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Messaggi del 13/12/2014

Tasso madrigali 11-15

Post n°806 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso
alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871. 
I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana

11

A te benigno il Cielo, Adria, si gira 
E nel tuo seno il mar senz'onda giace: 
A te d'intorno tace 
Il vento e dolce eterna aura sospira. 
Il Sol, che in te meravigliando mira, 
Da tuoi begl'occhi i suoi giammai non torse 
Tra sé dicendo, forse 
Che non consente a me l'eterno Giove 
Ch'eternamente i' non mi affisi altrove?

12

Dal bel seren discesa, 
Candida fonte, ove ogni grazia piove, 
Alle tue limpid'acque Amor mi muove 
ch' à di sete d'honor l'anima accesa; 
Deh! se preghiera humana al cielo è intesa, 
Tu che dal ciel discendi 
Gradisci e'ntendi chi tacendo chiede 
D'haver dal fonte di pietà mercede.

13

Nobil fiamma celeste 
Che in alto sempre sfavillando ascende, 
Non meno in sé risplende 
Quando altri adorna e di splendor riveste; 
Santi lumi del Ciel, quando voi deste 
Chiaror già tanto a lei 
Le' pur diceste al par di noi tu dei 
Col vago tuo Candore 
Spogliare altrui di tenebroso horrore.

14

Candida più ch'el Sol lucida e bella. 
Se sol col lampeggiar d'un dolce riso 
Serena il tuo bel viso 
Ogni più tempestosa atra procella, 
Soccorri alla mia stanca navicella, 
Sgombrane il suo periglio, 
Basta un girar del tuo tranquillo ciglio.

15

Mirate in sul mattin Candida splende
Lucidissima stella
Non Vener no, ma luce alta novella 
Che di sovrano amor gli animi accende;
Quanta serenità da lei discende!
Fugasi ogni tempesta,
Il Cielo e'l Mar s'arresta:
L'onde posan tranquille, han pace i venti;
Che non han tregua i miei sospir dolenti?

