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Messaggi del 19/12/2014

Rime inedite del 500 (XV)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XV

[1 Di Giovanni Andrea Gesualdo]

Del Getualdi

Tra verdi piagge e tra correnti rivi,

Al dolce mormorar di lucide onde,
Col bel favor d'un glorïoso lume
Lieto udir mi facea con dolci note,
E fummi un tempo sì benigno il cielo
Ch'ogni uom gradiva il mio soave canto.
Mentre più intento al viver lieto, al canto
Erbette e fior cogliea tra freschi rivi,
Sì fiero incendio in me piovve dal cielo
Che né al freddo liquor di liquide onde,
Né al dolce suon de le continue note
Temprar potei l'assalto di quel lume.
Al fiammeggiar del dispietato lume,
Lasciando a parte il dilettoso canto
E l'erbe, e i flori, e 'l suon de le mie note,
Fuggendo corsi ove ben mille rivi
Sparge una fonte ognor di sì chiar'onde
Che tali in terra mai non vide il cielo.
Ben mi fu al tempo gratïoso il cielo
Quando contro all'ardor del terzo lume
Mi diede il refrigerio di quelle onde,
Che destar ponno l'amoroso canto
Nell'alma accesa, al mormorar de' rivi
Dolci sonanti, e le più calde note.
Or vorrei ben ch'Amor con le sue note,
Scendendo qui tra noi dal proprio cielo,
Or che dritto ne mira e secca i rivi
Co' caldi raggi suoi l'ardente lume,
Qui mi dettasse un sì mirabil canto
Ch'i' potessi addolcirmi sì belle onde.
Se degno potrò farmi di queste onde,
Temprando i miei sospir con alte note
Si ch'alla fonte mia non spiaccia il canto
Forse gradite ancor fien sotto il cielo
Quest'acque sì che sempre all'ombra e al lume
Faranno al mondo i più pregiati rivi.
Più degni rivi non conobbe il cielo
Né fe' note apparir più vago lume,
Né scaldò canto mai più nobili onde.

[2 Di Giovanni Andrea Gesualdo]

Del Medesimo

O chiara fonte, che con lucide onde,
Rinfreschi il tuo real seggio d'intorno,
E quello rendi sovr'ogni altro adorno
Col divino valor che 'n te s'asconde.

Conservi il ciel le sue fiorite sponde,
E più beato ognor di giorno in giorno
Faccia il tuo lieto e candido soggiorno
Tra queste grazie a mille altre seconde.

Tranquillo e puro il tuo bel sen si mostri,
Né tronco, o sasso mai delle fresche acque lo
Disturbi, o rompa la chiarezza viva.

Sian da te lunge i dolorosi mostri,
E 'l mormorar che pria tanto mi piacque
Tra l'erbe e i fiori eternamente viva.

[3 Di Giovanni Andrea Gesualdo]

Del medesmo

Itene, o folti miei sospiri ardenti,
Al puro sen di quelle gelide onde,
E lo 'mpresso rigor ch'ivi s'asconde
Rompete, aspra cagion de' miei tormenti.

O se benigno Amor di sì possenti
Note v'armasse mai, che le profonde
Acque rendeste tepide e gioconde,
Ond'è il principio e 'l fin de' miei lamenti!

E fu ben già che 'l vostro intenso ardore
Novella fiamma i duri petti accese;
Ma lasso! Hor nulla al gran bisogno vale.

Che 'n freddo ghiaccio il bel vivo liquore
Compresso è tal che di faville accese
Non teme, onde fia eterno il nostro male.

[4 Di Giovanni Andrea Gesualdo]

Al bel nido real, ch'adorno e chiaro
Rendono i raggi del mio vivo sole
Torno oggi a veder l'altere e sole
Grazie che 'n modo tal pria mi legaro.

Per racquistarmi un sol fido riparo,
Ch'i' provo al pianto che m'affligge e duole,
Cerco il bel riso e 'l suon delle parole
Ch'al cuor rimbomba sì soave e raro.

