Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Dicembre 2014 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Messaggi del 15/12/2014

Terze Rime 25 (2)

Post n°832 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XXV (continuazione)

Della signora Veronica Franca

[In lode di Fumane, luogo dell'illustrissimo signor conte Marcantonio della Torre, preposto di Verona.]

Del giardin vago è la sembianza grata,
e, mentre in lui la maniera risguardi
d'ogni parte ben colta e ben piantata,
lepri e conigli andar pronti e gagliardi
nel corso vedi; e, mentre che t'incresce
d'esserti di tal vista accorto tardi,
ecco ch'altronde ancor vaga schiera esce
di cervi e capri e dame e d'altri tali,
onde la maraviglia e 'l piacer cresce.
Ma poi tra quelle schiere d'animali
scopri distinto del giardino il piano
d'acque in angusti e limpidi canali,
e splender su per l'onde di lontano
vedi i pesci guizzando, che d'argento
sembra che nuotin d'una e d'altra mano.
E mentre l'occhio a vagheggiar è intento
il piacer vario del fiorito suolo,
più sempre di mirar vago e contento,
di questo ramo in quel cantando a volo
gir vede copia d'augelletti snelli,
quai molti insieme, e qual vagando solo.
Quinci s'accorge che di fior novelli
e frutti antichi son quei rami carchi,
non pur di nidi d'infiniti augelli.
Senza che 'l guardo quinci e quindi varchi,
l'incontran d'ogni parte i piacer tutti,
in quest'officio non mai stanchi o parchi.
E, se nel giardin visti in un ridutti,
fiere, augei, pesci, rivi ,arbori e foglie,
fior sempre novi, e d'ogni stagion frutti
a mirar in disparte altri s'accoglie,
e, come nel guardar talvolta occorre,
da la pianura a l'alto a mirar toglie,
ne la beltà de' vaghi colli incorre,
ch'a la vista, che s'alza, umili e piani,
lietamente si vengono ad opporre.
Questi, dal bel palazzo non lontani,
sembra che, per raccôrlo in mezzo 'l seno,
si stringan verso lui d'ambe le mani;
e 'ntanto spiegan tutto aperto e pieno
il grembo lor di dolcezze infinite,
che la vista bear possono a pieno.
Le pecorelle, a pascer l'erbe uscite,
biancheggian per li poggi, a cansar lievi,
per poco d'ombra timide e smarrite:
di questi monti son queste le nevi;
ché quindi 'l verno standosi ognor lunge
non vien giamai che 'l bel terreno aggrevi.
Quindi letizia e molto utile giunge,
de le gregge bianchissime ai signori,
di quel che se ne tonde e uccide e munge.
Sparsi per l'ombre, siedono i pastori,
e, le canne dispari a sonar posti,
cantan de' loro boscarecci amori;
e, se i greggi talvolta erran discosti,
col fischio il caprar sorto gli richiama,
poi torna de la musa ai suoi proposti.
Talor la pastorella ivi, ch'egli ama,
de la fistola al suon mossa ne viene,
in modo che di lui cresce la brama:
fisse le luci avidamente ei tiene
ne le braccia e nel sen nudi, e nel viso,
e d'abbracciarla a pena si ritiene.
Ma poi quindi a guardar l'occhio diviso
tira l'udito suon d'un corno roco,
quando più in quei pastori egli era fiso;
ed ecco, da color lontano un poco,
cani co' cacciator disposti in caccia,
ciascuno intento al suo ufficio e 'l suo loco.
Per folti arbusti un can quivi si caccia,
e per terra latrando un altro fiuta,
e de l'orme seguendo va la traccia,
e tanto corre in fretta e 'l luogo muta,
che d'una macchia fuor la lepre salta:
il bracco geme e in seguirla s'aiuta;
gridan le genti, e intorno ognun l'assalta;
chi le spinge da tergo il veltro in fretta,
qual corre a la via bassa, e quale a l'alta.
E mentre qua e là ciascun s'affretta,
il tuo sguardo, ch'a lor dietro s'aggira,
s'incontra in piacer novo che 'l diletta:
però ch'altrove d'improviso mira
gente ch'al visco ed a le reti stese
schiera d'augelli accortamente tira.
In queste e quelle insidie non comprese
di quei c'han maggior prezzo a le gran mense
vengon tutte le sorti in copia prese.
A chi stender più franco il volo pense,
più facilmente incontra d'esser còlto
ne le non viste reti, ancor che dense.
Ma 'l tuo sguardo, che va d'intorno sciolto
da questa novità de l'uccellare,
vien da un altro piacer più novo tolto;
perché dinanzi ad abbagliarlo appare
del sol un raggio, il qual mandan reflesso
l'acque d'un fonte cristalline e chiare.
E l'occhio, alquanto chiusosi in se stesso,
dopo quel vacillar s'apre, e ritorna
a guardar quivi dentro l'ombra presso;
e di smeraldi in fresca riva adorna,
di liquido cristal sopra un ruscello,
vede ch'altri a pescar lento soggiorna:
l'amo innescato tien sospeso in quello,
e con la canna in man fermato attende
che 'l pesce cada al morso acuto e fello.
Altri con reti in varia guisa il prende,
e, con piè nudi da la sponda sceso,
frugando per le buche il laccio stende:
si lancia e scuote il pesce vivo e preso,
né cessa di sala per fin che more,
tratto del fonte in un pratel disteso.
Vince di questo il soave sapore
quel di quant'altro mai stagno o palude
alberghi, o fondo salso o dolce umore.
Nulla di quel, che in sé beato chiude
un terren paradiso, un ciel terrestre,
dal paese amenissimo s'esclude.
Di semicapri dèi turba silvestre
il fertile terren pianta e coltiva,
sotto influsso di stelle amiche e destre;
e quella, che del capo al padre viva
uscìo, de' boschi e de le cacce dea,
di questi monti ha in custodia l'oliva.
Quel, che vivo nel ventre infante avea
la madre allor che 'l consiglio l'estinse
di Giunon fella, a lei contraria e rea
che Giove tolto al proprio lato il cinse,
n', fin che nove mesi fùr finiti,
dal bianco, ove 'l nudriva, unqua il discinse,
qui gli olmi guarda, e le ben colte viti;
le biade di Proserpina la madre,
Vertunno e Flora gli arbori graditi.
Mille, scese dal ciel, benigne squadre
d'eletti spirti infiorano il bel nido,
e 'l guardan da le cose infeste et adre.
Dolce de' miei pensieri albergo fido,
pien d'aranci e di cedri, e lieto in guisa
che vince ogni concetto, ogni uman grido,
resta la mente mia vinta e conquisa,
che 'l ben in te con larga mano infuso
dal celeste Motor forma e divisa;
e, come tu sei bel fuor d'uman uso
così ne l'opra de l'imaginarti
riman l'ingegno inutile e confuso;
e, se vaga pur vengo di lodarti,
come confusa son dentro, confondo
de le tue lodi l'ordine e le parti.
Ben, quanto in questo assai mai corrispondo,
tanto ne la prontezza del desire
con grata rispondenza sovrabondo.
Vorrei, ma in parte non so alcuna, dire
le lodi del signor, che ti possiede,
né stil uman porìa tant'alto gire.
Com'ogni loco è cielo, ove Dio siede,
ma poi nel ciel, ch'è adorno a maraviglia,
espressamente ferma la sua sede,
così gran lode ogni soggiorno piglia
da quel signor, dovunque mai perviene,
che regge 'l mio voler con le sue ciglia;
ma pur il seggio suo proprio ei ritiene
in voi, perciò sommamente beate,
contrade soavissime ed amene:
per lui tante beltà vi furon date,
e senza lui de' vostri pregi intieri
sareste senza dubbio alcun private.
Gitene, colli, assai per questo alteri,
ch'avete grazia di servir a lui,
degno di mille mitre e mille imperi.
Quest'è il buon vostro regnator, per cui
vincon le vostre inusitate forme
tutto 'l diletto de' paesi altrui.
Per farsi incontra a le sue gentili orme
crescon l'erbette e i fior, ch'al suo toccarli
vien che nova beltà gli orni e riforme;
e l'onorate man presta a lavarli
dentro la stanza l'acqua dolce arriva,
e dietro vaga ognor par brame andarli.
Da questa una fontana si deriva,
che d'ogn'intorno puro argento stilla
da vena di cristal corrente e viva.
Dentro 'l terren fecondo il cielo instilla
virtù, che fa produr soavi frutti,
e l'aria salutifera e tranquilla:
il piacer sommo e 'l vero fin di tutti
è che 'l signor gli goda e gli divida,
ch'ad arbitrio di lui furon produtti.
Qualunque in verde ramo augel s'annida,
a lui canta, a lui vive, e, s'a lui piace,
lieto sostien ancor ch'altri l'uccida;
qualunque in monte o in piano animal giace,
selvaggio errante, liberale dono
di se stesso a costui contento face;
e le mandre, che quivi in copia sono,
e tutto quel, che la terra produce,
son di lui molto più ch'io non ragiono.
Qui la natura carca si riduce,
per dar del suo tesoro a lui tributo,
che da l'Indo e 'l Sabeo quivi traduce:
non fosse questo ben da lui goduto,
certo è che in tanta copia mai dal cielo
non fôra ad alcun altro pervenuto.
A costui cede il gran signor di Delo,
più del suo chiaro, del valor il lume
cui nube non offusca od altro velo;
e di dolce eloquenzia il puro fiume
a lui dona di Giove il fedel messo,
ch'al cappello ed ai piè porta le piume.
A questo, a cui comandar è concesso
agli elementi, che in quel suo soggiorno
oprano quanto è più gradito ad esso,
andai, dal gran desio tirata, un giorno:
non per error di via, né ch'io passassi
quindi avante d'altronde al mio ritorno;
ma d'Adria mossi a quest'effetto i passi,
né interromper giamai vòlsi il viaggio,
perch'a l'andar via pessima trovassi,
Di questo mio signor cortese e saggio,
nel sentier aspro, mi fu grata scorta
de la virtute il sempiterno raggio:
da così chiaro e dolce lume scorta,
la strada, ch'al desio lunga sembrava,
al disagio parea commoda e corta.
La difficoltà grande superava
d'ogni altra cosa sol con la speranza,
che di veder uom sì gentil portava.
Alfin pur giunsi a la bramata stanza,
né potrei giamai dir sì com'io fossi
raccolta con gratissima sembianza.
A sì dolce spettacolo rimossi
tutti i miei gravi e torbidi pensieri,
che venner meco, allor che d'Adria mossi;
e tra mille gratissimi piaceri
ristoro presi e mi riconfortai,
qual fa ch'il suo ben gode e 'l meglio speri.
Ma poco al mio talento mi fermai
al loco da me dianzi raccontato,
di cui più bello non si vide mai,
né con più vago e splendido apparato
di vasi, e di famiglia bene instrutta,
che pronta al signor serve d'ogni lato,
e intorno a lui con ordine ridutta,
di varia età, di vario pelo mista,
vestita a un modo, corrisponde tutta.
Questa tra l'altre è ancor nobile vista,
veder d'intorno a sé ben divisata
d'onesta gente vaga e doppia lista.
Dunque, de le Fumane unica, amata
terra, ov'albergan le delizie, quante
ogni stanza real pòn far beata,
cedano Baie, e Pozzuol non si vante,
ch'unite in loro han le vaghe Fumane
le grazie di là suso tutte quante.
Cose tutte eccellenti e sopraumane,
dolci a la vista, al gusto, e gli altri sensi,
le piagge han grate agli occhi, al varcar piane.
E, perch'al loco internamente io pensi,
quanto più di lui parlo, e manco il lodo,
e i miei desir di lui si fan più intensi.
Volando col pensier, la lingua annodo.

