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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
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Messaggi del 18/12/2014
Post n°854 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO Tanto fu il quinto Costantino reo, lussurioso e pien di tradimenti, che piú in alcun vizio non fu Leo. Questo crudel con diversi tormenti piú e piú cristian fece morire; 5 senza Fé fu e con falsi argomenti. Trentacinque anni per piú mio martire visse signore e per le genti grece, secondo che da lor mi parve udire. Gregorio papa, in questo tempo, fece la quinta feria e puosela in quaderno con lettere piú ferme che di pece. Ritbodo duca per bestia dicerno, che dimandò, con l’un pié nel battesmo: – Ove van piú, in cielo o ne lo ’nferno? –15 Rispuose chi li dava il cristianesmo: – Ne lo ’nferno –. Ed el disse e trasse il piede: – Al mal co’ piú voglio andar io medesmo –. Oh quanto è fol colui che si fa scede de le cose di Dio e quanto a lui 20 danno torna beffarsi de la Fede! Ma qui vo’ dir com’io l’udii d’altrui, perché, da poi m’è stato ne la mente, così pensosa del miracoi fui: Carlo Martel, ch’io ti ridussi a mente, 25 iscoperto l’avel, non fu veduto il corpo suo, ma vivo un gran serpente. Costantin morto, che non fu uom ma bruto animal, Leo, il figliuol, tenne il seggio di ciò che ’l padre suo avea tenuto. 30 E se quello ch’udio dire ti deggio, se fosse visso affermar ti potrei ch’io era giunta pur di male in peggio. Quel che ora dirò notar ben dèi: in fin che la fortuna mi fu mamma, 35 fun buoni i miei signor, di sette, i sei; ma poi che contro a me l’animo infiamma, come hai udito, non me ne vidi uno in cui fosse vertú quanto una dramma. Qui non son sola, ché aviène a ciascuno 40 che ’n sua prosperitá ogni ben prova e, ne l’aversitá, non ha niuno. Or torno a Leo, di cui poco mi giova parlar; ma piú non posso, ché la tema mi stringe a dir quel che di lui si trova. 45 Costui, insano, d’una chiesa scema, per cupidigia, una ricca corona né, nel mal far, di Dio parve aver tema. Questa posta in sul capo, a la persona subita febbre giunse e in questo modo 50 la morte a la sua madre l’abandona. E or ch’al sesto Costantino approdo, maraviglia udirai, se miri a punto ciò che in queste mie parole annodo. Questo signor, poi che si vide giunto 55 in tanta libertá, guidava il regno senza chiamare a ciò la madre punto: ond’ella, per dispetto e per disdegno, li corse addosso e tolsegli la vista, ché pietá non vi fece alcun sostegno. 60 Cosí la signoria costei acquista; poi non si tenne pur a quel mal solo la scelerata, disperata e trista: de’ suoi nipoti, figliuol del figliolo, innocenti, ancor fe’ similemente: 65 odi se udisti mai un maggior duolo. Qual Tebana o di Lemno o qual serpente fu mai piú cruda che la dolorosa, che ora qui ti riduco a la mente? Pensa se andava bene a la ritrosa, 70 ché lo ’mperio, che fu con tanta pena vinto per me quanto mai fosse cosa, era caduto ne le man di Irena, che così ebbe nome, e io cattiva il piú m’andava a letto senza cena. 75 In questo tempo ragionar udiva d’un miracolo e perché mi par bello, vo’, che se gli altri noti, questo scriva. Trovato fu in Bisanzo un avello dentro dal quale un corpo vi fu visto, 80 che per antico parea posto in quello; e scritto vi parea per buono artisto in una stola d’or lungo costui: – De la vergin Maria nascerá Cristo –. Poi seguitava: – E io credo in Lui 85 e tu, o sole, mi vedrai ancora regnando Irena e Costantino altrui –. Per lo peccato de la trista, allora credo che fu che ’l sol venne in eclisso, ch’un mezzo mese e piú cosí dimora. 90 E se tu in quello tempo fossi visso, veder potevi Amilio ed Amico, che s’amâr d’un amor sí caldo e fisso, che certo quei che funno al tempo antico, Eurialo e Niso, non s'amâr piú forte, 95 né Finzia con Damon, che quei ch’io dico. E se ’l ver vuoi saper de la lor sorte, a Mortara, se cerchi, troverai qual fu la vita loro e qual la morte, overo in Pavia, se tu vi vai. 100 |
Post n°853 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
Al nascer sì bramato, al nascer chiaro Del nuovo Cosmo apri, natura, il seno D'ampi tesori, e ratto il mar Tirreno Converse in dolce il suo liquor amaro. Lasciar' le Muse il Poggio amato e caro, E nel Tosco superbo, almo terreno Sciogliendo a note dilettose il freno Sovra le stelle il regal germe alzâro. Ben chinò l'Apennin l'altera spalla, Anzi tempo squarciò l'umido velo De l'atra notte folgorando il sole. Riser Marte e Giunon, sorrise Palla, Giove tonò dal manco lato, e 'l cielo Arrise tutto a la Cesarea prole. [28 Di Diomede Borghesi]
Mentre a bagnar Piroo ne l'onde amare Cinto di nubi il gran pianeta scende, E l'atra notte il manto umido stende Non fregiato di stelle ardenti e chiare, Su fiammeggiante carro il sole appare, Che dolce in mille cor lampeggia e splende E 'l lume spento col suo raggio accende Sì ch'alto n'ha splendor la terra e 'l mare. Non sa Teti pensar chi le notturne Ombre ch'avean il dì scacciato allora, Scuota dai campi fortunato intorno: Ma de l'alta mia donna il viso adorno Visto, e 'l sen vago e le sue mani eburne: Ben può, disse, a costei ceder l'Aurora. [29 Di Diomede Borghesi]
Qual tu di vaghe membra, alte e leggiadre Sembri Castore novo, altro Polluce, E quel Dio ch'ebbe fulminata madre Simigli, e chi dal Gange il dì n'adduce, Tal frenando le voglie ingiuste et adre Sarai di tutta Europa onore e luce, Conforme agli avi tuoi, conforme al padre, Che sovra i primi eroi s'alza e riluce. Giungi pur lieto di Nestore agli anni, E coi tuoi fatti aventurosi, illustri Apriti il varco a la suprema gloria. Che s'al desio m'impenna Euterpe i vanni, In sacri versi a paragon dei lustri Vivrà del tuo valor l'alta memoria. [30 Di Diomede Borghesi]
Aventurosa Italia, or godi e spera Stender il braccio de l'imperio gïusto Al freddo Scita, a l'Africano adusto, E trionfar del mondo umile altera. Ché 'l pargoletto heroe, speranza intera Del Tosco saggio e valoroso augusto Per lo calle di gloria, alpestre, augusto Seguirà di virtù candida schiera. Il novel Cosmo, che fia sculto in marmi Come il suo generoso, invitto padre, Ch'a procacciarsi onor sempre si accinse, Barbare domarà superbe squadre, Sì che in qual parte andrà volgendo l'armi Ei venne (potrà dirsi), e vide, e vinse. [31 Di Diomede Borghesi]
Non ha morte crudel furato quella Candida perla, pretïosa e pura, Onde Francia ed Italia in veste oscura Troppo aspro il fato lagrimando appella. Ma perché fur' virtuti accolte in ella, Ch'ornar' d'eterni pregi arte e natura, Il gran Tonante con mirabil cura L'ha trasformata in sempiterna stella. E 'l suo bel raggio, luminoso, ardente, Che 'l ciel rischiara, e già d'invidia ingombra Ciascuna ferma, o pur facella errante Quà giù la via d'onor discopre a gente, Che d'infermi pensier l'anima sgombra Ver' l'immortalità drizza le piante. [32 Di Diomede Borghesi]
Hor che 'l gran padre e gran motor del cielo L'alte di gloria a noi porte disserra, E con la morte sua la morte atterra Ch'avea nel primier uom vibrato il telo. L'aurate chiome sue d'oscuro velo (Quinci a Satan s'indice orrida guerra) Cinge stupido il sol, trema la terra, Fassi gelido il fuoco, ardente il gelo, Ogni lauro si secca, e pino ed elce Suda mesto l'avorio, e 'l bronzo piange, E l'asprezza e 'l rigor perdon le pietre. Sol tu, rigido cor, tu viva selce, Che dovresti versar per gli occhi un Gange, In così grave orror nulla ti spetre. [33 Di Diomede Borghesi]