Ma d'onde avvien che sì sgomenti e treme
L'anima stanca, e quanto al dolce lume
S'appressa più, maggior cresca l'affanno?

Lasso! Ben veggio che l'accesa speme
Perch'io del tutto ardendo mi consumo
Mi guida e sprona al mio più grave danno.

[5 Di Giovanni Andrea Gesualdo]

Può bene il sol nel lucido orïente
Nascendo rimenarne il chiaro giorno
Sgombrar le nebbie e far il mondo adorno
Col lume suo sì candido e lucente.

Ma, s'obbietto vi sia troppo possente
D'un nembo tal che neghi il bel soggiorno,
Non più ai raggi serenar d'intorno
Sì ch'opri in terra quel vigore ardente,

Così il mio sole ogni profondo orrore
Col valoroso de' begli occhi assalto
Vince, il mio non che troppo è folto e grave.

Ma forse al lungo andar l'alto splendore
Aprendo il cuor con l'amorosa chiave
Torrà il mio cieco e tenebroso smalto.

[6 Di Giovanni Andrea Gesualdo]

Voi ch'attendete a glorïose imprese,
Per farvi ricchi d'immortal tesoro
Onde s'aspira a trionfale alloro
Bel pregio è fin di vostre voglie accese.

Indarno fien tante fatiche spese,
Se dove alberga il più laudato coro
Qui non volgete il vostro bel lavoro
Ov'è chi in gentil fuoco il cor m'accese.

In questa fonte, ch'el bel nido reggio
Rende sì altiero e di bei fiori adorno
Onde in me sorge l'onorata spene,

Lunge dal primo loro antico seggio
Fan le grazie e le muse alto soggiorno,
Or qui s'acquista il disïato bene.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (2-20)

Post n°856 pubblicato il 19 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XX

