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Messaggi del 17/12/2014

Il Dittamondo (2-17)

Post n°845 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XVII

Tu dèi imaginar che Dio è tale 
che sempre rende altrui del ben far bene 
ed, e converso, cosí del mal male. 
Dopo Mauricio seguita che vene 
Focas, il qual se contro a lui fu rio, 5 
bontá di Prisco, alfin, ne portò pene. 
Ma pria de la sua morte, dir udio 
che ’n Persia era ito e tornato sconfitto 
e che perduto avea assai del mio. 
Otto anni tenne l’onor ch’io t’ho ditto; 10 
apresso lui Eraclio col figliuolo 
l’ebbe tra mano: e questo assai fu dritto, 
perché in Persia passò con grande stuolo, 
lá onde trasse la croce di Cristo, 
e fenne a Cosdroe sentir grave duolo. 15 
Sergio, monaco doloroso e tristo, 
visse in quel tempo e fu Macometto, 
che profeta s’infinse al male acquisto. 
Un anno e trenta costui tenne stretto 
lo ’mperio mio; al fin, come Dio volse, 20 
idropico morí sopra ’l suo letto. 
Seguita Costantino, lo qual tolse 
ogni mio caro e ricco adornamento 
e portò via: di che forte mi dolse. 
E fe’ morire, il tristo, a gran tormento, 25 
papa Martino e se di lui mi lagno 
ragione è ben, perché ’l danno ancor sento. 
In Cicilia costui, dentro ad un bagno, 
da’ suoi fu morto, sí poco l’amaro: 
quattro anni tenne me e ’l mal guadagno. 30 
In questo tempo i Franceschi passaro 
in Lombardia sopra a Grimoaldo, 
dove el fe’ sí che ’l ber costò lor caro. 
Un altro Costantin, costante e saldo, 
cattolico e modesto, venne apresso, 35 
figliuol di quel che fu al mal sí caldo. 
E come seppe che ’l padre era messo 
a morte per Mezenzio e per li suoi, 
cosí ne fece la vendetta adesso. 
Li Saracini non molto da poi 40 
passâr su la Cicilia e tal fu ’l danno, 
che lamento ne venne qua fra noi. 
Apresso questo, dopo molto affanno, 
Costantino co’ Bulgari fe’ pace, 
che in vér levante al fin d’Europa stanno. 45 
Di lodarti Cesarea qui mi piace, 
che s’ascose al marito e mai nol volle: 
si fe’ cristian, con ciascun suo seguace. 
E se ’l tempo, ch’è lungo, non mi tolle 
lo rimembrar, diciassette anni tenne 50 
lo mio signor l’onor, ch’è or sí molle. 
Giustiniano seguita, che venne 
prudente, largo e tanto temperato, 
che de l’altro di sopra mi sovenne. 
Sicuro in arme l’avresti trovato, 
accrescitore de la nostra Fede, 
vago di darmi pace e buono stato. 
Ma perché veggi come poco vede 
colui che ha piú di questa nostra gloria, 
se propia madre la fortuna crede, 60 
quel che dirò redutti a la memoria, 
però ch’al tempo d’ora molto spesso 
parlar si può di somigliante storia. 
A questo mio signor, ch’io dico adesso, 
Leo patricio, con danno e vituperio, 65 
lo regno tolse e confinollo apresso. 
Similemente ancor fece Tiberio: 
e cosí il traditor con forza e frodo 
tre anni apresso governò lo ’mperio 
e Tiberio, poi, sette; ond’io n’annodo 70 
diece, in prima che avvenisse il caso, 
che fu sí giusto, che Dio ancor ne lodo. 
Dico: Giustinian, ch’era rimaso 
col suo cognato, tanto aiuto n’ebbe, 
che su tornò e vendicò il suo naso. 75 
E tanto a la vendetta costui crebbe, 
che morir fe’ quanti erano in Cersona, 
se non che pur de’ pargoli gl’increbbe. 
Da sedici anni tenne la corona 
in fra due volte e in Costantinopoli 80 
alfin perdeo col figliuol la persona. 
Se quel che or vedi e io ti dico copoli, 
conoscer puoi che sempre in pianto fui 
che ’mperador è stato d’altri popoli. 
Miracol fece, al tempo di costui, 85 
Beda, sí che l’udiron padri e mamme, 
dove tra i monti predicava altrui: 
ché le gran pietre e le altre come dramme, 
quando fu giunto al fin, dove si dice 
in saecla saeculorum, gridâr amme. 90 
E se pur oltra de la gran radice 
debbo trattar, Filippo apresso venne 
eretico, cattivo e infelice, 
il quale il mio un anno e mezzo tenne.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XIV-1)

Post n°844 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XIV

[1 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato. Alla signora Lucrezia Letitia senese.

Donna, ch'oltra la Scithia, oltra l'Egitto
Spargi de l'opre tue la fama e 'l grido,
Mentre lontana al cieco volgo, infido
Segni calli di gloria eccelso e dritto.

Amor, che vincer puote animo invitto.
Poi ch'ha ne' suoi begli occhi il seggio e 'l nido
Onde fa scorno Etruria a Cipro, a Gnido
Così nel petto mio ferendo ha scritto.
Lucretia, per cui l'arbia il letto ha d'oro,
Con sue bellezze in terra uniche e sole,
Superbe al carro mio spoglie ministra.
Ella, che ornato il crin d'eterno alloro
Riluce intorno al paragon del sole,
È di sacra virtù figlia e ministra.

[2 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato. Al signor Borso Argenti.

 

Argenti, che d'onor fregiato, e vago
Di viver dopo morte, al senso imperi
E i sacri d'Elicona erti sentieri
Scorri con l'intelletto altero e vago,
Deh forma poetando eterna imago
Di lei, ch'umilia i cor' selvaggi e fieri,
E potrìa serenar cento emisferi
Col sol ch'ha ne la fronte illustre e vaga.
Nova Lucretia, che con puro oggetto
Ben par che tanto lampeggiando s'erga
Che talor Febo ne riceva ingiuria.
Ne l'onorato suo candido petto
Pellegrine virtù cortese alberga,
Che fan superba a meraviglia Etruria.

