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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Messaggi del 15/12/2014
Post n°832 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913 XXV (continuazione) Della signora Veronica Franca [In lode di Fumane, luogo dell'illustrissimo signor conte Marcantonio della Torre, preposto di Verona.] Del giardin vago è la sembianza grata, e, mentre in lui la maniera risguardi d'ogni parte ben colta e ben piantata, lepri e conigli andar pronti e gagliardi nel corso vedi; e, mentre che t'incresce d'esserti di tal vista accorto tardi, ecco ch'altronde ancor vaga schiera esce di cervi e capri e dame e d'altri tali, onde la maraviglia e 'l piacer cresce. Ma poi tra quelle schiere d'animali scopri distinto del giardino il piano d'acque in angusti e limpidi canali, e splender su per l'onde di lontano vedi i pesci guizzando, che d'argento sembra che nuotin d'una e d'altra mano. E mentre l'occhio a vagheggiar è intento il piacer vario del fiorito suolo, più sempre di mirar vago e contento, di questo ramo in quel cantando a volo gir vede copia d'augelletti snelli, quai molti insieme, e qual vagando solo. Quinci s'accorge che di fior novelli e frutti antichi son quei rami carchi, non pur di nidi d'infiniti augelli. Senza che 'l guardo quinci e quindi varchi, l'incontran d'ogni parte i piacer tutti, in quest'officio non mai stanchi o parchi. E, se nel giardin visti in un ridutti, fiere, augei, pesci, rivi ,arbori e foglie, fior sempre novi, e d'ogni stagion frutti a mirar in disparte altri s'accoglie, e, come nel guardar talvolta occorre, da la pianura a l'alto a mirar toglie, ne la beltà de' vaghi colli incorre, ch'a la vista, che s'alza, umili e piani, lietamente si vengono ad opporre. Questi, dal bel palazzo non lontani, sembra che, per raccôrlo in mezzo 'l seno, si stringan verso lui d'ambe le mani; e 'ntanto spiegan tutto aperto e pieno il grembo lor di dolcezze infinite, che la vista bear possono a pieno. Le pecorelle, a pascer l'erbe uscite, biancheggian per li poggi, a cansar lievi, per poco d'ombra timide e smarrite: di questi monti son queste le nevi; ché quindi 'l verno standosi ognor lunge non vien giamai che 'l bel terreno aggrevi. Quindi letizia e molto utile giunge, de le gregge bianchissime ai signori, di quel che se ne tonde e uccide e munge. Sparsi per l'ombre, siedono i pastori, e, le canne dispari a sonar posti, cantan de' loro boscarecci amori; e, se i greggi talvolta erran discosti, col fischio il caprar sorto gli richiama, poi torna de la musa ai suoi proposti. Talor la pastorella ivi, ch'egli ama, de la fistola al suon mossa ne viene, in modo che di lui cresce la brama: fisse le luci avidamente ei tiene ne le braccia e nel sen nudi, e nel viso, e d'abbracciarla a pena si ritiene. Ma poi quindi a guardar l'occhio diviso tira l'udito suon d'un corno roco, quando più in quei pastori egli era fiso; ed ecco, da color lontano un poco, cani co' cacciator disposti in caccia, ciascuno intento al suo ufficio e 'l suo loco. Per folti arbusti un can quivi si caccia, e per terra latrando un altro fiuta, e de l'orme seguendo va la traccia, e tanto corre in fretta e 'l luogo muta, che d'una macchia fuor la lepre salta: il bracco geme e in seguirla s'aiuta; gridan le genti, e intorno ognun l'assalta; chi le spinge da tergo il veltro in fretta, qual corre a la via bassa, e quale a l'alta. E mentre qua e là ciascun s'affretta, il tuo sguardo, ch'a lor dietro s'aggira, s'incontra in piacer novo che 'l diletta: però ch'altrove d'improviso mira gente ch'al visco ed a le reti stese schiera d'augelli accortamente tira. In queste e quelle insidie non comprese di quei c'han maggior prezzo a le gran mense vengon tutte le sorti in copia prese. A chi stender più franco il volo pense, più facilmente incontra d'esser còlto ne le non viste reti, ancor che dense. Ma 'l tuo sguardo, che va d'intorno sciolto da questa novità de l'uccellare, vien da un altro piacer più novo tolto; perché dinanzi ad abbagliarlo appare del sol un raggio, il qual mandan reflesso l'acque d'un fonte cristalline e chiare. E l'occhio, alquanto chiusosi in se stesso, dopo quel vacillar s'apre, e ritorna a guardar quivi dentro l'ombra presso; e di smeraldi in fresca riva adorna, di liquido cristal sopra un ruscello, vede ch'altri a pescar lento soggiorna: l'amo innescato tien sospeso in quello, e con la canna in man fermato attende che 'l pesce cada al morso acuto e fello. Altri con reti in varia guisa il prende, e, con piè nudi da la sponda sceso, frugando per le buche il laccio stende: si lancia e scuote il pesce vivo e preso, né cessa di sala per fin che more, tratto del fonte in un pratel disteso. Vince di questo il soave sapore quel di quant'altro mai stagno o palude alberghi, o fondo salso o dolce umore. Nulla di quel, che in sé beato chiude un terren paradiso, un ciel terrestre, dal paese amenissimo s'esclude. Di semicapri dèi turba silvestre il fertile terren pianta e coltiva, sotto influsso di stelle amiche e destre; e quella, che del capo al padre viva uscìo, de' boschi e de le cacce dea, di questi monti ha in custodia l'oliva. Quel, che vivo nel ventre infante avea la madre allor che 'l consiglio l'estinse di Giunon fella, a lei contraria e rea che Giove tolto al proprio lato il cinse, n', fin che nove mesi fùr finiti, dal bianco, ove 'l nudriva, unqua il discinse, qui gli olmi guarda, e le ben colte viti; le biade di Proserpina la madre, Vertunno e Flora gli arbori graditi. Mille, scese dal ciel, benigne squadre d'eletti spirti infiorano il bel nido, e 'l guardan da le cose infeste et adre. Dolce de' miei pensieri albergo fido, pien d'aranci e di cedri, e lieto in guisa che vince ogni concetto, ogni uman grido, resta la mente mia vinta e conquisa, che 'l ben in te con larga mano infuso dal celeste Motor forma e divisa; e, come tu sei bel fuor d'uman uso così ne l'opra de l'imaginarti riman l'ingegno inutile e confuso; e, se vaga pur vengo di lodarti, come confusa son dentro, confondo de le tue lodi l'ordine e le parti. Ben, quanto in questo assai mai corrispondo, tanto ne la prontezza del desire con grata rispondenza sovrabondo. Vorrei, ma in parte non so alcuna, dire le lodi del signor, che ti possiede, né stil uman porìa tant'alto gire. Com'ogni loco è cielo, ove Dio siede, ma poi nel ciel, ch'è adorno a maraviglia, espressamente ferma la sua sede, così gran lode ogni soggiorno piglia da quel signor, dovunque mai perviene, che regge 'l mio voler con le sue ciglia; ma pur il seggio suo proprio ei ritiene in voi, perciò sommamente beate, contrade soavissime ed amene: per lui tante beltà vi furon date, e senza lui de' vostri pregi intieri sareste senza dubbio alcun private. Gitene, colli, assai per questo alteri, ch'avete grazia di servir a lui, degno di mille mitre e mille imperi. Quest'è il buon vostro regnator, per cui vincon le vostre inusitate forme tutto 'l diletto de' paesi altrui. Per farsi incontra a le sue gentili orme crescon l'erbette e i fior, ch'al suo toccarli vien che nova beltà gli orni e riforme; e l'onorate man presta a lavarli dentro la stanza l'acqua dolce arriva, e dietro vaga ognor par brame andarli. Da questa una fontana si deriva, che d'ogn'intorno puro argento stilla da vena di cristal corrente e