 
 
 

Terze Rime 25 (1)

Post n°831 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XXV

Della signora Veronica Franca

[In lode di Fumane, luogo dell'illustrissimo signor conte Marcantonio della Torre, preposto di Verona.]


Non vorrei da l'un canto esser mai stata

a quel bel loco, per dover partire,
come fei, non ben quivi anco arrivata.
Così gravoso il ben suol divenire,
che, quant'egli è maggior, via maggior duolo
col dilungarsi in noi suol partorire:
tosto ne va 'l piacer trascorso a volo;
né ponendo in ragion l'util passato,
a la perdita mesti attendem solo.
E non vorrei però da l'altro lato
sì vago nido non aver veduto,
a la tranquillità soave e grato.
E, se pari al desio non l'ho goduto,
quanto guastato più, tanto più caro,
il lasciarlo mi fôra dispiaciuto.
E pur, formando un pensier dolce amaro,
con la memoria a quei diletti torno,
che infiniti a me quivi si mostráro:
sempre davanti gli occhi ho 'l bel soggiorno,
da cui lontan col corpo, con la mente,
senza da me partirlo unqua, soggiorno:
ricrear tutta in me l'alma si sente,
mentre qua giù sì lieto paradiso
da dover contemplar le sta presente.
Da questo lo mio spirto non diviso
va ripetendo le bellezze eterne,
dal soverchio piacer vinto e conquiso.
E, mentre le delizie avido scerne,
nel gioir di se stesso, afflige i sensi,
che non puon separati ancor goderne:
così, quanto m'avien ch'amando pensi
a l'abitazion vaga e gentile,
tra gioia e duol convien che 'l cor dispensi.
In questo piglio in man pronta lo stile;
e, per gradir al sentimento, fingo
quel loco quanto possi al ver simìle:
e, se ben so ch'a impresa alta m'accingo,
tirata da la mia propria vaghezza,
senz'arte quel ch'io so disegno e pingo.
Oh che fiorita e gioconda bellezza
quivi mostra e dispiega la natura,
raro altrove o non mai mostrarla avezza!
Certo è questa, quell'unica fattura,
in cui, vinta se stessa, a tutte prove
ripose ogni sua industria, ogni sua cura.
Di tutto quel che piaccia al mondo e giove,
favorevole il cielo a cotal opra,
il maggior vanto eternamente piove.
Quivi 'l ciel manda il suo favor di sopra,
né men la terra in adornar tal parte
con gli altri, a gara, elementi s'adopra.
Vince l'imaginar d'ogni umana arte
la disposizion di tutto 'l bene,
ch'unito quivi intorno si comparte;
e pur di quell'altezza, ove perviene
l'eccellenza de l'arte in cose belle,
vestigie espresse il bel luogo ritiene.
Così determinarono le stelle
far quivi in dolci modi altrui palese
quanto puon destinar e influir elle.
In questo avventuroso almo paese
l'ornamento del ciel si mostra in terra,
ch'a farlo un paradiso in lui discese.
Di lieti colli adorno cerchio serra
l'infinita beltà del vago piano,
dove Flora e Pomona alberga ed erra.
Quasi per gradi su di mano in mano
di fuor s'ascende 'l poggio da le spalle,
sempre al salir più facile e più piano;
quinci in giù per soave e destro calle
s'arriva a la pianura in pochi passi,
ch'è posta in forma di rotonda valle:
se non che in guisa rilevata stassi,
ch'è quasi, entro a quei colli, un minor colle,
che 'ntorno a lor si dispiani e s'abbassi,
sì che d'entrarvi a Febo non si tolle,
poco alzatosi fuor de l'oriente,
nel prato d'erbe rugiadoso e molle.
Entra 'l sol quanto entrar se gli consente
da un bosco d'alti pini e di cipressi,
pien d'ombre amiche al dì lungo e fervente;
e gode di veder quivi con essi
de la sua amata in corpo umano fronde,
già braccia e chiome, or verdi rami spessi,
tra' quai quanto può penetra e s'asconde,
per la memoria ch'anco entro 'l cor serba,
de l'amorose piaghe profonde.
De la ninfa la sorte così acerba
pietoso Apollo ai grati rami tira,
ed a quivi posar vago tra l'erba:
l'aria d'intorno ancor dolce sospira
di Dafne al caso, e spirto d'odor pieno,
le vaghe foglie ventilando, spira.
E 'l ciel, là più ch'altrove mai sereno,
fa che d'ogni stagion la copia vuote
in quella terra il corno suo ripieno.
Quivi con l'urne non mai stanche o vuote
a portar l'acque son le ninfe pronte,
tai che 'l cristal sì chiaro esser non puote:
queste versando van da più d'un fonte
le succinte e leggiadre abitatrici
di questo e quel vicin ben colto monte;
ed a l'altre compagne cacciatrici,
che, dietro i cervi stanche, a rinfrescarsi
vanno le fronti angeliche beatrici,
co' bei liquidi argenti intorno sparsi
porgon dolce liquor da trar la sete,
e le candide membra da lavarsi.
Dai freschi rivi e da le fonti liete,
quasi scherzando, l'acque in vario corso
declinan verso 'l pian soavi e quete;
e, poi che 'n lenta gara alquanto han corso,
per via diversa si raggiungon tutte
verso un bel prato, a lor dinanzi occorso;
e da natural arte a far instrutte
bello quel sito a maraviglia, vanno
per canali angustissimi ridutte.
Quivi entrate, a varcar poco spazio hanno,
ch'a un fiorito amenissimo giardino,
dolce tributo di se stesse dànno:
con man distesa e passo tardo e chino
dàn di se stesse le più dolci e chiare
al giardinier ch'a l'uscio sta vicino.
Questi, com' a lui piace, le fa entrare,
ch'obedienti a l'arte, fan quel tanto
ch'altri accorto dispon che debban fare.
Non cede l'arte a la natura il vanto
ne l'artificio del giardin, ornato
d'alberi colti e sempre verde manto;
sovra 'l qual porge, alquanto rilevato,
d'architettura un bel palagio tale,
qual fu di quel del sol già. poetato:
infinito tesor ben questo vale
per l'edificio proprio, e gli ornamenti,
che 'n ricchezza e in beltà non hanno eguale
I fini marmi e i porfidi lucenti,
cornici, archi, colonne, intagli e fregi,
figure, prospettive, ori ed argenti
quivi son di tal sorte e di tai pregi,
ch'a tal grado non giungono i palagi,
che fêr gli antichi imperadori e regi.
Ma le commodità di dentro e gli agi
son così molli, che gli altrui diletti
al par di questi sembrano disagi.
Per li celati d'òr vaghi ricetti,
sul pavimento, che qual gemma splende,
stan sopra aurati piè candidi letti.
Di sopra da ciascun d'intorno pende
di varia seta e d'òr porpora intesta,
che 'l contegno de' letti abbraccia e prende;
di coltre ricamata o d'altra vesta
di ricca tela ognun s'adorna e copre,
sì ch'a fornirlo ben nulla gli resta.
Di diversi disegni e diverse opre
su coverte e cortine in tutti i lati
vario e lungo artificio si discopre.
I dèi scender dal cielo innamorati
dietro le ninfe qui si veggon finti,
in diverse figure trasformati;
e d'amoroso affetto in vista tinti,
seguitar ansiosi il lor desio,
dove dal caldo incendio son sospinti.
Qui trasformata in vacca si vede Io,
e cent'occhi serrar il suo custode,
al suon di quel, che poi l'uccise, dio.
Da l'altra parte Danae in sen si gode
vedersi piover Giove in nembo d'oro,
ov'altri più la chiude e la custode;
il quale altrove, trasformato in toro,
porta Europa; ed altrove, aquila, piglia
Ganimede e 'l rapisce al sommo coro.
Di Licaon fatta orsa ancor la figlia,
mentre ucciderla il figlio ignota tenta,
assunta in cielo ad orsa s'assomiglia:
né pur orsa celeste ella diventa,
figurata di stelle in cotal segno,
ma 'l figlio in ciel l'altr'orsa rappresenta.
Quanto è possente il nostro umano ingegno,
che vive fa parer le cose finte
per forza di colori e di disegno!
Di seta e d'oro e varie lane tinte,
nei tapeti, ch'adornan quelle stanze,
da l'imitar le cose vere èn vinte.
E, perché nulla a desiar avanze,
ch'orni di Giove un'alta regia degna,
dove, lasciato 'l ciel, qua giuso ei stanze,
qualunque ebbe tra noi la sacra insegna,
ch'a quei con le sue man Dio stesso porge,
che d'esser suoi vicari in terra ei degna,
qualunque di pastor al grado sorge
de la chiesa divina, in espresso atto
nobilmente dipinto ivi si scorge:
quivi ciascun pontefice ritratto
più che dal natural vivo si vede,
di tela, di colori e d'ombre fatto;
e, com'a tanta maestà richiede,
da l'altre in parte eccelsa e separata
sì reverende imagini han lor sede.
Similmente, in maniera accomodata,
di quei l'effigie ancor son quivi, i quali
del ciel sostengon la felice entrata:
quanti mai fùr nel mondo cardinali,
quivi entro stan co' papi in compagnia,
e vescovi, e prelati altri assai tali.
Perché conforme al paradiso sia
quell'albergo divino, in sé ritiene
di gente i volti così santa e pia.
Di quel ch'al sacerdozio si conviene,
da l'essempio di molti espressi quivi,
in perfetta notizia si perviene:
questi, ancor morti, insegnar ponno ai vivi,
anzi in ciel vivon sì, che 'l loro nome
in terra sempre glorioso arrivi.
E, perch'alcun io non distingua o nome,
di quelli intendo, che fùro innocenti,
e del demonio fêr le forze dome.
Le costor fronti a mirar riverenti,
così pinte, ne fanno, e in noi pensieri
destano de le cose più eccellenti:
seguendo l'orme lor, fan ch'altri speri,
che tien lo scettro de la casa vaga,
d'alzarsi al ciel per quei gradi primieri.
Questa de la sua vista ognuno appaga,
e sol de la memoria al cor m'imprime
colpi, che 'nnaspran la già. fatta piaga.
Di que' be' colli a le frondute cime
alzo 'l pensier, che, dal duol vinto e stanco,
fa che gli occhi piangendo a terra adime.
Standomi sul verron del marmo bianco,
dove 'l palagio alzato agguaglia il monte,
ricreata posava il braccio e 'l fianco:
qui piagner Filomena le triste onte
con la sorella sua dolce sentìa
da lor non così chiare altrove cònte:
da le fontane ad ascoltar venìa
questo e quel ruscelletto, e mormorando
quasi con lor piangeva in compagnia.
Ben poscia a quel tenor dolce cantando
givan gli augelli per li verdi rami,
del loro amor le passion mostrando.
Oh che liete querele, oh che richiami
formavan contra 'l ciel, sì come suole
chi, benché ridamato, altrui forte ami!
Con voce più che d'umane parole
par che sappian parlar quelli augelletti,
sì ch'ad udirli ancor fermano il sole.
Talor narrano poi gli alti diletti,
che spesso dagli amati abbracciamenti
prendon, de le lor vaghe al fianco stretti.
Di gran dolcezza il cielo e gli elementi,
per tal piacere e per molti altri assai,
quivi gioiscon placidi e contenti;
e, rischiarando ognor più Febo i rai,
la fiorita stagion vago rimena
di molti, non che d'un, perpetui mai.
D'arabi odor la terra e l'aria piena,
l'una più sempre si rinverde e infiora,
l'altra ognor più si tempra e rasserena.
Oh che grata e dolcissima dimora,
dove, quanto di vago ognor più miri,
tanto più da veder ti resta ancora!
Dovunque altri la vista a mirar giri,
ne la beltà veduta oggetto trova,
che più intente a guardar le luci tiri;
e nondimen, perch'ognor cosa nova
d'intorno appar, che l'animo desvia,
ad altra parte vien ch'indi le mova.
La bellezza del sito, alma, natia,
gli occhi fuor del palazzo a veder piega
quanto ivi ricca la natura sia;
ma poi di dentro tal lavor dispiega
l'arte, che la natura agguaglia e passa,
ch'ivi l'occhio, a mirar vòlto, s'impiega;
e, mentre da un oggetto a un altro passa,
l'un non gustato ben, da nòve brame
tirato, impaziente il preso lassa.
Così non trae, ma più cresce la fame
d'assai vivande un prodigo convito,
che de l'una al pigliar l'altra si brame:
così ne la virtù de l'infinito,
senza mai saziarne, ci stanchiamo,
s'al sommo bene è 'l pensier nostro unito.
Questa insazietà grande proviamo
espressamente, allor che l'intelletto
divin, filosofando, contempliamo.
Lascia sempre di sé più caldo affetto,
ne l'affannata mente, il ver supremo,
ond'ha perfezzion l'uom da l'oggetto;
benché l'affanno è tal, ch'ognor più scemo
del mortal fango il nostro spirto face,
e d'ir al ciel gli dà penne a l'estremo.
Felice affanno, che ristora e piace
ne l'unir di quest'anima a quel vero,
che gli umani desir pon tutti in pace:
a quel, che del suo eccelso magistero
mostrò grand'arte in queste alme contrade,
feconde del piacer celeste intiero.
Qui di là su tal grazia e favor cade,
ch'abonda al compartirsi in copia molta
la gioia in ogni parte e la beltade;
sì che, mentre ad un lato ancor sol vòlta
gode la vista, in quel più sempre scorge
nova maniera di vaghezza accolta,
né de l'una ben tosto ancor s'accorge,
che s'offre l'altra e, quasi pur mo' nata,
meraviglia e diletto insieme porge.

(continua)

 
 
 

Terze Rime 23-24

Post n°830 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XXIII

Della signora Veronica Franca

[Oltraggiata da un vile, in sua assenza, chiede consiglio ad un uomo d'arme, esperto delle questioni d'onore, per vendicarsi, com'è suo diritto.]