Tosto che sciolse dal corporeo velo Inesorabil morte alma reale, Raddoppiando la fama, e tromba ed ale Così fe' risonar la terra e 'l cielo. Fortuna armata di funereo telo Il senno e la virtù repente assale, E giunta è d'Imeneo la gloria a tale Ch'ogni sua face si trasforma in gielo. Il giogo di Parnaso ima e pallustre Valle rassembra, e s'affatica invano A recar Febo il dì chiaro e giocondo. Morta chi fece l'Istro amico a l'Arno, Ed al cui nome, al cui gran pregio illustre Sarà picciol sepolcro Europa e 'l mondo. [34 Di Diomede Borghesi]
Dunque sì ratto la regal consorte Del magno, generoso Etrusco Duce, Cui valor vero al sacro monte adduce, Il carro trionfale orna di morte? Ahi! che parlo io? Ben son cadute, o morte, Le glorie, ond'ebbe il mondo inclita luce; Ma su viva e beata ella riluce Ove non ha poter caso, né sorte. Mentre che 'l duolo Italia amaro interno Sfoga per gli occhi, e grave affanno e duro Germania ingombra paventosa ed egra. Talor preme Orïon, talora Arturo L'Angela nuova e reverente allegra Va sempre rimirando il Padre Eterno. [35 Di Diomede Borghesi]
A che pur piange? A che sospiro e geme Saggio, Miranda, il mio Granduca e vostro? Che tai d'alta prudenza esempi ha mostro Che 'l mondo il pregia, il riverisce e 'l teme. Quella, che fu di Etruria e d'Austria speme Materia illustre da purgato inchiostro; Quella, che non di gemme, e d'oro, e d'ostro, Ma s'ornò di virtù chiare e supreme. Hor che spogliata del caduco manto Puro diletto sempiterno prova Fuor del nostro pensier soave e caro, Dice ridendo: Il sospiro che giova? Sgombrate, alto Francesco, il duolo e 'l pianto Ch'ogni dolcezza mia volge in amaro. [36 Di Diomede Borghesi]
O degna che tranquille, e dolci, e chiari T'apran l'hore gran tempo i giorni, e degna Che quanto in te valor s'annida e regna Cantin poeti pelegrini e rari. Di lor grazie i pianeti a l'altre avari Comparton larghi a te, che 'l viso insegna Porti d'amor, ch'a mercar gloria insegna Sovrani pregi, avventurosi e cari. I tuoi begli occhi, che rassembran soli La BIANCA man d'avorio, e d'oro i crini Fanno l'invidia lacrimar sovente. Hor chi de l'alma vuol pura, eccellente Giudicar le bellezze alte e divini, Convien che contemplando al ciel sorvoli. [37 Di Diomede Borghesi]
Febo, de l'arbor tua sol bramo e chero La foglia di che Amor fregia il GINEBRO; Onde già noto a paragon del Tebro Il CROSTOLO gentil se n' corse altero: Ma che bramoso cheggio? Adunque io spero (Se ben ti riverisco, amo e celebro) Un pregio, al qual chi fece immoto l'Ebro Non ebbe par, ne l'immortale Omero. Hor poiché 'ndarno il cor sì alto aspira Ch'a te sol deve il crin render adorno La fronde, ch'ha virtù chiara e sublime. Dammi ch'io narri in sempiterne rime Come tra neve che faville spira Fioriscon rose all'alma pianta intorno. [38 Di Diomede Borghesiù]
S'a me daranno in sorte unqua le stelle Gir dove la mia donna illustre, altera, Quando più il sonno agli animanti impera Posa le membra delicate e belle. Guardarò fiso il crine aurato, e quelle Luci leggiadre, ond'è ch'ardendo impera, E 'l bianco sen d'Amor gloria primiera, E le man di mercè scarse e rubelle. Ma nuovo ricercando alto diletto Tra pochi gigli et odorate rose Dolce rugiada andrò suggendo e grata. Indi converso a più felice obietto Dal tesor che natura invida ascose La gemma involerò cara e pregiata. [39 Di Diomede Borghesi]
Dunque potrà temer la punta e 'l caldo Di picciol ferro e fuoco animo altero Ne i conflitti d'amor franco guerriero E ne i maggior perigli ardito e baldo? E non pur lo mio petto ingombro e caldo Di cocente, amoroso, alto pensiero, E non pur m'ange un colpo acerbo e fiero Lo spirto ne i martir constante e saldo. Ma cento piaghe al fianco egro e meschino Ministran doglie e grave incendio e duro A parte, aparte incenerisce il core. Ben solcarà chi coraggioso il pino Commette a l'ocean pieno d'orrore Il placido Tirren lieto e securo.
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Post n°852 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime sparse di Giusto de' Conti RIME SPARSE CCVII Canzone L'aspra piaga mortal che me arde sempre e la memoria de l'antico colpo e me che sempre incolpo, piangendo, a lamentar me stringe ognora, poiché di doglia i' me distrugo e spolpo, e che l'alma, provando amare tempre, si deslegua e distempre dal proprio obiecto in forma d'uom che muora. Convien adonque, pria che 'l duol mi acora, la mente isfoghi in parte il gran martire, mostrando il stato mio, se tanto lice, e ben mi avedo e so chi è la radice dil mio languir e dil mio gran desire; ma, pur potess'io dire ogni mio male et ogni mio dolore, io mostreria che amore non solo alberga soto treze bionde, Né sol se anida l'angue soto fronde. Lasso ch'io mi lamento et più alto grido, anzi pur mugio, et non trovo socorso, e via di rabia scorso, mi temo sempre gir di male in pegio. Io mi rivolvo in mente chi me ha morso e la mia vita fin l'ultimo strido, e vegio in cui mi fido esser caduco vano et debel segio. Quanto più vegio ogni or, quanto più legio nostri volumi et anco l'altre carte, e trascorendo vo per l'universo, per monti, piagie e boschi più disperso; e quanto penso alor che Giove e Marte con le sue forze et arte regia il mondo e quella fioca giente, lasso che un più dolente, un più di me deriso non se vide, a tal che del mio stacio il ciel ne ride. Misero me! che, se ben miro intorno, niun conforto mi è rimasto in terra, Né triegua a la mia guerra, ma sol cagion ch'io piangi e me lamenti, non dico già di quella che mi serra fuor dil camin d'ogni chiar sogiorno, però che un lieto giorno non eber gli ochi miei dal vero spenti. Io vedo ben che mie contrarij venti contra di me sono già fatti eterni, e 'l ciel con suo pianeti mi rubella. Lasso, che in mezo il mar mia navizella rimasta è sola, et non è chi governi; e cussi in questi schermi mia vita afondo con eterno pianto, e ben cognosco quanto e soli e tristi sono i miei pensieri, unde convien che dì e nocte sospieri. Quando la notte è obscura e magna l'ombra, e possa il mar, il cielo e 'l vento tace, alor che ognuno ha pace, rivolze gli occhi miei più largo fiume. Io von pensando il dolor che mi sface, e quel che ogni piacer dil pecto sgombra, ché la ragione ingombra gli sensi miei per antico costume. Lasso, che tal pensier mi obscura il lume, e trasportando va la mente in loco, ove non cal de me, né de mia sorte, gridando mille volte alora morte; da poi che crescie in me l'aceso foco che m'arde a poco a poco l'anima, el pecto, le midole e l'ossa; e, perché io non ripossa, agiunge ogni ora più crudi pensieri, di che convien ch'io peri e mai non spieri. Che deb'io far se 'l mio gridar non giova, se 'l cresce il mio doler quanto m'atempo, se 'l rinuova il tempo, se primavera per mi non vien mai? Questo dolor ogni or di tempo in tempo, con argumenti falsi et falsa prova, sempre più mi rinova lacrime agli ochi e al cor tristi guai. Ay