viva. Dentro 'l terren fecondo il cielo instilla virtù, che fa produr soavi frutti, e l'aria salutifera e tranquilla: il piacer sommo e 'l vero fin di tutti è che 'l signor gli goda e gli divida, ch'ad arbitrio di lui furon produtti. Qualunque in verde ramo augel s'annida, a lui canta, a lui vive, e, s'a lui piace, lieto sostien ancor ch'altri l'uccida; qualunque in monte o in piano animal giace, selvaggio errante, liberale dono di se stesso a costui contento face; e le mandre, che quivi in copia sono, e tutto quel, che la terra produce, son di lui molto più ch'io non ragiono. Qui la natura carca si riduce, per dar del suo tesoro a lui tributo, che da l'Indo e 'l Sabeo quivi traduce: non fosse questo ben da lui goduto, certo è che in tanta copia mai dal cielo non fôra ad alcun altro pervenuto. A costui cede il gran signor di Delo, più del suo chiaro, del valor il lume cui nube non offusca od altro velo; e di dolce eloquenzia il puro fiume a lui dona di Giove il fedel messo, ch'al cappello ed ai piè porta le piume. A questo, a cui comandar è concesso agli elementi, che in quel suo soggiorno oprano quanto è più gradito ad esso, andai, dal gran desio tirata, un giorno: non per error di via, né ch'io passassi quindi avante d'altronde al mio ritorno; ma d'Adria mossi a quest'effetto i passi, né interromper giamai vòlsi il viaggio, perch'a l'andar via pessima trovassi, Di questo mio signor cortese e saggio, nel sentier aspro, mi fu grata scorta de la virtute il sempiterno raggio: da così chiaro e dolce lume scorta, la strada, ch'al desio lunga sembrava, al disagio parea commoda e corta. La difficoltà grande superava d'ogni altra cosa sol con la speranza, che di veder uom sì gentil portava. Alfin pur giunsi a la bramata stanza, né potrei giamai dir sì com'io fossi raccolta con gratissima sembianza. A sì dolce spettacolo rimossi tutti i miei gravi e torbidi pensieri, che venner meco, allor che d'Adria mossi; e tra mille gratissimi piaceri ristoro presi e mi riconfortai, qual fa ch'il suo ben gode e 'l meglio speri. Ma poco al mio talento mi fermai al loco da me dianzi raccontato, di cui più bello non si vide mai, né con più vago e splendido apparato di vasi, e di famiglia bene instrutta, che pronta al signor serve d'ogni lato, e intorno a lui con ordine ridutta, di varia età, di vario pelo mista, vestita a un modo, corrisponde tutta. Questa tra l'altre è ancor nobile vista, veder d'intorno a sé ben divisata d'onesta gente vaga e doppia lista. Dunque, de le Fumane unica, amata terra, ov'albergan le delizie, quante ogni stanza real pòn far beata, cedano Baie, e Pozzuol non si vante, ch'unite in loro han le vaghe Fumane le grazie di là suso tutte quante. Cose tutte eccellenti e sopraumane, dolci a la vista, al gusto, e gli altri sensi, le piagge han grate agli occhi, al varcar piane. E, perch'al loco internamente io pensi, quanto più di lui parlo, e manco il lodo, e i miei desir di lui si fan più intensi. Volando col pensier, la lingua annodo. |
Post n°831 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913 XXV a quel bel loco, per dover partire, come fei, non ben quivi anco arrivata. Così gravoso il ben suol divenire, che, quant'egli è maggior, via maggior duolo col dilungarsi in noi suol partorire: tosto ne va 'l piacer trascorso a volo; né ponendo in ragion l'util passato, a la perdita mesti attendem solo. E non vorrei però da l'altro lato sì vago nido non aver veduto, a la tranquillità soave e grato. E, se pari al desio non l'ho goduto, quanto guastato più, tanto più caro, il lasciarlo mi fôra dispiaciuto. E pur, formando un pensier dolce amaro, con la memoria a quei diletti torno, che infiniti a me quivi si mostráro: sempre davanti gli occhi ho 'l bel soggiorno, da cui lontan col corpo, con la mente, senza da me partirlo unqua, soggiorno: ricrear tutta in me l'alma si sente, mentre qua giù sì lieto paradiso da dover contemplar le sta presente. Da questo lo mio spirto non diviso va ripetendo le bellezze eterne, dal soverchio piacer vinto e conquiso. E, mentre le delizie avido scerne, nel gioir di se stesso, afflige i sensi, che non puon separati ancor goderne: così, quanto m'avien ch'amando pensi a l'abitazion vaga e gentile, tra gioia e duol convien che 'l cor dispensi. In questo piglio in man pronta lo stile; e, per gradir al sentimento, fingo quel loco quanto possi al ver simìle: e, se ben so ch'a impresa alta m'accingo, tirata da la mia propria vaghezza, senz'arte quel ch'io so disegno e pingo. Oh che fiorita e gioconda bellezza quivi mostra e dispiega la natura, raro altrove o non mai mostrarla avezza! Certo è questa, quell'unica fattura, in cui, vinta se stessa, a tutte prove ripose ogni sua industria, ogni sua cura. Di tutto quel che piaccia al mondo e giove, favorevole il cielo a cotal opra, il maggior vanto eternamente piove. Quivi 'l ciel manda il suo favor di sopra, né men la terra in adornar tal parte con gli altri, a gara, elementi s'adopra. Vince l'imaginar d'ogni umana arte la disposizion di tutto 'l bene, ch'unito quivi intorno si comparte; e pur di quell'altezza, ove perviene l'eccellenza de l'arte in cose belle, vestigie espresse il bel luogo ritiene. Così determinarono le stelle far quivi in dolci modi altrui palese quanto puon destinar e influir elle. In questo avventuroso almo paese l'ornamento del ciel si mostra in terra, ch'a farlo un paradiso in lui discese. Di lieti colli adorno cerchio serra l'infinita beltà del vago piano, dove Flora e Pomona alberga ed erra. Quasi per gradi su di mano in mano di fuor s'ascende 'l poggio da le spalle, sempre al salir più facile e più piano; quinci in giù per soave e destro calle s'arriva a la pianura in pochi passi, ch'è posta in forma di rotonda valle: se non che in guisa rilevata stassi, ch'è quasi, entro a quei colli, un minor colle, che 'ntorno a lor si dispiani e s'abbassi, sì che d'entrarvi a Febo non si tolle, poco alzatosi fuor de l'oriente, nel prato d'erbe rugiadoso e molle. Entra 'l sol quanto entrar se gli consente da un bosco d'alti pini e di cipressi, pien d'ombre amiche al dì lungo e fervente; e gode di veder quivi con essi de la sua amata in corpo umano fronde, già braccia e chiome, or verdi rami spessi, tra' quai quanto può penetra e s'asconde, per la memoria ch'anco entro 'l cor serba, de l'amorose piaghe profonde. De la ninfa la sorte così acerba pietoso Apollo ai grati rami tira, ed a quivi posar vago tra l'erba: l'aria d'intorno ancor dolce sospira di Dafne al caso, e spirto d'odor pieno, le vaghe foglie ventilando, spira. E 'l ciel, là più ch'altrove mai sereno, fa che d'ogni stagion la copia vuote in quella terra il corno suo ripieno. Quivi con l'urne non mai stanche o vuote a portar l'acque son le ninfe pronte, tai che 'l cristal sì chiaro esser non puote: queste versando van da più d'un fonte le succinte e leggiadre abitatrici di questo e quel vicin ben colto monte; ed a l'altre compagne cacciatrici, che, dietro i cervi stanche, a rinfrescarsi vanno le fronti angeliche beatrici, co' bei liquidi argenti intorno sparsi porgon dolce liquor da trar la sete, e le candide membra da lavarsi. Dai freschi rivi e da le fonti liete, quasi scherzando, l'acque in vario corso declinan verso 'l pian soavi e quete; e, poi che 'n lenta gara alquanto han corso, per via diversa