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Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Messaggi del 16/12/2014
Post n°838 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) [12 Di Cesare Caporali] Cesare Caporali in Parnaso così cantò l'ultima sera di Carnevale alla presenza d'Apollo. Questo mondo è un bordeletto Così succido e sì brutto, Che, se ben lo squadro tutto, Non v'è un palmo in lui di netto. Dal Giappon sino a l'occaso Scorre il senso con tal puzza Ch'al fettor l'aria s'appuzza, Si risente ognun ch'ha naso. Chi direbbe che in Parnaso, De le Muse albergo antico, Non si trovi un che pudico A' dì nostri serbi il petto? Questo mondo, etc. Ciascun grado e condizione Si rivolge in questa pece E di far ciò che non lece Han per legge le persone. Erra l'uom d'ogni stagione; Ma sì cieco è il Carnovale Che per bene apprende il male, Per virtù quel ch'è difetto. Questo mondo, etc. Chi s'intruppa fra' veglioni, Chi s'intende fra' veglini, E tra smorti lumicini Trova scusa per gli urtoni; Altri lascia i balli e i suoni Col desìo d'entrar a parte Al giochetto delle carte Siasi d'Ombre, o Cocconetto. Questo mondo, etc. Quivi l'occhio a poco, a poco Col mirar cangia figura, E la man corre all'usura Ove a furti ha tempo e loco. Troppo è ver che quando al gioco S'accompagni vario sesso, Se non sempre, segue spesso Qualche error sotto il banchetto. Questo mondo, etc. A pietade, a riso, a sdegno, A stupor muove le genti Quel veder che i più prudenti Questi giorni han meno ingegno; Ognun sa con qual disegno L'altra notte il vecchio Cato Senza lume immascherato S'appiattò dentro quel ghetto. Questo mondo, etc. Chi può dir quanto t'incresca Al pensar qual diano esempio I ministri del tuo tempio Con livrea carnevalesca? Come augel che voli all'esca Tal costor corrono in frotta A danzar quando più annotta Delle Pieridi al balletto. Questo mondo, etc. Fin d'Augusto la sorella, Io vo' dir madonna Ottavia, Già canuta e tanto savia Al teatro applaude anch'ella, E la figlia sua più bella Oggi appunto, come s'usa, Guida seco alla confusa Nel casino e sul palchetto. Questo mondo, etc. Ma sarebbe il men de' mali, Se, passati i dì di Bacco, Ad un viver sì vigliacco Rinunziassero i mortali. Il bell'è che a' sensi frali Per nutrir tale appetito L'uom per mesi ha stabilito Ne' villaggi alzarsi il letto, Questo mondo, etc. Que' solazzi, que' conviti Quelle ariette, quelle stanze, Quelle tante mescolanze Di non mogli e non mariti, Que' sussurri, quegli inviti, Con que' casi fatti a studio D'onestà se sian preludio, Febo, a te me ne rimetto. Questo mondo, etc. Cade Lesbia, e par che avegna Il cader per accidente; Ma lo fa perché repente Corra Ortensio e la sostegna; Con Alceo Clori si sdegna E tra i lauri affretta il piede; Ma s'accorge ch'ei la vede Prima ch'entri nel boschetto. Questo mondo, etc. Tutto al solito cortese Mena in villa una mendica Oppillata, e la nutrica Mecenate a proprie spese; Ma la gente del paese Ch'è salata e pare sciocca Col parlarne a mezza bocca Dà di ciò qualche sospetto. Questo mondo, etc. Ma di Pindo entro le mura Ritorniamo a dar di vista, E de cor, se non t'attrista, Penetriam l'iniqua arsura. Di colomba oggi ha figura La lascivia, e sotto il volto Di pietà si vede accolto Questo mostro maledetto. Questo mondo, etc. Marco Bruto è curatore Di tre povere orfanelle, E minaccia chi di quelle Ardirà tentar l'onore; Ma il burchiello, che a sett'ore Si appostò nel loro albergo, Scopre a tutti senza zergo Del tutor qual sia l'affetto. Questo mondo, etc. Belisario orbato e lippo, Se due soldi in grazia chiede, Sente darsi per mercede: Su, va in pace da Crisippo, Ma se Laide d'Aristippo Gira un guardo lagrimoso, Ei di lei fatto pietoso La conduce al gabinetto. Questo mondo, etc. Se i Platoni e gli Epitetti Con esempi e dogmi rari Ammaestran li scolari, Si fan puri all'opre, ai detti; Ma se avvien ch'Apicio detti Continenze a Porzia, a Livia, Chi scorretto è per lascivia Come altrui farà corretto? Questo mondo, etc. Io mi rido poi di quelli, Come sai, che a Frine accanto Con un libro si dan vanto Di cacciare i farfarelli. Son fornaci i Mongibelli, Di star presso han per consiglio, Fin Zenone a tal periglio D'avvampar sarìa costretto. Questo mondo, etc. Di Calliope nel giardino L'altro giorno vidi assisa Una donna alla divisa Linda al par d'un