mondo iniquo e falso, in cui sperai e la virtù, la forza e l'aspra voglia! perché solo ver me tuo imperio spieghi, perché a pietà di me tu non te pieghi? Deh, movite a pietà di la mia doglia che, como in foco foglia, mi strugie e mi distilla et arde tuto. Lasso, tu m'hai (di vita) al fin conduto! Che maledeto sia ch'in te se fida, Madonna ingrata, per cui l'alma strida. Canzon, ben so che indarno i' me lamento, e quanto parlo è nulla e quanto scrivo: merzè non credo ritrovar dal cielo, Né altrove ripossar di pace privo, mentre che l'alma chiuderà il mio velo. Ma pur, per fin ch'io vivo, ti priego, mia canzon, e pianti insieme, da poi che amor mi preme, pietà dil viver mio ti mova almanco, poiché me vedi tristo, lasso et stanco. CCVIII Canzone ol mio signor libero e sioltto lazi amorosi e dà suo forza vido e secur per cuanto i critti ai pensier mi naque o voglia o brama, amor anzi fugir per boschi l ragi suo qual m'an pur preso. ncava al di quando fui preso a noturna stanzia sioltto altro giorno forza sol vidi il qual veder non critti glorioso ho zieca brama pra te che fazea luze a boschi. mi pur aver amor ne boschi rato onde altrui male mai non criti sta cussi chi altro voler brama semi amor con una usata forza il qual già avea ligato e preso aure crine a l'aura dolzie sioltto stra felize, ho cor mio sioltto, fui ligato non già in meso i boschi dove roze e fior radize han preso siede Madona e spera e brama. Onor per far in tela ogni suo forza d'oro e di setta quel che io non critti. Vagabondo lo giorno sempre critti securo andar, perché tal sol m'ha preso, che l'altro fugie lui nei foltti boschi. La notte poi, d'ogn'altro pensier sioltto, pensando scazio il sono e prendo forza quasi, amore e gl'ochi piangne e brama. Vivo cusì e dubito mia vita aprir a lei, però che in tuti i boschi, salvo in costei, piatà trovar mi critti. Tropo non già starò, perch'io già preso altro camin, e spero d'esser sioltto da ogni altro amor e da ogni viva forza. Brama già di veder mi guida e sforza Né vorei sioltto quel che mai non critti, e amor nei boschi e io non n'eser preso. CCIX El fin d'ogni piazer d'ogni mia zoglia, d'ogni mio ben e paze è gionto qui e convien che mi doglia. Pianti sospiri e guai sempre sta meco; e l'antiqua speranza si m'a lasato solo, zieco di dolze rai, a bramar morte il tempo che mi avanza. Amor mi preme al colo già fa molt'ani un giogo ardente, e solo con ascoze minaze chi dil procazio mio mi ruba e spolglia? Gionto son più per tempo ch'io non mi criti al disusato loco vedovo e sconsolato. Son zerto che con tempo arò ancor pegio et ardirà più il foco: l'amor mio è marittato, non che 'l sia morto, perso o invechiato. L'eser cusì mi spiaze, ché per suo onor conven che muti volglia. Duro zerto mi fia veder madona e non poter star seco; anzi mostrarli guera. Pensi ziascun la mia vita qual lei sarà e piangea meco; ragion si regie in tera, non apetito che gli amanti affera. L'alma mia se disfaze, e al ziel rincresce la mia tanta nolglia. Nel fedel mio servire pasato pur mi fido e sto securo che la mi vorà bene; e 'l mio grave martire e stimerà più spiatato e piuj duro; che 'l preterito bene lietto non fu ch'in vita mi mantene; onde il mio amor veraze gli ricomando e sia quel ch' eser volglia. CCX O vedovati e lacrimabil versi, fornito avete quel dolzie viagio, che già lieta speranza al cor mi porse. O fortuna crudel, che muti volglia, et hai il mio lieto stato tolto a sdegno, per te pien di sospiri or mi trovo, et son li pensier miei altrove voltti. Tornami a mente gli ani e pasi persi per seguir questo amor aspro e malvagio; Né la speranza mia del fin s'acorse. Piazer falaze il mio converso in dolglia; il mondo è zieco, il sol è senza ragio; la note signoregia, e io pure provo e sento al cor gli ultimi stridi aoltti. Vegio che 'l viver mio non vol dolersi tropo, però ch'al fin io me sotragio. Ah felize chi senza amor gli ani suo scorse! Morte spiatata, che la diva spoglia ai di mio ben e za zi rechi il pegno: Vuoto è rimasto il nido, in cui mi covo, vuoto di vita e di sospir pien foltti. Mort'è quei chiari lumi ch'a conversi, ch'erami un sol., e patisco disagio vederli come a me Madona i torse. Di viver più il dolor per si mi solglia, ond'io mi tragio a quel felize regno onde Madona ha fato un sedil novo, e stali intorno sacri e santi voltti. Gravoso fu sì il colpo ch'io sofersi, quando amor mi ligò quel vivo ragio, che a meno me di me dubio in forse; sì ch'io non so quel faza o qual m[i] (voglia). Un naspetar mi sprona, un far indegno mi gira e volve, e io pur mi rimovo per seguitare in camin degli molti. Molti mortali d'amor senti[r] diversi martir, perch'il suo stato aspro e malv[agio] gli fea crudel sì ch'in lor co[r] contor[se] il duol, che altrui dovea pur sentir dolglia. Ragion non regna in questo mortal reg[no], ma sforzato voler, e pur lo provo per corer retro a sacri ochi a me tolti. Sopiti è già e gli sensi sommersi, Né le lacrime mie sen van adagio, se morte al tempo il gientil cor suo m[orse], Né dil sangue mio vo già ch'a mi spoglia, però che 'l se ne vien senza ritegno, sì forte il fredo fero in me commovo, che gli spiriti miei son già disolti. Con tal ventura e tal stela mi ofersi, canzon dolgliosa, al mio falso presagio, che ascosto fumi poi quel che mi acor[se]. Pregote, adunque, prego amor che 'l colg[lia] ste vacue membre, e non se tenga in[degno] poner in nun sepulcro adorno e n[ovo] e l'ossa mie in setta et oro avolti. E scrivin poi con aureo liquore: iazen qui l'osa dove regnava am[ore]. |
Post n°851 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CXI Ad Angiolo Galli Tal son né miei pensier, qual'io già fui, Se non che ogni mia spene è più fallace; Et qual solea già pur senza pace Amor meco si sta, non con altrui. Così nelle tempeste io non so cui M'invochi, se non quella che mi sface: Et quando penso alla mia ardente face, Il cor meco s'adira, et io con lui. Così mi vivo ancora, et nelle fiamme Arde la sera, et, quando è l'alba, agghiaccia La mente, che a quell'ora Amor l'assale: Così nel cor la bella Donna stamme, Che mi tien stretto tra le crude braccia, Come al principio dello eterno male. [Poesia] Risposta di Angiolo Galli Se la speranza antiqua ora ne fui La qual vidd'io in te già più vivace Che mai carbone ignoto di fornace, La colpa è tua et non già d'ambedui. Giovane bella ha sempre dubbi sui Ch'el lontanato Amor ne sia verace; El dapresso è un calor di mille brace, Qual maraviglia dunque se tu rui? Non creder cor de donna mai s'enfiamme Per lontan foco, anz'ello più s'agghiaccia Et fa per gelosia altro rivale. Torna a quel seno de le dolce mamme Adunqua, Giusto mio: s'ella t'abraccia Felice appresso te non fu uom tale. CXII Sguardo ligiadro donde Amor mi sforza, Et mena in parte, ove di me disfido; O luce mia fatal, segno mio fido, Che tramutar mi fai sì spesso scorza, Tu stai nel pensier mio con quella forza, Che al fin suo spinse l'infelice Dido; E in mezo del mio petto hai fatto nido D'un foco, che per verno mai non smorza. Et così, lasso, d'una in altra doglia L'oltraggio, la vergogna et la mia fede Mi guida a crudel morte a poco a poco, Senza mai satiar l'ingorda voglia Di quella