[3 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

Già sette lustri neghittosa, oscura,
Nel carcere mortal dormito ha l'alma,
Or la risveglia e sprona illustre ed alma
Beltà, ch'ogni altra più famosa oscura.
Nova Lucretia, che sol brama e cura
D'acquistar ben oprando alloro e palma,
M'erge, sottratto a miserabil salma
A la superna providenza e cura.
Nel mirar gli occhi avventurosi, alteri,
Onda mi sembra un Mongibello il core,
In grembo a la virtù m'affino e tergo.
Per lor che fiano eterna esca d'Amore
Avviene a gran ragion ch'io crida, e speri
Lasciar più cigni glorïosi a tergo.

[3 Di Diomede Borghesi]

In questo sonetto, nel quale si toccano delle opinioni Platoniche, si mostra quanto sia utile, e quanto onore sia risultato e risulti all'autore dell'avere conosciuto l'eccellenza delle bellezze della divina signora Lucrezia Senese. Et l'aver tolto affettuosamente a servirla et a venerala.

[4 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato.

 

All'eccellentissima signora donna Marfisa d'Este Cibo.

 

Né lungo l'arbia mia, nobil, gioconda,
Né di Brenta sui campi, o d'Adria in seno,
Né sul felice, illustre, almo terreno,
Che 'l sacro Tebro riverente innonda,
Né d'Arno in su l'aprica, altera sponda,
Né vicina al Sebeto, a l'ambro ameno,
Né presso a l'umil Serchio, al picciol Reno,
Né dove più d'onor l'adige abbonda,
Né di Taro a le rive ornate e chiare,
Né dove corre la tranquilla Secchia,
Né dove il Mincio si trasforma in lago,
Vera bellezza in alcun volto appare
Quanto nel viso tuo leggiadro e vago,
Nel qual meravigliando il Po si specchia.

[5 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

Quand'io presi a cantar superba, altera
Donna, che 'l cor mi strinse e 'l fianco aperse,
E l'alma accesa in grave doglia immerse
Sovra il corso mortal rigida e fiera,
Mi parve amica a l'honorata schiera
Ch'altrui lodando in rime ornate e terse,
Che non saran giamai di Lete asperse
La sua propria virtù conserva intiera.
Ma poi ch'a certa prova io veggio e scorgo
Ch'ella schernisce chi scorrendo il giogo
Va di Parnaso, e d'alta gloria è vago,
Spenta l'indegna arsura, e rotto il giogo
Questi versi a Vulcan dispenso e porgo
Ch'han d'ombra di beltà formata imago.

[5 Di Diomede Borghesi]

L'autore prese a servire et a celebrare donna, la quale in principio mostrando di prendere in sommo grado d'esser cantata da lui, a poco, a poco li diede a divedere ch'essa non pregiava punto i suoi componimenti. Intendendo egli finalmente per lettere di suoi amici ch'ella indegnamente biasimandolo e schernendolo cercava d'avvilirlo, pien di nobile sdegno diede al fuoco tutte quelle rime, nelle quali era con eccellenti lode non volgarmente esaltata la ingratissima femmina.

[6 Di Diomede Borghesi]

Diomede Borghese

 

Diserte rive, alpestri monti e rupi,
Piagge disabitate e colli incolti,
Solitarie campagne e boschi folti,
Riposte valli, ed antri ombrosi e cupi,
Orsi, tigri, leon(i), serpenti e lupi,
Squamosi pesci, augei liberi e sciolti,
Notte che forse il mio lamento ascolti,
Mentre la terra e il mar co' l'ombre occupi.
Erbe, fior, dumi, fonti, arbori e pietre,
Fauni, Oreadi, Amadriadi e Glauco e Dori,
Zeffiro e Cintia ad oltraggiarmi avvezza,
S'a voi cal' de' miei gravi, alti dolori,
Pregote, Amor, che pur m'ancide, o spetre
Del vivo scoglio mio l'aspra durezza.

[7 Di Diomede Borghesi]

Poiché repente un generoso sdegno,
Amor, malgrado tuo, disciolse il nodo,
Ond'io legato in doloroso modo
Ebbi me stesso alcuna volta a sdegno,
Fuor del tuo nequitoso, ingiusto regno,
In dolce libertà lieto mi godo
E l'ora e la stagion ringrazio e lodo
Ch'io fui sottratto a l'aspro giogo indegno.
Donna vil, che rabbiosa orsa crudele
Nel cor simigli, e qual Medusa ....
Col guardo in pietra i semplicetti amanti,
Non sarà più cagion ch'aspre querele
Io sparga al vento fra sospiri e pianti
Vergogna e danno a procacciarmi ....

[8 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

Quella, che già mi parve altera luce
Sol d'alme glorïose altero oggetto,
E mirabil d'amor pregio o diletto
Noiose e gravi a i cor tenebre adduce.
Io tolsi, o SDEGNO, al sacro monte in duce
Donna, ch'è scorta da volgare affetto;
E 'l suo nome illustrai fosco e negletto
Tal che tra i più famosi oggi riluce.
Colpa d'amor, che l'intelletto e gli occhi
M'addombrò lusingando, e poscia a forza
Cader mi fece a lagrimosa rete.
Ma perché tu mi presti ardire e forza,
Ond'io pur freno i van desiri, o sciocchi,
L'altrui falsa beltà ripingo in Lete.

[8 Di Diomede Borghesi]

L'autore haveva tolto a servire e celebrare donna, nel giudicare i meriti della quale s'era forte ingannato. Finalmente aiutato da nobile et generoso sdegno a conoscerla, et riconoscere sé stesso, s'era in diversa maniera ad annullare tutti quegli honeri, che gli haveva procurato con la penna, et ciò fece particolarmente mutando e trasformando alquante rime, che erano state composte ad esaltazione di lei.