si raggiungon tutte verso un bel prato, a lor dinanzi occorso; e da natural arte a far instrutte bello quel sito a maraviglia, vanno per canali angustissimi ridutte. Quivi entrate, a varcar poco spazio hanno, ch'a un fiorito amenissimo giardino, dolce tributo di se stesse dànno: con man distesa e passo tardo e chino dàn di se stesse le più dolci e chiare al giardinier ch'a l'uscio sta vicino. Questi, com' a lui piace, le fa entrare, ch'obedienti a l'arte, fan quel tanto ch'altri accorto dispon che debban fare. Non cede l'arte a la natura il vanto ne l'artificio del giardin, ornato d'alberi colti e sempre verde manto; sovra 'l qual porge, alquanto rilevato, d'architettura un bel palagio tale, qual fu di quel del sol già. poetato: infinito tesor ben questo vale per l'edificio proprio, e gli ornamenti, che 'n ricchezza e in beltà non hanno eguale I fini marmi e i porfidi lucenti, cornici, archi, colonne, intagli e fregi, figure, prospettive, ori ed argenti quivi son di tal sorte e di tai pregi, ch'a tal grado non giungono i palagi, che fêr gli antichi imperadori e regi. Ma le commodità di dentro e gli agi son così molli, che gli altrui diletti al par di questi sembrano disagi. Per li celati d'òr vaghi ricetti, sul pavimento, che qual gemma splende, stan sopra aurati piè candidi letti. Di sopra da ciascun d'intorno pende di varia seta e d'òr porpora intesta, che 'l contegno de' letti abbraccia e prende; di coltre ricamata o d'altra vesta di ricca tela ognun s'adorna e copre, sì ch'a fornirlo ben nulla gli resta. Di diversi disegni e diverse opre su coverte e cortine in tutti i lati vario e lungo artificio si discopre. I dèi scender dal cielo innamorati dietro le ninfe qui si veggon finti, in diverse figure trasformati; e d'amoroso affetto in vista tinti, seguitar ansiosi il lor desio, dove dal caldo incendio son sospinti. Qui trasformata in vacca si vede Io, e cent'occhi serrar il suo custode, al suon di quel, che poi l'uccise, dio. Da l'altra parte Danae in sen si gode vedersi piover Giove in nembo d'oro, ov'altri più la chiude e la custode; il quale altrove, trasformato in toro, porta Europa; ed altrove, aquila, piglia Ganimede e 'l rapisce al sommo coro. Di Licaon fatta orsa ancor la figlia, mentre ucciderla il figlio ignota tenta, assunta in cielo ad orsa s'assomiglia: né pur orsa celeste ella diventa, figurata di stelle in cotal segno, ma 'l figlio in ciel l'altr'orsa rappresenta. Quanto è possente il nostro umano ingegno, che vive fa parer le cose finte per forza di colori e di disegno! Di seta e d'oro e varie lane tinte, nei tapeti, ch'adornan quelle stanze, da l'imitar le cose vere èn vinte. E, perché nulla a desiar avanze, ch'orni di Giove un'alta regia degna, dove, lasciato 'l ciel, qua giuso ei stanze, qualunque ebbe tra noi la sacra insegna, ch'a quei con le sue man Dio stesso porge, che d'esser suoi vicari in terra ei degna, qualunque di pastor al grado sorge de la chiesa divina, in espresso atto nobilmente dipinto ivi si scorge: quivi ciascun pontefice ritratto più che dal natural vivo si vede, di tela, di colori e d'ombre fatto; e, com'a tanta maestà richiede, da l'altre in parte eccelsa e separata sì reverende imagini han lor sede. Similmente, in maniera accomodata, di quei l'effigie ancor son quivi, i quali del ciel sostengon la felice entrata: quanti mai fùr nel mondo cardinali, quivi entro stan co' papi in compagnia, e vescovi, e prelati altri assai tali. Perché conforme al paradiso sia quell'albergo divino, in sé ritiene di gente i volti così santa e pia. Di quel ch'al sacerdozio si conviene, da l'essempio di molti espressi quivi, in perfetta notizia si perviene: questi, ancor morti, insegnar ponno ai vivi, anzi in ciel vivon sì, che 'l loro nome in terra sempre glorioso arrivi. E, perch'alcun io non distingua o nome, di quelli intendo, che fùro innocenti, e del demonio fêr le forze dome. Le costor fronti a mirar riverenti, così pinte, ne fanno, e in noi pensieri destano de le cose più eccellenti: seguendo l'orme lor, fan ch'altri speri, che tien lo scettro de la casa vaga, d'alzarsi al ciel per quei gradi primieri. Questa de la sua vista ognuno appaga, e sol de la memoria al cor m'imprime colpi, che 'nnaspran la già. fatta piaga. Di que' be' colli a le frondute cime alzo 'l pensier, che, dal duol vinto e stanco, fa che gli occhi piangendo a terra adime. Standomi sul verron del marmo bianco, dove 'l palagio alzato agguaglia il monte, ricreata posava il braccio e 'l fianco: qui piagner Filomena le triste onte con la sorella sua dolce sentìa da lor non così chiare altrove cònte: da le fontane ad ascoltar venìa questo e quel ruscelletto, e mormorando quasi con lor piangeva in compagnia. Ben poscia a quel tenor dolce cantando givan gli augelli per li verdi rami, del loro amor le passion mostrando. Oh che liete querele, oh che richiami formavan contra 'l ciel, sì come suole chi, benché ridamato, altrui forte ami! Con voce più che d'umane parole par che sappian parlar quelli augelletti, sì ch'ad udirli ancor fermano il sole. Talor narrano poi gli alti diletti, che spesso dagli amati abbracciamenti prendon, de le lor vaghe al fianco stretti. Di gran dolcezza il cielo e gli elementi, per tal piacere e per molti altri assai, quivi gioiscon placidi e contenti; e, rischiarando ognor più Febo i rai, la fiorita stagion vago rimena di molti, non che d'un, perpetui mai. D'arabi odor la terra e l'aria piena, l'una più sempre si rinverde e infiora, l'altra ognor più si tempra e rasserena. Oh che grata e dolcissima dimora, dove, quanto di vago ognor più miri, tanto più da veder ti resta ancora! Dovunque altri la vista a mirar giri, ne la beltà veduta oggetto trova, che più intente a guardar le luci tiri; e nondimen, perch'ognor cosa nova d'intorno appar, che l'animo desvia, ad altra parte vien ch'indi le mova. La bellezza del sito, alma, natia, gli occhi fuor del palazzo a veder piega quanto ivi ricca la natura sia; ma poi di dentro tal lavor dispiega l'arte, che la natura agguaglia e passa, ch'ivi l'occhio, a mirar vòlto, s'impiega; e, mentre da un oggetto a un altro passa, l'un non gustato ben, da nòve brame tirato, impaziente il preso lassa. Così non trae, ma più cresce la fame d'assai vivande un prodigo convito, che de l'una al pigliar l'altra si brame: così ne la virtù de l'infinito, senza mai saziarne, ci stanchiamo, s'al sommo bene è 'l pensier nostro unito. Questa insazietà grande proviamo espressamente, allor che l'intelletto divin, filosofando, contempliamo. Lascia sempre di sé più caldo affetto, ne l'affannata mente, il ver supremo, ond'ha perfezzion l'uom da l'oggetto; benché l'affanno è tal, ch'ognor più scemo del mortal fango il nostro spirto face, e d'ir al ciel gli dà penne a l'estremo. Felice affanno, che ristora e piace ne l'unir di quest'anima a quel vero, che gli umani desir pon tutti in pace: a quel, che del suo eccelso magistero mostrò grand'arte in queste alme contrade, feconde del piacer celeste intiero. Qui di là su tal grazia e favor cade, ch'abonda al compartirsi in copia molta la gioia in ogni parte e la beltade; sì che, mentre ad un lato ancor sol vòlta gode la vista, in quel più sempre scorge nova maniera di vaghezza accolta, né de l'una ben tosto ancor s'accorge, che s'offre l'altra e, quasi pur mo' nata, meraviglia e diletto insieme porge. (continua) |
