno carcerato?

- Leggete e sentirete er gran delitto...
- DI' piano di', nu' me stordì' l'orecchia :
Tiè' qua er sordo... Vedemo che c'è scritto:

"A Miranda, città del Portogallo,
Nel millecinquecent'... E' robba vecchia,
Cià cojonato, possin'ammazzallo!

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Sestina

Post n°797 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Sestina

Quando nel primo grado il chiaro sole
Entra dell’Ariète, sicchè i fiori
Vestono i colli e gli arbuscei le fronde,
In verde prato gir vestita a bianco
Vidi una donna con cerchio di perle,
Composto con grand’arte in lucent’oro.

I suoi biondi capelli un nodo d’oro
Rilegava sì ben, che invidia al sole
Facea, mischiando i bianchi e’ rossi fiori,
Annodandogli tutti in verdi fronde,
Per avvolgerli insieme colle perle,
Et adornarsi sotto il manto bianco.

Fiso guardando tra ’l bel nero e bianco
Negli occhi, che parean ciascuno un sole,
Abbagliai sì ch’io caddi come i fiori
Con lor succisi gambi, o come fronda
Quando è spezzato il ramo; nè più l’oro
Riconosceva, nè color di perle.

Allor trasse la man bianca di perle
Disotto al prezïoso vestir bianco,
Dove una ruota avea trapunta in oro,
E chinò la man bianca giù a’ fiori
Ricoprendomi tutto colle fronde.
Così dormi’ infino all’altro sole.

Ma poi ch’io mi svegliai non vidi il sole,
Ch’era sparito, e la fronte di perle
Col suo serico adorno vestir bianco
Di varj nodi tutto ornato a oro;
E secche si eran già le verdi fronde,
E spenti tutti e bianchi e’ rossi fiori.

Allor gridai; o ben mondani, o fiori
Caduchi e lievi, o fuggitive perle,
Ed o fragile e debíl vestir bianco,
Ed o vani pensier nel fallac’oro,
Voi non durate a pena un brieve sole
Rivolgendovi come al vento fronde.

Sicchè la fe ch’a voi, o fiori o fronde,
Avea, abbandono e perle e bianco e oro,
E a te mi raccomando eterno sole. 

Cino Rinuccini
da Rime di M. Cino Rinuccini

 
 
 

Il Dittamondo (2-05)