[9 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

Poich'ha leggiadro avventuroso sdegno
Disciolto il fiero e miserabil nodo
Che mi legò pur dianzi e strinse in modo
Ch'avrò mai sempre un tal servaggio a sdegno:
Fuor d'ingiusto amoroso acerbo regno
In dolce libertà lieto mi godo,
E l'ora e la stagion ringratio e lodo
Ch'io fui sottratto al grave giogo indegno.
Donna, che sia di core aspra e selvaggia
Qual tigre hircana, e qual Medusa colga
Misero spirto ad hora, ad hora in sasso.
Non farà più ch'a duro laccio io caggia;
E 'n tutto di ragion orbato e casso
Tormento e scorno a procacciar mi volga.

[10 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

Damma seguir ch'ognor veloce fugge
Sperar di render molle hircana tigre,
Creder placar leon ch'irato rugge,
Versar novo per gli occhi Eufrate, o Tigre,
Neve bramar che 'l cor m'incende e strugge,
Cercar due luci ad oltraggiarmi impigre,
Nel sen ch'angue crudel m'attosca e fugge
Ricettar voglie al bene inferme e pigre.
D'opere illustri aver dispregio e biasmo
E tanto esser avvezzo a guerra, a lutto,
Che già del mio languir più non m'incresce.
È d'amor cura, ond'io m'adiro e 'l biasmo,
E poi che è tal di sua radice il frutto
Lo schivo e ratto mi procuro altr'esca.

[11 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

S'egli avverrà che dia cortese e largo
Dopo la morte mia vivere alquanto,
L'alato vecchio a quel ch'io scrivo e canto,
Mentre a' sospiri ardenti il freno allargo,
La terra, il mare udrà ch'empio letargo
M'offende; udrà ch'io mi distillo in pianto
E bramo, per mirar fera che 'l canto
Schernisce il mio dolor, cangiarmi in Argo:
Udrà che 'ngombro Amor d'alto disdegno,
Mi fa seguir per calle aspro e selvaggio
Zoppo cursore una veloce dramma.
E forse fia che dal mio stratio indegno
Apprenda spirto valoroso e saggio,
Chiuder il petto a l'amorosa fiamma.

[11 Di Diomede Borghesi]

L'autore haveva inconsideratamente preso a servire et a celebrare donna, la quale, o per soverchia alterezza, o per accidental cagione si beffava di lui, e delle sue compositioni.

[12 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese Svegliato Intronato

 

Dunque non feci un grave oltraggio al vero
Biasmando lei, che 'n varie guise ognora
Lo steril prato del mio ingegno infiora
Con dolce sguardo, fiammeggiante, altero.
Carca di gloria al ciel drizza il pensiero
Madonna, e sol quà giù virtute onora;
Per lei riluce Apollo, e strali indora
A mille, a mille il pargoletto arciero.
Lasso! in qual parte avrà fido ricetto
Un, ch'è d'amor nemico; in odio al sole,
Rubello di virtute, in ira al cielo.
Ahi! che mi pose intorno a gli occhi un velo
Megera, e ministrò sensi e parole,
E carta e 'nchiostro dispensommi Aletto.

[12 Diomede Borghesi]

Mostrasi il doloroso pentimento ch'ebbe l'autore d'havere (colpa di cieco e malvagio sdegno) biasimata in alcune compositioni bella et gentilissima donna, la qual fia sempre da lui, come cosa divina, affettuosamente lodata et devotamente honorata.

[13 Di Diomede Borghesi]

Di Diomede Borghese per l'istessa signora Contessa di Scandiano.

Per lo fin' or de la tua chioma i' giuro,
E per le guancie tue ch'Aprile infiora
Ch'Euterpe a celebrar' atta non fora
Te, cui non preme affetto egro ed impuro.

Da tuoi begli occhi un raggio ardente e puro,
Ond'è ch'ancho per fama uom' s'innamora,
Lampeggia sì che 'l sole, ad ora, ad ora
Altrui rassembra tenebroso e oscuro.
E da i rosati labri alma reale,
Ch'oggi col tuo valor Ferrara indori,
E le cui grazie SOLE ONORA il mondo.
SANTA spira soventi aura VITALE,
Che di rara dolcezza ingombra i cori
E rende il nostro ciel chiaro e giocondo.

 
 
 

Il Dittamondo (2-16)