Lungamente in gran dubbio sono stata

di quel che far a me s'appartenea,
da un certo uomo indiscreto provocata.
Nel pensier vane cose rivolgea
del far e del non far la mia vendetta,
né a qual partito accostarmi sapea;
alfin, la propria mia ragion negletta,
che 'l buon camin non sa prender né puote,
da la soverchia passion costretta,
vengo a voi per consiglio, a cui son note
le forme del duello e de l'onore,
per cui s'uccide il mondo e si percuote.
A voi, che guerrier sète di valore,
e, ch'oltre a l'esser de la guerra esperto,
vostra mercede, mi portate amore,
per consiglio ricorro; e ben m'accerto
che mi sareste ancor non men d'aita,
per grazia vostra più che per mio merto.
Ma io non voglio a quel, dove m'invita
de la vendetta il gran desio, voltarmi,
benché la via mi sia piana e spedita:
voglio, prima ch'io venga al trar de l'armi,
il mio parer communicar con voi,
e con voi primamente consigliarmi;
e, se determinato fia tra noi
che con gli effetti io debba risentirmi,
non sarò pigra a pigliar l'armi poi.
Ma saria forse un espresso avvilirmi,
far soggetto capace del mio sdegno
chi non merta in pensier pur mai venirmi:
un uom da nulla, e non sol vile, e indegno
che da seder si mova a lui pensando
qualunque ancor che pigro e rozzo ingegno.
E pur d'ira m'infiammo, rimembrando
la villania da lui fatta a se stesso,
di doverla a me far forse stimando.
Inescusabil fallo vien commesso
da chi dice d'alcun mal in sua assenza,
s'anco ver sia quel che vien detto espresso;
perché in ciò l'uom dimostra gran temenza,
e par che 'n quella vece non ardisca
dir il medesmo ne l'altrui presenza.
Ma poi, se di menzogne si fornisca
e, nel contaminar l'onore altrui,
con frode e infamia contra 'l ver supplisca,
ben certamente merita costui
cancellarsi del libro de' viventi,
sì che 'l suo nome ad un pèra con lui.
Oh, se le rane avesser unghia e denti,
come sarian se drittamente addocchio,
talor più de' leon fiere e mordenti!
Ma poi, per gracidar d'alcun ranocchio,
di gir non lascia a ber l'asino al fosso,
anzi drizza a quel suon l'orecchio e l'occhio.
Se un ser grillo, a dir mal per uso mosso,
de la sua buca standosi al riparo,
m'ha biasmato in mia assenzia, io che ne posso?
E se, tratte a quel suon, quivi n'andáro
molte vespe e tafani, e per tenore
di quel suon roco in compagnia ruzzáro,
non patisce alcun danno in ciò 'l mio onore,
e, quanto aspetta a me, più tosto rido;
ma de l'altrui sciocchezza ho poi dolore.
D'una brutta cornacchia a l'aspro grido
trassero altri uccellacci da carogne,
e di sterco l'empiêr la strozza e 'l nido.
Quest'è proprietà de le menzogne,
che quelli ancor, che son malvagi e tristi,
versan sopra l'autor biasmi e vergogne.
Del mio avversario fùr primieri acquisti
sparger detti, in mia assenza, di me falsi,
da nulla verità coperti o misti.
Ad ira contra lui perciò non salsi;
ma m'allegrai, quando contra 'l suo dire
tacendo col mio ver chiaro prevalsi.
Ben poi via più insolente divenire
nel mio silenzio il vidi; e quasi ch'io
d'averlo fatto tale posso dire.
Ma qual era in quel caso officio mio,
se non quel dirmi mai dopo le spalle
non curar punto, da un uomo vile e rio?
Troppo al giudicio mio vien che s'avvalle
il pensier di chi segue tai diffetti,
c'hanno precipitoso e tetro il calle.
Raffrena, uom valoroso, i ciechi affetti,
e non voler opporti a ciascun'orma
de la malignitate ai falsi detti:
segui de la virtù la dritta norma,
che, di se stessa paga, agli altrui errori
generosa non guarda, e par che dorma.
Così fec'io, che, d'ogni dritto fuori
infamiata e biasmata da un uom vile,
mi confortai co' miei pensier migliori:
e farei più che mai ora il simìle,
se per la mia pazienzia quel villano
non discendesse a via peggiore stile.
Ma con armata e minacciosa mano
m'importuna, e mi sfida, e quasi sforza
il pensier di star queta a render vano.
Con l'acqua alfin ogni foco si smorza:
così la costui rabbia e l'arroganza
a quel ch'io men vorrei mi spinge a forza.
So ch'egli per natura e per usanza
è pessimo e vilissimo a volere
pugnar con una donna, di possanza.
E quasi che non porta anco il devere,
ch'al provocar de l'armi io gli risponda,
non usa il ferro ignudo in man tenere.
Ma tanto più d'audacia ei soprabonda,
quanto l'armi paura più si crede,
e con nuove insolenzie mi circonda.
Non so quel che in tal caso si richiede:
il parer vostro non mi sia negato,
ch'a lui son per prestar assenso e fede.
Io sono stata in procinto, da un lato,
di disfidarlo a singolar battaglia,
comunque più gli piace, in campo armato.
Ma dubitai che di piastra e di maglia
ei proponesse grave vestimento,
e ferro ehe non punge e che non taglia.
So ch'egli è un asinaccio a questo intento
d'assicurarsi contra i colpi crudi,
dove vi sia di sangue spargimento:
del resto sovra 'l dorso se gli studi,
s'altri volesse ben con un martello,
come s'usa di far sopra le incudi.
Questo m'ha messo a partito il cervello,
ch'io non vorrei con sferza o con bastone
prender a castigar un uom sì fello.
Non so se in ciò potessi con ragione
rifiutar armi non micidiali,
ma solamente a bastonarsi buone:
so ch'ei dirìa ch'a lui si denno tali,
e ch'io non debbo ricusarle, quando
d'ogni lato le cose vanno eguali.
Io sono andata a questo assai pensando,
ed ho discorso che, s'io 'l disfidassi,
da l'insultar s'andria forse arretrando:
forse ch'ei volgerebbe altrove i passi,
e meco fuggiria d'entrar in prova,
perch'ancor, col baston non l'amazzassi.
Ma s'ei temprate ha l'ossa a tutta prova
contra ogni copia di gran bastonate,
sì ch'altri a dargli stanco alfin si trova;
senz'aver le devute sue derrate,
rendermi stanca in guisa alfin potrebbe,
che l'armi avessi in mio affanno pigliate.
E poi di me qual cosa si direbbe?
Ch'io non sia buona per un uom codardo,
cui con la verga un fanciul vincerebbe:
un, che fa l'invincibile e 'l gagliardo
contra una donna, che sopporta e tace,
senza pur minacciarlo con lo sguardo.
Dunque 'l debbo lasciar seguir in pace,
e sommettermi in guisa al suo talento,
ch'egli m'offenda come più gli piace?
Quest'è strana maniera di tormento,
e tal, ch'offese a non sopportar usa,
a questa men ch'ad altra atta mi sento.
Dunque sarò da sì vil uom delusa,
senza prender vendetta in parte alcuna
di quanto egli m'offende e sì m'accusa?
In questo punto il mio pensier s'aduna,
e per incaminarmi a buona strada
trovo scarsa e contraria la fortuna.
Ma s'io sto queta, e, come avien ch'accada
un giorno, che passar quindi gli avenga,
incontra armata a ucciderlo gli vada?
Forse la sete fia che 'n tutto io spenga
di quel sangue maligno, e con diletto