fonte viva, onde procede L'amaro che mi strugge in gentil foco. CXIII Non veggio, ove m'acqueti lasso, o dove Pieghi il doglioso cor, perché io respiri: Volger non posso, ove il mio mal non miri, Et l'idol mio scolpito ivi non trove. Il bel parlar, che sorridendo more, Et tra il vezoso sguardo i bei sospiri, Il cor m'infiamman sì, che fra i martiri Di abandonarmi ha fatto mille prove. Così mi strugge il cor, se per orgoglio Avien che l'atto peregrino adorno Tacendo gli occhi santi inchine a terra: Ma più di quella man crudel mi doglio, Che per antica usanza ciascun giorno Mille volte il mio core et mille afferra. CXIV L'alto pensier, che spesso mi disvia, Et mena ove Madonna el mio cor siede, Al caro albergo ove la mente riede Quando all'usata fiamma Amor m'invia, Vuol che io dipinga l'alta leggiadria Per far di sua grandeza al mondo fede; Et chieda delle altrui colpe mercede A questa di pietà nimica, et mia. Ma quello adamantino et fiero smalto, Onde arma il cor sì duro e il freddo petto, Che verrà mai, come convien, che squadre? O giunga penne al debile intelletto In guisa, che volando poi tanto alto, Ritragga in carte cose sì leggiadre? CXV Poi che la dolce vista del bel volto Laddove scritte le mie voglie stanno. Agli occhi miei, ch'altro bramar non sanno, E il caro nudrimento al cor fu tolto, Io, che dal nodo ardente ancor disciolto, Non son, che il Ciel non vuol ch'esca d'affanno, Talor me stesso co 'l pensier m'inganno, Giungendo fili al rete ove so avvolto. Così mi pasce il cor di rimembranza La man, che il furor mio fatta ha immortale, E gli occhi pien di vera leggiadria, Però mentre questi occhi di mortale Aran, convien che a lor sempre ella sia Sua luce, suo riposo, et sua speranza. CXVI Poi che il mio vivo sol più non si vide, Cieco gli giorni miei vo consumando; Dicendo fra me stesso sospirando, Dove or fan giorno le mie luci fide? Or del mio mal gl'incresce, or di me ride; Or sola va di me forse parlando: Poi mi sollevo, et dico: lasso or quando Vedrò chi sol mi piace, et sol m'uccide? Or seco duolsi di mia lontananza; Or la sua casta mente volge in parte, Dove seguir non puolla pensier vile; Or rende gratie a chi gli dà tanta arte, Che in punto mi sfida et dà speranza; Et che la fè sopra ogni altra gentile. CXVII Hora che il gran splendor del ciel risorge, Et fuggon stelle et segni il maggior lume, Continuando il suo antiquo costume L'Aurora il dolce vago al mondo scorge, Solo il mio cor non cura, et non si accorge Come entro a poco a poco si consume; Et scorran gli miei giorni, come un fiume; Onde ver me già Morte la man porge. Et lui pur disioso ivi rivolto, Dove arde il mio bel foco, et vivo splende, Et fa seren le luci mie tranquille: Et, qual vicino ardor di fiamme folto, Di lungi il gran disio tutto mi accende, Or che fia stando in mezo le faville? CXVIII Quando talor condotto dal disio Con gli alti pensier miei trascorro in parte, Per iscolpir, se mai potesse, in carte Quegli occhi che fan foco nel cor mio, Ritrovo altra opra, che mortale: ond'io, Fra tante maraviglie ivi entro sparte, Perdo l'ardire et la ragione et l'arte, Sì che me stesso et l'alta impresa oblio. Ma poiché l'occhio del pensier si sbaglia, Et le virtudi afflitte, in sé imperfette, Soffrir non pon l'alteza dell'obietto, La voglia che sospinse l'intelletto In mezo al cor, come ella può m'intaglia Cose ligiadre assai, ma non perfette. CXIX Rimena il villanel fiaccato et stanco Le schiere sue, donde il mattin partille, Vedendo di lontan fumar le ville, E il giorno a poco a poco venir manco. Et poi si posa: et io pur non mi stanco Al tardo sospirar, come alle squille: (Io me ne ingegno che ognior più sfaville Il foco et l'esca nel mio acceso fianco). Et sognar, tristo, infin che l'alba nasce, E il giorno disiar sempre il mio male, Col fiero rimembrar di mille offese. Così dì et notte piango; et così pasce La fragil vita questa, a cui non cale Vedermi dentro al foco, ch'ella accese. CXX Luce aspettata tanto agli occhi miei, Che tua virtù dal terzo Cielo imprendi, Quanto mirabilmente il cor mi accendi, Et quanto fai di me più che non dei. Tu mi fai non voler quel che vorrei, Et quel che vo fuggendo pur mi rendi: Tu dove più mi duole ognior mi offendi, Et nel mio mal sempre sì accosta sei. Io son già vinto; et non so far difesa Contro sì nuovi colpi, ma il disio Non scema perché manche la speranza: Che il gran disio, dove ho la mente accesa, Letè ben so non metteria in oblio, Né tempo, né destin, né lontananza. |
Post n°850 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CI Solea per rifrigerio de miei guai Vegliar le notti, et disiar l'aurora; Ma già conosco lasso che quell'ora Mi è più noiosa, che la sera assai. Et più spietato Apollo perché sai Come la notte, al dipartir mi accora, Più tosto il giorno ne rimeni allora, Perché da pianger non mi manchi mai. Tu ne rimeni quel, che mi disface; E il sol della mia vita a me s'asconde Al tuo apparire, ond'io rimango cieco. Misero me, che tanto ho qualche pace Quanto la notte il dì cela fra l'onde, Et la mia Donna sola stassi meco. CII Per gli occhi miei passò la morte al core, Et da i begli occhi uscio Virtù, che mi tien lieto nel dolore: La gelosia, che del piacer si accese Il dì, che io puosi me stesso in oblio, Rinova nel mio cor l'antica pena; Et da passate colpe sa dolerme; Et con sì doppia forza al fin mi mena La rimembranza delle amate offese, Che fa dogliose le mie posse inferme, Et di dolce paura un bel disio. Né spero mai che Amore Prenda pietà del lungo pianger mio. CIII Quando la sera per le valli aduna Del velo della terra la sparsa ombra, E il giorno a poco a poco da noi sgombra Il Sol, che fugge, et dà loco alla Luna, Pensoso io dico allor: Così fortuna, Lasso, di mille doglie il cor m'ingombra, Così la luce mia, che l'altre adombra, Celandosi, mia vita, e il mondo imbruna. Et maledico el dì, che io vidi in prima Tanta dureza, et quel fallace sguardo, Che al cor m'impresse la tenace speme: Così i miei danni mi rammento al tardo, Quando più m'arde l'amorosa lima, Che il resto del mio cor convien che sceme. CIV Alma gentil, ch'ascolti i miei lamenti Al suon de ardenti et gravi miei sospiri; Alto valor, che dentro et fuor mi miri, Et vedimi nel foco et sì il consenti: O divino intelletto, che odi e senti Quai siano et quanti, tutti i miei disiri: O lubrico desir, che anco mi tiri Per forza a riveder gli occhi lucenti: O speranza infinita: o cor mio stanco: O perfido costume, che dinanzi Pur mi figuri l'ombra del bel guardo: O venenoso stral, che il lato manco Per man di Amor per mezo il cor mi avanzi, Quando uscirem del foco, ove io tutto ardo? CV Lass'io, che Amor li passi intorno intorno Sì m'ha richiusi, et reti tante sparte Contra mia vita, che né via ned arte Io veggio, ond'io ritorni al bel soggiorno. Se io m'allontano dal bel viso adorno, Che un Sole è agli occhi miei, dal cor si parte Mia vita affatto; et poi, se in qualche parte Mi si dimostra, al foco allor ritorno. Così tra due convien che Amor mi strugga, Amor, che a sì gran torto pur si pasce Dei miei tormenti, et vive di mia morte: Né val che nanzi all'ale sue già fugga; Tal fu il mio fato dalle acerbe fasce, Tal mio