Post n°843 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti
LIBRO SECONDO

CAPITOLO XVI

Qui di Giustinian segue ch’i’ debbia 
trattare, il quale Agabito ridusse 
a luce fuor d’ogni eretica nebbia. 
Per costui piacque al sommo Ben ch’io fusse 
alquanto ristorata de’ miei danni, 5 
quando il buon Bellisan con lui produsse, 
lo qual con molti, lunghi e gravi affanni, 
Africa, Persia e Alemagna mise, 
Francia e Cicilia, di sotto ai miei vanni. 
E fu Narseto ancora, il quale uccise 10 
Totila e scampò me del grande assedio, 
dove la fame quasi mi conquise, 
e fe’ morire, dopo lungo tedio, 
Amingo; e Vindino tenne preso; 
poi contro a Buccellin fu mio rimedio. 15 
Ora, se il parlar breve hai ben compreso, 
intender puoi che per Giustiniano 
in parte il mio fu riscosso e difeso. 
Costui ridusse in bel volume e piano 
la legge, com’è il Codico e ’l Digesto, 20 
e strusse quanto in essa parea vano. 
Ancora vo’ che ti sia manifesto 
che per Italia fu sí crudel fame, 
ch’impossibil ti fie a creder questo: 
che io vidi le madri in tante brame, 25 
che gustavan la carne de’ lor figli, 
sempre piangendo lor dolenti e grame. 
Otto anni e trenta governò gli artigli 
a l’uccel mio, il becco, l’ali e ’l busto, 
e trasse me piú volte de’ perigli. 30 
E tanto fu prudente, forte e giusto, 
ch’ancora il piango, sí di lui m’increbbe. 
Giustin minor del mio rimase Augusto. 
Lo mal consiglio de la donna ch’ebbe 
condusse allor Narseto a ordire cosa, 35 
che apresso per mio danno molto crebbe. 
Non molto poi Rosimonda, sposa 
d’Albuin re, per lo soperchio sdegno 
morir fe’ lui e fuggissi nascosa. 
La fine sua, partita dal suo regno, 40 
sannola i Ravignani e io in parte, 
ch’essa morio per suo malvagio ingegno. 
Bello è saper chi fu e di qual parte 
Albuin venne e udire la cagione, 
secondo che n’è scritto in molte carte; 45 
chi fu Ibor e chi fu Agione, 
chi fu Gambara e poi come nel fiume 
Agismondo trovò Lamissione. 
E bel ti fie veder questo volume 
per Teodolinda, ch’al Battista in Moncia, 50 
com’ancor pare, fece onore e lume. 
Ma se costei fu buona a oncia a oncia, 
di Romilda, se leggi le novelle, 
nel contrario saprai quanto fu sconcia. 
Due figlie ebbe la trista molto belle, 55 
che, per fuggir vergogna, si pensaro 
coprir di carne morta le mammelle. 
E se de’ corpi lor l’onor guardaro, 
per la gran loda, e come piacque a Dio, 
dov’era crudeltá pietá trovaro. 60 
In questo tempo ragionare udio 
come l’Ermino ne la fe’ di Cristo 
multiplicava e cresceva il disio. 
Con buona pace e con perfetto acquisto 
sarei vissuta al tempo di Giustino, 65 
non fosse stato il mal consiglio e tristo. 
Undici anni il mio tenne al suo dimino; 
poi per Tiberio governar lo vidi 
acceso e caldo ne l’amor divino. 
Or perché sempre nel ben far ti fidi 70 
e propio aver compassion del povero, 
questo miracol fa che in te s’annidi. 
Costui, ch’a tutti fu padre e ricovero, 
trovò tre croci e di sotto da esse, 
come Dio volle, tesor senza novero. 75 
Sette anni il mio governò e resse 
e certo questo tempo mi fu poco, 
sí mi piacea ch’ancora piú vivesse. 
Mauricio poi venti anni tenne il loco 
e al suo tempo funno fiumi e laghi 80 
tai, per Italia, che non parve gioco. 
Bestie, serpi, serpenti e morti draghi 
al Tever portar vidi; e fu in Verona 
l’Adige tal, ch’assai vi fun gli smaghi. 
Questo signor, del quale si ragiona, 85 
facendo guerra e non pagando i suoi, 
per cotal fallo perdé la persona. 
Assai di cosí fatti nomar puoi, 
che, per tener soldati e non pagare, 
sono iti male e propio ne’ dí tuoi. 90 
Ahi, quanto ancor mi duole a ricordare 
i grandi e belli e sottili intagli 
i quai Gregorio allor mi fe’ disfare! 
E duolmi ancor che con lunghi travagli 
erano compilati piú volumi 
dei miei figliuoli e di miei ammiragli, 
ne’ quali il bel parlare e i bei costumi 
e l’ordine de l’armi eran compresi 
sí ben, ch’a molti, udendo, facean lumi, 
che la piú parte fun distrutti e lesi 100 
per questo Papa; e se ’l pensier fu bono 
non so; ma pur di ciò gran doglia presi. 
Cosí da Cristo in qua venuta sono, 
parlando teco, in fine a secento anni, 
abbreviando ciò ch’io ti ragiono 105 
per te ch’ascolti e perch’io men m’affanni.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XIII)

Post n°842 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XIII

[1 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del signor Cesare Cremonini nella pace ch'egli fece con la sua donna, che da lui aveva preso isdegno.

Quando mio sol in nube empia di sdegno

Ti nascondesti, e furo a me contese
Le luci onde solevi almo e cortese
Portarmi il giorno, e fecondar l'ingegno,

Io mi rimasi in tenebroso regno
D'un tristo orror, che ratto al cor s'apprese,
Rinchiusi i dolci carmi, e non s'intese
Da me se non garrir noioso indegno.

Or che sgombrando il rio nembo importuno
Dalle temute folgori, m'affidi
E mi prometti la stagion dei fiori,

Qual serpe uscito ai rai graditi e fidi
Mi ritrovo, e purgato il sozzo e 'l brano,
Canterò con tre lingue i tuoi onori.

[2 Di Cesare Cremonini]

Madrigale del signor Cesare Cremonini alla sua donna, che baciando una statua si ruppe un labbro.

La novella ferita
Di quel labbro vezzoso
Se nol sapete, o bell'angelo mio,
È castigo amoroso,
Baciar voi dunque un marmo e di desìo
Lasciar crudel che si dilegui un core?
Così l'ire d'Amore.
Imperïose prova e fulminanti
Bocca che bacia i sassi e non gli amanti.

[3 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del signor Cesare Cremonini ne le maniere che si de' baciare.

Non come amante, o Iele, unqua mi baci
Se non mi uccidi ad ogni bacio, il core,
Che non bacian quei baci ond'uom non muore
Anzi pur vanamente han nome baci.

Quel baciar baci languidi e fugaci
Non è 'l baciar ch'ha istituito Amore;
Vuol ei che i baci suoi prima di fuore
E s'impriman ne l'alma acri e mordaci.

Giungere labbro a labbro e leggermente
Formar un bacio insipido e gelato
È un bacio fanciullesco, un bacio esangue.

Se non pugnan le lingue, il baciar langue
E quei sol bacio è d'amator ardente
Ch'è bacio da nemico e bacio irato.

[4 Di Cesare Cremonini]

Madrigale del signor Cesare Cremonini.