senza contrasto alcun vittoria ottenga.
Dunque commetterò sì gran diffetto
di bruttar di quel sangue queste mani,
ch'è di malizia e di viltate infetto?
Cessin da me pensieri così strani.
Ma che farò? S'io taccio, mal; e poi
s'io faccio, peggio. Oh miei discorsi vani!
Datemi, signor mio, consiglio voi.

XXIV

Della signora Veronica Franca

[Rimprovero cortese ad uno, che per ira ha offeso una donna, e per poco non l'ha percossa.]


Sovente occorre ch'altri il suo parere
dice, stimando fatte alcune cose,
che non successer, né fùr punto vere.
Di queste, che pur son dubbie e nascose,
in noi un certo instinto la natura,
che tende al peggio ed al biasmarle, pose;
benché null'opra è di qua giù sicura,
e di quel, che men par ch'avvenir possa
stiasi con più sospetto e con paura.
Del mondo ingannator quest'è la possa,
che quel, ch'è più contrario al ver, succeda,
per cagion torta, occoltamente mossa.
La ragion vuol ch'ogni ben di voi creda,
ma poi del verisimile l'effetto
fa che quel, ch'io credei prima, discreda.
Comunque sia, egli m'è stato detto:
se falso o ver, non importa ch'io dica
s'io son risolta o se n'ho alcun sospetto:
basta che mi tegniate per amica,
come infatti vi son, sì che in giovarvi
non sarei scarsa d'opra o di fatica.
Ed or ch'io mi conduco a ragionarvi
di quanto intenderete, a quel m'accosto,
che d'é chi fa profession d'amarvi.
Dunque a la mia presenza vi fu opposto
ch'una donna innocente abbiate offesa
con lingua acuta e con cor mal disposto;
e che, moltiplicando ne l'offesa,
quant'è colei più stata paziente,
in voi l'ira si sia tanto più accesa,
sì che, spinto da sdegna, impaziente
le man posto l'avreste adosso ancora,
se nol vietava alcun, ch'era presente;
ma voi la minacciaste forte allora,
e giuraste voler tagliarle il viso,
osservando del farlo il tempo e l'ora.
Strano mi parve udir, d'un uom diviso
dai fecciosi costumi del vil volga,
un cotal nuovo inaspettato aviso;
e, mentre col pensiero a voi mi volgo,
de la virtute amico e de l'onesto,
la fede a quel, che mi fu detto, tolgo.
Da l'altra parte so quanto è molesto
lo spron de l'ira, e come spesso ei mena
a quel ch'è vergognoso ed inonesto:
né sempre la ragion, che i sensi affrena,
a stringer pronto in man si trova il morso,
e 'l gran soverchio rompe ogni catena.
Se per impeto d'ira il fallo è occorso,
non durate nel mal, ma conoscete
quanto fuor del dever siate trascorso.
Gli occhi del vostro senno rivolgete,
e quanto ingiuriar donne vi sia
disdicevole, voi stesso vedete.
Povero sesso, con fortuna ria
sempre prodotto, perch'ognor soggetto
e senza libertà sempre si stia!
Né però di noi fu certo il diffetto,
che, se ben come l'uom non sem forzute,
come l'uom mente avemo ed intelletto.
Né in forza corporal sta la virtute,
ma nel vigor de l'alma e de l'ingegno,
da cui tutte le cose son sapute:
e certa son che in ciò loco men degno
non han le donne, ma d'esser maggiori
degli uomini dato hanno più d'un segno.
Ma, se di voi si reputiam minori,
fors'è perché in modestia ed in sapere
di voi siamo più facili e migliori.
E che sia 'l ver, voletelo vedere?
che 'l più savio ancor sia più paziente
par ch'a la ragion quadri ed al devere:
del pazzo è proprio l'esser insolente,
ma quel sasso del pozzo il savio tragge,
ch'altri a gettarlo fu vano e imprudente.
E così noi, che siam di voi più sagge,
per non contender vi portamo in spalla,
com'anco chi ha buon piè porta chi cagge.
Ma la copia degli uomini in ciò falla;
e la donna, perché non segua il male
s'accomoda e sostien d'esser vassalla.
Ché, se mostrar volesse quanto vale,
in quanto a la ragion, de l'uom saria
di gran lunga maggiore, e non che eguale.
Ma l'umana progenie mancheria,
se la donna, ostinata in sul duello,
foss'a l'uom, com'ei merta, acerba e ria.
Per non guastar il mondo, ch'è sì bello
per la specie di noi, la donna tace,
e si sommette a l'uom tiranno e fello,
che poi del regnar tanto si compiace,
sì come fanno 'l più quei che non sanno
(ché 'l mondan peso a chi più sa più spiace),
che gli uomini perciò grand'onor fanno
a le donne, perché cessero a loro
l'imperio, e sempre a lor serbato l'hanno.
Quinci sete, ricami, argento ed oro,
gemme, porpora, e qual è di più pregio
si pon in adornarne alto tesoro;
e, qual conviensi al nostro senno egregio,
non sol son ricchi i nostri adornamenti
d'ogni pomposo e più prezzato fregio,
ma gli uomini a noi vengon riverenti,
e ne cedono 'l luogo in casa e in strada,
in ciò non punto tardi o negligenti.
Per questo anco è ch'a lor portar accada
berretta in testa, per trarla di noi
a qualunque dinanzi ei se ne vada;
e, s'ancor son tra lor nimici poi,
non lascian d'onorar, sempre ch'occorre,
l'istesse donne de' nemici suoi.
Da questo argumentando si discorre
quanto l'offesa fatta al nostro sesso
la civiltà de l'uom gentile aborre.
Né ch'io parli così crediate adesso
con altro fin, che di mostrarvi quanto
l'offender donne sia peccato espresso.
Informata ancor son da l'altro canto
chi sia colei, di cui mi fu affermato
che ingiuriaste e minacciaste tanto:
certo questo non merita il suo stato,
e l'avervi 'l suo amore a tanti segni
in tante occasioni manifestato.
Cessin l'offese omai cessin gli sdegni,
e tanto più che d'uom nato gentile
questi non sono portamenti degni;
ma è profession d'uom basso e vile
pugnar con chi non ha diffesa o schermo,
se non di ciance e d'ingegno sottile.
Perdonatemi in ciò, ch'io troppo affermo
le colpe vostre; poi ch'io non intendo
comprender voi, più d'alcun altro, al fermo;
ma quel ch'adesso vado discorrendo
è quanto ad onta sua colui s'inganni,
che vada con le donne contendendo;
perch'al sicur di lui son tutti i danni:
s'ei vince, mal; e peggio, se vien vinto:
il rischio è certo e infiniti gli affanni.
Col viso di rossore infuso e tinto,
d'essere stato ogni uom d'onor s'accorge
di far ingiuria a donne unqua in procinto;
e, quanto più 'l valor viril risorge,
tanto più l'armi fuor da l'ira tratte
vergognando al suo loco altri riporge,
e si pentisce de le cose fatte
in via che, se potesse frastornarle,
le ridurria da l'esser primo intatte.
Ma, poi che non può adietro ritornarle,
con dolci modi a l'offese ripara,
e, quanto può, si sforza d'annullarle:
ritorna ancor l'amata al doppio cara
nel rifar de la pace; e, per turbarsi,
più d'ogni parte l'alma si rischiara.
Così nel ben vien a moltiplicarsi,
e così certa son che voi farete,
sì come suol da ogni par vostro farsi:
e colei certo offesa o non avete,
o, se vinto da sdegno trascorreste,
l'error di voi non degno emenderete.
Ed io di ciò vi prego in fin di queste.