armellino. Quanto a lei più m'avvicino Vedo ch'è Pantasilea, Cui toccar Codro volea Il moderno grembialetto. Questo mondo, etc. Con lasciva ipocrisia Copre il cor l'umana schiatta, Dentro impura, e fuori intatta, Empia l'alma, e il volto pia. Né facella così ria Solo a' giovani arde il fianco; Ma de' vecchi in sen non manco Tale ardor trova ricetto. Questo mondo, etc. Sai che Seneca si sdegna Contra il vizio e li fa guerra, E cacciarlo fin sotterra Agli antipodi s'ingegna; Caste leggi a Giulia insegna, Ma il trovarsi testa a testa Sempre seco il manifesta Per contrario al suo precetto. Questo mondo, etc. Se in tuo nome dico a Cotta Che da sé licenzi Drusa, Con bel modo se ne scusa Ch'è nipote e sempliciotta. Oh rei tempi! età corrotta, Che le macchie occulta e cela Sotto il vel di parentela Del tuo sangue, o sangue infetto. Questo mondo, etc. Soprintende alla fortezza D'Astrea un tal che Cippo ha nome E la moglie, non so come, Gli fa scala a tanta altezza, Tratta acciar la mano avvezza A trattar ignobil arte, E chi nulla sa di Marte Cinge spada, innalza elmetto. Questo mondo, etc. Del Boccaccio alla Fiammetta Curiose guida la destra, Quando a scriver l'ammaestra Che ha per mal che sia soletta A sonar la girometta; Amfione Urania invita, E l'insegna ove le dita Dee posar su lo spinetto. Questo mondo, etc. A Calfurnia è tocco in sorte Serva tal, che tra le piume L'addormenta, e, spento il lume, Col pie' scalzo scende in corte. Non so dir se per le porte Melibeo voglia introdotto, So che a Titiro fa' motto Che l'attende nel chiassetto. Questo mondo, etc. Muova Filli un piede solo, Esca fuori, o torni in loggia, Chiede il paggio e a lui s'appoggia, E lo tien più che figliolo. Da Talìa nello stanzuolo Si traveste d'ormesino, Perché faccia d'Amorino Su la scena il Musichetto. Questo mondo, etc. Al candor qualch'ombra reca Il ruzzar che fan confuse Co' poeti e ninfe e muse Al trastul di Mosca cieca. Sento dir che Saffo greca L'altra sera sorridea Quand'Omero le stringea Sopra gli occhi il fazzoletto. Questo mondo, etc. Amarillide e Sulpizia Van cercando in man del terzo Certo anello, e a quello scherzo Se ne duol la pudicizia. Ei lo fan senza malizia Sì, ma ancor tra scherzi e giochi Scocca strali, accende fuochi Di Ciprigna il pargoletto. Questo mondo, etc. Non saprei se biasmo, o loda Meritar debba colei Che alla posta degli Achei Taglia e cuce e dà la soda. Fatte in grazia della moda Le fascette al collo adatta Cento volte, e la crovatta Rimisura e il manichetto Questo mondo, etc. L'arcimedico Galeno Visitar sera e mattina Ha per uso Messalina, Che un tumor le cruccia il seno, E non par contento a pieno Se non spalma col buttiro Di man propria quello sciro, Che predice un mal' effetto. Questo mondo, etc. Corre fama che star sola Già Penelope volesse, Or la stanza ov'ella tesse È de' Proci aperta scola, Le raccoglie altri la spola, Le rïempie altri il canello, Ogni dì Fabbio e marcello Fan la visita al Drapetto. Questo mondo, etc. Ier' piangea che non s'aprisse Silvia il fondaco di Crasso, Quando a lei rivolse il passo, E per lei Claudio s'afflisse: Non temer, quindi le disse, Che quel serico lavoro Che sì brami, or or t'imploro, E in ciò dir fece un cennetto. Questo mondo, etc. D'Elicona il potestà, Se ricopre quel ribaldo, Se la lite, ingiusto Baldo, A chi ha il torto vinta dà; Questo e quel non tanto il fa Per tesor, quanto che prega Taide entrambi, e incanta e lega L'uno e l'altro, con l'aspetto. Questo mondo, etc. So ben io le merendine Che s'intimano sì spesso Sotto gli olmi di Permesso, Chi le guida, ed a che fine. So ben io con le Sabine Perché al fosso d'Ippocrene Su le quattro se ne viene Messer Romolo in farsetto. Questo mondo, etc. Rodopea solleva in testa Quella sua mobil boscaglia, Dimmi tu, Delio, a che vaglia Su la fronte una tal cresta. Forse vuol che intorno a questa Frascherìa dispieghi l'ali Qualche allocco, a fin che cali Dalla frasca al trabocchetto? Questo mondo, etc. V'è di peggio. A che più tardi Il castigo, o Febo, agli empi? Vedi pur ne' propri tempi Cenni, scherzi e risi e sguardi. Ozïoso l'arco e i dardi Non tener più fra le mani, Fa tremar questi profani Ch'han sì poco a te rispetto. Questo mondo, etc. Fa che resti fulminato Chi ti fa cotanta ingiuria, Un mercato di lussuria Non sia Delfo a te sacrato; Soffrirai de' Clodi a