XI.1. 11 girar del cielo, oggi rimane proprietà poetica che ha riscontro in Dante (Purgatorio XIV, v. 148): 
Movesi il Cielo e intomo vi si gira 
Mostrandoci le sue belle e eterne: 
E l'occhio vostro pure a terra mira.
8. L'eterno Giove. Nella Gerusalemme, St. 22, Canto X e Canto XFV St. 68 II gran pianeta eterno.
XII.
1. Col titolo: In nome d'una Gentildonna, cioè per Madonna Caterina Strozzi Frescobaldi pel donativo di una veste con otto imprese alla signora Bianca. Le imprese furono: I. Una fonte, II. Vaso ardente. III. Nave procellosa, IV. Il crepuscolo, V. Un lauro, VI. La luna, VII. Il sole, VIII. La fedeltà; ornamenti tutti compresi in piccoli tondi egregia opera di gentile arte. 
2. Candida, cioè Bianca ed è poetico, volendone velare il nominativo della persona. Essendo al Tasso già occorso di praticarlo con altri Madrigali allo stesso indirizzo, già stampati, non s'intesero che fossero diretti alla Granduchessa. 
3. L'impresa era una fonte col motto Inter Opes Inops. 
4. L'anima accesa. Rammenta quel verso della Gerusalemme, St. 53, Canto XVI: 
Dal mal concetto ardor l'anima accesa. 
8. Nella Gerusalemme, St. 64, Canto XIX: 
Ben ei darà ciò che per te si chiede. 
Ma congiunta l'avrai d'alta mercede.
XIII.
1. Una fiamma uscente da un vaso col motto Splendeat Usu. 
2. Nella Gerusalemme, St. 73 del Canto I a proposito dell'arder del sole: 
Va più sempre avanzando e in alto ascende. 
8. Candore, cioè la bellezza di Bianca che fa soggetto di altre poesie dello 
stesso autore in lode della medesima. Oltre i Madrigali che si riportano (in aggiunta) Non hanno, amor, qui loco, ec. Candido fior germoglia, ec. Tu bianca e vaga, ec. ne'quali tutti usa il poeta questa voce Candore, conviene avvertire alla Gaimone Talvolta sopra Pelia Olimpo et Osaa, strofa III, ove si riscontrano i versi 
.... Son vera belle e vera gloria,
Vero candore, anzi splendor sereno, 
Ch'abbaglia occhio terreno. 
Degni di gran poema o pur d'istoria, 
Ch'illustri alta memoria.
XIV.
2. Il Tasso, anche quando in nome di altri scriveva non aspettava, come il Petrarca, d'ispirarsi a cena, ma a quel modo si diportava che vive sempre trasparissero le sue prerogative e la sua bella nominanza. Sebbene in nome d'una Gentildonna, oh! com'è bello, ben condotto ed ottimamente sentito colla qualità tassiana questo Madrigale. Il lampeggiar d'un dolce riso della Bianca per mettere serenità a ogni cosa, che ne' Madrigali della raccolta Resini si tradusse. 
Il lampeggiar dei bei lumi cortesi,
ha per eco nello stesso Madrigale un girar del tranquillo ciglio con una reminiscenza del Canto V della Gerusalemme, St. 64. 
Lampeggiar d'un dolce riso, trova altri riscontri nelle Rime dell' Autore e basta citare il sonetto Io veggio o parmi, quando in voi m'affisso, ec. non che l'altro Palustri valli ed arenosi lidi, ec. 
5. L'impresa era una nave in tempesta col motto Tollit Periculum. 
7. Tranquillo ciglio e nel plurale tranquille ciglia. Il Tasso nel sonetto Questa d'Italia bella e nobil figlia ec. E nella Gerusalemme, St. 64 del Canto V: 
La bella donna, ch'ogni cuor più casto 
Arder credeva ad un girar di ciglia, ec.
XV.
2. Faceva l'impresa una lucente stella irradiante una campagna, col motto: 
Alba Rbfuloet. 
3. Arrivante e giustificativo elogio per una donna altrettanto bella che virtuosa quale si fu la Bianca!! Si meditino questi versi: 
Non Vener no, ma luce alta novella 
Che di sovrano amor gli animi accende; 
Quanta serenità da lei discende! 
E' proprio il caso di ricordare la bellissima testimonianza favorevolissima alla signora Bianca, riferita nella prefazione alla pag. 7. 
9. Tregua, ec. è locuzione del Petrarca: 
Non ho mai tregua di sospir col Sole. 
Ed il Tasso in chiusa del sonetto Giacca la mia virtù vinta e smarrita, ec. 
E perchè non fai tregua a'tuoi sospiri 
E'n queste amate luci asciughi il pianto? 
Speri forse d'aver più fidi lumi? 

 
 
 

Rime di Cino Rinuccini (12)

Post n°805 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME
di
M. CINO RINUCCINI
fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di
M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei
suoi tempi di lettere ornatissimo.

33

Gli angosciosi sospiri, i quai nasconde,
Nel tristo petto il mio antico signore,
Nulla ragionan altro che dolore,
Che lagrime infinite agli occhi infonde.

Perir non curerei nelle sals’onde,
Sol per por fine al tormentato core;
Ma per più pena mia provede Amore
Con qualche speranzetta e non so donde.

Ond’agghiaccio, ardo, triemo in ciascun tempo,
Impallidisco, arrosso e disfavillo
Quando cognosco la mia dura sorte;

E perchè in tanto mal troppo m’attempo,
Col tristo lagrimar ch’ognora stillo,
Merzè, merzè, ti chero, o dolce morte.

34

Dolenti spirti, ornate il vostro dire
E gitene a madonna reverenti,

E le mostrate i gravosi tormenti,

Che sente dentro il core e ’l gran martire;

E conchiudete poi che sofferire
Cotal battaglia non siete possenti,

E che vedete i vostri sentimenti

Disperarsi ed elegger di morire.


Forse vedrete il viso scolorare,
Che fa quel che mai più fu visto in cielo,
Col lume di due stelle oscura il sole;

Allor potrete alquanto confortare
Il cor che triema d’amoroso gielo,
E di sua morte già più non gli dole.

35

D'un freddo marmo esce l’ardente fiamma

Che mi distrugge, agghiaccia, e tal contraro
Mi mena a morte sanza alcun riparo:
Nè chiaro fonte mai assetata damma

Cercò, com’io ’l mio mal, che sì m’infiamma
Che me conosco, nè ’l dì scuro e ’l chiaro:
In tal pianeta i chiari razzi entraro
Nel cor, ch’a consumar non ha più dramma.