La scelerata e ’l cieco, che t’ho detto, 
regnâr diece anni con tal vituperio, 
ch’al mondo n’era e a me un gran dispetto. 
Tenne apresso Niceforo lo ’mperio; 
ma tanto giá di lá era scaduto, 5 
che poca briga avea del magisterio. 
Nove anni fu signor tanto perduto, 
che quel s’udia ragionare di lui 
come non fosse al mondo mai venuto. 
Seguio Michele apresso di costui, 10 
lo qual similemente poco fece, 
per quel ch’udissi, bene o male altrui. 
Questi imperò otto anni men di diece 
e in questo tempo il bello uccel di Giove 
trassi di mano a quelle genti grece. 15 
Quattrocento anni e nove volte nove 
esser potean, che Costantin del regno 
mio l’avea tratto a far di lá sue prove. 
Ma poni a quel ch’or ti vo’ dir lo ’ngegno, 
sí che, se mai di ciò vuoi ragionare, 20 
dirittamente sappi dar nel segno. 
Dico ch’al mondo quattro regni pare 
che siano stati, i quali in fra la gente 
piú degni sono da dover notare. 
Lo primo fu diritto in Oriente, 25 
tra Eufrates e Tigris, in Babilona, 
dove Nino regnò in primamente. 
Quivi Semiramis tenne corona 
con la sua bestial legge e fu sí cruda, 
quanto fu mai alcun’altra persona. 30 
E perché ’l tempo a punto si conchiuda 
com’era antico, io ti dico ch’allora 
Abraam di Iesse regnava in Giuda. 
Nel mezzodí lo secondo dimora 
in Cartago, lá ’ve la bella Dido 35 
la cener di Sicheo e sé onora. 
Qui dico come vuol Giustin, che ’l grido 
d’Enea pon falso, che la mia Lucrezia 
non fu di lei piú casta nel suo nido. 
Di vèr settentrion lá ne la Grezia, 40 
in Macedonia, il terzo seguio 
per Alessandro, che tanto si prezia. 
E questo fu nel tempo propio ch’io 
col buon Fabio Massimo vivea, 
* e con Papiro mio,45 
quando l’ardita schiatta Maccabea
armata stava e combattea d’intorno 
come campion de la gente Giudea. 
Il quarto, piú possente e piú adorno, 
fu qui in ponente e io, che ne fui donna, 
Cesar mi vidi e Ottavian d’intorno. 
Qui stetti ferma in su l’alta colonna, 
in fin che fede, prudenza, esercizio 
usâr color che fenno la mia gonna. 
Ma poi che lasciâr questo e diensi al vizio, 55 
come t’ho detto, e poi che Costantino 
l’aguglia tolse dal mio propio ospizio, 
cotale è stato, lassa!, il mio distino, 
che pur di male in peggio andata sono 
né par per migliorare il mio cammino. 60 
Di questi quattro regni, ch’io ragiono, 
il primo e ’l deretan funno quei due 
che maggiori e piú degni dir si pono. 
Il primo si disfece e cadde giue 
allor che ’l feminin Sardanapalo 65 
preso e morto per Arbaces fue. 
E propio quando questo venne al calo, 
Procas vivea, da cui prendo il principio, 
come per me ancora altrove sa’ lo. 
De gli altri due del mezzo, il greco accipio 70 
che fu maggiore e di piú ricca fama, 
che quel che sfenno l’uno e l’altro Scipio. 
Oh, vanagloria, se’ come una rama 
di persico fiorita, che in un poco 
se’ tanto bella e poi mostri sí grama! 75 
Folle è qual crede, in questo mondo, loco 
dove si possan tener fermi i piedi, 
ché tutto è buffe e truffe e falso gioco. 
Ma perché penso ben che tu tel vedi 
come vegg’io, a questo vo’ far punto 80 
e ritornare a dir quel che mi chiedi. 
Tu odi ben come di punto in punto 
venuta son fin a l’ultimo Greco, 
di quei signor che ’l mio avean sí munto. 
E puoi veder che, ragionando teco, 85 
sempre ti fo di quattro cose chiaro: 
l’una è del tempo che son vissi meco; 
l’altra è qual mi fu meno e qual piú caro; 
la terza, ch’io ti mostro e ti diviso 
di qual morte a la fine terminaro. 90 
L’ultima e quarta è che ancor t’aviso 
del tempo mio, a ciò che tu ridire 
il sappi, se ’n parole ne sei miso. 
Piú cose ci ha, ch’assai ti potrei dire 
de’ fatti lor, ma tacciole, ché penso 95 
ch’a te sarebbe noia a tanto udire
ed a me gran fatica al quarto senso.

 
 
 

Rime sparse (2)

Rime sparse di Giusto de' Conti

CCXI

A Filippo Galli (?)

Messere Filippo, e' par che ne i tuoi detti
Tu dubiti, se amor, ne l'ore estreme
Ha forza negli amanti, come insieme
Mancassen con la vita nostri affetti.

Se questo fusse, a che nostri intelletti,
Virtù seguendo, al cielo alzan sue speme?
A che l'antiche colpe l'uom pur geme
Per mille van speranze, et van sospetti?

Io dico, che, congiunti al sommo Amore,
Amar l'un l'altro poi non sol ne lice
Anzi è necessità, che a quel n'accende:

Che l'alma, sciolta dall'umano errore,
Tanto più sente, quanto è più felice;
Et tanto ha più d'amor, quanto più intende.

CCXII
 
Ad Angiolo Galli
 
Se mai per la tua lingua il sacro fonte
Al tempo nostro verse acque più belle,
El il lauro secco Apollo rinnovelle
Per adornar sol la tua degna fronte,

De, dimmi: e' mai vendetta di nostre onte,
Che Italia a torto in servitù rappelle:
O pur congiuntion di fere stelle
Fermate eternalmente all'orizzonte?