Post n°796 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO V

La grazia che nel mondo al Padre piacque 
di far, com’hai udito, fu la pace 
quando il Figliuol de la Vergine nacque. 
Morto Ottavian, che fu tanto verace 
e grazioso a governar lo ’mperio, 
che quanto piú ne parto e piú mi piace, 
il gener suo e privigno Tiberio, 
del qual parlar di sopra m’hai udito, 
eletto fu a tanto magisterio. 
Prudente il vidi e molto in arme ardito 
e fortunato e di sottile ingegno, 
d’alta scienza e con parlar pulito. 
Ma poi ch’egli ebbe ben preso il mio regno, 
divenne avaro e senza coscienza, 
simulatore e d’altri vizi pregno. 
Al tempo suo la umana semenza 
vita recoverò col benedetto 
sangue, che sparse la somma Potenza. 
Qui ti vo’ dir, perché ti sia diletto, 
Pilato fe’ confinare a Vienna, 
dove s’uccise d’ira e di dispetto. 
E non vo’ che rimanga ne la penna 
ch’Erode ed Erodiade lá moriro 
sí pover, che vendero e gonna e benna. 
Ma di quel ch’or dirò ancor sospiro: 
finí Ovidio, nel tempo ch’io dico, 
in esilio cacciato del mio giro. 
Diciott’anni fu meco questo antico 
e, facendo in Campagna sua dimora, 
provò il velen quant’è del cor nemico. 
Dopo costui fu dato il mio allora 
al suo nipote Gaio scelerato, 
del qual parlar m’è gran dispetto ancora. 
Superbo il vidi, avaro e dispietato 
e di lussuria sí acceso e pieno, 
che ne la propia carne usò il peccato. 
Bestia dir puossi, ché fu senza freno; 
ed el cosí come bestia fu morto 
e quattro anni mi tenne o poco meno. 
A Claudio poi fu il mio tesoro porto: 
qui Pietro a seminar quel seme venne, 
che poi fe’ sí buon frutto nel mio orto. 
Otto anni e sei questo signor mi tenne, 
lo qual Bretagna con l’isole Arcade 
ritornar fece sotto le mie penne. 45 
Ben dèi pensar che sí lungi contrade 
non s’acquistâr, che non vi fosser molte 
battaglie gravi e piú colpi di spade. 
E benché or sian disoneste e sciolte 
le mie parole e la novella strana, 50 
nondimen voglio che tu qui m’ascolte. 
Una donna ebbe costui, Messalana, 
tanto lussuriosa, che palese 
con l’altre lupe stava ne la tana. 
Cosí la trista il suo onore offese; 55 
cosí la trista il suo signore abassa, 
né mai di cotal fallo si riprese, 
e, per quel che si parla e si compassa, 
a cosí fatto vizio mai costei 
non fu veduta sazia, ma sí lassa. 60 
Or qui è bel tacere omai di lei, 
ché troppo è lungo a dir ciò che si dice 
di questo fallo e de gli altri suoi rei. 
In questo tempo apparve la fenice 
in Egitto, la qual veduta fue 65 
prima in Arabia per piú lunga vice. 
Cinquecento anni vive e ancor piue 
e, quando a la fin sua apressa, questa 
si chiude ove arde poi le membra sue. 
Il collo ha che par d’oro, e la sua testa, 70 
sí bel, ch’abbaglia altrui col suo splendore 
e, per corona, una leggiadra cresta. 
Il petto paoneggia d’un colore 
di porpora e il dosso suo par foco 
e com’aguglia è grande e non minore. 75 
Tutti i nobil colori a loco a loco 
fra le sue penne ha sí ben ritratto, 
che ’l pavon vi parrebbe men che poco. 
E perché noti ben ciascun suo fatto, 
un vermicel de la cenere nasce, 
lo qual, crescendo, trasforma in questo atto. 
Incenso e mirra è quello onde si pasce; 
e sappi ben che mai non è piú d’una; 
castitá guarda ne le belle fasce. 
Ma qui ritorno a dir la mia fortuna, 85 
la qual seguio, come udir potrai, 
acerba e dura quanto mai alcuna. 
Morto costui di tosco, io mi trovai 
del dispietato e superbo Nerone, 
per lo qual caddi di ricchezza assai. 90 
De la mia vesta nel piú bel gherone, 
lassa!, questo crudele il foco mise, 
seguitando il voler senza ragione. 
Piú senatori e ’l suo fratello uccise 
e la sua donna e odi se fu rio, 95 
che per lo corpo la madre divise. 
Lo primo fu che i cristian perseguio 
e morir fece di veleno ancora 
Seneca, ch’era del mondo un disio. 
La fine sua molto mi piacque allora, 100 
perché fu tal quale a lui si convenne, 
ben che ’l ciel troppo a ciò voler dimora,
ché tredici anni e piú trista mi tenne.

 
 
 

Rime inedite del 500 (VI)

Post n°795 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

VI

[1 Di Antonio Minturno]

A Clemente Papa.

Hora è 'l tempo ch'aver ben si conviene
Occhi a vedere, a volar piume et ale,
A veder chiaro d'una parte il male,
Da l'altra il vero e desïato bene.

A volar tosto ove la nostra spene
Dal ciel chiamata arditamente sale;
Hor che 'l famoso lito occidentale
Ne promette felici aure serene;

Pria che respiri il torbido orïente,
E torni il nembo tempestoso e fiero;
Che ne fuggì spirando il bel ponente.

Sì lieti vedrem poi l'antico onore
Un Cesare nel mondo et un impero,
E vedremo un ovile et un pastore.

[2 Di Antonio Minturno]

Del medesimo

È questa, Amor, la reggia di quel sole,
Che le tenebre nostre rasserena,
E l'aura, e i fiori e 'l bel tempo rimena
Quando il mondo non ha rose né viole?

Qui cantava del ciel l'alma sirena,
Ove s'udìan divine, alte parole,
E si vedean bellezze tante e sole
Onde m'era sì dolce ogni aspra pena.