Non sopra giaccio Aprile,
Ma lieti e vaghi fiori,
O bellissima mia cruda Licori,
Deh! come avvien che per mia dura sorte
Cangi suo stil natura,
E sua natura il cielo?
Poi che le rose e 'l gelo
Miro in te sola, e solo in te discerno
Viso di primavera, e cor di verno.

[5 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del medemo per la partenza della sua donna.

Tu sei, mio sol, partito; io qui dov'eri
Con dubio passo il pian vo misurando,
E ne la rimembranza consolando
Com'amor vuole i vedovi pensieri,

Rendetemi i miei rai lucenti, alteri,
E l'alma vista, ond'io sol vivo amando.
Chi me gli ha tolti, così grido errando,
Per li miei dolci hor tristi, aspri sentieri?

Risponde il fiume: a cui la tua serena
Luce i rivi rendea chiari e beati,
Ch'or han perduto ogn'onorato fregio,

I dì nostri soavi e fortunati
Sonsene andati, a noi duolo, a noi pena
Lasci tu senza core, io senza Pregio.

[6 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del medemo. Esorta la sua donna a ritornarsene a lui.

Che più tardi, mio sol? Deh! torna omai,
Così negar la luce a chi t'adora!
O con quai note alla nascente aurora
Salutar m'apparecchio i tuoi bei rai.

Vien, mio sol, vieni, al tuo venir vedrai
Di che vaghi pensier un cor s'infiora
E ride e s'abbelisce e s'innamora,
E sgombra il verno di futuri guai.

Dirai tu allor godendo, e rimirando
Meraviglie sì nove e così belle:
Son queste del mio lume opre divine?

E dirà il mondo: amando e rïamando
Vivete, anime rare e pellegrine,
In su l'ali d'amor ite alle stelle.

[7 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del medemo. Prega la sua donna a volerlo far felice co' suoi sguardi, da' quali dipende il suo amore verso Dio.

Amiccarmi, angel mio, furtivo e fiso
E chinar poscia il bel guardo gentile,
E tinger salutando in atto umìle
D'un pallor di vïola il dolce riso.

Fur' gratie ond'io rapito in paradiso
Seppi ogn'altro gioir com'egli e' vide
E strali ond'in un cor piaga simile
Non fe' mai saettando il bel d'un viso.

Così, mio sol, vogliate ognor bearmi,
Non chieggio altro da voi che i rai lucenti,
E dirò: favorisci i miei amori.

E temprando alla cetra eletti carmi
Da conservarsi alle future genti
Canterò le mie lodi e i vostri onori.

[8 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del medesimo. Al pallagio dove in Padova egli andete ad alloggiare, che vi era dentro ancora alloggiata la sua donna.

Valle, ch'hai del mio sol l'aer sereno,
E gratïoso dell'erbette il prato;
Loggie, che fatte altier, questo e quel lato;
Tu gran palagio, ch'hai mia vita in seno.

Tempio, ove d'umil zel tutto ripieno,
Sol contra me di tua bellezza armato
Paga il tributo a Dio votivo e grato
Il mio vivo, immortale angel terreno.

Non mi sdegnate peregrino errante,
Che voi per stanza avidamente prendo
Sì come Amor e bel destin m'ha scorto.

Se no' l' sapete, io parto, a voi, venendo
D'angelica contrada e d'alto amante,
So pur che i segni ancor nel viso porto.

[9 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del medesimo. Nella partenza sua per Padova a la via degli Angeli.

Regal contrada, ov'io gran tempo errai
Seguendo una gentil, fallace spene,
E come Amor mi scorse, or le mie pene,
Or la bellezza altrui piansi e cantai.

Ti privilegi il sol sempre dei rai
Ch'ei veste uscendo a far le piaggie amene
E l'aure dal ciel mandi ognor serene
A le gran reggie onde pomposa vai.

Io parto, e queste lagrime ch'io verso
Rimarranno in mia vece a rimembrarti
I passi sparsi e 'l mal gradito inchiostro.

Io parto, in ch'aspro duol io porti immerso
Il cor, perché tu meco Amor non parti,
A chi sa legger nella fronte il mostro.

[10 Di Cesare Cremonini]

Madrigale del medesimo alla sua donna la quale era percossa da un raggio di sole.

Forse pensaste, o sole,
Venendo in quelle luci altera e belle
Di far come alle stelle,
Tor loro il lampo, presumendo intero
Convenir della luce a te l'impero?
Ma odi, e ti contenta
D'essere il sol dei fiori,
E che sian quei begli occhi il sol dei cori.

[11 Di Cesare Cremonini]

Sonetto del signor Cesare Cremonini in lode del signor Marc'Antonio Calcagni mentre fu padrino in una giostra.

Tu Ministro d'Amor, ministro a Marte?
Già non son molli dardi, aste guerriere
Delle risse vezzose e lusinghiere
E delle forti e pur deformi l'arte.

L'uno è Dio sol di sangue e sol comparte
A chi 'l segue di crudi e note fere;
L'altro ciò che non è festa e piacere
Da tutto il ragno suo manda in disparte.

Sei tu da guereggiar un campion raro,
Dove l'armi s'adoprin di bellezza,
E sia l'arringo della guerra il letto?