Post n°830 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913 XXIII di quel che far a me s'appartenea, da un certo uomo indiscreto provocata. Nel pensier vane cose rivolgea del far e del non far la mia vendetta, né a qual partito accostarmi sapea; alfin, la propria mia ragion negletta, che 'l buon camin non sa prender né puote, da la soverchia passion costretta, vengo a voi per consiglio, a cui son note le forme del duello e de l'onore, per cui s'uccide il mondo e si percuote. A voi, che guerrier sète di valore, e, ch'oltre a l'esser de la guerra esperto, vostra mercede, mi portate amore, per consiglio ricorro; e ben m'accerto che mi sareste ancor non men d'aita, per grazia vostra più che per mio merto. Ma io non voglio a quel, dove m'invita de la vendetta il gran desio, voltarmi, benché la via mi sia piana e spedita: voglio, prima ch'io venga al trar de l'armi, il mio parer communicar con voi, e con voi primamente consigliarmi; e, se determinato fia tra noi che con gli effetti io debba risentirmi, non sarò pigra a pigliar l'armi poi. Ma saria forse un espresso avvilirmi, far soggetto capace del mio sdegno chi non merta in pensier pur mai venirmi: un uom da nulla, e non sol vile, e indegno che da seder si mova a lui pensando qualunque ancor che pigro e rozzo ingegno. E pur d'ira m'infiammo, rimembrando la villania da lui fatta a se stesso, di doverla a me far forse stimando. Inescusabil fallo vien commesso da chi dice d'alcun mal in sua assenza, s'anco ver sia quel che vien detto espresso; perché in ciò l'uom dimostra gran temenza, e par che 'n quella vece non ardisca dir il medesmo ne l'altrui presenza. Ma poi, se di menzogne si fornisca e, nel contaminar l'onore altrui, con frode e infamia contra 'l ver supplisca, ben certamente merita costui cancellarsi del libro de' viventi, sì che 'l suo nome ad un pèra con lui. Oh, se le rane avesser unghia e denti, come sarian se drittamente addocchio, talor più de' leon fiere e mordenti! Ma poi, per gracidar d'alcun ranocchio, di gir non lascia a ber l'asino al fosso, anzi drizza a quel suon l'orecchio e l'occhio. Se un ser grillo, a dir mal per uso mosso, de la sua buca standosi al riparo, m'ha biasmato in mia assenzia, io che ne posso? E se, tratte a quel suon, quivi n'andáro molte vespe e tafani, e per tenore di quel suon roco in compagnia ruzzáro, non patisce alcun danno in ciò 'l mio onore, e, quanto aspetta a me, più tosto rido; ma de l'altrui sciocchezza ho poi dolore. D'una brutta cornacchia a l'aspro grido trassero altri uccellacci da carogne, e di sterco l'empiêr la strozza e 'l nido. Quest'è proprietà de le menzogne, che quelli ancor, che son malvagi e tristi, versan sopra l'autor biasmi e vergogne. Del mio avversario fùr primieri acquisti sparger detti, in mia assenza, di me falsi, da nulla verità coperti o misti. Ad ira contra lui perciò non salsi; ma m'allegrai, quando contra 'l suo dire tacendo col mio ver chiaro prevalsi. Ben poi via più insolente divenire nel mio silenzio il vidi; e quasi ch'io d'averlo fatto tale posso dire. Ma qual era in quel caso officio mio, se non quel dirmi mai dopo le spalle non curar punto, da un uomo vile e rio? Troppo al giudicio mio vien che s'avvalle il pensier di chi segue tai diffetti, c'hanno precipitoso e tetro il calle. Raffrena, uom valoroso, i ciechi affetti, e non voler opporti a ciascun'orma de la malignitate ai falsi detti: segui de la virtù la dritta norma, che, di se stessa paga, agli altrui errori generosa non guarda, e par che dorma. Così fec'io, che, d'ogni dritto fuori infamiata e biasmata da un uom vile, mi confortai co' miei pensier migliori: e farei più che mai ora il simìle, se per la mia pazienzia quel villano non discendesse a via peggiore stile. Ma con armata e minacciosa mano m'importuna, e mi sfida, e quasi sforza il pensier di star queta a render vano. Con l'acqua alfin ogni foco si smorza: così la costui rabbia e l'arroganza a quel ch'io men vorrei mi spinge a forza. So ch'egli per natura e per usanza è pessimo e vilissimo a volere pugnar con una donna, di possanza. E quasi che non porta anco il devere, ch'al provocar de l'armi io gli risponda, non usa il ferro ignudo in man tenere. Ma tanto più d'audacia ei soprabonda, quanto l'armi paura più si crede, e con nuove insolenzie mi circonda. Non so quel che in tal caso si richiede: il parer vostro non mi sia negato, ch'a lui son per prestar assenso e fede. Io sono stata in procinto, da un lato, di disfidarlo a singolar battaglia, comunque più gli piace, in campo armato. Ma dubitai che di piastra e di maglia ei proponesse grave vestimento, e ferro ehe non punge e che non taglia. So ch'egli è un asinaccio a questo intento d'assicurarsi contra i colpi crudi, dove vi sia di sangue spargimento: del resto sovra 'l dorso se gli studi, s'altri volesse ben con un martello, come s'usa di far sopra le incudi. Questo m'ha messo a partito il cervello, ch'io non vorrei con sferza o con bastone prender a castigar un uom sì fello. Non so se in ciò potessi con ragione rifiutar armi non micidiali, ma solamente a bastonarsi buone: so ch'ei dirìa ch'a lui si denno tali, e ch'io non debbo ricusarle, quando d'ogni lato le cose vanno eguali. Io sono andata a questo assai pensando, ed ho discorso che, s'io 'l disfidassi, da l'insultar s'andria forse arretrando: forse ch'ei volgerebbe altrove i passi, e meco fuggiria d'entrar in prova, perch'ancor, col baston non l'amazzassi. Ma s'ei temprate ha l'ossa a tutta prova contra ogni copia di gran bastonate, sì ch'altri a dargli stanco alfin si trova; senz'aver le devute sue derrate, rendermi stanca in guisa alfin potrebbe, che l'armi avessi in mio affanno pigliate. E poi di me qual cosa si direbbe? Ch'io non sia buona per un uom codardo, cui con la verga un fanciul vincerebbe: un, che fa l'invincibile e 'l gagliardo contra una donna, che sopporta e tace, senza pur minacciarlo con lo sguardo. Dunque 'l debbo lasciar seguir in pace, e sommettermi in guisa al suo talento, ch'egli m'offenda come più gli piace? Quest'è strana maniera di tormento, e tal, ch'offese a non sopportar usa, a questa men ch'ad altra atta mi sento. Dunque sarò da sì vil uom delusa, senza prender vendetta in parte alcuna di quanto egli m'offende e sì m'accusa? In questo punto il mio pensier s'aduna, e per incaminarmi a buona strada trovo scarsa e contraria la fortuna. Ma s'io sto queta, e, come avien ch'accada un giorno, che passar quindi gli avenga, incontra armata a ucciderlo gli vada? Forse la sete fia che 'n tutto io spenga di quel sangue maligno, e con diletto senza contrasto alcun vittoria ottenga. Dunque commetterò sì gran diffetto di bruttar di quel sangue queste mani, ch'è di malizia e di viltate infetto? Cessin da me pensieri così strani. Ma che farò? S'io taccio, mal; e poi s'io faccio, peggio. Oh miei discorsi vani! Datemi, signor mio, consiglio voi. XXIV Della signora Veronica Franca [Rimprovero cortese ad uno, che per ira ha offeso una donna, e per poco non l'ha percossa.] Sovente occorre ch'altri il suo parere dice, stimando fatte alcune cose, che non successer, né fùr punto vere. Di queste, che pur son dubbie e nascose, in noi un certo instinto la natura, che tende al peggio ed al biasmarle, pose; benché null'opra è di