lato Le Popee tra incensi e faci? Dall'altar sarà che ad Aci Galatea volga l'occhietto? Questo mondo, etc. Stian le vergini di Delo Fisse in casa, o scorran Porto, Ai delubri per diporto Va la donna, e non per zelo, Quando avvampa estivo il cielo Non lasciar che all'aria oscura Là di Focide alle mura Si frequenti quel tempietto. Questo mondo, etc. Se portato per Libetro È di Cibele il ritratto, Senza legge, ecco ad un tratto Tutto Pindo andarli dietro. Mosso allor da un umor tetro Fuor del seno il cor mi scoppia Nel veder che lì s'accoppia Spesso al pallio il guarneletto. Questo mondo, etc. Non è albergo in Lesbo dove Non rinnovisi il ritorno Di quel sempre lieto giorno Quando nacque in Creta Giove; Ivi a' nembi il popol piove, O di fare appunto imita Ciò che fa quando s'irrita Nella gabbia l'augelletto. Questo mondo, etc. Vanno a gara le persone Dove a doppio il son s'ascolta, E la turba ov'è più folta Fa maggior la confusione. Per ritrarne divozione Non si corre al dì festivo, Non ha l'uom per fine il divo; Ma la diva ha per oggetto. Questo mondo, etc. Uno scrupol mi rimane, Che d'aprirtelo ho desìo; Tu m'ascolta, o biondo dio, Né lasciar mie preci vane; Perché tanto e sera e mane Alcibiade, e certi tali Fan dimora alle Vestali? Qual di ciò fai tu concetto? Questo mondo, etc. Ma qui taccio, o magno sire, E noiarti io più non oso; S'io peccai da curïoso, Tu perdona a tanto ardire; Altre cose avrei da dire, Ma le serbo nel pensiero. A tal'un ch'ha in odio il vero Parrà troppo quel ch'ho detto. Questo mondo, etc. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°837 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) XI [1 Di Cesare Caporali] Sotto finti d'Amor dolci sembianti La mia novella Circe oggi s'asconde, Quasi scoglio coperto in mezzo a l'onde Io la vidi pur or. Fuggite amanti, Né v'inganni il mirar gl'abiti santi, Gli occhi leggiadri e le sue trecce bionde, Ch'in tronco, in sasso, in fera, in erba e in fronde Son per mutar altrui magici incanti, Et io, benché infelice, esempio umìle Pur ne posso parlar, ch'in verde mirto Già fui converso, ed or m'ha volto in pietra. Ove, se pur col tacito focile Battendo Amor qualche favilla impetra, Sappia il mondo che dentro arde il mio spirto. [2 Di Cesare Caporali] Chiedendo un bacio a la mia cara Aminta Fra sé stessa ne fu gran pezzo in forse, Poi d'onesto rossor la faccia tinta, La dolce bocca per baciar mi porse. Da quel piacer allor l'anima vinta, Lassando il petto inver' le labbia corse, Né qui fermossi; ma di nuovo spinta Da le mie labbia a le sue labbia corse. Così restai senz' alma, et hor sospeso, Mi tiene in vita quel soave umore Ch'ella mi die' d'un novo spirto acceso. Mandat'ho già per cercar l'alma e 'l core, Né torna; anch'io, se vo, restarò preso. Che debb'io far, che mi consigli, Amore? [3 Di Cesare Caporali] Cercando va per quest' e quel sentiero Vener' il figlio, ed io, lasso e dolente Nel core il tengo ascoso, onde la mente Tutto in dubio rivolge il suo pensiero. Ché la madre è superba e il figlio altiero, E l'uno e l'altro in me puote egualmente, Se più l'ascondo, già son tutto ardente; Se l'appaleso, diverrà più fiero. Oltre ch'io so che castigare Amore Ella non vuol, né 'l cerca a tale effetto; Ma sol perché ne dia piant' e dolore. Dunque sta pur nascosto entro il mio petto, Ma tempra alquanto il grave e troppo ardore Ché più sicur'aver non puoi ricetto. [4 Di Cesare Caporali] Dopo tante percosse e tant'offese Spogliati i tempii, accesa e ruinata E tante volte e di sì stran paese A tanta gente in preda abbandonata, Misera Roma, e poi che l'arme hai stese Nel tuo bel petto, ognor cerca l'entrata Il proprio figlio, quai schermi o difese Ti renderan mai più lieta o beata. Già regina del mondo, hor quella, hor questa Gente ti die' tributo e fessi amica Or di quei primi figli è spento il seme. Il Tebro il sa, ch'alla memoria antica Di quei gran Scipii spesso alza la testa E con fronte di toro irato freme. [5 Di Cesare Caporali] Duetto d'amore Perch'aggio inteso, Amore, Che tu ti vai vantando Havermi fatto una superchiaria, Hieri in presentia della donna mia, Dico che se pensando Andrai la verità circa il mio onore, T'accorgerai che caschi in grande errore; E che, s'altro furore Ti commosse a parlar di me, parola, Tu menti per la gola. Perciò che se colei, Che del mio mal si pasce, Volgendo