Fur grandi Ercole e Achille e innanellaro
Pur il crin, ma non già veste fortezza
Per vestir forte usbergo un molle petto.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (2-15)

Post n°841 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti
 
LIBRO SECONDO

CAPITOLO XV

Avea dal tempo che si pone a Cristo 
in fino a quello che qui ti rammento, 
che ’l cuor mi vidi sí turbato e tristo, 
anni cinquantadue e quattrocento 
ed eran quarantuno, ch’i’ era stata 5 
per Alberico a simile tormento. 
Cosí come odi, mi vidi rubata 
piú volte e piú, poi che da Costantino 
fui, com’io t’ho detto, abbandonata. 
E se dritta deggio ir per lo cammino, 10 
designando per ordine ciascuno 
che tenne il mio e fenne a suo dimino, 
Marcian con gli altri miei signori aduno, 
ch’undici milia vergini in Cologna 
al tempo suo martoriate funo. 15 
In Francia, per la Magna e per Sansogna 
la gran turma dei Vandali passaro; 
se danno fenno, dirlo non bisogna. 
Sette anni fe’ costui meco riparo 
e dopo la sua fine venne Leo 20 
e qui mi vidi il cielo e lui contraro. 
In questo tempo, ch’io dico sí reo, 
Augustulus Italia tutta prese 
e, presa, poi vilmente la perdeo. 
Lassolla il tristo e sé né lei difese 25 
in contro a Odovacer, ch’a ferro e foco 
co’ Ruten consumava il mio paese. 
Teodorico, apresso questo un poco, 
di Gozia venne e non compié sua via, 
ch’i’ non me ne dolessi in alcun loco. 30 
In questo tempo giá parlar s’udia 
di Uter Pendragon e di Merlino 
e del lavor che, fondato, sparia. 
Or questo Leo, che, a fare buon latino, 
coniglio dovrei dir, ne portò seco 35 
le imagini mie fatte d’oro fino. 
E se la sana ricordanza è meco, 
diciassette anni tenne in mano il freno, 
che troppo fu, se deggio il ver dir teco. 
Seguita mo ch’io ti ricordi Zeno, 40 
il qual coi Gotti mandò Teodorico, 
ch’Odovacer cacciò fuor del mio seno. 
In questo tempo amaro e antico, 
passâr quei di Sansogna in Inghilterra 
e ’l gran mal che vi fenno qui non dico. 45 
Artú benigno, largo e franco in guerra, 
con l’alta compagnia Francia conquise, 
Fiandra, Norvegia e ciò che quel mar serra. 
E poi che morte distrusse e uccise 
Zeno, il quale diciassette anni tenne 
lo ’mperio e che piú leggi altrui tramise, 
Anastagio fu quel ch’apresso venne: 
tanto ebbe in sé di mal, che molte volte 
di Dioclezianmi risovenne. 
L’opere sue infedeli e stolte, 55 
per non dir troppo, a ricordar qui passo, 
né brievi le so dir, perché son molte. 
Vero è che due miracoli non lasso 
li quai ciascun per dispregiare apparve 
la fede del battesmo a passo a passo. 60 
L’un fu che l’acqua de la fonte sparve 
a Barabas; l’altro d’Olimpo, a cui 
Amor non fu quanto a me dolce parve. 
Certo io non so se tu il sai per altrui: 
Anastagio papa in quel tempo era 65 
vago di Fotin, malgrado d’altrui. 
Le sette teste de la santa fiera 
giá si vedean spregiare per coloro 
ch’eran pastor de la fede sincera. 
Fuggivan povertá, bramavan l’oro, 70 
onde piú volte al traslatar del manto 
papal movean quistion fra loro. 
De’ Vescovi fu grieve e grande il pianto, 
quando mandati in esilio in Sardigna 
fun da Trasmondo, ch’era infedel tanto. 75 
Moltiplicava la mala gramigna 
de gli eretici in ogni parte allora, 
come tu sai che la mala erba alligna. 
Dolce mi sento al cor, pensando ancora 
sí come questo imperador morio, 80 
che sedici anni e diece tal dimora. 
Apresso di costui, Giustin seguio: 
e certo il nome se gli avenne assai, 
ché giusto fu e buon cristiano a Dio. 
Boecio patrizio, ch’io amai 85 
quanto figliuolo, fu da me disperso 
per Teodorico, ch’un Massenzo trovai. 
Il quale, essendo in esilio riverso, 
si consolava, come ancor si pare, 
con la Filosofia di verso in verso. 90 
In questo tempo, che m’odi contare, 
per Remigio, che fu a Dio divoto, 
si fece Clodoveus battezzare. 
In questo tempo appunto, ch’io ti noto, 
le gran bellezze fatte per antico 95 
caddono in Antiocia per tremoto. 
Nove anni ebbe Giustin l’onor ch’io dico.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XII)

Post n°840 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XII

[1 Di Nicolò Amanio]

Del Amanio

Qual più saggie parole, o più secrete

Potran sì aperto dirvi il mio dolore?
Come voi dal timore,
Dal mio non saper dir, donna, il vedete.
E se vostro valor, vostra bellezza
Forse v'han gionto a tale,
Che al mio stato mortale
Vostro sdegno gentil mirar disprezza.
E s'io a mirar quegli occhi impallidisco,
Ed ardo, e l' ardor mio dir non ardisco,
Morte il fin del mio male
Serà; ché 'l core hormai tacendo more,
Se tanto con pietà nol soccorrete
Quanto più bella d'ogni bella siete.

[2 Di Nicolò Amanio]