qua giù sicura, e di quel, che men par ch'avvenir possa stiasi con più sospetto e con paura. Del mondo ingannator quest'è la possa, che quel, ch'è più contrario al ver, succeda, per cagion torta, occoltamente mossa. La ragion vuol ch'ogni ben di voi creda, ma poi del verisimile l'effetto fa che quel, ch'io credei prima, discreda. Comunque sia, egli m'è stato detto: se falso o ver, non importa ch'io dica s'io son risolta o se n'ho alcun sospetto: basta che mi tegniate per amica, come infatti vi son, sì che in giovarvi non sarei scarsa d'opra o di fatica. Ed or ch'io mi conduco a ragionarvi di quanto intenderete, a quel m'accosto, che d'é chi fa profession d'amarvi. Dunque a la mia presenza vi fu opposto ch'una donna innocente abbiate offesa con lingua acuta e con cor mal disposto; e che, moltiplicando ne l'offesa, quant'è colei più stata paziente, in voi l'ira si sia tanto più accesa, sì che, spinto da sdegna, impaziente le man posto l'avreste adosso ancora, se nol vietava alcun, ch'era presente; ma voi la minacciaste forte allora, e giuraste voler tagliarle il viso, osservando del farlo il tempo e l'ora. Strano mi parve udir, d'un uom diviso dai fecciosi costumi del vil volga, un cotal nuovo inaspettato aviso; e, mentre col pensiero a voi mi volgo, de la virtute amico e de l'onesto, la fede a quel, che mi fu detto, tolgo. Da l'altra parte so quanto è molesto lo spron de l'ira, e come spesso ei mena a quel ch'è vergognoso ed inonesto: né sempre la ragion, che i sensi affrena, a stringer pronto in man si trova il morso, e 'l gran soverchio rompe ogni catena. Se per impeto d'ira il fallo è occorso, non durate nel mal, ma conoscete quanto fuor del dever siate trascorso. Gli occhi del vostro senno rivolgete, e quanto ingiuriar donne vi sia disdicevole, voi stesso vedete. Povero sesso, con fortuna ria sempre prodotto, perch'ognor soggetto e senza libertà sempre si stia! Né però di noi fu certo il diffetto, che, se ben come l'uom non sem forzute, come l'uom mente avemo ed intelletto. Né in forza corporal sta la virtute, ma nel vigor de l'alma e de l'ingegno, da cui tutte le cose son sapute: e certa son che in ciò loco men degno non han le donne, ma d'esser maggiori degli uomini dato hanno più d'un segno. Ma, se di voi si reputiam minori, fors'è perché in modestia ed in sapere di voi siamo più facili e migliori. E che sia 'l ver, voletelo vedere? che 'l più savio ancor sia più paziente par ch'a la ragion quadri ed al devere: del pazzo è proprio l'esser insolente, ma quel sasso del pozzo il savio tragge, ch'altri a gettarlo fu vano e imprudente. E così noi, che siam di voi più sagge, per non contender vi portamo in spalla, com'anco chi ha buon piè porta chi cagge. Ma la copia degli uomini in ciò falla; e la donna, perché non segua il male s'accomoda e sostien d'esser vassalla. Ché, se mostrar volesse quanto vale, in quanto a la ragion, de l'uom saria di gran lunga maggiore, e non che eguale. Ma l'umana progenie mancheria, se la donna, ostinata in sul duello, foss'a l'uom, com'ei merta, acerba e ria. Per non guastar il mondo, ch'è sì bello per la specie di noi, la donna tace, e si sommette a l'uom tiranno e fello, che poi del regnar tanto si compiace, sì come fanno 'l più quei che non sanno (ché 'l mondan peso a chi più sa più spiace), che gli uomini perciò grand'onor fanno a le donne, perché cessero a loro l'imperio, e sempre a lor serbato l'hanno. Quinci sete, ricami, argento ed oro, gemme, porpora, e qual è di più pregio si pon in adornarne alto tesoro; e, qual conviensi al nostro senno egregio, non sol son ricchi i nostri adornamenti d'ogni pomposo e più prezzato fregio, ma gli uomini a noi vengon riverenti, e ne cedono 'l luogo in casa e in strada, in ciò non punto tardi o negligenti. Per questo anco è ch'a lor portar accada berretta in testa, per trarla di noi a qualunque dinanzi ei se ne vada; e, s'ancor son tra lor nimici poi, non lascian d'onorar, sempre ch'occorre, l'istesse donne de' nemici suoi. Da questo argumentando si discorre quanto l'offesa fatta al nostro sesso la civiltà de l'uom gentile aborre. Né ch'io parli così crediate adesso con altro fin, che di mostrarvi quanto l'offender donne sia peccato espresso. Informata ancor son da l'altro canto chi sia colei, di cui mi fu affermato che ingiuriaste e minacciaste tanto: certo questo non merita il suo stato, e l'avervi 'l suo amore a tanti segni in tante occasioni manifestato. Cessin l'offese omai cessin gli sdegni, e tanto più che d'uom nato gentile questi non sono portamenti degni; ma è profession d'uom basso e vile pugnar con chi non ha diffesa o schermo, se non di ciance e d'ingegno sottile. Perdonatemi in ciò, ch'io troppo affermo le colpe vostre; poi ch'io non intendo comprender voi, più d'alcun altro, al fermo; ma quel ch'adesso vado discorrendo è quanto ad onta sua colui s'inganni, che vada con le donne contendendo; perch'al sicur di lui son tutti i danni: s'ei vince, mal; e peggio, se vien vinto: il rischio è certo e infiniti gli affanni. Col viso di rossore infuso e tinto, d'essere stato ogni uom d'onor s'accorge di far ingiuria a donne unqua in procinto; e, quanto più 'l valor viril risorge, tanto più l'armi fuor da l'ira tratte vergognando al suo loco altri riporge, e si pentisce de le cose fatte in via che, se potesse frastornarle, le ridurria da l'esser primo intatte. Ma, poi che non può adietro ritornarle, con dolci modi a l'offese ripara, e, quanto può, si sforza d'annullarle: ritorna ancor l'amata al doppio cara nel rifar de la pace; e, per turbarsi, più d'ogni parte l'alma si rischiara. Così nel ben vien a moltiplicarsi, e così certa son che voi farete, sì come suol da ogni par vostro farsi: e colei certo offesa o non avete, o, se vinto da sdegno trascorreste, l'error di voi non degno emenderete. Ed io di ciò vi prego in fin di queste. |
Post n°829 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XI Con gli occhi al cielo, spesso Iddio pregava che mi traesse da le man di Caro, come colei che d’un buono sperava. Ma tanto al prego mi si fe’ avaro, ch’apresso a lui Diocleziano giunse, 5 che, per un, cento piú me ’l vidi amaro. Costui la Chiesa per tal modo punse, che diece anni non fu senza sospire: qui puoi pensar se la distrusse e munse. Ben venti milia e piú ne fe’ morire: 10 Gervasio e Protasio in Melano, santificando, ricevêr martire; cosí ancor Vincenzo e Sebastiano, Grisogono, Martino e Nastasia, Agata, Margarita con Damiano, 15 similemente Agnese e Lucia e Marcellin, che fe’ sí come Pietro: Cristo negando, la morte fuggia: e, poi che vide ch’erano di vetro i suoi pensier, si condannò a la morte 20 e d’ogni mal voler tornò a dietro. Venti anni tenne e guidò la mia corte e fu Massimiano al mal con lui non men crudele in ciascun caso e forte. E se ’l morir parve amaro a costui, 25 e a me piú che dolce, sí mi piacque quando da lui isviluppata fui. Eran passati dal tempo che nacque Colui che sparse il sangue suo per noi in fino al dí che ’n terra costui giacque, 30 da trecento e sette anni: e qui ben puoi notare con che pena e gran fatica crebbe la Fé, che va così ancoi. Ora passo oltra e convien ch’io ti dica di Galerio, però che cosí segue 35 de’ miei signori la dritta rubrica. E vo’ tacer le battaglie e le tregue di Massenzo, Carino e di Narseo, sí vaga son che da lor mi dilegue. Poco Galerio mi fu buono o reo, 40 e però poco di lui ti ragiono, ché ’n due anni dir posso che ’l perdeo. Poscia Costanzo, ch’assai mi fu buono, passò in ponente e, de le opere sue pensando, ancor contenta assai ne sono. 45 Cloelio re padre di Elena fue, la qual giovane, inferma, a Roma venne divota a Cristo quanto si può piue. Libera e sana qual fu mai divenne, onde per la beltá Costanzo allora 50 vago di lei piú dí seco la tenne. Un anel d’or le donò in sua dimora, ché piú non volse, e poi un fanciul fece simile al padre e bellissimo ancora. Costui, avendo tre anni con diece, 55 a ’ngegno per mar fu menato a un re, che allor regnava tra le genti grece. Tanta fu data a’ mercatanti fé, che ’l re la figlia sua li diede a sposa; ma qui non dico il modo né il perché. 