Adunque, Amor, dalla tua gran potenza
Procede ciò ch’al mondo è da lodare;
Guarda lo stato mio stremo dubbioso,

E poi le mostra sua perfetta essenza,
Che chi la guarda fa sempre ammirare;
E come volge il ciel sanza riposo.

36

Non potre’ più natura al mondo farne
Che sì angelico vago e dolce viso,
Quant’è quel di costei, che ’l paradiso
Par che sia aperto per dolcezza darne.

Quando i denti d’avorio mostrarne
Veggo in la bella bocca, ov’ho ’l cor fiso
E dov’ogni altro senso è ’n tutto miso
Per dolce melodia inde ascoltarne.

Dond’odo poi uscir sì dolci note
E sì soavi angeliche e divine,
Che mai udite furo in nulla etate.

Il perchè l’intelletto mi percuote
Dicendo; odi sentenze pellegrine
E dolci e gravi in quel fior di biltate.

 
 
 

Il Dittamondo (2-07)

Post n°804 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO VII

Io non posso fuggir ch’i’ non mi doglia, 
quando ricordo quel tempo felice 
dove ’l ciel contentava ogni mia voglia. 
Dianzi ti parlai de la fenice, 
quant’ella è bella e che fra noi è sola 
e sopra ogni altro uccel valer si dice. 
Ben vo’, figliuol, che noti la parola: 
bella fui io e sol donna del mondo 
e or son men che ne l’abbí l’a sola: 
onde, se spesso nel pianto confondo, 
maraviglia non è, se ben rimiri 
come da tanto onor son ita al fondo. 
Ma qui non vo’ che tu, perch’io m’adiri, 
il tempo perda, onde ritorno al segno, 
dove or par ch’abbi tutti i tuoi disiri. 
Non per sé tanto questo signor degno 
alcuna volta il cristian perseguio, 
quanto per mal consiglio e falso ingegno. 
E piú sarebbe stato in vèr lor rio, 
non fosse Plinio, che con le parole 
oneste e sante li tolse il disio. 
Nove anni e diece questo mio bel sole 
con meco visse e tanto mi fu strano, 
quando morio, ch’ancora me ne dole. 
Rimasi tra le braccia d’Adriano: 
molto ben visse, ma fu invidioso 
del suo buon zio, io dico di Traiano. 
Al mondo il vidi forte e grazioso: 
e ciò fu degno, ché vo’ ben che sappia 
che sempre il tenne con dolce riposo. 
E voglio ancor che nel tuo petto cappia 
che fu il secondo che ’l Giudeo distrusse, 
che poi in Ierusalem non s’accalappia. 
Leggi fe’ molte e assai ne ridusse 
a ordinato modo e vissi seco 
con pace, qual se Numa stato fusse. 
Ragionar seppe ben latino e greco; 
a la fede cristiana men mal fece, 
ch’alcun che prima fosse stato meco. 
In Campagna costui morbo disfece 
e, poi che meco fu, la vita sua 
durò un anno con due volte diece. 
Qui ferma gli occhi de la mente tua: 
guarda, fortuna quando corre al verso, 
come l’un ben dopo l’altro s’indua; 45 
e cosí nel contraro; onde, e converso, 
questo dich’io: che piú signori allora 
mi seguîr buoni e poi venne il riverso. 
Dopo costui, che tanto me onora, 
il gener suo mi tenne, Antonio Pio, 50 
del quale mi lodai e lodo ancora. 
Costui in pace tenne me e ’l mio; 
tanto mi piacque, che poi l’adorai 
come Romolo, Giano o altro iddio. 
E perché forse ancor parlare udrai 55 
sí come amor la sua Faustina punse, 
onde bello ti fie se tu ’l saprai, 
per ver ti dico ch’ella si congiunse 
per medicina e l’appetito spense 
col sangue del suo amato, ond’ella sunse. 60 
E ben che cosí fosse, vo’ che pense 
che onesta fu e di nobil costume, 
né mai tal vizio il suo bel cuor non vense. 
Galieno in quel tempo fece lume 
a’ versi d’Ippocras, come si vede 65 
e legge ancora in alcun suo volume. 
Ogni grazia, figliuol, da Dio procede, 
come si par ne le piante e ne l’erba; 
e stolto è ben colui ch’altro ne crede. 
Or dunque quel signor che s’insuperba, 70 
come Neron, per gran prosperitade, 
ben si può dir ch’egli ha la testa acerba. 
Questo dich’io per lodar la bontade 
d’Antonio Pio, ché quant’ebbe piue 
e piú il vidi benigno e con pietade. 75 
Due anni e trenta meco signor fue: 
ben puoi pensar allora ch’io ’l perdeo 
se trista fui; e qui non dico piue. 
In questo tempo fiorio Tolomeo, 
ch’a noi alluminò l’astronomia, 
e, storiografo, di Spagna Pompeo. 
E qui Sabina fu per Serapia 
riconosciuta e morta per cristiana 
e Secondo lasciò filosofia. 
In questo tempo, ch’io vivea sí sana, 85 
Marco Antonio con Lucio mi tenne 
e cotal signoria mi parve strana: 
però che non sta bene e mai s’avenne 
ad una cappa due cappucci avere, 
piú che facciano insieme l’esse e l’enne. 90 
Lucio morio e rimase il potere 
a Marco Antonio, che governò in guisa, 
ch’assai mi fu di star con lui piacere. 
Costui fu tale che, avendo conquisa 
Numanzia, Granata e Terra Schiava, 95 
ch’a minor somma il censo lor divisa. 
Costui per briga alcuna non gravava 
li suoi suggetti e, quando avea bisogno, 
vendeva il suo e i cavalier pagava.
E cosí visse al tempo ch’io ti pogno. 100