Lasso, ch'i' veggio a questi liti intorno
Oscura notte e tempestoso verno
E veggo abbandonato il bel soggiorno.

Ma pur piangendo sempre al luogo torno
Per la memoria di quel vivo eterno
Lume, che qui facea sì lieto giorno.

[3 Di Antonio Minturno]

Del Minturno

Tu, che sostien' con l'aura in vita i cuori
E nel tuo specchio altrui chiaro dimostri
Quanto si vede, et agli orecchi nostri
Porti coi vaghi spirti il suon di fuori.

Se 'l ciel sempre ti renda i santi onori;
Né mai per forza di terreni mostri
Fato si senta di tartarei chiostri,
Che turbi il tuo sereno, e spenga i fiori;

Grazia mi fa che nel tuo puro mezzo
Sorga di lungi il sol del bel divino
Ch'i' senza di lui sto qui doglioso e mezzo;

O presta a' miei sospir sì larga via
Che giungan' al felice almo Avellino,
Ove con l'ali Amor dritti gl'invia.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Terze Rime 13-14

Post n°794 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XIII

Della signora Veronica Franca

[La donna disfida a morte l'amante, che è con lei corrucciato; tuttavia, s'egli cercherà pace, s'azzufferà sì con lui, ma nelle voluttuose risse d'amore.]


Non più parole: ai fatti, in campo, a l'armi,
ch'io voglio, risoluta di morire,
da sì grave molestia liberarmi.
Non so se 'l mio «cartel» si debba dire,
in quanto do risposta provocata:
ma perché in rissa de' nomi venire?
èe vuoi, da te mi chiamo disfidata;
e, se non, ti disfido; o in ogni via
la prendo, ed ogni occasion m'è grata.
Il campo o l'armi elegger a te stia
ch'io prenderò quel, che tu lascerai;
anzi pur ambo nel tuo arbitrio sia.
Tosto son certa che t'accorgerai
quanto ingrato e di fede mancatore
fosti e quanto tradito a torto m'hai.
E, se non cede l'ira al troppo amore,
con queste proprie mani, arditamente
ti trarrò fuor del petto il vivo core.
La falsa lingua, ch'in mio danno mente,
sterperò da radice, pria ben morsa
dentro 'l palato dal suo proprio dente;
e, se mia vita in ciò non fia soccorsa,
pur disperata prenderò in diletto
d'esser al sangue in vendetta ricorsa;
poi col coltel medesmo il proprio petto,
de la tua occision sazia e contenta,
forse aprirò, pentita de l'effetto.
Or, mentre sono al vendicarmi intenta,
entra in steccato, amante empio e rubello,
e qualunque armi vuoi tosto appresenta.
Vuoi per campo il segreto albergo, quello
che de l'amare mie dolcezze tante
mi fu ministro insidioso e fello?
Or mi si para il mio letto davante,
ov'in grembo t'accolsi, e ch'ancor l'orme
serba dei corpi in sen l'un l'altro stante.
Per me in lui non si gode e non si dorme,
ma 'l lagrimar de la notte e del giorno
vien che in fiume di pianto mi trasforme.
Ma pur questo medesimo soggiorno,
che fu de le mie gioie amato nido,
dov'or sola in tormento e 'n duol soggiorno,
per campo eleggi, accioch'altrove il grido
non giunga, ma qui teco resti spento,
del tuo inganno ver' me, crudel infido:
qui vieni, e pien di pessimo talento
accomodato al tristo occhio porta
ferro acuto e da man ch'abbia ardimento.
Quell'arme che da te mi sarà pòrta,
prenderò volentier, ma più, se molto
tagli, e da offender sia ben salda e corta
Dal petto ignudo ogni arnese sia tolto,
al fin ch'ei, disarmato a le ferite,
possa 'l valor mostrar dentro a sé accolto.
Altri non s'impedisca in questa lite,
ma da noi soli due, ad uscio chiuso,
rimosso ogni padrin, sia diffinita.
Quest'è d'arditi cavalier buon uso,
ch'attendon senza strepito a purgarsi,
se si senton l'onor di macchie infuso:
così o vengon soli ad accordarsi
o, se strada non trovano di pace,
pòn del sangue a vicenda saziarsi.
Di tal modo combatter a me piace,
e d'acerba vendetta al desir mio
questa maniera serve e sodisface.
Benché far del tuo sangue un largo rio
spero senz'alcun dubbio, anzi son certa,
senza una stilla spargerne sol io;
ma, se da te mi sia la pace offerta?
se la via prendi, l'armi poste in terra,
a le risse d'amor del letto aperta?
Debbo continuar teco anco in guerra,
poi che, chi non perdona altrui richiesto,
con nota di viltà trascorre ed erra?
Quando tu meco pur venissi a questo,
per aventura io non mi partirei
da quel ch'è convenevole ed onesto.
Forse nel letto ancor ti seguirei,
e quivi, teco guerreggiando stesa,
in alcun modo non ti cederei:
per soverchiar la tua sì indegna offesa
ti verrei sopra, e nel contrasto ardita,
scaldandoti ancor tu ne la difesa,
teco morrei d'egual colpo ferita.
O mie vane speranze, onde la sorte
crudel a pianger più sempre m'invita!
Ma pur sostienti, cor sicuro e forte,
e con l'ultimo strazio di quell'empio
vendica mille tue con la sua morte;
poi, con quel ferro ancor tronca il tuo scempio.