60 Rubarli, poi, tornando, d’ogni cosa; lassarli soli e, come piacque a Dio, rimase lor la ricca vesta ascosa. Tornati a me, Costanzo, il signor mio, Elena sposa e imperatrice feo, 65 poi che ’l ver con l’anello li scoprio. Quindici anni con me viver poteo; reda lasciò il figliuol, per cui la Chiesa ricchezza acquista e santitá perdeo. Non che dir voglia che ’l dare e la presa 70 allor non fosse ben, perché da troppa gente la fede nostra era contesa; ma perché dove ricchezza s’aggroppa, lussuria, ira, gola e avarizia, accidia, invidia e superbia ne scoppa. 75 E tu puoi ben veder che per divizia di cotante grandezze, che ’l pastore falla e fallando le pecore vizia. Ahi quanto li terrei maggiore onore che fosse meco e governasse i suoi, 80 che dirsi a Vignon papa e imperatore! Ché a tanto giunti siam veder ben puoi, per lo suo parteggiar, che quel d’Egitto securo vive e combattiam fra noi. Certo io so ben che le parole gitto 85 indarno teco, ma fo com la trista, che corre al pianto, quando ha il cor trafitto. Non truovo santo alcun né vangelista che dica a Cristo piacesse palagio, bei palafreni o robe di gran vista. 90 Non truovo che volesse stare ad agio; non truovo che chiedesse argento o oro, né che mai ricevesse piú d’un bagio. Truovo che povertá fu il suo tesoro e questa predicava in ciascun templo 95 e questa volse nel suo concistoro. Truovo, se ben nel suo lume contemplo, per umiltá cavalcar l’asinello, e questo ai frati suoi die’ per essemplo. Truovo che disse: – Piú miracol quello 100 terrei ch’uom ricco entrasse nel gran regno, che per la cruna d’un ago un cammello –. Truovo che dimandato fu a ’ngegno: – Rispondi tu, che sai tutte le cose, se a Cesar dare il censo è giusto e degno, 105 o se non è –. Ed esso allor rispose: – Mostrami un denaro –. Ed un gliel diede. E Cristo a quel, che ne la man gliel pose: – Or di’: questa figura che si vedee la scritta cui è? – E il fariseo: 110 – È di colui che il censo ci chiede –. Ond’ello, accorto del suo pensier reo, rispuose: – E come suo, a lui si renda. Quae Caesaris Caesari et quae dei deo –. E chi ha orecchi m’oda e sí m’intenda. 115 |
Post n°828 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913 XXI l'armi mie proprie, quelle, onde mi punge la fortuna crudel, che mi faranno? — S'io stessa, col fuggir dal mio ben lunge, sento che 'l duol via più mi s'avvicina, che la partenza mia mel ricongiunge; al mio languir contraria medicina certo avrò preso al vaneggiar del core, che per misera strada m'incamina. Lassa, or mi pento del commesso errore, anzi non mossi così tosto il passo dal dolce loco, ov'abita 'l mio amore, ch'io dissi: — Oimè! dunque è pur ver ch'io lasso quella terra e quell'acque, ove 'l mio sole di splendor rende ogni altro lume casso? — E, se ridir potessi le parole, che volgendomi indietro al caro suolo dissi, qual chi lasciar ciò ch'ama suole, vedrei gli augelli ancor con lento volo seguirmi ad ascoltar il mio lamento, alternando in pia voce il mio gran duolo; vedrei qual già. fermarsi a udirmi 'l vento, e quetar le procelle, e i boschi e i sassi moversi a la pietà del mio tormento. Ma per troppo gridar afflitti e lassi sono i miei spirti, onde già. i pesci e l'onde le mie miserie a meco pianger trassi. Tanta rena non han d'Adria le sponde, quante volte il suo nome allor chiamai, com'or qui 'l chiamo, ov'Eco sol risponde. Co' sospiri arsi e col pianto bagnai l'amate spoglie, e di lui in vece accolte al seno me le strinsi e le basciai, dicendo: — O spoglie, che già. foste avvolte intorno a quelle membra, che da Marte sembrano in forma di Narciso tolte; se 'l ciel mi riconduce in quella parte onde stolta parti', non sarà mai che quinci 'l fermo piè volga in disparte. — Non fu pietra né pianta, ov'io passai, che non piangesse meco, e forse allora non mi dicesse: — Folle! ove ne vai? — Dal cerchio estremo, ove fan la dimora scintillando le stelle, certamente meco pianger mostrár la notte ancora. Ben vidi 'l sol levar chiaro e lucente; ma, perché gli occhi ad abbagliarmi e 'l core un più bel lume impresso avea la mente, scorso del sol mi parve lo splendore; o fu, forse, ch'udendo 'l mio gran pianto, anch'ei si scolorì del mio dolore. Oh com'è privo d'intelletto, e quanto colui s'inganna, che nel patrio nido viver può lieto col suo bene a canto, e va cercando or l'uno or l'altro lido, pensando forse che la lontananza ai colpi sia d'Amor rifugio fido! Fugga pur l'uom, se sa: la rimembranza del caro obbietto sempre gli è d'intorno, anzi porta in cor viva la sembianza. S'io veggo l'alba a noi menar il giorno, mirando i fiori e le vermiglie rose, che le cingon la fronte e 'l crin adorno, — Tal — dico, — è 'l mio bel viso, in cui ripose tutti i suoi doni il cielo, e la natura la sua eccellenza più ch'altrove espose. — Poi, quando scorgo per la notte oscura accendersi là su cotante stelle, Amor, ch'è meco, sì m'afferma e giura che quelle luci in cielo eterne e belle tante non son, quante virtù in colui, che poi crudo del sen l'alma mi svelle. E, per far i miei dì più tristi e bui, dal mio raggio lontan, sempre al cor vivo ho 'l sole ardente, onde pria accesa fui: al qual piangendo e sospirando scrivo. XXII Della signora Veronica Franca [La crudeltà dell'amante l'ha spinta a rifugiarsi in campagna: quivi ogni spettacolo naturale, rivelandole la potenza d'Amore, la richiama alla sua triste sorte e a Venezia, miracolo unico di bellezza; onde sospira il ritorno.] Poi ch'altrove il destino andar mi sforza con quel duol di lasciarti, o mio bel nido, ch'in me più sempre poggia e si rinforza, con quel duol, che nel cor piangendo annido, con la memoria sempre a te ritorno, o mio patrio ricetto amico e fido: e maledico l'infelice giorno, che di lasciarti avennemi; e sospiro la lentezza del pigro mio ritorno. Dovunque gli occhi lagrimando giro, lunge da te, mi sembra orror di morte qualunque oggetto ancor ch'allegro miro. Tutto quel che ristora e gioia apporte, per questi campi e per le piagge amene, reca a me affanno e duol gravoso e forte. L'apriche valli, d'aura e d'odor piene, l'erbe, i rami, gli augei, le fresche fonti, ch'escon da cristalline e pure vene, l'ombrose selve, e i coltivati monti, che da salir son dilettosi e piani, e più facili quant'uom più su monti, e tutto quel, che con industri mani qui l'arte e la natura e 'l ciel opráro, sono per me deserti alpestri e strani. Non può temprar alcun dolce l'amaro ch'io sento de l'acerba dipartita, ch'io fei dal natio loco amato e caro: quivi lasciai