Che homai tanti anni el ciel volgendo intorno,
Per affondarla, notte et dì la investe
Fortuna, che ne tien sotto al tributo:

Tal ch'io discerno infra le gran tempeste
L'Italico valor con nostro scorno
Da barbari già vinto et combattuto.

[Poesia]

Risposta di Angiolo Galli

Le acque che scendon giù del sacro monte
Et le fronde de l'albor tuo novelle
Al gusto et capo mio son più rebelle
Ch'anima sancta al passo d'Acheronte.

Ma l'atto per cui al ciel tu monte
Le tue rime ligiadre dolce et snelle,
Che chiedon qui dal muto le novelle,
Fanno le voglie mie al servir pronte.

Adonque a l'alta tua dimanda torno.
Non giusticia de Dio che ci moleste
Né da maligna stella è proceduto,
 
Ma il capo nostro che il gran manto veste
L'Italico giardin già tanto adorno
A' barbar che tu dici ha conceduto.

CCXIII

Ad Angiolo Galli

Non sento ancor che vogli onor farme
In acostarti ai dolci miei consigli,
Et temo forte ch'amor non te pigli
Et che te spezi adosso ciascun arme.
 
Et come Aquila Augello veder parme
Ghirmirti quel onghiuto infra gli artigli:
Getta per pentimente a terra i cigli
Et miserere grida coi tuo' carme.

Che 'l dolce et benigno de natura
Et al pentimento ha animo reale:
Non aver del tuo scampo poca cura.

Se mai sentisti l'amoroso strale
Quanto è suave et dolce la puntura
Tu mettaresti al pentimento l'ale.

[Poesia]
 
Angiolo Galli a Giusto
 
Quanta invidia vi porto erbette et fiori
Calcate et tocche da le nobel piante,
Visti arboscelli delle luce sancte
Che bear vi possette a tai splendori;
 
Quanta invidia vi porto et quanti onori
Tollete or dal aspecto triumfante,
Quanta ten porto o rosignol che cante
Perché madonna de te s'innamori.
 
Ma quanta invidia a voi rose et viole
Da quella mano oimé eburnea colte
Che tra[e] del core el duol che gli occhi versa.
 
Ma più me porge invidia et tema el sole
Che sel mai vede quelle treze sciolte
Terà che laura sua non sia conversa.

[Poesia]
 
Angiolo Galli a Giusto
 
Se renchiuso non sei in qualche cappa
Religioso o nuovo predicante;
Se non sei come quel ch'a sancti et sancte
Con occhi, mano et bocca i piedi agrappa,
 
Perché tua lingua d'amor tanto frappa
Che chi vuol stare in questo mondo errante,
Et non s'ingentilisca esser amante
Ben l'ha fatto natura un uom da zappa.
 
Va su a la terza stella et vederai
Quel che ne dice il fiorentin poeta
E il fin del rozo Ameto forse el sai.
 
D'amor felice qual cosa è più lieta?
Pensa se 'l ben d'amore e benché i guai
Son dolci et sa l'om savio et profeta.

CCXIV
 
Ad Angiolo Galli
 
Se Amor fanciullo qual po dar consiglio
Et nudo qual speranza porge altrui
Et s'egli è cieco come drieto a lui
D'ocio concepto et de lascivia figlio

Qual sia sua voglia ben lo sa colui
Che quel seguendo non intenda a cui
Giamai per suo ristoro dia di piglio.

I suoi fedel seguaci a sua sembianza
Forma costui fanciullo ceco et nudo
Senza consiglio et guida a men speranza.
 
Prendase adonque de Minerva el scudo
Disotto a cui se pieghi ogni possanza
D'amor ch'è dispietato acerbo et crudo.

[Poesia]
 
Risposta di Angiolo Galli
 
Amor, già per un sancto non te piglio,
Ma in falsa opinion sei tu che rui;
Io de questo veder so sempre et fui
Che schifar non se possa el tuo artiglio.
 