XIV

Risposta d'incerto autore

[L'amante disfidato si dichiara vinto senza contrastar con arme, e s'arrende alla bella inimica, al cui dominio offre volentieri il cuore.]


Non piu guerra, ma pace: e gli odi, l'ire,
e quanto fu di disparer tra noi,
si venga in amor doppio a convertire.
La mia causa io rimetto in tutto a voi,
con patto che, per fin de le contese,
amici più che mai restiamo poi:
non mi basta che l'armi sian sospese,
ma, per stabilimento de la pace,
d'ogni parte si lievino l'offese.
Che nascesse tra noi rissa, mi spiace;
ma se lo sdegno in amor s'augumenta,
che tra noi si sdegnassimo, mi piace:
e, se pur ragion vuol ch'io mi risenta
e vendicata sia l'ingiuria mia,
de la qual foste ognor ministra intenta,
voglio con l'armi de la cortesia
invincibil durar tanto a la pugna,
che conosciuto alfin vincitor sia.
Né questo da l'amor grande repugna,
anzi con queste e non mai con altre armi
ogni spirto magnanimo s'oppugna.
O se voleste incontra armata starmi,
se voleste tentar, con forza tale,
se possibil vi sia di superarmi,
fôra 'l mio stato a quel di Giove eguale;
forse troppo è la speranza ardita,
che studia di volar non avendo ale.
èomma felicità de la mia vita
sarebbe, in questo stato, che teneste
da nuocermi la mente disunita;
ma, s'a l'opere mie ben attendeste,
così precipitosa ne lo sdegno
a ciascun passo meco non sareste.
L'ira è bensì de l'affezzion segno,
ma che attende a introdur nel nostro petto,
quanto può, l'odio con acuto ingegno;
così 'l languir, giacendo infermo in letto,
segno è di vita, perché l'uom, ch'è morto,
cosa alcuna patir non può in effetto:
ben per l'infermità vien altri scorto
a morir, e, quant'è più 'l mal possente,
al fin s'affretta in termine più corto.
Del vostro sdegno subito ed ardente,
s'è in voi punto ver' me d'amore, attendo
che siano tutte le reliquie spente.
E per questo talvolta anch'io m'accendo,
e non per ira, ma per dolor molto
batto le man, vocifero e contendo:
vedermi del mio amor il premio tolto,
né questo pur, ma in altretanta pena
vederlomi in su gli occhi (oimè!) rivolto,
per disperazion questo mi mena
a quel che più mi spiace; e pur l'eleggo,
poi che 'l preciso danno assai s'affrena.
Con la necessità mi volgo e reggo,
dappoi che la ruina manifesta
de le speranze mie tutte preveggo;
ma non perciò nel cor sempre mi resta
di piacervi talento e di servirvi,
anzi in me più tal brama ognor si desta.
La mia ragion verrei talvolta a dirvi,
ma, perché so che romor ne sarebbe,
col silenzio m'ingegno d'obedirvi.
Non so, ma forse ch'a taluno increbbe
del viver nostro insieme; che 'l suo tosco,
nel nostro dolce a spargerlo, pronto ebbe.
Insomma dal mio canto non conosco
d'avervi offeso, se 'l mio amor estremo
meritar pena non m'ha fatto vosco;
ma seguite, crudel: questo mai scemo
non diverrà, ma nel mio cor profondo
vivo si serberà fino a l'estremo:
vivrà di questo il mio pensier giocondo,
benché per tal cagion di pianto amaro,