 
 
 

Pe' le scale

Post n°803 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Pe' le scale

Quanno la veddi entra' ner portoncino,
Je disse 'na parola piano piano;
Lei rispose ridenno. Ar mezzanino
Tutt'e dua ce toccassimo la mano.

Io me fece coraggio. Ar primo piano
Je dette un bacio propio spizzichino;
Arivati ar seconno, su' ripiano.
Una ventata ce smorzò er cerino.

Mejo che mejo! Propio a mezze scale
Io nun potette sta', l'abbraccicai.
Voi ch'avressivo fatto? Tale e quale.

At terzo piano lei se stette zitta,
Ma ar quarto fece: - Ohe?... Ma che farai
Quanno ch'ariveremo su in soffitta?

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)
 
 
 

La Bella Mano (074-080)

Post n°802 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

LXXIV

Chi darà agli occhi miei sì larga vena
Di lagrime, ch'io possa il mio dolore
Sfogar piangendo sì, che poi m'attempre?
Et per quetare il tormentoso core,
Chi darà al petto sì possente lena,
Che, sì come convien, sospiri sempre?
Poi che provando in sì diverse tempre,
Che l'alma quando il pensa ancor ne trema,
Se contrastar potessi io a tanto male,
Né ingegno o forza vale.
Or che debbo altro infino all'ora estrema,
Che fra sospiri et pianti venir meno
Sin che d'ambe le luci fia vendetta;
E il cuor che li die' fe' ne fia punito:
(Perché non ben si segue ogni appetito:
Et colpa ben che lieve pena aspetta,
Accioché al pronto errar si metta freno)
Però che il fuoco ardente ebbe già in seno,
Et spento ancor l'accese, lui s'attristi,
E il volto porte sempre et gli occhi tristi.

Forse il mio acerbo stato et l'aspra angoscia
Dopo ch'io fia suggetto a tanto stratio,
Moveranno a pietà chi mi dà morte:
Et forse il pianto, ond'io mai non son satio,
Vincerà quella fiera voglia, poscia
Che ad altra via mercè chiuse ha le porte.
Non dico già che la mia cruda sorte
Suo corso pieghi in acquetarmi un giorno,
Sì veggio il ciel riverso nei miei danni:
Talché volgendo gli anni,
Pur ferma la mia stella, intorno intorno
Ritrosa ovunque vada mi riguarda.
Ma spero, se bontà nel mondo regna,
Soccorra un tempo, et faccia forza al cielo,
Ma poi vedendo variarmi il pelo,
Et pur, qual suol, di doglie l'alma pregna,
Temo ogni mia salute omai fia tarda;
Et aver mi par nel cuor cosa che m'arda,
Et non so che mi sento in l'alma ascoso
Che mi consuma; et lamentar non oso.