altrove i suoi bei raggi ardenti Piangere e sospirar mi fa sovente, Di questo già non nasce Che per te siano a scherno i giorni miei Al mondo; ma la colpa è sol di lei. Dunque, se tu non sei Più, come vuol' a me, crudo avversario, Taciti, temerario. Le sue dorate chiome E i begli occhi lucenti, Che m'arsero e ligar con varii nodi Posson tormi a me stesso in mille modi L'abito e i portamenti, In cui vedem' quanto conforme e come Sia tutto il rest'all'angelico nome, D'ingiurïose some Potran sempre gravarmi e tormi assai; Tu già nulla, né mai. Ma forse occasione Tieni, cercando meco Per introdurci insomma ad altro effetto; Ma depon l'ali del fuggir sospetto, Leva dal veder cieco La benda, o un'altra a me simil ne pone; A te tocca del campo l'elezione. Allora il paragone Ben si potrà veder che in uom che viva Non hai prerogativa. Tu quel che vali e puoi Tutt'in parole e 'n riso, In costumi, in sembianti, in guerra e 'n pace, Di vaga e bella donna alberga e giace; Ma qualora diviso Da questi il tuo poter tu mostri a noi, Vane le fiamme sono e i lacci tuoi, Chiamami ove tu vuoi, Purch'in difesa tua teco non sia L'empia nimica mia. E vedrai dove incorre Chiunque non si misura, E la lingua ha veloce e le man pigre. Intanto l'ocean, l'Eufrate e 'l Tigre Sapran per avventura Come d'obbligazion m'intendo sciorre S'in termin' ch'una volta il sol discorre Il ciel l'impresa a torre Non vieni, o mandi un per te in armi e presto, Ond'abbia il mentitor condegno merto. E per farne altrui certo Io Furore intervenni a tal protesto E a quanto si convien presente e desto; Ed in fede di questo Io Sdegno, ch'ogni ben volgo sossopra, Affermo di mia man quanto di sopra: Di marzo il giorno sesto, Dove albergano insiem Ira ed Orgoglio Con punta di pugnal fu scritto il foglio. [6 Di Cesare Caporali] Armata di quel fuoco e di quel ghiaccio, Che fu discorde in sé nostra natura, Con la sua falce adunca, in vest'oscura, Morte già per ferirmi alzava il braccio. Quando s'accorse il mio corporeo impaccio Esser senz'alma, che già lieve e pura Nel vostro sol, ch'ogni altro sol oscura, La strinse Amor d'indissolubil laccio. Ch'io viva oggi in altrui, né seppi ell'ove, Colma di ira e stupor, quell'empia e ria Tosto rivolse i fieri passi altrove. Cura dunque di me, donna, in voi sia Vivendo sana, se di me vi move, Di conservar la vostra vita e mia. [7 Di Cesare Caporali] Sopra l'uccellare al frascato. Quando scuopre Ciprigna i suoi crin belli Ne l'orïente, e ne promette 'l giorno Prend'io le reti e i prigionieri augelli Per fare a' novi augelli oltraggio e scorno. Fo quasi siepe di più rami e a quelli Tendo l'inganno, e lor pongo d'intorno, Che col fallace canto i più rubelli Scender dal ciel fanno al mortal soggiorno. Non longi entro alle fronde io mi raccolgo, Fo tirando uno stame, un cenno infido Ch'a terra invita quei ch'in aria stanno. Vengon poi: tiro un fune, entro li accolgo, Corro, e qual suol di noi l'empio tiranno, Parte ne fo pregion, parte n'uccido. [8 Di Cesare Caporali] Sopra l'uccellar al boschetto. Poco anzi che col volto e colle brine Porti l'aurora a noi la luce e 'l fresco Cingo d'inganni picciol bosco e 'nvesco Poi mi prescrivo angusto entro confine. E da parti lontane e da vicine Semplici augei con falso metro adesco, E frodi spesso con l'augel rinfresco Di Palla, che di Febo ha in odio il crine. Mostro l'augel notturno a un augel mio Prigioniero, ed ei canta e par che chiami Tal che sia per lo ciel l'aria battendo. Quei non sì tosto ha il pie' sui mortai rami, Che i vanni incauto invesca e cade, ond'io Lo piglio e ancido, e nuova preda attendo. [9 Di Cesare Caporali] Già non d'Africa vint'o soggiogata Né di Yuba, o Farnace, od altri eroi Giran pomposi i temerari tuoi Trionfi, or per via sacra, or per via lata. Ma quando ben vincessi, o che lodata Vittoria, o che dirìan gl'Indi e gli Eoi? Questo crudel, dirìan, sui carri suoi Menò l'afflitta madre incatenata, Con tal' parole d'ira e duol presaghe Roma dolente a pie' del marmo stava D'una vittorïosa alta colonna, E con la man già vincitrice e donna De l'universo misurando andava Nel proprio petto le profonde piaghe. [10 Di Cesare Caporali] Chi può troncar quel laccio che m'avvinse Se ragion die' lo stame, Amor l'avvolse, Né sdegno il rallentò, né morte sciolse; Ma fede l'annodò, tempo lo strinse? Il cor legò, poi l'alma