nel mio partir la vita, ch'ai piè negletta del mio crudo amante da me giace divisa e disunita. E pur tra questi fiori e queste piante la vo cercando, e di quell'empio l'orme, ch'ovunque io vada ognor mi sta davante. E par ch'io 'l vegga, e poi ch'ei si trasforme or d'un abete, or d'un faggio, or d'un pino, or d'un lauro, or d'un mirto in varie forme; parmelo aver negli occhi da vicino, e le mani a pigliarlo avide stendo, e la bocca a basciarlo gli avicino: in questo lo mio error veggio e comprendo, ché, da l'imaginar e da la speme delusa, un tronco o un sasso abbraccio e prendo. Se cantando posar gioiosi insieme duo augelletti sopra un ramo veggo, con quel desio ch'Amor dolce al cor preme, del mio misero stato, e più m'aveggo che col rimedio de la lontananza, dov'altri non m'aita, invan proveggo. Stan pur duo uccelli in lieta dilettanza, godendo di quel bene unitamente, ch'al lor desire agguaglia la speranza; ne le selve e nei boschi Amor si sente, dal consorzio degli uomini sbandito, tra i bruti, i quai pur s'aman parimente; un concorde voler al dolce invito de la gioia d'amor le fiere tragge, con affetto in duo cori egual partito; per monti e valli e selve e lidi e piagge, quinci e quindi congiunta in modo stretto coppia sen va di due bestie selvagge: e l'uom, dal cielo a dominar eletto tutti gli altri animali de la terra, dotato di ragione e d'intelletto; l'uom, che se non vuol, rado o mai non erra, fa, nei desir d'amor dolci, a se stesso così continua abominosa guerra, sì ch'a lui poi d'amar non è concesso, senza trovar di repugnanti voglie de la persona amata il core impresso. In ciò contrario a le donne si voglie più ch'agli uomini 'l ciel; ch'amano senza sentir quasi in Amor altro che doglie. Far non può de le donne resistenza la natura sì molle ed imbecilla, di Venere del figlio a la potenza; picciol'aura conturba la tranquilla feminil mente, e di tepido foco l'alma semplice nostra arde e sfavilla. E quanto avem di libertà più poco, tanto 'l cieco desir, che ne desvia, di penetrarne al cor ritrova loco; sì che ne muor la donna, o fuor di via esce de la comun nostra strettezza, e per picciolo error forte travia. Quanto a la libertate è manco avezza, tanto in furia maggior l'avien che saglia, s'Amor quei nodi violento spezza; né per poco vien mai che doglia assaglia per tirar il suo amante al suo desio ma ciascun mezzo prova quant'ei vaglia. Così sforzata son di far anch'io, d'amor ne la difficile mia impresa, per ottener il ben ch'amo e desio; e, se ben fatt'a me vien grande offesa, nullo argomento usato in espugnarti, amante ingrato mi rincresce o pesa. Per darti luogo, venni in queste parti, ed al tuo arbitrio di te cassa vivo, sperando in tal maniera d'acquistarti. Qui, dov'è 'l prato verde e chiaro il rivo, venni, e de le dolci onde al roco suono, e degli uccelli al canto e parlo e scrivo. In luogo ameno e dilettevol sono, ma non è quivi l'allegrezza mia, se non quanto di te penso e ragiono; anzi 'l pensar di te dagli occhi invia lagrime amare, e de l'altrui piacere sento più farsi la mia sorte ria. L'altrui gioie d'amor tante vedere a le fiere, agli augelli, ai pesci darsi mi fa nel mio dolor più doglia avere: non può l'invidia mia dentro celarsi, ma con sospiri e pianto, e con lamenti vien per la bocca e gli occhi a disfogarsi. Ben più, che degli altrui dolci contenti, allargo 'l pianto e senza fin mi doglio de l'acerba cagion de' miei tormenti; ma, poi d'ammollir tento un aspro scoglio, che più s'indura, e più s'impietra, quanto più mostro il sospiroso mio cordoglio, e poi che 'l mio dolor ti giova tanto, io mi vivrò, tra queste selve ombrose, sol de la tua memoria e del mio pianto. Qui farà l'ore mie liete e gioiose veder che 'l prato, il poggio, il bosco e 'l fiume dian ricetto a l'altrui gioie amorose; veder per natural dolce costume gli augei, le fiere e i pesci insieme amarsi in modo, che da l'uom non si costume; e senza alcun sospetto insieme andarsi liberamente ovunque Amor gli guide, e l'uno in grembo a l'altro riposarsi. Nulla il gran lor piacer toglie o divide, ma sempre il sommo lor diletto cresce; di che me, con duol mista, invidia uccide. Ecco, che fuor d'un antro, or ch'io parlo, esce coppia felice di due dame snelle, cui sempre star in un sol luogo incresce; e là due rondinette unirsi anch'elle veggo in un ramo verde. Ahi del mio amante voglie contrarie al mio desir rubelle! Dove parlan d'amor l'erbe e le piante, dove i desir d'ognun sono concordi, in quest'almo paese circostante m'addusse Amor, perch'io più mi ricordi, ne la dolcezza de l'altrui venture, dei pensier d'uom crudel dai miei discordi. Né questo accresce sol le mie sventure, per prova intender dai boschi e dai sassi quanto sian meco acerbe le sue cure; ché sempre avanti a la memoria stassi quanto, per fuggir l'odio di colui, da la patria gentil mi dilungassi: da quell'Adria tranquilla e vaga, a cui di ciò che in terra un paradiso adorni non si pareggi alcun diletto altrui: da quei d'intagli e marmo avrei soggiorni, sopra de l'acque edificati in guisa, ch'a tal mirar beltà queto il mar torni; e perciò l'onda dal furor divisa quivi manda a irrigar l'ama cittade del mar reina, in mezzo 'l mar assisa, a' cui piè l'acqua giunta umile cade e per diverso e tortuoso calle s'insinua a lei per infinite strade. Quivi tributo il padre Ocean dàlle d'ogni ricco tesoro, e 'l cielo amico ciascun'altra a lei pon dopo le spalle; sì che nel tempo novo o ne l'antico non fu mai chi tentasse violarla, ch'al pensar sol confuse ogni nemico. Tutto 'l mondo concorre a contemplarla, come miracol unico in natura più bella a chi si ferma a mirarla, e, senza circondata esser di mura, più d'ogni forte innaccessibil parte senza munizion forte e sicura. Quanto per l'universo si comparte d'utile e necessario a l'uman vitto, da tutto l'universo si diparte; ed, a render recato a lei 'l suo dritto, di quel, che in lei non nasce, ella più abonda d'ogni loco al produr atto e prescritto, sì ch'eterna abondanzia la circonda, e di tutti i paesi fruttuosi più ricca è d'Adria l'arenosa sponda. Altro che valli amene o colli ombrosi sembrano d'Adria placida e tranquilla i palagi ricchissimi e pomposi. Il mar e 'l lito quivi arde e sfavilla d'amor, che tra nereidi e semidei quell'acque salse di dolcezza instilla. Venere in cerchio ancor degli altri dèi scende dal ciel su questa bella riva, con l'alme Grazie in compagnia di lei. E senza che più avanti io la descriva, per fortuna noiosa e violenta, gran tempo son di lei rimasta priva: per far la voglia altrui paga e contenta io diparti', sperando alfin quell'ira, se non estinguer, e far tepida e lenta. Or, che quanto si piange o si sospira per me infelice è tutto sparso al vento, ché 'l mio amante la vista altrove gira; poi che 'l crudele ad altro oggetto è intento, perché lontan da la mia patria amata vo facendo più grave il mio tormento? Ma, se t'ho follemente, Adria, lasciata, del cor l'arsura alleviar pensando, dal mio danno veder allontanata, l'ardor più tosto è in ciò gito avanzando, e con la gelosia e col sospetto s'è venuto più sempre riscaldando. L'altrui d'amor goduto a pien diletto per questi campi, e 'l temer che compagna l'empio, a me, non faccia altra del suo letto, e de la patria mia celebre e magna gli alti ornamenti e lo splendor superno qui 'l bosco odiar mi fanno e la campagna: ad Adria col pensier devoto interno ritorno e, lagrimando, espressamente a prova del martìr l'error mio scerno. Ma, se 'l suo fallo scema chi si pente, d'esser da te partita mi pentisco, o mio bel nido, e me ne sto dolente; e, dapoi che non cessa il mio gran risco per lontananza il meglio è ch'io mi mora del gran dolor che per amar soffrisco, senz'a' miei danni aggiunger questo ancora, di far da le mie cose a me più care per tanto spazio sì lunga dimora. Perch'alfin mi risolvo di tornare, e, se non m'è contraria a pien la sorte, se ben un'ora un secolo mi pare, spero tornar in spazio d'ore corte. |