destino, et tal mia cruda sorte. CVI Quanto più m'allontano dal mio bene, Seguendo il mio destin, che pur mi caccia, Tanto più Amor con nuovi ingegni impaccia Mio corso, volto a più beata spene. Or qui le guance più che il ciel serene; Or qui gli ardenti lumi, onde mi allaccia, Pur mi dipinge:or qui l'ardenti braccia, Onde a gran torto morte il cor sostene. Io sento ad ora ad or soavemente Parlar Madonna sola fra le fronde Di questi boschi inospiti et selvaggi: Veggio quel maggior sole, che mi si asconde, Levar con l'altro insieme all'Oriente, Et abagliarlo con più vivi raggi. CVII Selva ombrosa aspra e fiera, Dove fuggendo, Amore Mi apparse innanzi leggiadretto et vago. Con l'amoroso Albergo del mio core, Rasserenato dalla luce altera Di quella umana fera Di che pensando sol meco mi appago: Et l'una et l'altra insieme dolce imago, Che io vidi col pensier che in gli occhi luce, Alto valor mi induce A dir quanto per me si aduopri, et pensi, Che gli ostinati sensi Rivolgono il suo duro effetto altrove, Dove pietà si trove: Né posso per mio ingegno levar dramma Di quel saldo voler, che sì m'infiamma. Io penso ad ora ad ora: Se è morta ogni speranza Che mai veggian questi occhi quel bel viso, Non so per che il desir, che ogni altro avanza, Che nacque d'essa, et lei manca, non mora; Anzi crescendo ogni ora, Dal cor mi scaccia ogni altra gioia et riso: Ma pensi un poco come egli è diviso Per tanto spatio dal maggior suo bene, Sì che vana è la spene Che il nostro mal risaldi per sua pace: Poscia un pensier fallace Quando rivolge tanto il danno è grave, Con sue ragioni prave Aguaglia la speranza all'empia voglia, Che d'ogni bel riposo l'alma spoglia. Ben so che sì bel piede, Né d'occhi sì bei rai, Né d'or sì bei capelli al vento sparsi, Né ingegno, né natura non fe' mai, Come quel dì, che d'altra cura sciolto, Fra i lacci d'oro avvolto Io vidi vivi vivi ond'io tutto arsi. Ma che giova, alma trista, ardente farsi? Che a questo ancor passata è la stagione: Et la poca ragione, Che già ti prese et tenne, ancor t'invita, O fonte di mia vita, Faville accese in quel vezoso giro, Mirate il mio martiro; Et come in pianto la mia vita passo; Et dogliasi di me ch'io son già lasso. L'alta piaga et mortale, Con l'angoscia noiosa, Per che piangendo gli occhi miei son stanchi, (Non basta a me sottraggia ogni altra posa) Contende al mio dir sì, che a me non vale Parlar del dolce male In guisa tal, che nel mezo non manchi: Con tai due sproni punge gli miei fianchi Che a forza al duol si voltan le parole; Onde son triste et sole, Et mal s'accordan le mie note insieme: Perché parlando geme Il cor piagato: et s'io torno alle rime Poi, mille et delle prime Già per la doglia mia posto ho in oblio, Tanto m'ingombra et preme il dolor mio. Freschi et lieti arboscelli, Amor, Madonna, et tu vago concetto, Poi che nel tristo petto, Cercando per fuggir vie, più di mille, L'angeliche faville Fatto han mortale il bel foco felice, Non posso più se contrastar non lice. CVIII La bella et bianca man, che il cor m'afferra, Per mille strade ognior di riva in riva Mi si fa incontro pur sì altera et schiva, Quale era al cominciar di tanta guerra. Così lontan dalla felice terra Mi vien seguendo come cosa viva Questa, per chi convien che sempre scriva, Se altra pietà per forza non mi sferra. Né veggio a mezo dì sì fatto il sole, Né ascolto suon di queste gelide onde, Né vedo in questi boschi fronde in ramo, Che nanzi non mi sian le chiome bionde, E il viso lieto; et senta le parole Di quella mia tiranna, che io tanto amo. CIX A Francesco Filelfo (?) Francesco, quante volte al cor mi rede La vista, che mia vita fe' dolente, E il riso che m'impresse nella mente L'aspettato soccorso di mercede, Io sento del cor mio far nuove prede, Et d'altretanto foco l'alma ardente, Et rinovar l'angosce antique spente, La voglia, la vagheza et la mia fede. Così in un punto l'alma si rinfiamma Et spegne, poi che vede ogni speranza Mancare in tutto al suo lungo disio. Et veggio ben, che dura rimembranza Destando va la tramortita fiamma, Accioché nulla manchi al furor mio. [Poesia] Angiolo Galli a Giusto Piangi misero, lasso, ch'hai ben donde Ché vivi senza la tua dolce vita: Un geloso pensiero ognor m'invita Col pianto a crescer Pado et le salse onde. Chiamo dì e notte, ma non mi risponde, Colei, che in mezzo al cor tengo scolpita: Ben fu spietata e dura la partita, Che me tien quivi, e la mia vita altronde. Ma poi che pur dal pianger vegno meno, Parmi ch'alora quella santa mano, Rasciugando le lagrime del volto, L'alma partita la rimetta in seno; Et se ha cotanta forza un pensier vano, Pensa che fora tra le braccia accolto. CX Risposta di Giusto Quel tuo bel lamentar, che mi confonde Fra l'alto stile, et la pietà infinita Raccesa m'ha la fiamma tramortita Delle mie piaghe infino al cor profonde: Che benché l'ombra delle trecce bionde Talor mi rinfrescasse la ferita Pure era agli occhi miei quasi sparita La luce, che fortuna mi nasconde. Però se gli occhi giro al bel terreno, Rasserenato dal sembiante umano, Che sdegno a torto et gelosia m'ha tolto, Ritrovo di speranza il cor sì pieno, Che l'alma trista avampan di lontano, Come già presso, i raggi del bel volto. |
Post n°849 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti XCI All'ultimo bisogno, o cor dolente, Che Amor sempr'arde, et ria ventura affrena Colla sua propria man di nostra pena, Fra i bei pensier d'amore alza la mente: Convien, che i nostri guai con stil più ardente Senta costei, del ciel nova sirena; Malvagia che a morir mia vita mena, Mia vita, che al morir cieca consente. Io parlo lagrimando, et vo' che m'oda Chi pria mi strinse sì che ancor non scioglie Il laccio, onde al martire Amor mi guida. Et chi della sua man tutto m'annoda, Misero me, del lamentar mio rida; Poi che d'amor trionfa, et di mie spoglie. XCII O dolce pena mia, dolce mio foco, Che sì lontan mi struggi, et nanzi allumi: O fera voglia, che il mio cor consumi Sì che mi avanza a consumarne poco; Deh, potess'io la voce al sacro loco, Ove fan giorno quei due santi lumi, Gittar co 'l pianto, onde questi occhi in fiumi Son già conversi, et io son fatto roco; Staresti, alma spietata, ancor sì fera? Novella Deianira, che mercede Disdegni, et d'ogni tempo pietà fuggi; Che maledetta sia tanta mia fede, E il cor, che in te sol, disiando spera, Se lungi et presso mi consumi et struggi. XCIII La bella terra, ove me aggiunse Amore, Et prese già con sì mirabile arte, (Né vorrei che mia sorte in altra parte Piegato avesse il tanto afflitto core). Sempre mi è innanzi con quel dolce errore, Che mi rimembra lasso a parte a parte La guerra, onde io mi lagno in tante carte, Et gli anni spesi indarno, e i giorni et l'ore. Ma quando a quella parte giunger sole, Che mi ricorda quel suave riso, Et l'atto delle tarde sue parole, Il cor fra tanto bene allor conquiso, Quasi sdegnando meco star non vole, Per gire al suo terrestro paradiso. XCIV O folti et verdi boschi, o fido albergo, Campi fioriti, ombrosi et freschi monti; O poggi, o valli, o prati, o rive, o fonti; O fonti, o rive, in cui mi bagno et tergo: Dolce piacer leggiadro, ond'io sempre ergo A lei ciascun pensier, che al cor mi