intorno cinse, Chi più conobbe il ben, più se ne tolse. L'indissolubil nodo in premio volse Per esser vinta da chi gli altri vinse. Convenne al ricco bel legame eterno Spregiar questa mortal caduca spoglia, Per annodarmi in più mirabil nodo. Onde tanto legò lo spirto intorno Ch'al cangiar vita fermarò la voglia Soave in terra e 'n ciel felice nodo. [11 di Cesare Caporali] Madrigale sopra lo spinello. Amor, di strali armato Ferìa molti pastor dal manco lato, Quando mosso a pietà l'eterno Giove Di tanta strage e scempio L'armi di man gli tolse; onde quell'empio, Per non dar fine alle sue antiche prove, Ad un bel cespo verde Di bianche rose, ove l'avorio perde, N'andò correndo, e quindi or vibra irato Tante pungenti spine Ch'ogni ninfa e pastor conduce al fine. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°836 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XIII Come si dice a questo tempo d’ora mille trecento cinquantuno e sette, trecento venti tre correva allora. Qui passo a dir le discordie e le sette, di Massenzo, lo qual giá mai non fina 5 di darmi angoscia in fin che meco stette. Qui passo a dirti la mortal ruina che di qua fece di ciascun cristiano e oltra mare ancor di Caterina. Tanto fu aspro e di costumi strano 10 e nemico de gli uomini e di Dio, che certo piú non fu Diocleziano. Ma ora torno a dirti sí com’io abbandonata fui da Costantino, che possedea allora me e ’l mio. 15 Nel mar si mise e tal fu il mio destino, che di Bisanzo un’altra Roma fece e quivi visse e finio il suo cammino. E cosí cadde fra le genti grece l’aquila mia, ch’i’ m’avea notricata 20 mille anni e piú cinquantacinque e diece. Cosí mi vidi sola, abbandonata, ben ch’allora mi piacque; e cosí fui, non cognoscendo il mal, del me’ pelata. Ne l’acqua de la Fé bis fu costui 25 lavato; e, se nel vero non m’annebbio, trent’anni e piú si tenne il mio per lui. Costui licenza di venire a trebbio a’ cristian diede e di far concistoro; e qui fiorio Nicolao ed Eusebbio. 30 Un tempio fece a Pier di gran lavoro ed un altro a Lorenzo tanto vago, ch’assai vi spese d’ariento e d’oro. Apparve allora nel mio grembo un drago, ch’era sí velenoso e tanto crudo, 35 che uccideva altrui sol con lo smago. Silvestro senza lancia e senza scudo, solo col segno de la croce, allora il prese e d’ogni possa il fece ignudo. Dopo costui, il mio rimase ancora 40 a tre suoi figli, ma due funno tali, che poco in signoria ciascun dimora. Qui lasso a dir le gran discordie e i mali ch’ebbon fra loro e quanto funno ingrati in verso me e contro altrui mortali. 45 Per costor vidi i Cristian tormentati ispesse volte e morti a gran dolore e gli Ariani esser su sormontati. Ario fu il primo, onde mosse l’errore per cui giá Cristo appario a Pietro coi drappi rotti e senza alcun colore. Cosí, come odi, ora tornava indietro la nostra Fede e ora innanzi giva, sí come quella ch’era ancor di vetro. Tu vedi bene, per venire a riva 55 del mio parlar, come in breve ti conto ciò che io allora vedeva e udiva. In questo tempo, che ora t’affronto, si portâr l’ossa di Luca e d’Andrea dov’è la mia soror sopra Ellesponto. 60 In questo tempo Donato vivea, che de le sette, in sí breve volume, l’uscio ci aperse a la prima scalea. Questi tre figli, de’ quai ti fo lume, Costantino, Costanzio e Costante, 65 nomati fun da le paterne piume. Venti quattro anni in questo bistante tennon lo ’mperio e quel che men mi spiacque fu Costantino, che piú visse avante. Seguio apresso Giulian, che nacque 70 d’un zio di loro, a governare il mio, il qual trentadue mesi su vi giacque. E di costui questa novella udio: che poi che da Sapor fu vinto e morto, che ’l cuoio dipinse per gran sdegno e rio. 75 Sagace fu e in arme assai accorto; ma troppo fe’, per quel che si ragiona, sopra la nostra Fé gravezza e torto. Gioviano, apresso, tenne la corona da sette mesi e, se ’l tempo fu poco, 80 nondimen lodo assai la sua persona. Cristiano fu e fuggí come il foco ogni scommettitore, ogni discordia, e pace disiava in ciascun loco. Seguita ora, ne le mie esordia, 85 Valentino, che, quanto a lui bisogna, ben seppe menar guerra e far concordia. Certo io credo ben che quando il sogna, per la paura, sí forte il percosse, che tutto trema ancor quel di Sansogna. 90 E mostrato averebbe le sue posse maggiori assai, in Pannonia dico, se la morte, che l’assalio, non fosse. Quattro e sette anni mi fu buono amico. |