Quale uom, che giugne a troppo orribil caso,
Et vede pronto l'ultimo suo strido,
Né il tempo allor sostien proveggia o scampi;
Così pavento, lasso, et mi disfido,
Né al mondo altro conforto mi è rimaso,
Se non cagion che dì et notte avampi.
Et se gli advien talor che in mente stampi
Qualche soccorso, ratto si dilegua;
Ond'io ritorno alla mia usata guerra.
Accioché un giorno in terra
Non aggian gli occhi tristi pace o tregua.
O mia cruda vaghezza, o rio pensiero,
Perché tanto alto mi scorgesti allora.
Che maledico il dì, che gli occhi apersi:
Perocche quanto al mondo mai soffersi
Me advien, se ben ripenso, da quell'ora,
Che nel bisogno col giuditio intero
Non lasciai l'ombre, et mi rivolsi al vero;
Et dolcemente mi condussi al loco,
Ove convien che manchi a poco a poco.

Ragione è ben che il peccator non godi
D'alcun suo fallo, anzi ne senta doglia,
Et l'alma che mal fe' quella sol pera.
Ma benché ad ora ad or l'ardente voglia
Sottraggia l'alma, et dal ben far la frodi,
Basti una morte, et sia quanto vuol fiera.
Lasso, gridando vo mattino et sera;
Né guarir posso, né il dolor m'uccide
Accioché il mio martir sia più vivace.
Mira pensier fallace,
Se al mondo simil voglia mai si vide,
Che impetrar morte a me dal ciel non lice;
Né il muove la pietà del duol tanto aspro,
Né il pianger mio, che omai s'ode tanto alto.
Già non mi armò Natura il cuor di smalto,
Né mi coprì nel petto d'un diaspro,
Che restar possa più, lasso, infelice.
O forte del mio mal prima radice
Perché il tuo fiero orgoglio in me no affreni,
O con tua forza al fin tosto mi meni?

Lasso, che il mio dolore, ove io non voglio
Contra il dover per forza mi trasporta:
Et vo colpando altrui del mio fallire.
Non veggio io ben, che a poca fide scorta
Commisi un tempo, ond'io a torto mi doglio,
La vita, la salute, e il bel disire?
Et questa è sol cagion del mio languire.
Che se mortal bellezza il cor m'ingombra,
Che colpa è del destin, che a ben m'induce?
Se la soverchia luce
Di due begli occhi il mio vedere adombra,
Perché pur mi lamento delle stelle?
Se un falso riso, et due parole m'hanno
Acerbamente a morte omai sospinto;
Et se nel volto un bel voler dipinto,
Et portar dentro chiuso un dolce inganno,
È la cagion, che in pianto rinovelle,
Perché del ciel, et delle cose belle
Ognior mi lagno a torto, et non intendo
Di che la fiamma nacque, ond'io mi accendo?

Canzon se vuol chi puote, et così sia,
Che contra il mio voler quagiù rimanga,
Perché fortuna in me sua pompa spieghi,
Né vuol che Morte punto a me si pieghi,
Perché più tempo io mi consumi et pianga,
Non posso più, né so di me che fia;
Così m'ha concio una speranza ria,
Che mi condusse, immaginando, in parte
Ove io lascia' l'ardir, l'ingegno, et l'arte.

LXXV

Io non posso dal cor, ch'Amor martira
Levar l'alto disio che mi tormenta:
L'anima folle, et del suo mal contenta,
Come a lui piace, Amor la sprona et gira.

Madonna contra me si è volta in ira,
Sì che di pace ogni speranza è spenta;
Né ancor per tutto ciò dal cor s'allenta
La voglia, che al suo peggio ognior mi tira.

Non basta al gran disio compir mio ingegno,
Et per fuggirla ogni ragione è morta,
Che quel non posso già, questo non voglio.

Amor, che a forza a morte mi trasporta,
Di tal dolcezza l'alma, e il cor m'ha pregno,
Ch'io giaccio a mezo 'l fuoco, et non mi doglio.

LXXVI

Se spegne il foco che mia vita ardiva
Il fonte che per gli occhi miei distilla,
Pria che l'ardor che dentro mi sfavilla
Aggia del corpo in tutto l'alma priva;

Libero et sciolto allor convien ch'io viva
Sì, che d'Amor non senta una favilla;
Et cerchi un'altra vita più tranquilla,
Da poi che a torto il mio Signor mi schiva.