monti: O caro sguardo, o capei biondi et conti. Per ch'io lagrime tante, et carte aspergo: Dolci contrade, o chiuse et chete valli, Dove da me fuggendo il cor mio stassi, Et dove co 'l disio la mente movo; O bennati fioretti bianchi et gialli, Che lei raccoglie et preme, o fiumi, o sassi, Dove son gli occhi bei, che qui non trovo? XCV Or che dall'Ocean sorge l'aurora, Et con l'umida treccia il mondo bagna, Et seco Filomela pur si lagna Sì che de i suoi lamenti altrui namora, Tornami al cor Madonna, il tempo, et l'ora, Che mai dal mio pensier non si scompagna Quando fu presa all'amorosa ragna Quest'anima, che Amor l'increspa e indora. Così nel gran disio mi levo a volo, Et tregua ho quando l'alba il ciel ne imbanca, E il cor digiuno di speranza pasco: Vien poi la sera, et io rimango solo De miei alimenti, onde mia vita manca; Così la notte moro, e il dì rinasco. XCVI Sacro, ligiadro, altiero, et puro fiume, Che adorni il mio celeste et vivo sole; Riva che senti talor sue parole, Et miri gli atti vaghi, e il bel costume; Aer felice, et tu possente lume Che m'hai fiammato omai, come amor vuole; Aer felice, donde volar suole La mia finice dall'oneste piume, Come si mena il corso antiquo in giri, Così, sospinta dalla dolce guerra, Dì et notte la mia mente par che corra Colla fiera memoria della terra, Che trarrà sempre dal mio cor sospiri Infin che Morte per pietà soccorra. XCVII Quand'è la notte oscura et quando è il sole, Allora alla tempesta, alla gran pioggia, Mentre che il gelo vince il vago tempo, Et poi che la stagion fa lieti i colli, Sempre mi è innanzi l'amorosa luce, Che in cor mi adombra quell'angelica alma. Pria so che ne morrò, che la bella alma, Che prende qualità dall'altro sole, Men cruda giri in me l'altera luce: Et nanzi i rivi scemeran per pioggia, Et sfronderansi a primavera i colli, Che mai costume cangi lei per tempo. La nova meraviglia, che al mio tempo Scese dal ciel, per consumar questa alma, Et che mi apparve tra boschetti et colli, Seguir mi fece il raggio di quel sole, Che va struggendo in lagrimosa pioggia Quel poco che mi avanza di mia luce. Non vide il mondo sì possente luce Mai, come questa che di tempo in tempo Tira de gli occhi miei più folta pioggia: Né sì leggiadra mai, né sì dura alma, Come costei, vestita di quel sole, Che mi riscalda a piè dei dolci colli. Lasso, io dipinsi già per mille colli L'angelico splendor di quella luce, Che è sola agli occhi miei verace sole; Ma poi successe l'infelice tempo, Et d'ogni bel piacer privò quell'alma, Che per questi occhi si rivolse in pioggia. Se 'l mi giovasse al sole, et alla pioggia Il sempre sospirar per selve et colli, In far pietosa questa perfida alma, Pianto lamento et sdegno di mia luce Saria stata mia vita d'ogni tempo, Da che sparisce et poi ritorna il sole, Ma scenderà dal sole allor la pioggia Et frondaransi al tempo duro i colli, Quando a sì vaga luce acqueti l'alma. XCVIII Saran questi occhi ognior di pianger vaghi, Et l'alma pur bramosa del suo ardore: Temprar non ponno il foco del dolore, Lasso, né pianti miei, né versi maghi. Né d'altro il mio signor vuol ch'io mi paghi; Né d'altro sparghin gli occhi il falso umore, Che d'una luce, che m'ingombra il core; Sì che pensar non so chi me ne appaghi. Questa è la bella luce, che mi apparse Là, dove corro sempre colla mente, Qualora Amor mi assale, per mio scampo: Questa è la bella luce, che il cor m'arse. Et che m'infiamma ancor sì novamente, Che omai cener son fatto et pur divampo. XCIX Tornami spesso in sogno, et di lontano Mi viene a consolar l'alma felice: A che pur piangi? sospirando dice; Et lusingando prendemi per mano: Misero, a che pur ti consumi invano? Non sai che al tuo disio ragion disdice? Et altro che a parlarne all'uom non lice, Che soffrir nol porria concetto umano. Onde io di tanti affanni prendo scorno. Da poi s'adira, et mi conduce in parte, Ove qual già mi si dimostra altera. Ma alfin pur mi lusinga, et poi si parte, Tal che io vorrei che mai non fusse il giorno, Né men pietosa mai, né mai più fera. C Dolce et suave, et fido mio sostegno, Che vuoi tu dirmi? giacché sì sovente Torni a vedermi: o misero dolente, Vien questo da mercede, o da disdegno? O caro di mia vita et ricco pegno, Deh, qual pietà pur mi ti reca a mente? Deh, perché omai per me quel non si sente, Se io son di udir le tue parole degno. Che giova, pur rasciughi gli occhi miei Con le tue mani; e in mezo il sonno sola Teco ti parli, et te consumi et piagni? Poi che fra mille voci una parola, Lasso, no intendo ben quanto vorrei; Né perché stando meco pur ti lagni. |
Post n°848 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti LXXXI A che mi fuggi, o perfida, tutte ore, Perché della mia impresa io mi distoglia? Non sai, che tanto più m' arde la voglia, Quanto per tuo fallir cresce l'errore? Convien, che meco pria s'appaghi Amore, Et dalla luna il sol sua luce toglia, Che l'alma vista in me non sia qual soglia, Donde sì dolcemente acceso ho il core. Non poran farlo tutti i rei pensieri, Che parturisce la sdegnosa mente, Che ognior non tenga in te l'usato stile: E che te, sola amando, in te non speri, Et notte et giorno non mi sie presente, Tanto la fiamma donde ardo è gentile. LXXXII Io non so se costei, per ch'io sospiro, Se infinga o tema, o pur di me non cura Ch'io mora affatto: et lei per mia sventura Consenta il mio non degno aspro martiro. Tu sai se già la piansi, et or m'adiro Se più che le lusinghe la paura Giamai potesse: et lei, pur ferma et dura, Tanto mi sforza più quanto più tiro. In questo il tempo perdo immaginando, Finché un pensier geloso il cor mi strugge, Che questa ingrata per altrui sospire: Che, se non come vien sparisce et fugge, Alla mia pura fede ripensando, Veracemente io ne vorria morire. LXXXIII Tanto m'ingombra Amor, tanto m'affanna Sotto il gran peso dell'antica arsura, Che, come Circe già con sua pastura, Dell'intelletto il mio vedere appanna. Ben veggio l'esca ascosa, che m'inganna, Al gusto dolce fuor d'ogni misura: Ma par che mi trasmuti di natura Medusa, che a seguirla mi condanna. Il filo è rotto, ond'io regger solea Nell'ampio laberinto il cieco passo, Sì che giamai non spero uscirne in vita. Non mi val di Ariadna, in ch'io credea, L'alto consiglio: ond'io dubioso et lasso Vo palpitando per la via infinita. LXXXIV Se la memoria dei passati affanni, Che mi stan sì confitti in mezo il core, O per mia sorte, o per pietà d'Amore, Mi fusse tolta, o per virtù degli anni, Un tal riguardo avrei da i nuovi inganni, Dall'un fuggendo, et poi dall'altro errore, Ch'io ne farei del gran tormento fore, Che par che a pianger sempre mi condanni. Ma pria cascaran dal ciel le stelle, Che in l'alto laberinto l'uscio trove, Che non mi annode a più possente laccio. Così convien, che sempre rinovelle Amore in me, con sue vaghezze nove, L'antica febre o d'uno in altro impaccio. LXXXV Amor, mia stella, et l'aspre voglie e tarde Di lei, che del mio mal sì poco cura, Mi fanno ad ogni or guerra: Amor mi fura Il cor, pur disiando quel che m'arde. Fortuna altro giamai par che non guarde, Se non che l'alma mia non sia sicura; Et la spiatata voglia acerba et dura Par che ogni mia speranza a venir