Amanio

Dunque se i miei desiri,
Se le mie accese voglie
Questo ostinato stil vorran seguire,
Da possenti martiri,
Da le soverchie doglie
Mi converrà per voi, dama, morire?
Dunque, se mai uscire
Da sì alta impresa penso,
S'erge da quel pensiero
Il mio foco e più fiero,
E con forza maggior si fa più intenso;
Tal che se i' v'amo, i' ardo, e se per sorte
Penso lasciarvi, i' vo drieto a la morte.
Dunque che tu ch'in aspetto
Di tutto 'l ciel più strano
Guardast'il nascer mio, torbida stella,
Mi volesti interdetto
Tenir l'arbitrio umano,
Finché in tutto da me l'alma si svella.
Ch'io non posso di quella,
Onde mia morte viene,
Luce fugir' il foco;
E s'io la miro poco,
Veggio lontano il fin de le mie pene.
Iniquo ciel, novi aspri dolor mei,
Ch'io non posso voler quel che vorrei!
Ma, s'a volervi amare
I' manco in sì alto ardore,
E 'l volervi fuggir morte n'acquista,
Qual de tue pene amare
Prenderai, qual dolore
A uscir de queste membra, alma mia trista?
Dolce mia amata vista,
I' voglio nel bel viso
Morirmi risguardando,
Morirmi ardendo amando;
Ché se posso morir, mentre che fiso
Premo mirando que' begli occhi, allora
So ch'io morrò senza sentir ch'io mora.
Hor vedi, Amor, là dove
Gli occhi mortal di questa
Altera donna mia condotto m'hanno;
E quanto in me si move
Dolor, quanto si desta
Alto in quest'alma mia noioso affanno;
Che i miei pensier si stanno,
O ch'io mora in presenza
De' begli occhi lucenti,
E in quelle fiamme ardenti,
O, s'io vorrò fuggirle e viver senza,
Ch'io veggia a poco a poco uscirne in vita
Dagli occhi con le lagrime la vita.
Ah! che son gionto a tale
Ch'io non vorrei a pena
Cangiar questa miseria in altro stato.
Dolce mio, amaro male,
Da voi falsa sirena,
Da voi son, maga mia, sì trasformato.
Voi, e 'l destino, e 'l fato
De miei tormenti siete;
Altre stelle, altri cieli
Son altrui mortal veli,
Suo viver, sue passion piover solete;
Son gli occhi di costei le erranti e fisse
Stelle onde 'l ciel (le) mie doglie prescrisse.
Tu destinata adunque
Mia sorte, da begli occhi
Fa per ultimo don che almanco impetre
Che mai non venga ovunque,
Me posi, e mai non tocchi
Costei, dove io sarò, chiuse le pietre,
Ché, se mai fia che aretre
Mia doglia, ancor in tanto
Che dove i' sia sepolto
Senta apparir quel volto;
I' entrarò sotterra anco altro tanto
Per tema così morto de le false
Sue viste, de cui armato Amor m'assalse.
Canzon, s'ancor trema il mio seno, dilli:
Sgombritisi dinanzi ogni altra voglia;
Mori, che morte è il fin d'ogni altra doglia.

[3 Di Nicolò Amanio]

Del Amanio

La bella donna mia d'un sì bel foco,
E di sì bella neve ha il viso adorno,
Ch'Amor mirando intorno
Qual di lor sia più bel, si prende a gioco.
Tal è proprio a veder quell'amorosa
Fiamma, che nel bel viso
Si sparge, ond'ella con soave riso
Si va di sue bellezze innamorando,
Tal è a veder qualor vermiglia rosa
Scuopre el bel paradiso
De le sue foglie, allor che 'l sol diviso
Da l'oriente sorge il giorno alzando;
E bianca sì come n'appare quando
Nel bel seren più limpido la luna
Sovra l'onda tranquilla
Ch'i bei tremanti soi raggi scintilla.
Sì bella è la beltade ch'in quest'una
Mia donna hai posto, Amor, e in sì bel loco
Che l'altro bel de tutto 'l mondo è poco.

4 Di Nicolò Amanio]

Quelle pallide, angeliche vïole,
Colte per mia ventura in paradiso,
Qual con candida mano e dolce riso
Donast' a me, piene di grazie sole,

Sono in l'anima mia con le parole
Soavi impresse e 'l vostro lieto viso,
Ch'han me da me dolcemente diviso,
E moro d'una morte che non duole.

Sì come i fiori alla stagion megliori,
Vaghi e belli si fan(no), così a voi lice
Nel freddo tempo mantener' i fiori.

Ed io, vostra mercè, lieto e felice
Il don terrò finché in me fien gli ardori,
Benché un tal don a me par non sia lice.

[5 Di Nicolò Amanio]

Tosto che in questa breve e fragil vita
Il mio bel sol d'ogni virtude adorno
Apparve, tutti i dei ebbe d'intorno
Ed ogni grazia parimente unita.

Questa, dicea ciascun, dal ciel gradita
Pianta da me vien prima e questo è il giorno,
Ch'io l'ho produtta e che a vederla io torno;
Così lite fra lor nacque infinita.

Vener' intanto un dolce bacio prese
Da l'angelica bocca, e poi rispose:
Questo chiaro farà nostre contese.

Allor fiorirno le vermiglie rose
D'ostro celeste, sì polite e accese
Ch'Amor per starvi sempre vi s'ascose.

[6 Di Nicolò Amanio]

Amanio

Ben mi potea pensare
Che tor me la dovea a tempo, a luoco,
Perché ogni extremo sole durar poco.
Extremo era il mio ben, che d'ora in ora
Da madonna avev'io, un sì cortese,
Sì uman, sì dolce e sì grato ascoltarmi.
Or poss'io ben lagnarmi
Che da me solo hormai saranno intese
Queste dolenti mie parole ognora.
Deh!, dolor mio crudel, fa almen ch'io mora
Nanti che veder mai
Quel ch'io so che vedrai.
Ma questo è il mio dolor, questo è il mio foco
Ch'io l'uscirò di mente a poco a poco.

[7 Di Nicolò Amanio]

Amanio

Se per forza di doglia
Di vita un uom si spoglia — la mia vita
Dal duol fu tronca in questa dipartita.
Ché partendo da voi, dolce mio bene,
Ogni riposo, ogni diletto e gioia
Le fia converso in sì feroci pene,
Che dopo del ritorno fuor di spene
Far non potrà che di dolor non muoia.
Deh! vivace dolor, fa che veloce
M'uccida; ché se aspetti al dipartire,
Fia allor cotanto atroce
Il duol, ch'io non potrò di vita uscire,
E con doppio martire
Io morrò poi per non poter morire.

[8 Di Nicolò Amanio]

Già mi fu un tempo i cieli e la fortuna
Prosperi, sì ch'io vivea in alto seggio
E hor transcorso ognor di male in peggio,
E volto è in mio contrario sole e luna.

Ora ogni fato iniquo in ciel s'aduna
Per farmi guerra, e indarno aiuto chieggio;
O sventurato e miser me, che deggio
Far, se non pianger sempre in vesta bruna?