 
 
 

Il Dittamondo (2-11)

Post n°829 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XI

Con gli occhi al cielo, spesso Iddio pregava 
che mi traesse da le man di Caro, 
come colei che d’un buono sperava. 
Ma tanto al prego mi si fe’ avaro, 
ch’apresso a lui Diocleziano giunse, 5 
che, per un, cento piú me ’l vidi amaro. 
Costui la Chiesa per tal modo punse, 
che diece anni non fu senza sospire: 
qui puoi pensar se la distrusse e munse. 
Ben venti milia e piú ne fe’ morire: 10 
Gervasio e Protasio in Melano, 
santificando, ricevêr martire; 
cosí ancor Vincenzo e Sebastiano, 
Grisogono, Martino e Nastasia, 
Agata, Margarita con Damiano, 15 
similemente Agnese e Lucia 
e Marcellin, che fe’ sí come Pietro: 
Cristo negando, la morte fuggia: 
e, poi che vide ch’erano di vetro 
i suoi pensier, si condannò a la morte 20 
e d’ogni mal voler tornò a dietro. 
Venti anni tenne e guidò la mia corte 
e fu Massimiano al mal con lui 
non men crudele in ciascun caso e forte. 
E se ’l morir parve amaro a costui, 25 
e a me piú che dolce, sí mi piacque 
quando da lui isviluppata fui. 
Eran passati dal tempo che nacque 
Colui che sparse il sangue suo per noi 
in fino al dí che ’n terra costui giacque, 30 
da trecento e sette anni: e qui ben puoi 
notare con che pena e gran fatica 
crebbe la Fé, che va così ancoi. 
Ora passo oltra e convien ch’io ti dica 
di Galerio, però che cosí segue 35 
de’ miei signori la dritta rubrica. 
E vo’ tacer le battaglie e le tregue 
di Massenzo, Carino e di Narseo, 
sí vaga son che da lor mi dilegue. 
Poco Galerio mi fu buono o reo, 40 
e però poco di lui ti ragiono, 
ché ’n due anni dir posso che ’l perdeo. 
Poscia Costanzo, ch’assai mi fu buono, 
passò in ponente e, de le opere sue 
pensando, ancor contenta assai ne sono. 45 
Cloelio re padre di Elena fue, 
la qual giovane, inferma, a Roma venne 
divota a Cristo quanto si può piue. 
Libera e sana qual fu mai divenne, 
onde per la beltá Costanzo allora 50 
vago di lei piú dí seco la tenne. 
Un anel d’or le donò in sua dimora, 
ché piú non volse, e poi un fanciul fece 
simile al padre e bellissimo ancora. 
Costui, avendo tre anni con diece, 55 
a ’ngegno per mar fu menato a un re, 
che allor regnava tra le genti grece. 
Tanta fu data a’ mercatanti fé, 
che ’l re la figlia sua li diede a sposa; 
ma qui non dico il modo né il perché. 60 
Rubarli, poi, tornando, d’ogni cosa; 
lassarli soli e, come piacque a Dio, 
rimase lor la ricca vesta ascosa. 
Tornati a me, Costanzo, il signor mio, 
Elena sposa e imperatrice feo, 65 
poi che ’l ver con l’anello li scoprio. 
Quindici anni con me viver poteo; 
reda lasciò il figliuol, per cui la Chiesa 
ricchezza acquista e santitá perdeo. 
Non che dir voglia che ’l dare e la presa 70 
allor non fosse ben, perché da troppa 
gente la fede nostra era contesa; 
ma perché dove ricchezza s’aggroppa, 
lussuria, ira, gola e avarizia, 
accidia, invidia e superbia ne scoppa. 75 
E tu puoi ben veder che per divizia 
di cotante grandezze, che ’l pastore 
falla e fallando le pecore vizia. 
Ahi quanto li terrei maggiore onore 
che fosse meco e governasse i suoi, 80 
che dirsi a Vignon papa e imperatore! 
Ché a tanto giunti siam veder ben puoi, 
per lo suo parteggiar, che quel d’Egitto 
securo vive e combattiam fra noi. 
Certo io so ben che le parole gitto 85 
indarno teco, ma fo com la trista, 
che corre al pianto, quando ha il cor trafitto. 
Non truovo santo alcun né vangelista 
che dica a Cristo piacesse palagio, 
bei palafreni o robe di gran vista. 90 
Non truovo che volesse stare ad agio; 
non truovo che chiedesse argento o oro, 
né che mai ricevesse piú d’un bagio. 
Truovo che povertá fu il suo tesoro 
e questa predicava in ciascun templo 95 
e questa volse nel suo concistoro. 
Truovo, se ben nel suo lume contemplo, 
per umiltá cavalcar l’asinello, 
e questo ai frati suoi die’ per essemplo. 
Truovo che disse: – Piú miracol quello 100 
terrei ch’uom ricco entrasse nel gran regno, 
che per la cruna d’un ago un cammello –. 
Truovo che dimandato fu a ’ngegno: 
– Rispondi tu, che sai tutte le cose,
se a Cesar dare il censo è giusto e degno, 105
o se non è –. Ed esso allor rispose: 
– Mostrami un denaro –. Ed un gliel diede.
E Cristo a quel, che ne la man gliel pose: 
– Or di’: questa figura che si vedee la scritta cui è? – E il fariseo: 110 
– È di colui che il censo ci chiede –.
Ond’ello, accorto del suo pensier reo, 
rispuose: – E come suo, a lui si renda. 
Quae Caesaris Caesari et quae dei deo –. 
E chi ha orecchi m’oda e sí m’intenda. 115

 
 
 

Terze Rime 21-22

Post n°828 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Terze Rime di Veronica Franco
Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913

XXI

Della signora Veronica Franca

[Scrive all'amante, da cui s'è allontanata: incauta, ché senza di lui non ha un momento di pace.]