tarde. Che poss'io più : volendo il Signor mio, E il ciel, che armato contra me s'ingegna, Durando al cor feroce il pensier rio? La mente fra gli oltraggi si disdegna, Onde, a dispetto, segue quel disio, Che in tutto a mia salute disconvegna. LXXXVI Io sento senza inganno omai mia vita, Che il tempo caccia verso l'ultime ore, Monstrar per segno dentro il suo valore Languido nella faccia scolorita. Amor, che a consumarmi il tempo aita, L'acceso stral confitto nel mio core Per tutto ciò nol tragge ancor di fore, Compreso nella fiamma tramortita. Sento natura omai vincer da gli anni, Che mi trasportan ver la stagion dura; Et per doppio martir fiaccar l'etade: Né ancor per tutto questo dagli inganni Di lei guardar mi so, che il cor mi fura; Tanto m'abaglia l'alta sua beltade. LXXXVII Io non posso fuggir l'ascose ragne, Che Amor contra mia vita ha tese et sparte: Né qui sicuro sto, né in quella parte, Dove paura et duol l'alma trista agne. Onde la mente mia dì et notte piagne; Né sa star qui, né quinci si diparte, Abandonata da Ragione et d'Arte, Che fur nei dubi suoi fide compagne, Et come augel che pria s'aventa et teme, Stassi fra i rami paventoso et solo, Mirando questo et or quell'altro colle. Così mi lego et mi ritengo insieme, L'ale aguzando al mio dubioso volo, Ch'io prego che a Dio piaccia non sia folle. LXXXVIII Deh, non più cenni omai, non falsi risi, Se tanti prieghi et lagrime non curi, Non, falsa disleal, che tu mi furi Gli spirti ad uno ad un dal cor divisi: Non più lusinghe omai, non lieti visi In vista, che al tornar mi rassicuri Non subiti sospir sopiti, et furi; Non atti pien di froda, o sguardi fisi; Non tendere altra rete a gli occhi miei, Che quella che gran tempo intorno hai sparta A pigliar l'alma che in te sol s'affida; Né temer che giamai da te mi parta: Et benché alcuna volta in vista io rida, Non son sì sciolto, non, come vorrei. LXXXIX Tutto il quarto anno il cielo ha già rivolto, Et già del quinto scalda il mezo Apollo Dal dì, che io porto il grave giogo al collo, Che all'ultimo dì sol me sarà tolto. Et nella rete di Cupido avolto Tremo l'estate, et quando inverna io bollo, Pur senza una fiata anco dar crollo Dall'aspro giogo, ond'io mai non sia sciolto. Ma ben porrò sì carco andar mille anni, Et altretanto stretto al fiero laccio, Tremando, ardendo, calcitrando invano: Ma non sì che dì et notte, come or faccio, Per far pietosa, indarno io non m'affanni, La cruda sopra ogni altra et bella mano. XC Solo, cacciando un dì come Amor volle, Un candido armelin tra i fiori et l'erba, Seguendolo una fera aspra et superba, Mi apparve a pie' d'un fresco et verde colle. Stanco parea, con gli occhi e il viso molle Chieder soccorso alla sua pena acerba, Talché un cordoglio in mente ancor mi serba Quell'atto sì che ogni piacer mi tolle. Et giunto al passo, ove poi morte il vinse, Fermossi qui, per non macchiar nel fango Suoi casti piedi, e le innocenti membra: Allor sì forte una pietà mi strinse, Che alfin ne piansi, come ancor ne piango, Piangerò sempre infin che mi rimembra. |
Post n°847 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XVIII Se del mio breve dir sai coglier frutto, veder ben puoi che le guerre del mondo son le piú volte sol per voler tutto. Segue Anastagio d’ogni vertú mondo, il qual fe’ di Filippo tal lavoro, 5 qual saprai se ne cerchi in fin al fondo. Tre anni fece sopra il mio dimoro; dolce mi parve, quando udio com’esso prete era fatto in pover concistoro. Cacciollo Teodosio, che apresso 10 prese la signoria; ma durò poco, ché Leo a lui fe’ quel giuoco stesso. Ahi, lassa, quanto m’era al cor gran foco veder tanti cattivi a tradimento esser signor di cosí degno loco! 15 Cinque e venti anni Leo mi tenne a stento, lussurioso, infedele e superbo e vago de l’altrui distruggimento. In questo tempo sí crudo e acerbo Rachis, re longobardo, lasciò il regno 20 sol per servire al sommo e primo Verbo. Elprando di Sardigna sopra un legno a Ienua fe’ venire, e poi in Pavia, le ossa d’Agustin beato e degno. Tanto fu Leo pien di gran resia, 25 ch’oltra mar fe’ disfare ogni pintura di Cristo e de’ suoi Santi e di Maria. Poi che morte disfé la sua figura, la signoria rimase a Costantino, peggior che Leo suo padre per natura. Qui vo’ che tenghi un poco il capo chino e con gli orecchi de la mente ascolti, sí che noti il parlar mio pellegrino. Soli settecenquaranta eran volti da Cristo in fin al tempo ch’io ti parlo, 35 e, s'alcun ne fu piú, non ne fun molti, dico che in Francia d’un Pipino un Carlo Martel vivea e come nato fosse principe e maggiordomo udii nomarlo. Costui del mondo ad acquistar si mosse 40 e, per suo gran valor, prese Sansogna e poi Lanfrido piú volte percosse. Similemente vinse la Borgogna e contro a Eudon rivolse il freno: li tolse Equitania fino in Guascogna, 45 Lotoringia, Soapia e lungo il Reno Bavaria; e quasi in fino al Danubio per sua vertú si mise tutto in seno. E i Saracin, di ch’io presi gran dubio, cosí distrusse, come fosser stati 50 nel Bulicame o dove arde Vesubio. Trecento milia e piú ne fun trovati morti per lui e, dopo tanta guerra, gli occhi li fun da la morte serrati. Due figliuoli ebbe, che partîr la terra: 55 nominato fu il primo Carlomano, che la Turingia e piú terreno afferra; l’altro, che parve in ogni atto piú strano, il Principato e la Borgogna tenne e a costui fu detto Pipin nano. 60 Poi questo Carlo monaco divenne in Casin monte, onde la signoria ebbe Pipin, che forte la mantenne. Regnava allora Astolfo in Lombardia, per cui gran danno e piú ingiurie soffersi 65 di fuori e dentro la cintura mia. E tanto funno i suoi modi diversi, ch’io mandai in Francia a Pipin per aiuto e me e il mio tutto li profersi. Ond’ello, che non fu sordo né muto, 70 a me ne venne e sí ben mi soccorse, che racquistai ciò ch’io avea perduto. Astolfo, vinto, a dietro si ritorse; passò i monti e poi per ver ti dico l’amistá fu tra noi senz’alcun forse. 75 In questo tempo in Francia Ilderico tanto cattivo e misero regnava, che dispiaceva a qual piú gli era amico: onde Pipin, che ’l regno vagheggiava, iscrisse a Zaccaria, sommo pastore, 80 che, per lo suo ben far, quant’io l’amava: – Qual è piú degno rimanga signore o colui che solo il nome ne tene e che vive ozioso e non n’ha il core, o quel che il carco del regno sostene 85 in ciascun caso? – E Zaccaria rispose: – A qual util n’è piú, a quel s’avene –. Or, per abbreviare queste cose, Ilderico con ogni sua famiglia monaco venne e quivi si dispose; 090 onde Pipino allora il regno piglia. |
Post n°846 pubblicato il 18 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) In cui celesti grazie infonde e piove Cinzia, Venere, Amor, Pallade e Giove Per far beato il Po, superbo il Taro. Senza ch'io vada in Babilonia al Faro, In Rhodo, e 'n Caria, o pur vagando altrove Veggio le meraviglie antiche e nuove Nel sol degli occhi vostri ardente e chiaro. Io scerno al folgorar de' lumi onesti La vista ricovrar gli uomini orbati, Ridere il pianto e rallegrarsi il duolo, E scorgo in qual maniera il fermo polo Ratto si muova ed in qual guisa arresti Repente Apollo i suoi destrieri alati. [15 Di Diomede Borghesi] Di Diomede Borghese per l'istessa signora Contessa.