Quel che viene a caso aprigli el ciglio
Che mirabil saran gli afecti sui:
Nel crederiano gli intellecti bui
Et però lietamente ten consiglio.
 
Ma non acender sì la disianza
Che cerchi ad esser preso ad ogni ludo
Né de' pigliare ogni uscio per tua amanza.
 
Che danno anch'io un simil facto drudo,
Et se men lodo, frate d'oservanza,
Che fai d'amor gentil tanto refiudo.

[Poesia]
 
Angiolo Galli a Giusto
 
Se tu repense al ben già ricevuto
In omne parte per la man d'amore,
Pria che de teneri anni fosti fore
Et ora più benché non sii canuto,

Non gli poristi dar degno tributo
Se mille volte el dì gli dessi el core;
Sallo lo retardar per cui tu more
Et sai ben tu quel che vol dir lo muto.
 
O ben creato et glorioso amante
Ch'a sì felice fin sì tosto corse
La voglia tua altera et pellegrina,
 
Tu godi el fructo de le luci sancte;
Beato te che mai non fosti in forse
De la tua dea et pria d'una angelina.

CCXV
 
Risposta di Giusto
 
Pensando allo mio bel tempo perduto
Negli aspri affanni et nel crudel dolore,
Ove piangendo vissi in tanto errore
Che morir meglio assai sarebbe suto,

Ben mille volte et più mi son pentuto
D'esser stato d'amor bon servitore,
Essendo falso ingrato et rio signore,
Tu 'l sai ben che com'io l'hai conosciuto.
 
O sventurato me che pene tante
Ho sostenute per chi mai non puorse
La man pietosa a l'anima meschina.
 
Per non star più nel primo error costante
Seguirò el ver signor che me soccorse,
Sol contemplando sua virtù divina.

[Poesia]
 
Angiolo Galli a Giusto
 
Non fugge amor per lo fugir degli anni
In cor gentil per prender dignitade,
Per pensier gravi, o per matura etade,
Per novi offici o per togati panni.
 
Non lassò per trovarsi in alti scanni
David amor, non Ercul per bontade;
Et fini Troyl fra le tante spade
La vita, pria che gl'amorosi affanni.
 
Se l'antica, ligiadra et bella mano
Triumfa cum Victoria del tuo core,
Spandime fuora el condito tesauro.
 
De, non tener sì alto stile in vano,
Ché tanto staria Giusto senza amore,
Quanto che senza verde foglia un lauro.

CCXVI
 
Risposta di Giusto
 
Come chi, facto accorto con soi danni,
Timido va per le secure strade,
Così pavento e stommi in libertade:
Lasso, che mal provai de amor l'inganni!
 
Non è novello officio che me affanni,
Non fresca degnità che me non cade,
Non tempo già, né toga ch'or me aggrade,
Cagion ch'io fuga amor che tene inganni.
 
Ma poi che sdegno e zelosia lontano
Mi fe' da lui, doglioso del mio errore,
Miei gravi danni col pentir ristauro.
 
Mira se al tempo amor mi fu ben strano,
Quando or, pensando al dubbio ond'io son fore,
Mi ritrasformo in sasso più che Aglauro.

CCXVII
 
Gloriosa, benigna, umele e pia,
Vaga, legiadra, bella, acorta e desta,
Magnifica, gentil, apta e modesta,
Real, cortese sopra ogn'altra dia;
 
Sdegnosa, altera, superba et empia,
Fiera salvagia, crudelle e infesta,
Retrosa, alpestre, crudelle e infesta,
Perfida, iniqua, dura, acerba e ria.
 
Mi par veder madonna in un sol ponto,
Quanto con gli ochi gira intorno intorno,
E mira l'ombra de mia alma aflita.
 
Ai, lasso me, che po' che in men d'un giorno
Mi pol far lieto, over da lei disgionto,
Perché mi stracia e perché non m'aita?
 