Da poi che morte ha scolorito il volto
Ch'a tutto il mondo già rendea splendore
Ed hammi il mio riposo in terra tolto.

Non penso mai che manchi il mio dolore
Fin che la terra in sé non m'ha sepolto,

E veggia la mia donna e 'l mio signore.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (2-14)

Post n°839 pubblicato il 17 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XIV

Tre C con otto croci eran passati 
d’anni del numer bel ch’usiamo ancoi, 
al tempo ch’io ti dico e che tu guati. 
Valente tenne il mio tre anni, poi 
(Arian fu e i monaci percosse, 5 
ch’erano allor come santi tra noi) 
del grande inganno, che fece ne l’osse 
ai Gotti, da’ quai sentí mortal fiamma, 
quando dal ver falsamente li mosse. 
E com’è il figlio amato da la mamma, 10 
cosí sei anni amai Graziano mio, 
che fu cristian, che non vi mancò dramma. 
E pensa ben se amato fu da Dio: 
ché vinse la gran torma de’ Tedeschi, 
che pure un sol de’ suoi non vi morio. 15 
E perché dolce piú il mio dir t’aeschi, 
dico ch’Ambruogio, ch’era allora meco, 
pregiare udia da Greci e da Franceschi. 
Tanta virtú e grazia era giá seco, 
ch’al pastor piacque che fosse in Melano 20 
padre de’ buoni e luce a ciascun cieco. 
Costui ridusse, che pria era pagano, 
Agustin, disputando, a nostra Fede, 
che poi fu tal, come tu sai, cristiano. 
Quando Massimo il colpo mortal diede 
a Graziano e cacciò Valentino, 
trista mi vidi su dal capo al piede, 
perché sempre con polito latino 
l’avresti udito e in ogni costume 
puro come òr di che si fa il fiorino. 30 
Seguita ora ch’io ti faccia lume 
di Teodosio, che dietro a lui venne, 
degno d’onore in ciascun bel volume, 
che tanto bene undici anni mi tenne, 
ch’io dicea fra me: Traiano è giunto, 35 
che m’ha con pace rimesse le penne. 
In questo tempo, ch’io ti dico appunto, 
traslatò il vecchio e ’l novo Testamento 
Ieronimo, qual hai di punto in punto. 
In questo tempo, che qui ti rammento, 40 
gli antichi templi fatti per li dei 
vidi disfare e ire a struggimento. 
In questo tempo, scisma tra Giudei 
e Saracini fu e del lor male 
poco curai, però ch’egli eran rei. 45 
Or come sai che ciascun ci è mortale, 
in Melano a cotesto mio signore 
morte crudele saettò il suo strale. 
Odi s’egli ebbe in Dio verace amore, 
ché i suoi nemici, piú che con le spade, 50 
vincea con preghi e con digiun del core. 
Apresso lui, a tanta dignitade 
Arcadio giunse; e certo ne fu degno, 
sí ’l vidi pien d’amore e di bontade. 
Qui, per parlar piú breve, in fra me tegno 55 
di Gildo e Mascezel e la cagione 
come moriro e che gli mosse a sdegno. 
E vo’ti ricordare il gran dragone 
lo qual Donato col suo sputo uccise, 
che tanto fiero la sua storia pone. 60 
E non ti vo’ tacer ch’allor mi mise 
Alberico crudele in tanti affanni, 
che presso che del tutto non m’uccise, 
che non che mi rubasse il velo e i panni. 
Ma poi Attaulfo ne menò via Galla 65 
con altre piú donzelle de’ suoi anni. 
E non pur questo peso giú m’avalla, 
ma tante pistolenze allor seguiro, 
che io ne ruppi l’omero e la spalla. 
Or questo mio signor, che ben fu viro 70 
degno di reverenza e di salute, 
da tredici anni tenne il mio impiro. 
In iscienza ed in ogni gran vertute 
veramente lodar tel posso assai, 
però che chiare in lui funno vedute. 75 
Poi quindici anni guidar mi trovai" 
ad Onorio, del quale Iddio ringrazio, 
tanto fu buono e io tanto l’amai. 
Qui venne al mio tormento Radagazio 
e qui di lui, come si convenia, 80 
con fame e con la spada fece strazio. 
E cosí Eradiano, che venia 
con gran navilio contro a me acerbo, 
ancor, come a Dio piacque, strusse via. 
Oh beato il signor, ch’è non superbo! 85 
Oh beato costui, che qui s’addita, 
sí fu pietoso in ciascun suo verbo! 
Vinti i nemici, in lor morte o ferita 
negava e dicea: – A Dio piacesse 
che quei, che morti abbiam, tornasse a vita! – 90 
Cotal costui la sua vita elesse, 
qual fece il padre, del quale io t’ho detto, 
che Dio orando e con digiun si resse. 
E, poi che morte gli trafisse il petto, 
Teodosio minor del mio fu reda 95 
cinque anni e venti con molto diletto. 
Qui fe’ il demonio de’ Giudei isceda 
in specie di Moisè e qui si tolse 
in Italia Totila gran preda. 
Qui si destaro, sí come Dio volse, 100 
ne la spilonca li sette dormienti, 
che fuggîr Decio, onde poi non li colse. 
Qui non ti saprei dir tutti i tormenti, 
che allor sentîr per Attila crudele 
dico in Alverna e di qua le mie genti. 105 
Qui non ti potrei dir con quanto fele 
mi funno incontro e Vandali e Gotti, 
se non che mi rubâr d’ogni mio mele. 
Or come ne gli scogli vedi i fiotti, 
l’un dopo l’altro, del gran mar ferire, 110 
allor c’hanno paura i galeotti, 
cosí vedea in quel tempo seguire 
l’un dolor dopo l’altro ed eran tali, 
che non è lingua che ’l sapesse dire, 
se non ch’eran soperchio a tutti i mali. 115 

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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