Mentre nocchier più fortunato e degno Di quel che forte amò l'invitto Enea Solcando un picciol mar, donna scorgea C'ha sovrana beltà, sovrano ingegno, Vaghe ninfe stimar che 'l picciol legno Onde l'acqua e la terra e 'l mare ardea Ivi portasse l'onorata dea Che su del terzo ciel possiede il regno. Però sparser di fiori un nembo a prova E quinci e quindi a la barchetta ov'era Chi col guardo divin l'odio innamora. Hor'a cui non parea Venere nuova Quella dolce d'amor aspra guerriera Le cui serene luci il sol onora? [16 Di Diomede Borghesi] Da te, ch'hai reso a' fiumi alteri uguale L'umil Secchia, d'onor prendono esempio Quei che sgombrando il vano affetto ed empio Cercan chiaro acquistar grido immortale. Tu, che prudente mostri animo egregio Debito premio a le virtù dispense, Ch'è lor da volgar turba oggi conteso. A ragion dunque il saggio, invitto Estense, De la superba Italia unico fregio, Di gravi cure a te commette il peso. [17 Di Diomede Borghesi] Lo mio giorno seren torbido farsi Già vidi, e 'l vago Aprile orrido verno, Hor d'infiniti strali egro discerno Per piagar lo mio cor fortuna farsi. Guido, che guidi fortunata gente Lungi da turba niquitosa e 'ngrata Per le vestigie tue d'onore al tempio, Ah! non ti duol che sì gravoso scempio Sostenga indegnamente alma ben nata, Ch'ammira il tuo valor chiaro eccellente? [18 Di Diomede Borghesi] Chi può, Guido, a ragion, quant'io, dolersi Io, se ben giovinetto, a Febo offersi L'ingegno, a cui spiegato ho in guisa l'ali Che donne e cavalier forse immortali Lode n'avranno, e pregi alti e diversi. Un raggio di virtù splender non veggio, Che tranquillando il mio pensier turbato L'atre mie notti dolorose aggiorni. A te soccorso in tanti affanni or chieggio, Che domita l'invidia, e vinto il fato, Meni, carco d'onor, placidi i giorni. [19 Di Diomede Borghesi] Qui tien lo scettro Astrea, qui d'Elicona Ben s'hanno in pregio e 'n reverenza i numi, Qui splendon di prudenza eterni lumi Sovrano han seggio qui Marte e Bellona. Qui son le penne a celebrare intente, Non già chi d'or; ma chi d'onor abbonda, E 'l vizio è qui della virtù mancipio. Mercè del chiaro e fortunato Estense; Che l'alma del valor fregia e circonda, Onde s'ammira ancor Cesare e Scipio. [20 Di Diomede Borghesi] S'ergan fini metalli e toschi marmi A te d'amor divino illustre obbietto, E qual più veggia il sol chiaro intelletto Ti sacri eccelsi ed onorati marmi. Per te ch'acquisti le ricchezze eterne Dando a l'alma virtù conforto e speme Cui premea grave duol, aspra temenza, Ferrara, Italia, Europa, e 'l mondo scerne A suprema beltà congiunta insieme Castità singular, somma prudenza. [21 Di Diomede Borghesi] Come ghirlanda e fregio alta corona Tal di leggiadra e d'immortal corona T'ornerà Giove di lucenti stelle La vaga fronte e 'l crin degno d'Apelle, Per cui la terra e 'l mar GIULIA risuona. Quando primier la tua bellezza vera Che nel sonno maggior gli occhi m'aperse Sembrar mi fece al sol falda di gielo, L'errante voglia mie d'amaro asperse Fermarsi e s'addolcir, levossi al cielo Sopra i vanni d'onor l'anima altera. [22 Di Diomede Borghesi] Luci, le cui bellezze altere e sole Raggi, per cui tra il gielo apron vïola, E si rallegra e ride il duolo e 'l pianto; Stelle, dal cui splendor s'alluma il manto De l'atra notte e s'abbarbaglia il sole. Lampi, che Giove ognor guarda benigno; Occhi, che fate d'oro il secol nostro; Faci, l'alte cui fiamme il cor m'hanno arso. Ben di lode mi sembra esservi scarso Col dir ch'il dolce sguardo unico vostro Fa di palustre augel candido cigno. [23 Di Diomede Borghesi] Luci, le cui bellezze altere e sole Raggi, per cui tra il gielo apron vïole E si rallegra il duol, e ride il pianto: Stelle, dal cui splendor s'alluma il manto De l'atra notte e s'abbarbaglia il sole. Lampi, dond'escon sempre aurati dardi; Occhi, le cui facelle il cor n'han arso Tal che tutto di fuori ancho sfavillo. Ben mi sembra di loda esservi scarso Nel dir che i dolci vostri unichi sguardi Puon far di tempestoso il mar tranquillo. [24 Di Diomede Borghesi] Già segnava Ciprigna il novo albore, Deh! spegni, forsennato, il fiero ardore E non dar loda in Elicona, o vanto A dolci note, a sguardo altero e santo Di chi l'orgoglio e 'l fasto appella onore. Ratto squarciando un tenebroso velo Pon freno a quei gravosi, aspri lamenti, Che talor di pietà fermano i fiumi. Ch'altri soavi e dilettosi accenti, Altri vaghi, sereni, ardenti lumi Daranti l'ale da volar al cielo. [25 Di Diomede Borghesi] Seme, del caro primo alto diletto Fiammeggiante rubin, corallo eletto, De la terra e del mar pompa e splendore, Bocca leggiadra, in cui per farsi onore Pose natura un ben saldo e perfetto. Se mai degnato a sì soavi baci Io potessi gustar del puro alquanto Nettar, che 'l cielo in te distilla e piove, Vedrei l'aspre mie guerre in dolci paci Cangiarsi, e 'n riso il miserabil pianto Talché n'avrebbe invidia Apollo e Giove. [26 Di Diomede Borghesi] O per cui le vïole il pregio han tolto Nel tuo vago, seren, candido volto, Ove Amor trionfante alberga e posa Risplende un sol, cui vagheggiar non osa Chi tra foschi pensier vive sepolto. Se giamai dunque il ciel tanto m'arride Che la mia Musa elegga incolta e tetra A cantar tue bellezze, illustri e nuove, Ben farà questa rozza, incolta cetra Sonar le glorie tue da Battro a dove La meta pose a' naviganti Alcide. |
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il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50