Post n°827 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
A Piazza Gujermo Pepe I Il coccodrillo vivente Signori! Ir coccodrillo è un animale Come loro vedranno dar groppone, Ch'ha la pelle durissima, la quale Arisiste a la palla der cannone. Questo che glie presento ner gabbione E' un anfibbio vivente ar naturale, Cià l'istessa ferocia d' un leone, E nasce ne la parte tropicale. Ei vive drento e fuora ir fiume Gange, E' molto voracissimo e c'è il detto Che prima mangia il vuomo e poi lo piange: Lagrimando si dà pe' le campagne... - Entrate nella gabbia quell'ometto, Cusì ce fate vède' come piagne. II. L'uomo selvaggio Rispettabile pubblico! Ho l'onore De presentaglie el gran vuomo selvaggio Portato da un ardito viaggiatore Che se trovò in Ustrallia de passaggio. Osservino, o signori, ir tattuaggio Che cià sur viso, osservino ir colore.,, E' dotato de forza e de coraggio, Mangia la carne cruda a tutte l'ore. Da sì che è a Roma drento al bussolotto Si è molto incivilito: infatti adesso... Dà li sordi a interesse e gioca ar lotto: Mena a la moje, sbafa e non fa gnente, S' imbriaca, biastima, e spesso spesso... Ve manna a mori' tutti d'accidente. III La donna barbuta. - Sgè Vù presante mammasèl Mignone La famme più pelosa de l'Africa... - Acciderba che straccio de barbone! - Tu te la sposeresti? - Ah no! 'na cica! Se sa, nun c'è bisogno che lo dica, So' matrimogni de speculazzione; La pijerebbe pe' li peli, mica La vorrebbe pijà pe' l'affezzione,.. Si, ma a sposà' un felomeno vivente E' 'na cosa ch'a me poco me garba: Guarda: sortanto pe' 'n inconvegnente. 'Na notte che te sveji insonnolito Vai pe' bacialla e in der sentì' la barba Nun sai più si t'è moje o t'è marito. IV. Il museo meccanico. Questa donna in grannezza naturale, Meccanizzata da parer vivente, E' Clopatra d'Antogno per il quale Si fece suicidare dar serpente. Questa ch'opre le braccia in modo tale Da sembrare una donna propiamente, E' la Cenci davanti ar tribbunale Condannata ar patibbolo innocente; Ecco Fanny la dea de la ginnastica, Ed ir noto poveta Dante Algeri Capolavoro de la cromoplastica. Questa è la ballerina e l'impresario,,. La donna nun si move perchè jeri L'abbiamo caricata all' incontrario! V. La donna gigante - Io mi chiamo el felomeno vivente... - La bùggera, compare, si ch'artezza! E a quela lì pe' faje 'na carezza Ce vò la scala-Porta, mica gnente! Fin dai primi anni della ciovinezza Mi sviluppai in d'un moto solprendente; Ora ch'ho sedici anni solamente Misuro due e cinquanta di lunghezza. Anche mio padre è molto sviluppato... - Ma a me nu' me farebbe meravija Ch'un padre solo nu' je sii abbastato. Un omo solamente nun ciarriva: Nun vedi quant'è longa? Quella è fija De quarche Società coperativa! Trilussa Tratte da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895) |
Post n°826 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
RIME di M. CINO RINUCCINI fiorentino |
Post n°825 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO X Avea dal dí che nacque il nostro Amore in fino a quello che qui ti rammento, ch’io stava in tanto gaudio e in tanto onore, da cinque volte diece con dugento; e, ben ch io fossi afflitta alcuna volta, tosto mi rifacea di quel tormento. Ma qui ti vo’ contare, e tu m’ascolta, del mio Filippo e del figliuolo ancora come dal lor piacer mi vidi sciolta. Una grave battaglia fu allora, dove ciascun di lor morto fu visto: pensa se duolo ancor dentro m’accora! Vero è che ’l lor tesoro e ’l loro acquisto, tant’eran caldi ne l’amor di Dio, per farne bene altrui lassaro a Sisto. Ma poi, come tu leggi e ch’io udio ne le storie de’ Santi, da Lorenzio un altro il volse, a cui rimase il mio. Qui vorrei ben poter tener silenzio e lassar Decio con ciascun suo vizio, ma la tema mi stringe a dir l’assenzio. Di lui ti do per certo questo indizio: ch’avar fu sí, che mai veder non volle povero alcuno dentro dal suo ospizio. E come fu avar, cosí fu folle contro a la fede di Cristo e per certo giá mai a tal voler si vide molle. Questo ebbe in sé: che fu in arme sperto, ma non pur tanto, per quel ch’io intesi, che dal diavol non fosse al fin diserto. Due anni tenne il mio e quattro mesi; tanto l’amai, che de l’acerba morte, quando l’udio, niun dolor ne presi. Gallo e Volusian dopo tal sorte signoreggiâr due anni e fu sí poco, 35 che pro né danno n’ebbe la mia corte. Valeriano tenne apresso il loco per quindici anni e sappi che fu tale, che piú province ne sentîr gran foco. E poi ch’egli ebbe assai battute l’ale, 40 da Sapor re si vide preso e vinto, che poi li fe’ sentir di molto male. Claudio segue che qui sia distinto, lo qual fu tal che, se vivuto fosse, molto piú caro te l’avrei dipinto. 45 Costui la Gozia e la Magna percosse e disertolle per sí fatto modo. che lungo tempo loro il danno cosse. Tu vedi ben cosí com’io annodo l’un dopo l’altro in brieve, onde figura 50 lo reo piú reo e ’l buon di maggior lodo. Un anno meco la sua vita dura. D’Aurelio fui, al qual rendo ancor laude, perché piú ricca fe’ la mia cintura. Molto le genti mie per lui fun baude: 55 cinque anni visse e a la fin fu morto da’ suoi a tradimento, per gran fraude. Costui in arme fu franco e accorto: s’io dico il vero que’ di Dacia il sanno, i Goti e i Franchi, a cui il fatto è scorto. 60 Costui ti dico ancor, s’io non m’inganno, dei miei fu il primo con corona in testa d’oro e di gemme, sí come or si fanno. E quel ch’ora di lui a dir mi resta, si è che fece al Sole un ricco tempio 65 di care pietre, ove facea gran festa. In contro a’ cristian fu aspro ed empio e con piú molti beata Colomba fece martoriare e farne scempio. Seguita ora che suoni la tromba 70 per Tacito, che fu largo e prudente; ma poco meco il suo nome rimbomba, ché, secondo ch’ancor m’è ne la mente, sette mesi e non piú m’ebbe in governo: se morto fu, ciò spiacque a la mia gente. E se ben mi ricordo e ’l ver dicerno, apresso di costui mi seguí Probo che fece di Macreo non buon governo. Costui per pro e per sicuro approbo; da’ suoi fu morto e del tempo che visse 80 sei anni tenne meco questo globo. Fiorian fu poi, di cui nulla si disse: e giusto è bene a non far d’un cattivo piú viva menzion, che sé morisse. Seguita Caro e io di lui ti scrivo 85 che passò in Partia e quivi fu dal fiume sorbito, onde da poi non parve vivo. E se tu cerchi bene il mio volume, il troverai di ciascun vizio pieno e d’ogni brutto e cattivo costume. 90 Due anni tenne in man del mio il freno; molto contenta fui dentro dal core quando mi venne, com’io dico, meno, sempre sperando in un altro migliore. |
Inviato da: cassetta2
il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50