Post n°835 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) X [1 Di Borso Arienti] Sonetto del signor Borso Arienti Mentre noioso fren mi tien lontano Dall'alma luce, che il mio cor conforta Non può legarsi il pensier che mi porta Dinanzi a lei ch'ogni mia sorte ha in mano. Onde vagheggio il bel sembiante umano E con lei parlo, e ne la fronte smorta Le mostro quanto duol l'alma sopporta Lungi, e le bacio indi la bella mano. Così diletto e gioia l'alma elice Da sé medesma col pensier non lasso Di sempre figurarla a parte, a parte. E ben fora ella in ciò paga e felice, Se non ch'a me tornando, veggio, ahi lasso! Quant'aria dal bel viso mi diparte. [2 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Amor che fa la donna nostra, quella Ch'è mio sol, gloria tua, stupor del mondo, Quella che coi begli occhi e 'l bel crin biondo Ti somministra face, arco e quadrella; Quella, ch'arde altrui 'l cor quando favella Ch'inalza l'onestà già posta al fondo; Quella a cui ogni stil fora secondo E sopra ogni altra è saggia, e sola, e bella? Ben vegg'io da lontan col mio pensiero Che sproni e giri i begli occhi e le chiome Ond'io n'ho preso, e tu se' adorno e altero. Ma non ho poi spedite a volar come Tu l'ali, e per me cosa altra or non chero Pur che le piaccia ch'io l'adori e nome. [3 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Per fuggir queste larve e questi mostri Che mi stan sempre intorno e affliggon tanto Che ormai si sface il cor per doglia in pianto E non è chi pietà pur le dimostri. Per ritrovar chi de' superni chiostri Mi conduca al sentier riposto e santo E mi consoli e doni aiuto intanto Ch'il dorso io franga a questi draghi e mostri. Hor peregrino, e sconsolato, e grave; Né fatica m'affanna, o mi sgomenta Per selve ombrose e solitari poggi. All'ombra, al sole, in ogni parte là ve O il raggio miri, o la sua fiamma senta Cerco il mio sole, e spero vederlo oggi. [4 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Già non potete voi, donna, sanarme Perché mercede al cor finta si porga, Che dalla mano ond'è che passi e sorga Quanto in suo regno Amor di ben può darme. Quella m'avventò al cor foco e per arme Usola il crudo, indi il mio ben risorga, O cada in tutto a pena, e duol mi scorga Celata, o aperta pur cerchi quetarme. Però ch'è ben ragion, né posso altro io, Ch'indi s'aquieti il core, onde guerra ebbe Ogn'altra medicina, e poca, e tarda. Ardi' fu il colpo suo sì dolce e rio Che ben che pera il cor, nulla gl'increbbe E brama ond'ognor più s'impiaghi et arda. [5 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Ti sei pur dunque tant'oltre avventata Con le cerasti tue, furia d'Averno, Che la mia primavera hai volta in verno E m'hai la donna mia, lasso, rubata. Sfinge crudel, idra a latrar dannata Ch'hai gli altrui pianti a tuo diletto, a scherno; Drago che fischi, e spiri, e vomi eterno Nebbia e bile a turbar gli amanti nata. Per te più che aspe è sorda, e fugge, e asconde Quella i begli occhi a cui fui car' amante, Or vile, ond'io non spero aita altronde. Se non se', morte, altrui buia in sembiante, A me non già mi rape e mi seconde E del suo dolce oblìo m'asperga e ammante. [6 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Luce degli occhi miei, pura e celeste, Che quasi novo sol, novo anno apporti, Ond'hanno e i giorni chiari, e i suoi conforti Pur le mie notti tenebrose e meste. Cessino hormai le nubi e le tempeste Tante, e lo splendor torni e i color smorti Qual di fior già dal verno secchi e morti Or verde poggio si ricopre e veste. Così il ciel serbi quel soave raggio Del sole, ond'io son vivo, e tu sì bella Et egli ha in noi sembianza eterno e aperto. Ogni amante, ogni stil ti renda omaggio T'adori, e quel che in altra orgoglio appella Chiami poi ch'è divinitate e merto. [7 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Già radunava l'ultime tremanti Stelle l'aurora con le mani eburne E lieve sonno alfin dopo gran pianti Chiudeami gli occhi, e l'ore aspre e notturne. Quando deposti i suoi crudi sembianti Con le luci alle mie notti dïurne M'apparve il mio bel sol: e perché tanti Sospir, disse, Versar si dogliose urne? Poscia coi bei rubin bacio gentile, Di castitate e di pietate adorno M'impresse, ond'anco refrigerio sento. E col crespo oro fin nobil monile Mi cinse