Io dicea: — Mio cor, se ciò mi fanno

l'armi mie proprie, quelle, onde mi punge
la fortuna crudel, che mi faranno? —
S'io stessa, col fuggir dal mio ben lunge,
sento che 'l duol via più mi s'avvicina,
che la partenza mia mel ricongiunge;
al mio languir contraria medicina
certo avrò preso al vaneggiar del core,
che per misera strada m'incamina.
Lassa, or mi pento del commesso errore,
anzi non mossi così tosto il passo
dal dolce loco, ov'abita 'l mio amore,
ch'io dissi: — Oimè! dunque è pur ver ch'io lasso
quella terra e quell'acque, ove 'l mio sole
di splendor rende ogni altro lume casso? —
E, se ridir potessi le parole,
che volgendomi indietro al caro suolo
dissi, qual chi lasciar ciò ch'ama suole,
vedrei gli augelli ancor con lento volo
seguirmi ad ascoltar il mio lamento,
alternando in pia voce il mio gran duolo;
vedrei qual già. fermarsi a udirmi 'l vento,
e quetar le procelle, e i boschi e i sassi
moversi a la pietà del mio tormento.
Ma per troppo gridar afflitti e lassi
sono i miei spirti, onde già. i pesci e l'onde
le mie miserie a meco pianger trassi.
Tanta rena non han d'Adria le sponde,
quante volte il suo nome allor chiamai,
com'or qui 'l chiamo, ov'Eco sol risponde.
Co' sospiri arsi e col pianto bagnai
l'amate spoglie, e di lui in vece accolte
al seno me le strinsi e le basciai,
dicendo: — O spoglie, che già. foste avvolte
intorno a quelle membra, che da Marte
sembrano in forma di Narciso tolte;
se 'l ciel mi riconduce in quella parte
onde stolta parti', non sarà mai
che quinci 'l fermo piè volga in disparte. —
Non fu pietra né pianta, ov'io passai,
che non piangesse meco, e forse allora
non mi dicesse: — Folle! ove ne vai? —
Dal cerchio estremo, ove fan la dimora
scintillando le stelle, certamente
meco pianger mostrár la notte ancora.
Ben vidi 'l sol levar chiaro e lucente;
ma, perché gli occhi ad abbagliarmi e 'l core
un più bel lume impresso avea la mente,
scorso del sol mi parve lo splendore;
o fu, forse, ch'udendo 'l mio gran pianto,
anch'ei si scolorì del mio dolore.
Oh com'è privo d'intelletto, e quanto
colui s'inganna, che nel patrio nido
viver può lieto col suo bene a canto,
e va cercando or l'uno or l'altro lido,
pensando forse che la lontananza
ai colpi sia d'Amor rifugio fido!
Fugga pur l'uom, se sa: la rimembranza
del caro obbietto sempre gli è d'intorno,
anzi porta in cor viva la sembianza.
S'io veggo l'alba a noi menar il giorno,
mirando i fiori e le vermiglie rose,
che le cingon la fronte e 'l crin adorno,
— Tal — dico, — è 'l mio bel viso, in cui ripose
tutti i suoi doni il cielo, e la natura
la sua eccellenza più ch'altrove espose. —
Poi, quando scorgo per la notte oscura
accendersi là su cotante stelle,
Amor, ch'è meco, sì m'afferma e giura
che quelle luci in cielo eterne e belle
tante non son, quante virtù in colui,
che poi crudo del sen l'alma mi svelle.
E, per far i miei dì più tristi e bui,
dal mio raggio lontan, sempre al cor vivo
ho 'l sole ardente, onde pria accesa fui:
al qual piangendo e sospirando scrivo.

XXII

Della signora Veronica Franca

[La crudeltà dell'amante l'ha spinta a rifugiarsi in campagna: quivi ogni spettacolo naturale, rivelandole la potenza d'Amore, la richiama alla sua triste sorte e a Venezia, miracolo unico di bellezza; onde sospira il ritorno.]


Poi ch'altrove il destino andar mi sforza
con quel duol di lasciarti, o mio bel nido,
ch'in me più sempre poggia e si rinforza,
con quel duol, che nel cor piangendo annido,
con la memoria sempre a te ritorno,
o mio patrio ricetto amico e fido:
e maledico l'infelice giorno,
che di lasciarti avennemi; e sospiro
la lentezza del pigro mio ritorno.
Dovunque gli occhi lagrimando giro,
lunge da te, mi sembra orror di morte
qualunque oggetto ancor ch'allegro miro.
Tutto quel che ristora e gioia apporte,
per questi campi e per le piagge amene,
reca a me affanno e duol gravoso e forte.
L'apriche valli, d'aura e d'odor piene,
l'erbe, i rami, gli augei, le fresche fonti,
ch'escon da cristalline e pure vene,
l'ombrose selve, e i coltivati monti,
che da salir son dilettosi e piani,
e più facili quant'uom più su monti,
e tutto quel, che con industri mani
qui l'arte e la natura e 'l ciel opráro,
sono per me deserti alpestri e strani.
Non può temprar alcun dolce l'amaro
ch'io sento de l'acerba dipartita,
ch'io fei dal natio loco amato e caro:
quivi lasciai nel mio partir la vita,
ch'ai piè negletta del mio crudo amante
da me giace divisa e disunita.
E pur tra questi fiori e queste piante
la vo cercando, e di quell'empio l'orme,
ch'ovunque io vada ognor mi sta davante.
E par ch'io 'l vegga, e poi ch'ei si trasforme
or d'un abete, or d'un faggio, or d'un pino,
or d'un lauro, or d'un mirto in varie forme;
parmelo aver negli occhi da vicino,
e le mani a pigliarlo avide stendo,
e la bocca a basciarlo gli avicino:
in questo lo mio error veggio e comprendo,
ché, da l'imaginar e da la speme
delusa, un tronco o un sasso abbraccio e prendo.
Se cantando posar gioiosi insieme
duo augelletti sopra un ramo veggo,
con quel desio ch'Amor dolce al cor preme,
del mio misero stato, e più m'aveggo
che col rimedio de la lontananza,
dov'altri non m'aita, invan proveggo.
Stan pur duo uccelli in lieta dilettanza,
godendo di quel bene unitamente,
ch'al lor desire agguaglia la speranza;
ne le selve e nei boschi Amor si sente,
dal consorzio degli uomini sbandito,
tra i bruti, i quai pur s'aman parimente;
un concorde voler al dolce invito
de la gioia d'amor le fiere tragge,
con affetto in duo cori egual partito;
per monti e valli e selve e lidi e piagge,
quinci e quindi congiunta in modo stretto
coppia sen va di due bestie selvagge:
e l'uom, dal cielo a dominar eletto
tutti gli altri animali de la terra,
dotato di ragione e d'intelletto;
l'uom, che se non vuol, rado o mai non erra,
fa, nei desir d'amor dolci, a se stesso
così continua abominosa guerra,
sì ch'a lui poi d'amar non è concesso,
senza trovar di repugnanti voglie
de la persona amata il core impresso.
In ciò contrario a le donne si voglie
più ch'agli uomini 'l ciel; ch'amano senza
sentir quasi in Amor altro che doglie.
Far non può de le donne resistenza
la natura sì molle ed imbecilla,
di Venere del figlio a la potenza;
picciol'aura conturba la tranquilla
feminil mente, e di tepido foco
l'alma semplice nostra arde e sfavilla.
E quanto avem di libertà più poco,
tanto 'l cieco desir, che ne desvia,
di penetrarne al cor ritrova loco;
sì che ne muor la donna, o fuor di via
esce de la comun nostra strettezza,
e per picciolo error forte travia.
Quanto a la libertate è manco avezza,
tanto in furia maggior l'avien che saglia,
s'Amor quei nodi violento spezza;
né per poco vien mai che doglia assaglia
per tirar il suo amante al suo desio
ma ciascun mezzo prova quant'ei vaglia.
Così sforzata son di far anch'io,
d'amor ne la difficile mia impresa,
per ottener il ben ch'amo e desio;
e, se ben fatt'a me vien grande offesa,
nullo argomento usato in espugnarti,
amante ingrato mi rincresce o pesa.
Per darti luogo, venni in queste parti,
ed al tuo arbitrio di te cassa vivo,
sperando in tal maniera d'acquistarti.
Qui, dov'è 'l prato verde e chiaro il rivo,
venni, e de le dolci onde al roco suono,
e degli uccelli al canto e parlo e scrivo.
In luogo ameno e dilettevol sono,
ma non è quivi l'allegrezza mia,
se non quanto di te penso e ragiono;
anzi 'l pensar di te dagli occhi invia
lagrime amare, e de l'altrui piacere
sento più farsi la mia sorte ria.
L'altrui gioie d'amor tante vedere
a le fiere, agli augelli, ai pesci darsi
mi fa nel mio dolor più doglia avere:
non può l'invidia mia dentro celarsi,
ma con sospiri e pianto, e con lamenti
vien per la bocca e gli occhi a disfogarsi.
Ben più, che degli altrui dolci contenti,
allargo 'l pianto e senza fin mi doglio
de l'acerba cagion de' miei tormenti;
ma, poi d'ammollir tento un aspro scoglio,
che più s'indura, e più s'impietra, quanto
più mostro il sospiroso mio cordoglio,
e poi che 'l mio dolor ti giova tanto,
io mi vivrò, tra queste selve ombrose,
sol de la tua memoria e del mio pianto.
Qui farà l'ore mie liete e gioiose
veder che 'l prato, il poggio, il bosco e 'l fiume
dian ricetto a l'altrui gioie amorose;
veder per natural dolce costume
gli augei, le fiere e i pesci insieme amarsi
in modo, che da l'uom non si costume;
e senza alcun sospetto insieme andarsi
liberamente ovunque Amor gli guide,
e l'uno in grembo a l'altro riposarsi.
Nulla il gran lor piacer toglie o divide,
ma sempre il sommo lor diletto cresce;
di che me, con duol mista, invidia uccide.
Ecco, che fuor d'un antro, or ch'io parlo, esce
coppia felice di due dame snelle,
cui sempre star in un sol luogo incresce;
e là due rondinette unirsi anch'elle
veggo in un ramo verde. Ahi del mio amante
voglie contrarie al mio desir rubelle!
Dove parlan d'amor l'erbe e le piante,
dove i desir d'ognun sono concordi,
in quest'almo paese circostante
m'addusse Amor, perch'io più mi ricordi,
ne la dolcezza de l'altrui venture,
dei pensier d'uom crudel dai miei discordi.
Né questo accresce sol le mie sventure,
per prova intender dai boschi e dai sassi
quanto sian meco acerbe le sue cure;
ché sempre avanti a la memoria stassi
quanto, per fuggir l'odio di colui,
da la patria gentil mi dilungassi:
da quell'Adria tranquilla e vaga, a cui
di ciò che in terra un paradiso adorni
non si pareggi alcun diletto altrui:
da quei d'intagli e marmo avrei soggiorni,
sopra de l'acque edificati in guisa,
ch'a tal mirar beltà queto il mar torni;
e perciò l'onda dal furor divisa
quivi manda a irrigar l'ama cittade
del mar reina, in mezzo 'l mar assisa,
a' cui piè l'acqua giunta umile cade
e per diverso e tortuoso calle
s'insinua a lei per infinite strade.
Quivi tributo il padre Ocean dàlle
d'ogni ricco tesoro, e 'l cielo amico
ciascun'altra a lei pon dopo le spalle;
sì che nel tempo novo o ne l'antico
non fu mai chi tentasse violarla,
ch'al pensar sol confuse ogni nemico.
Tutto 'l mondo concorre a contemplarla,
come miracol unico in natura
più bella a chi si ferma a mirarla,
e, senza circondata esser di mura,
più d'ogni forte innaccessibil parte
senza munizion forte e sicura.
Quanto per l'universo si comparte
d'utile e necessario a l'uman vitto,
da tutto l'universo si diparte;
ed, a render recato a lei 'l suo dritto,
di quel, che in lei non nasce, ella più abonda
d'ogni loco al produr atto e prescritto,
sì ch'eterna abondanzia la circonda,
e di tutti i paesi fruttuosi
più ricca è d'Adria l'arenosa sponda.
Altro che valli amene o colli ombrosi
sembrano d'Adria placida e tranquilla
i palagi ricchissimi e pomposi.
Il mar e 'l lito quivi arde e sfavilla
d'amor, che tra nereidi e semidei
quell'acque salse di dolcezza instilla.
Venere in cerchio ancor degli altri dèi
scende dal ciel su questa bella riva,
con l'alme Grazie in compagnia di lei.
E senza che più avanti io la descriva,
per fortuna noiosa e violenta,
gran tempo son di lei rimasta priva:
per far la voglia altrui paga e contenta
io diparti', sperando alfin quell'ira,
se non estinguer, e far tepida e lenta.
Or, che quanto si piange o si sospira
per me infelice è tutto sparso al vento,
ché 'l mio amante la vista altrove gira;
poi che 'l crudele ad altro oggetto è intento,
perché lontan da la mia patria amata
vo facendo più grave il mio tormento?
Ma, se t'ho follemente, Adria, lasciata,
del cor l'arsura alleviar pensando,
dal mio danno veder allontanata,
l'ardor più tosto è in ciò gito avanzando,
e con la gelosia e col sospetto
s'è venuto più sempre riscaldando.
L'altrui d'amor goduto a pien diletto
per questi campi, e 'l temer che compagna
l'empio, a me, non faccia altra del suo letto,
e de la patria mia celebre e magna
gli alti ornamenti e lo splendor superno
qui 'l bosco odiar mi fanno e la campagna:
ad Adria col pensier devoto interno
ritorno e, lagrimando, espressamente
a prova del martìr l'error mio scerno.
Ma, se 'l suo fallo scema chi si pente,
d'esser da te partita mi pentisco,
o mio bel nido, e me ne sto dolente;
e, dapoi che non cessa il mio gran risco
per lontananza il meglio è ch'io mi mora
del gran dolor che per amar soffrisco,
senz'a' miei danni aggiunger questo ancora,
di far da le mie cose a me più care
per tanto spazio sì lunga dimora.
Perch'alfin mi risolvo di tornare,
e, se non m'è contraria a pien la sorte,
se ben un'ora un secolo mi pare,
spero tornar in spazio d'ore corte.