CCXVIII
 
Quand'io risguardo di Madonna el viso
In cui il Maestro pose ogni misura
Sol per mostrarci al mondo una figura,
Simile a lui nel ciel da noi diviso,
 
I' mi rivolgo in mente gli occhi e 'l riso,
Che farien giorno quando è notte oscura,
E nel freddo giel fiori e verdura,
E ritornare i fiumi al paradiso.
 
Allor ringratio ogni mio fato e stella,
Perché mia ninfa in fonte o in caverna
Non fu, non è, né mai sarà sembiante.
 
Ma ben m'incresce, anzi mi dolio, d'ella,
Che tanta crudeltade in lei discerna,
Che so può farmi, di suo servo, amante.
 
CCXIX
 
Per mezo i nervi e gli ossa al fredo core
Passa la crudel fiama, ond'io enfoco,
Cercandomi ogni vena, sì che poco
Di me lassiato ha saldo il fiero ardore.
 
In tuto è sparso tutto il mio dolore,
E la mia angoscia è tuta in ciascun loco;
Così di parte in parte insieme un foco
Mi strugge, mi consuma, arde a tutore.
 
E sempre accesa in mez'al cor mi dura
E mi divora le medole e polpe,
Tal che di me non resta parte intera;
 
Né so s'amor, madona o ventura,
La mia schiochecia o la mia stella fera,
O tutti insieme del mio mal ne 'ncolpe.
 
CCXX
 
Ricerca fonti, valle, boschi e fiumi,
Pendici e spiagge, sassi e ripe alpestre,
Caverne disperate e vie silvestre,
Inospite spelunche, anfrati e dumi;
 
Trascorri i più selvaggi e rei costumi,
Giente proterve, irsute e più sinistre,
Persone men civil e più modeste,
Rivolgi i nostri et ancor gli altri volumi;
 
E poi ti meraviglia in cielo e in tera,
Per mandre dolorose un più mendico
Del mio stato infelice non trovarse.
 
E sapi ch'io non erro a quel ch'io dico,
Che non è duol che avanti la mia guera,
Né mai foco amoroso tanto arse.

[Poesia]
 
Rosello Roselli a Giusto
 
Ora è tanto maggiore el mio dolore,
Quanto più chiaro veggio el mio finire,
E duolmi ch'io non posso el mio languire
Dimostrare a costei che m'è Signore.
 
Giusto, s'io mai cogliessi el gentil fiore,
Che l'anima dal corpo fa partire,
El piacer che m'arei nol potrei dire,
Seria contento s'io son servidore.
 
Ma questa donna, che m'è vera duce,
Di me non cura e non mi mostra el segno,
Sì che al tutto convien la morte io chieggia.
 
Per servirla con fe' posto ho ogni ingegno,
Ella pur cruda a pianger mi conduce,
E non creda al mio mal, benché ella il veggia.

[Poesia]
 
Giovanni Battista de' Refrigerii bolognese in lode di Giusto
 
Non cantò mai de Laura o Beatrice
L'un tosto e l'altro in sì legiadro stile,
Che d'una bella man Iusto gentile
Cum tanta altezza, che più dir non lice.

O Roma antiqua, or nova productrice,
Quel frutto, ch'era spento in te senile
Ben vendicasti, onde era obscura e vile
La gloria del tuo nome alto e felice.
 
Qual fu mai visto più excellente ingegno
Spirti gentili, anime ellecte e dive,
Qual più de fama e più d'onor degno?
 
Però se eterna gloria tra voi vive,
Sia celebrato ormai nel vostro regno,
Tra lauri, mirto e verdeggiante olive.

[Poesia]
 
Basinio Parmense in lode di Giusto
 
Iuste Poeta iaces, sed non tua fama iacebit:
Sis licet extinctus, nomine vivus eris.
Corpora labuntur gelido mortalia fato,
Carmina per nullos sunt obitura dies.
Dum Sigismundus, dum sit Malatesta propago,
Dicetur laudes Legis amore tuae.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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