al collo, ch'anco porto intorno E partendosi lui rest'io contento. [8 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Ragion è ben ch'io arda e che non trove Refrigerio al dolor che mi disossa Dall'alma luce mia lungi, che mossa Dal vel rugiada nel mio foco piove. Tu che non vuoi, signor, ch'io volga altrove L'afflitto cor, né credo anco ch'io possa; Dammi, ond'io possa quinci e rotta e scossa La catena in ch'io son mirar' le nove Sue forme e il vivo lume, e il dolce guardo Ch'è scorta, e sole a le mie notti e al ghiaccio, Onde senza di lei vo cieco e carco. Fammi contro il rio fren lieve e gagliardo Se per tuo onor, se per mio ben non taccio E la strada mi sgombra e mostra il varco. [9 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Tra questi ombrosi pini, ove riposta Spelonca fanno con trecciati rami Verdi ginepri, e par che l'aura chiami Il pellegrino alla fresch'ombra ascosta. Colei che fu dal ciel scelta e proposta Perch'io l'adori sempre, e tema e brami, Mi torna innanzi, e alla sinistra costa M'impiaga e trammi il cor co' suoi dolci ami. Ed io la prego, e s'io mi lagno e grido Non val che ne la man tinte di sangue Sen' porta il cor, che l'è sì pronto e fido. E s'indi surgo e pur rinforzo il grido L'alma in sé stessa torna e a doppio langue Scorgendo tutto del suo core il nido. [10 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Caro mio sguardo, or che volèi tu dirme Mentre così pietoso e così mesto Tra il nero manto e il puro avorio desto Veniste il cor di nova piaga aprirme. Sai pur che l'ardor mio per più ferirme Non cresce oltre lo stral primo et infesto Et or non sol non ho crudo e molesto; Ma non può fuor che lui dolce venirme. In tanto vostro duol dolermi anch'io Qual' non vil servo e vero amante deve Posto, e ben sallo Amor, donna, s'io ploro. Ché s'io potessi il mio caldo desio Giungere a riva, tornerebbe in breve L'ostro a la guancia, e al crin l'ambra e il dolce oro. [11 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti All'apparir del volto, onde da pria Taciti entraro al cor, che langue e geme, Dolor, timor, pietà, sdegno, odio e speme Da cui io creda mai sicur non fia. L'alma in membrar di lui sé stessa oblia, Spera, arde, osa, chier' pace, e gela, e teme, E tante ella ha varietati insieme Che non è vita più penosa e ria. Ahi! crudo Amor, arse il cor dunque et arse Dolce e lieto finor perch'abbia in pene Tra gelo e foco a incenerir eterno? Oh! brevi gioie, e fuggitive, e sparse, Chi l'aggiunge, o l'aduna, o le ritiene? Quanto instabile è, Amor, il tuo governo! [12 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Lungi dal mio bel sol questa contrada, Che m'era già lucente, atra mi sembra, E notte, e morte, e inferno mi rimembra Tutto che più m'affligge e meno aggrada. Lasso! che far non so, né dove io vada, Che intoppa sempre queste afflitte membra E sento ove il pie' volgo un che mi smembra Tal ch'alfin converrà ch'io pera e cada. Torna dunque, o mio sol, torna, e m'adduci Quel bel sembiante onde i miei spirti han vita E fa ch'io veggia le sue chiare luci. Al proprio albergo omai l'alma smarrita Col vicin raggio tuo dolce riduci Ch'altronde altra, e tu 'l sai, non haggio vita. [13 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Da mille pianti e mille prieghi vinta, Pur volle alfin l'innamorata Clori In seno a un prato d'amorosi fiori Darsi in poter del fortunato Aminta. Poi d'un color di rose asperta e tinta, Sdegnosetta e tremante apparve fuori Allor che vide i suoi perfetti onori Quasi novella vite ad olmo avvinta. Risero l'erbe a quel felice incarco, E parea che d'intorno invido il vento Portasse irato quei focosi baci. E quando Amor, già stanco, allentò l'arco Un augellin a l'alte gioie intento Disse al pastor cantando: or godi, e taci. [14 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Basciami, ed ogni bacio duri quanto Dura il desìo che di basciarti porto; Così basciami ancor, basciami tanto Che 'l desìo del basciar resti a mi morto. E se questo basciar ti sembra corto Fa ch'ogni bacio sia lungo altrettanto, Indi il raddoppia, e come il vedi scorto Presso il suo fin, destane un altro intanto. Non abbia il basciar nostro ordine, o modo; Non abbia fin; moriam, ben mio, basciando, Che sol quand'io ti bascio ho pace e gioia. Ché gioia ha Amor senza basciarti? E quando Senza bacio è diletto? In altro modo Non so come vivendo uom dolce moia. [15 Di Borso Arienti] Di Borso Arienti Musa, che ascosa e solitaria vivi Tra questi verdi piaggie e verdi boschi, Onde i miei dì di morte pieni e foschi Molti sovente ebbi sereni e vivi. Musa, che meco un tempo i dì partivi Gli aspri assenzi temprando e i crudi boschi, Ch'Amor, fortuna e ingegni sordi e loschi Poser tra quei piacer che tu nodrivi. Deh! poiché già gran tempo iniquo fato Ne tolse i nostri allor dolci diporti, Musa, omai torna a questo sconsolato. Homai col tuo son dolce anco i conforti Mi riconduci, Musa, e 'l primo stato, Musa, che pace sempre e gioia porti. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°834 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°833 pubblicato il 16 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XII Quando i miei danni e le cagion rimembro, veracemente dir non ti saprei quanto dolor sopra dolore assembro: onde, se pianger vedi gli occhi miei e hai rispetto a quel ch’a dir ti vegno, maravigliar per certo non ti dèi. Colui ch’or segue, che tenne il mio regno, fu ’l Magno Costantin, che, sendo infermo, a la sua lebbre non trovava ingegno, quando Silvestro, a Dio fedele e fermo, partito da Siratti e giunto a lui, sol col battesmo li tolse ogni vermo. E questa è la cagion, per che costui li diede il mio e tanto largo fue: benché contenta molto allor ne fui, ch’i’ pensava fra me: se costor due saran, com’esser denno, in un volere, temuta e onorata sarò piue. Per ver ti giuro ch’io credetti avere sí come il ciel, qua giú la luna e ’l sole e starmi in pace e con essi a godere. Ma colei che ci dá speranza e tole e che gira e governa la sua rota non come piace a noi, ma ch’altrui vole, la mia credenza ha fatto di ciò vôta, come ben può veder, a passo a passo, qual il mio tempo digradando nota. Ond’io accuso, quando ben compasso, il lor mal fare, per l’una cagione per la qual son caduta sí a basso. L’altra dir posso natural ragione, perché ogni cosa convien aver fine in questo mondo, che mortal si pone; la terza, le mie genti cittadine vivute senza fede e senza amore, 35 punte d’avare e invidiose spine. Piú potrei dir, ma se tu poni il core al ver di queste tre, vedrai per certo ch’esse radice son del mio dolore. E cosí t’ho mostrato e discoperto 40 quel di che mi pregasti tanto chiaro, che quasi il dèi, com’io, vedere aperto". Qui si taceo e mai non lacrimaro occhi di donna lacrime sí spesse, come i suoi quivi il viso bagnaro. 45 E quale è sí crudel che si potesse veggendo la pietá del suo gran pianto, tener che ’n su quel punto non piangesse? Non credo un serpe, c’ha il cuor cotanto acerbo; ond’io non fui allor sí duro, 50 ch’apresso lei non lacrimassi alquanto. Ma poi che ’l pianto suo amaro e scuro vidi allenar, parlai per questo modo, pieno d’angoscia, reverente e puro: "Io ho sí ben legato a nodo a nodo 55 ne la mia mente ciò che detto avete, ch’a pena una parola non ne schiodo. Vero è, madonna, ch’una nuova sete m’è giunta, poi che cominciaste a dire di quei signor, coi quai vivuta sete. 60 E questo è solo di volere udire de gli altri, i quali il vostro governaro, sí come den per ordine seguire. Onde con quanto amor può figliuol caro a la sua dolce madre mover preghi, 65 vi prego che per voi qui ne sia chiaro, a ciò che s’ello avièn che giá mai freghi la penna, per trattar di questa tema, che i nomi lor co’ nominati leghi. Ché noi veggiam che quando un’opra è scema, 70 che sia quanto vuol bella, l’occhio corre pur al difetto che la mostra strema. Ma quando è sí compiuta, che apporre non vi si può, allora si vagheggia e qual cerca vederla e qual riporre". Ond’ella mi rispuose: "Ben che veggia ch’esser non può la cosa mai perfetta, che manchi o che sia piú ch’esser non deggia, io sono tanto dal dolor costretta, che gran pena mi fia giungere al segno, 80 dove a me pare che ’l tuo arco saetta: ché vo’ che sappi che quanto piú vegno, parlando, verso il tempo ch’or ne cinge, che piú con pianto mi cresce disdegno. Ma pure il prego tuo tanto mi stringe 85 e ’l dover, poi, per la ragion che hai mossa, che nel mio cor verace si dipinge, che presta son, secondo la mia possa, oltra seguire e ricordar coloro per li quali fui piú e men riscossa, 90 secondo che vertú regnava in loro. |
Inviato da: cassetta2
il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50