 
 
 

A Piazza Gujermo Pepe

A Piazza Gujermo Pepe

I

Il coccodrillo vivente

Signori! Ir coccodrillo è un animale 
Come loro vedranno dar groppone, 
Ch'ha la pelle durissima, la quale 
Arisiste a la palla der cannone.

Questo che glie presento ner gabbione 
E' un anfibbio vivente ar naturale, 
Cià l'istessa ferocia d' un leone, 
E nasce ne la parte tropicale.

Ei vive drento e fuora ir fiume Gange,
E' molto voracissimo e c'è il detto
Che prima mangia il vuomo e poi lo piange:

Lagrimando si dà pe' le campagne... 
- Entrate nella gabbia quell'ometto, 
Cusì ce fate vède' come piagne.

II.
 
L'uomo selvaggio

Rispettabile pubblico! Ho l'onore 
De presentaglie el gran vuomo selvaggio 
Portato da un ardito viaggiatore 
Che se trovò in Ustrallia de passaggio.

Osservino, o signori, ir tattuaggio 
Che cià sur viso, osservino ir colore.,, 
E' dotato de forza e de coraggio, 
Mangia la carne cruda a tutte l'ore.

Da sì che è a Roma drento al bussolotto 
Si è molto incivilito: infatti adesso... 
Dà li sordi a interesse e gioca ar lotto:

Mena a la moje, sbafa e non fa gnente, 
S' imbriaca, biastima, e spesso spesso... 
Ve manna a mori' tutti d'accidente.

III
 
La donna barbuta.

- Sgè Vù presante mammasèl Mignone 
La famme più pelosa de l'Africa... 
- Acciderba che straccio de barbone!
- Tu te la sposeresti? - Ah no! 'na cica!

Se sa, nun c'è bisogno che lo dica, 
So' matrimogni de speculazzione; 
La pijerebbe pe' li peli, mica 
La vorrebbe pijà pe' l'affezzione,..

Si, ma a sposà' un felomeno vivente
E' 'na cosa ch'a me poco me garba: 
Guarda: sortanto pe' 'n inconvegnente.

'Na notte che te sveji insonnolito 
Vai pe' bacialla e in der sentì' la barba 
Nun sai più si t'è moje o t'è marito.

IV.

Il museo meccanico.

Questa donna in grannezza naturale, 
Meccanizzata da parer vivente, 
E' Clopatra d'Antogno per il quale 
Si fece suicidare dar serpente.

Questa ch'opre le braccia in modo tale 
Da sembrare una donna propiamente, 
E' la Cenci davanti ar tribbunale 
Condannata ar patibbolo innocente;

Ecco Fanny la dea de la ginnastica, 
Ed ir noto poveta Dante Algeri 
Capolavoro de la cromoplastica.

Questa è la ballerina e l'impresario,,. 
La donna nun si move perchè jeri 
L'abbiamo caricata all' incontrario!

V.

La donna gigante

- Io mi chiamo el felomeno vivente... 
- La bùggera, compare, si ch'artezza!
E a quela lì pe' faje 'na carezza 
Ce vò la scala-Porta, mica gnente!

Fin dai primi anni della ciovinezza 
Mi sviluppai in d'un moto solprendente; 
Ora ch'ho sedici anni solamente 
Misuro due e cinquanta di lunghezza.

Anche mio padre è molto sviluppato... 
- Ma a me nu' me farebbe meravija 
Ch'un padre solo nu' je sii abbastato.

Un omo solamente nun ciarriva:
Nun vedi quant'è longa? Quella è fija
De quarche Società coperativa!

Trilussa
Tratte da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Al lettore ...

Post n°826 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

RIME di M. CINO RINUCCINI fiorentino
SCRITTO DEL BUON SECOLO DELLA LINGUA
Sonetti, canzoni e ballate e altri versi composti da Cino di M. Francesco Rinuccini cittadino fiorentino, ed uomo nei suoi tempi di lettere ornatissimo.