di lamenti e sospiri e doglia abondo.
Ecco che nel duello mi preparo,
con l'armi del mio mal, de le mie pene,
de l'innocenzia mia sotto 'l riparo.
Non so se 'l vostro orgoglio ne diviene
maggior, o se s'appiana, mentre mira
ch'io verso 'l pianto da le luci piene:
ben talor l'umiltà estingue l'ira,
ma poi talor l'accende, onde quest'alma
tra speranza e timor dubbia si gira.
Ma, d'armi tali pur sotto aspra salma,
mi rendo in campo a voi, madonna, vinto,
e nuda porgo a voi la destra palma.
èe non s'è l'odio nel cor vostro estinto,
mi sia da voi col preparato ferro
un mortal colpo in mezzo 'l petto spinto:
pur troppo armata, e so ben ch'io non erro,
contra me sète; ed io del seno ignudo
l'adito ai vostri colpi ancor non serro.
Quel dolce sguardo umanamente crudo
son l'armi, ond'ancidete il tristo core,
in cui viva, bench'empia, ognor vi chiudo:
gli strali e 'l foco e 'l laccio son d'Amore
l'alte vostre bellezze, a me negate,
onde cresce 'l desio, la speme more.
Queste in mio danno, aspra guerriera, usate;
e quanto più di lor sète gagliarda,
tanto più pronta a le ferite siate.
Qual cosa dal ferirmi vi ritarda?
Forse vi giova che d'acerba fiamma,
senza morir, per voi languisca ed arda.
Lasso, ch'io mi distruggo a dramma a dramma,
n', de la mia nemica il mio gran foco
punto il gelido petto accende o infiamma:
ella si prende i miei martìri in gioco,
misero me, ché pur a nove piaghe
dentro 'l mio petto non si trova loco.
Di quella fronte e de le luci vaghe,
e del dolce parlar fùr gli aspri colpi,
che 'n parte fêr quell'empie voglie paghe.
Volete ch'io non pianga e non v'incolpi,
e di quanto in mio scempio avete fatto
di voi mi lodi, e non sol vi discolpi?
L'armi prendete ad impiagarmi ratto,
e 'l mio duol disgombrando con la morte
fate degno di voi magnanimo atto.
A riconciliar l'irata sorte,
onde 'l ciel mi minaccia oltraggio e scorno,
pigliate in man la spada, ardita e forte.
Ecco che disarmato a voi ritorno,
e, per finir il pianto a qualche strada,
ai vostri piedi umìl mi volgo intorno:
del vostro sdegno la tagliente spada,
s'altro non giova, omai prendete in mano,
e sopra me ferendo altèra cada.
Ripetete pur via di mano in mano,
mentre dal segno alcun colpo non erra,
e che l'oggetto avete non lontano:
breve fatica queste membra atterra,
lacere e tronche d'amorosa doglia,
non punto accinte a contrastar in guerra;
e, s'ancor ben potessi, non n'ho voglia,
ma di morirvi inanzi eleggo, pria
ch'alcun riparo in mia difesa toglia.
Potete, se vi piace, essermi ria;
e, quando usar l'asprezza non vi piaccia,
potete, se vi piace, essermi pia.
Quanto a me, pur ch'a voi si sodisfaccia,
vi dono sopra me podestà franca,
legato piedi e mani e gambe e braccia;
e vi mando per fede carta bianca,
ch'abbiate del mio cor dominio vero,
sì che veruna parte non vi manca.
Del resto assai desio più, che non spero,
né so se, in via di straziar, m'abbiate
fatto l'invito, o se pur da dovero.
Aspetterò che voi me n'accertiate.