Ma come corpo che velen nudrica,
Gustando sempre amaro dalle fasce,
Che al primo dolce saria vinto et stanco;

Così mia vita che d'Amor si pasce,
Abandonando poi l'usanza antica,
Se libertà sentisse verria manco.

LXXVII

Tosto, per Dio, deh tosto pria ch'io mora
Soccorrimi per Dio; deh, aita aita:
Vedi la mente trista omai smarrita,
Et l'alma stanca giunta all'ultima ora.

Deh pensa al gran martir, che ognior m'accora,
Che nacque già d'una mortal ferita,
Rubella di mercè, che la mia vita
Sola ama, reverisce et sola onora.

Et se per me conforto et ciascun bene
È spento al mondo, et spento ha la speranza
Amor, che tanto m'ha nudrito invano,

Fornisca di tagliar quel che ne avanza
Del filo, che mia vita ancor sostiene,
La tua superba et dispietata mano.

LXXVIII

Chi non sa come Amor punge, et assale,
Et come arrossa i suoi seguaci, e imbianca;
Chi non sa come la parola manca
Quando mercè si chiede a cui non cale;

Come né forza, né argumento vale,
Né fuggir da man destra, o da man manca,
Allor che la ragion già vinta et stanca,
La strada, ove è smarrita, scerne male,

Miri nel volto di Medusa allora
Quando ver me disserra il fero sguardo,
Che per mia pena sempre cerco et fuggo,

Et guardi come aghiaccio, et poi come ardo
Davanti a chi di subito m'accora:
Et come ardendo tutto mi distruggo.

LXXIX

Se per chiamar mercè, s'impetrò mai
Fra stimoli d'Amor qualche soccorso,
Quale è sì duro cor di tigre o d'orso
Che a pianger meco non venisse omai?

Et s'io potessi, per fuggir tal guai,
Alla sfrenata voglia porre un morso,
Gran tempo è già che dall'antico corso
Avrei volte le spalle, et ben tel sai.

Ma come mie parole al cor non vanno,
Che, ritenute nelle sorde orecchie,
Sì poco apprezi perché Amor m'accori;

Così le tue durezze non faranno
Che sempre nei begli occhi non mi specchie,
Et ch'io non t'ami sempre, et sempre adori.

LXXX

Or che ogni piaggia prende il bel colore,
Ride la terra, e il frutto a noi dispensa
Et col dì notte ugualmente compensa
Quel che di tanti effetti è solo autore.

Secche en le mie speranze, et duolsi il core,
Che frutto più di lor coglier non pensa,
Ond'io tal dentro sento doglia intensa,
Che già varca il dover l'aspro dolore:

Et pasco l'alma sol di maraviglia,
Pensando quel poter dove è raccolto,
Che adopra in me contra stagion tal forza.

Intanto in mente adombro quel bel volto,
Disegno quei begli occhi et quelle ciglia,
Quegli occhi, anzi quel sol, che a ciò mi sforza.

Giusto de' Conti
La Bella Mano

 
 
 

Er comprianno

Post n°801 pubblicato il 13 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Er comprianno

Er giorno de Santa Lucia

Oh che ggiorno fortunato
è toccato a l'universo
che 'n ber ggiorno s'è svejato

e cce stava 'r celo terso,
co' 'na granne luminara
che pperò io me só pperso

non perché la vita è avara,
ma perché sortanto allora
ho sentito la cagnara

-eh, mannaggia a la malora!-
che tte fà tutta la ggente,
notte e ggiorno, ad ogni ora.

Nun sapevo propio gnente,
ero nato 'n quer momento
e restavo 'n poco assente.

Doppo, ho visto co' sgomento
che la vita se n'è ita,
puro stanno 'n poco attento.

L'anni só' 'na calamita,
passa uno e l'artro addietro
se ne vanno tra le dita.

Pare scivolà sur vetro
ogni vorta 'n comprianno;
pe' contalli nun c'è mmetro,

li pôi solo reggistrà,
sotto 'n celo nero nero,
fino a quanno pôi campà.

Tiè l'augurio più ssincero
che dde côre posso dì:
vaffanculo pe' ddavero,

tanto, poi, devi morì.

Valerio Sampieri
12 dicembre 2014

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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