AL LETTORE

Dopo le tante e svariate publicazioni di scritture volgari del trecento, specialmente di poesie, che sonosi fatte nel secolo passato e più nel presente, potrà forse alcuno non credere che tuttora rimanga alcuna cosa di inedito, che abbia non diremo del buono ma solo del ragionevole. Nulladimeno le poesie di Cino di Francesco Rinuccini, che oggi mettiamo per la prima volta alla luce, parrebbero a noi da dirsi non pur ragionevoli ma degne di lode; e come tali aveale già sentenziate il buon Crescimbeni, quando un secolo e mezzo fa, le giudicava «assai culte e leggiadre e tali che dichiarano l’autore uno dei migliori che in que’ tempi si sforzassero d’imitare il Petrarca»; tanto che fino d’allora gli pareva da maravigliarsi «che fuori d’ogni ragione non si vedessero impresse.»[1]

Ed in vero, benchè nel Rinuccini apparisca evidente e continua la imitazione, pure nel suo imitare fu assai felice, ed alcune di queste sue poesie ci sono sembrate vaghe e gentili, quanto esser possono quelle del Montemagno e del Conti, e di altri che hanno luogo bello ed onorato nel nostro Parnaso.

Per questa ragione ci proponemmo di publicarle, del tutto affidandoci al Codice XXXVIII Gaddiano, ora Laurenziano, di cui si ha qui nella Publica Libreria di Lucca una fedelissima trascrizione nel sesto dei mms. del Möucke. Appariscono nel codice queste poesie messe assieme come un piccolo canzoniere compiuto, col suo titolo e col sonetto di chiusa, e per questo non ci curammo d’investigare altrove per crescere, se possibile fosse stato, il numero loro.[2] Così nulla volemmo cambiato dell’antica scrittura; salvo che acconciarvi la punteggiatura, in questo e negli altri mss. antichi, trascuratissima, ma per l’odierno lettore necessaria alla intelligenza degli scrittori.

Chi voglia avere precisa notizia di questo Cino nato di Francesco che fu di un altro Cino, ricorra alla Storia genealogica della nobilissima famiglia Rinuccini, tanto feconda d’uomini illustri per lettere, e per degnità, la quale il sig. G. Aiazzi premise ai Ricordi storici di Filippo figliuolo appunto del nostro poeta[3]. A noi basterà di ricordare che nacque attorno al 1350 e cessò di vivere nella morìa del 1417; onde noi a ragione dicemmo appartenere i suoi versi al secolo decimoquarto, perchè non è a credersi ch’egli attendesse gli ultimi anni della vita per cantare d’amore, e porre in rima le bellezze della sua donna. Ebbe costei nome Elena, ma a qual famiglia appartenesse non ci è neppur dato congetturare.

Come documento di gentile poesia, e di lingua di quel tempo felice, i cultori delle lettere vorranno accogliere di buon grado questo piccolo ma geniale libretto. E dappoichè fu da noi publicato in occasione di un matrimonio, portiamo fiducia che altri di questa città vorrà imitarci; stampando in simili domestici avvenimenti, in cambio dei soliti epitalami e di que’ sonetti che vivono un giorno, alcuna scrittura che per la lingua, per il pregio della antichità, per essere monumento di storia, possa riuscire agli studiosi e grata ed utile insieme.

Lucca, Aprile 1858.

Note:

[1] Fuori del sonetto che comincia «Chi è costei, Amor, che quando appare» che publicò per saggio lo stesso Crescimbeni, e della breve ballata «Che giova a innamorar degli occhi vaghi» publicata dal Trucchi nella sua raccolta II, 143, non conosciamo altro di stampato col nome del Rinuccini. Anche il sonetto «In coppa d’or, zaffir, balasci e perle» trovasi impresso, ma sotto il nome di Nicolò Tinucci, e probabilmente a torto. Alcuna altra composizione sarà forse stampata o come sua, o attribuita ad altri; ma troppo sarebbe difficile in questa materia affermare alcuna cosa di certo.

[2] Trovasi un sonetto che comincia «Pippo, se fossi buon mastro in gramatica» il quale fu dal Ciampi publicato come cosa di Cino da Pistoja nelle rime di questo (Son. 157 ediz. del 1826) assieme colla proposta sulle stesse rime fatta da un tal Pippo da Firenze. Il vero è che il sonetto è di Cino Rinuccini, ed il corrispondente di Filippo Sacchetti, come da codici autorevoli apparisce. Noi però credemmo di lasciarli addietro, perchè allusivi a qualche fatto particolare e scritti come direbbesi in bisticcio, tantochè poco o niun senso se ne ricaverebbe.

[3] Stampati in Firenze, Piatti 1840 in 4.° Vedi a pag. 126
Il volume ("Ricordi Storici dal Cino Rinuccini dal 1282 - 1460 colla continuazione di Alamaño e Neri suoi figlio fino al 1506: preceduta dalla Storia genealogica della Famiglia Rinuccini e dalla descrizione della capella gentilizia in S. Croce", Filippo Rinuccini, Giuseppe Aiazzi - Ratti, 1840 - 327 pagine) è reperibile su Google libri.

 
 
 

Il Dittamondo (2-10)

Post n°825 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO X

Avea dal dí che nacque il nostro Amore 
in fino a quello che qui ti rammento, 
ch’io stava in tanto gaudio e in tanto onore, 
da cinque volte diece con dugento; 
e, ben ch io fossi afflitta alcuna volta, 
tosto mi rifacea di quel tormento. 
Ma qui ti vo’ contare, e tu m’ascolta, 
del mio Filippo e del figliuolo ancora 
come dal lor piacer mi vidi sciolta. 
Una grave battaglia fu allora, 
dove ciascun di lor morto fu visto: 
pensa se duolo ancor dentro m’accora! 
Vero è che ’l lor tesoro e ’l loro acquisto, 
tant’eran caldi ne l’amor di Dio, 
per farne bene altrui lassaro a Sisto. 
Ma poi, come tu leggi e ch’io udio 
ne le storie de’ Santi, da Lorenzio 
un altro il volse, a cui rimase il mio. 
Qui vorrei ben poter tener silenzio 
e lassar Decio con ciascun suo vizio, 
ma la tema mi stringe a dir l’assenzio. 
Di lui ti do per certo questo indizio: 
ch’avar fu sí, che mai veder non volle 
povero alcuno dentro dal suo ospizio. 
E come fu avar, cosí fu folle 
contro a la fede di Cristo e per certo 
giá mai a tal voler si vide molle. 
Questo ebbe in sé: che fu in arme sperto, 
ma non pur tanto, per quel ch’io intesi, 
che dal diavol non fosse al fin diserto. 
Due anni tenne il mio e quattro mesi; 
tanto l’amai, che de l’acerba morte, 
quando l’udio, niun dolor ne presi. 
Gallo e Volusian dopo tal sorte 
signoreggiâr due anni e fu sí poco, 35 
che pro né danno n’ebbe la mia corte. 
Valeriano tenne apresso il loco 
per quindici anni e sappi che fu tale, 
che piú province ne sentîr gran foco. 
E poi ch’egli ebbe assai battute l’ale, 40 
da Sapor re si vide preso e vinto, 
che poi li fe’ sentir di molto male. 
Claudio segue che qui sia distinto, 
lo qual fu tal che, se vivuto fosse, 
molto piú caro te l’avrei dipinto. 45 
Costui la Gozia e la Magna percosse 
e disertolle per sí fatto modo. 
che lungo tempo loro il danno cosse. 
Tu vedi ben cosí com’io annodo 
l’un dopo l’altro in brieve, onde figura 50 
lo reo piú reo e ’l buon di maggior lodo. 
Un anno meco la sua vita dura. 
D’Aurelio fui, al qual rendo ancor laude, 
perché piú ricca fe’ la mia cintura. 
Molto le genti mie per lui fun baude: 55 
cinque anni visse e a la fin fu morto 
da’ suoi a tradimento, per gran fraude. 
Costui in arme fu franco e accorto: 
s’io dico il vero que’ di Dacia il sanno, 
i Goti e i Franchi, a cui il fatto è scorto. 60 
Costui ti dico ancor, s’io non m’inganno, 
dei miei fu il primo con corona in testa 
d’oro e di gemme, sí come or si fanno. 
E quel ch’ora di lui a dir mi resta, 
si è che fece al Sole un ricco tempio 65 
di care pietre, ove facea gran festa. 
In contro a’ cristian fu aspro ed empio 
e con piú molti beata Colomba 
fece martoriare e farne scempio. 
Seguita ora che suoni la tromba 70 
per Tacito, che fu largo e prudente; 
ma poco meco il suo nome rimbomba, 
ché, secondo ch’ancor m’è ne la mente, 
sette mesi e non piú m’ebbe in governo: 
se morto fu, ciò spiacque a la mia gente. 
E se ben mi ricordo e ’l ver dicerno, 
apresso di costui mi seguí Probo 
che fece di Macreo non buon governo. 
Costui per pro e per sicuro approbo; 
da’ suoi fu morto e del tempo che visse 80 
sei anni tenne meco questo globo. 
Fiorian fu poi, di cui nulla si disse: 
e giusto è bene a non far d’un cattivo 
piú viva menzion, che sé morisse. 
Seguita Caro e io di lui ti scrivo 85 
che passò in Partia e quivi fu dal fiume 
sorbito, onde da poi non parve vivo. 
E se tu cerchi bene il mio volume, 
il troverai di ciascun vizio pieno 
e d’ogni brutto e cattivo costume. 90 
Due anni tenne in man del mio il freno; 
molto contenta fui dentro dal core 
quando mi venne, com’io dico, meno, 
sempre sperando in un altro migliore. 

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

cuspides0cassetta2amistad.siempreVince198massimobrettipiernaniChevalier54_Zforco1gnaccolinocamaciotizianarodelia.marinoamorino11Talarico.Francoantonio.caccavalepetula1960
 

ULTIMI COMMENTI

 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963