 
 
 

Il Dittamondo (2-04)

Post n°793 pubblicato il 12 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO IV

Seguita ora a dir de l’alta gloria, 
del nipote di Cesare, Ottaviano, 
e d’ogni sua vertú qui far memoria. 
Dico che quanti nel tempo pagano 
ne fur, né poi, niun come costui 5 
liberamente tenne il mondo in mano. 
Prudenzia e fortezza trovai in lui 
e vidil tanto temperato e giusto, 
che d’esser sua molto contenta fui. 
Costui a’ suoi contrari fu robusto 10 
e con gli amici benigno e pietoso 
e ’l primo fu che si fe’ dire Augusto. 
Insomma, il vidi tanto grazioso, 
ch’io l’adorava, s’avesse voluto, 
come s’adora Cristo glorioso. 15 
E quel che fece in contro a Cassio e a Bruto 
e contro a gli altri del gran tradimento, 
ben ti sarebbe a vederlo piaciuto. 
Qui non ti posso dire a compimento 
di Cleopatra e di Antonio come 20 
si dier la morte per fuggir tormento. 
Al fine, essendo corso col suo nome 
per Grecia, per Egitto e per la Spagna, 
con gran triunfo a lui sol diedi il pome. 
Poi quel che fe’ Tiberio ne la Magna: 25 
per lui l’opra fu tal, ch’io credo ancora 
che Germania e Pannonia il piagna.
Non molto dopo questo, poi dimora 
che ’l mondo si ridusse tutto a pace 
e degno fu che Cristo nacque allora. 
E questo fu quel tempo che veracemente 
dir posso ch’io fui nel piú colmo 
e ch’io vidi il mio stato men fallace: 
ché tanta terra quanta aombra un olmo 
nota non m’era, ch’io non soggiogassi; 35 
pensa s’a ricordarlo me ne dol mo. 
Tu mi pregasti ch’io ti raccontassi 
qual fui donzella e fino a cui crebbi 
e com povera venni ti mostrassi. 
E sai che giá t’ho detto come io ebbi 40 
sette mariti re e come apresso 
co’ miei figliuoli adornai li miei trebbi; 
che a passo a passo era ita in fino adesso 
in su la rota, come va l’uccello 
di ramo in ramo su per l’arcipresso; 45 
e tanto traslatai di questo in quello, 
che posta fui al sommo de la rota 
per questo mio signor, di cui favello. 
Onde, se ben per te si stima e nota, 
io t’ho giá fatto di due punti chiaro 50 
e segue che nel terzo si percota. 
In questo tempo, ch’io dico sí caro, 
poco era fatto sacrifizio a Marte, 
per che le porte a Giano si chiavaro. 
Di Saturno e de gli altri la piú parte 55 
era l’onore: e cosí il popol mio 
riposar vidi e ciascun viver d’arte. 
E s’io dicessi quel gran nover ch’io 
de’ cittadin trovai, non è cuore 
ch’a vederlo ora non venisse pio. 60 
Morto fu di velen questo signore 
e per lo molto onore e benefizio 
ch’ebbi da lui, ne portai gran dolore. 
In questo tempo spirò in Brandizio 
Virgilio mantovano, le cui ossa 65 
fun traslatate a piú nobile ospizio. 
Similemente perdé ogni possa 
de’ membri suoi e del bel dire Orazio 
e io nel Campo mio gli fei la fossa. 
E perché qui rimagni alquanto sazio, 70 
l’etá del mondo è ben ch’io ti rammenti 
e de la mia di uno in altro spazio. 
Cinque mil censettantanove e venti 
anni erano iti dal tempo che Adamo 
sol s’avea visto e senza vestimenti, 75 
in fino al dí, che del Vergine ramo 
nacque il bel Fior ch’alluminò il mondo 
e ch’è la mia speranza e ’l mio richiamo. 
E io potevo avere tutto a tondo 
da settecento diece cinque e piue 80 
in fino al punto che qui ti secondo. 
Quando la legge portata mi fue, 
n’avea trecento e Italia penai 
ad acquistar da cinquecento in sue. 
E poi che Scipio in Africa mandai, 85 
i’ dico quel che Cartago disfece, 
con la giunta di sei io mi trovai 
averne da sessanta volte diece. 
E questo mio signor, che sí mi piacque, 
come hai udito, e che tanto mi fece, 90
cinquanta sei e mezzo in sul mio giacque.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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