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Messaggi del 20/12/2014

Il Dittamondo (2-21)

Post n°866 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXI

Qui vegno a dir del magnanimo Carlo, 
le cui virtú fun di sí alto frutto, 
che di miglior cristian di lui non parlo. 
Dico che, apresso ch’egli ebbe del tutto 
co’ Longobardi e con ogni suo reda 5 
Desiderio in Pavia preso e distrutto, 
e che fu fatto di Leone sceda, 
e che da gente disperata e cruda 
rubar mi vidi e portar via la preda, 
l’aquila, ch’era sí pelata e nuda, 10 
tolsila al Greco e a costui la diedi, 
che la guardasse e governasse in muda. 
Onde, per suo valor, dal capo ai piedi 
la rife’ tutta con l’alta milizia, 
sí come in molti libri scritto vedi. 15 
Costui trasse la Spagna e la Galizia 
di mano al Saracino e in Aspramonte 
fece a gli African sentir tristizia. 
Costui ebbe con seco il nobil conte, 
che Ferraú e don Chiaro uccise 
e per alcun si scrive il buon Almonte. 
Costui la croce santa di qua mise 
e soggiogò e Sassoni e Alamanni 
e oltra mar Ierusalem conquise. 
Ma qui è bel saper quant’eran gli anni 25 
del millesimo nostro, a ciò che tue, 
se altro udissi dir, col ver ti sganni. 
Erano un meno d’ottocento e due 
ed eran che Silvestro a Costantino 
diede il battesmo quattrocento e piue, 30 
ed ancora dal tempo d’Albuino, 
primo re longobardo, da dugento 
in fin che Desiderio cadde al chino. 
E questo mio signore e mio contento 
quattordici fu meco imperadore 35 
sí buon, che ’l piango, sempre che ’l rammento. 
Seguí apresso che di tanto onore 
fu reda il suo figliuolo Lodovico, 
pietoso molto, non di gran valore. 
Vero è che ’l loderei piú ch’io non dico, 40 
se non fosse la guerra de’ figliuoli, 
che per Iudit il presono a nimico. 
Passò il Soldan di qua con grandi stuoli, 
quando costui col buon marchese Guido 
a dietro il volse con pianto e con duoli. 45 
Venticinque anni governò il mio nido 
e visse al tempo suo senza mangiare 
una tre mesi, per fama e per grido. 
Lottaro vidi apresso regnare 
diece anni; ma poi monaco divenne 50 
non credendo il suo danno vendicare. 
Lodovico secondo poi mi tenne 
e nel suo tempo la gran pistolenza 
de le locuste per lo mondo venne. 
Pensa se il Brescian fu in gran temenza, 55 
ch’ivi tre dí piové sangue dal cielo, 
e se vi fen digiuni e penitenza. 
Qui la gran guerra ch’ebbe non ti svelo 
co’ Normandi e co’ miei Italiani, 
dove molto soffersi caldo e gelo. 60 
Un anno, e venti li fui tra le mani; 
poi, dopo lui, mi tenne il Calvo Carlo; 
ma come, onor gli è poco ch’io lo spiani. 
Di tutta questa schiatta non ti parlo 
la gran division che fu tra loro, 65 
ché troppo avrei a dire a voler farlo. 
Un anno e mesi fe’ meco dimoro; 
l’ultimo colpo a lui si fu il veleno, 
che spesso de’ signor fa tal lavoro. 
Dopo la morte sua, rimase il freno 70 
de la mia signoria a Carlo Grosso, 
che pria la fine sua se ’l vide meno. 
Dico che fu da tanto onor rimosso, 
che venne quale un uom che vive in sonio 
per grave morbo che li giunse addosso. 75 
E data fu la ’nsegna mia e il conio 
ad Arnolfo, lo qual non fu de’ veri 
che reditar dovesse il patrimonio. 
Costui apresso fece Berlinghieri 
re de’ Lombardi e die’ Spoleti a Guido, 80 
da’ quali ebbi piú volte gran pensieri. 
Del conte Alberto fe’ crudel micido; 
Bergamo prese e oltra monti corse 
Normandia tutta con fuoco e con grido. 
E quando morte la sua vita morse, 85 
posseduto ti dico ch’avea il mio 
due anni e diece, senza niun forse. 
Non vo’ tacere il grande inganno e rio 
che l’Arcivesco fe’, quel di Maganza, 
quando il buon conte Alberto tradio. 90 
E gli Ungari crudeli e con baldanza 
Toscana e Lombardia rubaron tutta, 
senza trovar contraro a lor possanza. 
Or sí com’albor secco, che non frutta, 
ti dico che rimase la gran pianta 95 
di Carlo senza reda, isfatta e strutta. 
Oh, mondo cieco, dove andò cotanta 
nobilitá in cosí poco tempo? 
E cieco è piú chi de’ tuoi ben si vanta, 
poi che sí cacci altrui di tempo in tempo. 100

 
 
 

La Bella Mano (131-140)

Post n°865 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXXXI

O occhi ladri, che mia debil vita
Rubate consumando a poco a poco,
Mancarà al petto mai l'ardente foco
Che l'eternal mia pena fa infinita?

L'alma dolente verso il cor smarrita
Tremando fugge ove non trova loco:
E il mio soccorso che piangendo invoco,
Amor l'ha fatto sordo a darmi aita.

Il cor sempr'arde, et l'alma triste aghiaccia,
Al gran disio mancando la speranza,
Et piango sempre et prego non so cui.

Così convien che in piccol tempo sta
Amor della mia vita quel che avanza,
Ben che sia poco omai mercè di Noi.

CXXXII

Quelli celesti angelici occhi et santi
Che sì soavemente Amor volgea,
Et, lor volgendo, veder mi parea
Due stelle, anzi due soli et due levanti.

Mi tolse gelosia, perché già tanti
Sospir gittò la mente che piangea,
Che al duro lamentar che ognior facea,
Amor si trasse per pietà dei pianti:

Et mentre io mi attendesse ancor da lui
Qualche soccorso alla mia fiamma antica,
Onde già per scioccheza io m'infiammai,

Non volse quella a me sempre nemica,
Sì che io sviato dal mio scampo fui;
Et ardere di novo incominciai.

CXXXIII

Quegli occhi chiari, più che il ciel sereni,
Che a torto gelosia veder mi priva,
Mi son dinanzi sempre, et la mia diva,
Dovunque, lei fuggendo, Amor mi meni.

Talor gli veggio sì pietà pieni,
Et lei sì poco, fuor l'usato, schiva,
Che io dico alla mia mente: Ella è qui viva
Quella, onde morte per amar sosteni.

Dalla bocca rosata escon parole,
Che fan d'un marmo saldo chi l'ascolta,
Et Venere et Cupido arder d'amore:

Con tal dolcezza et con tal forza suole
La vista dei begli occhi che mi è tolta,
Tornarmi a mente, et con sì dolce errore.

CXXXIV

Mentre che a riva, il suo corso dolente
La notte al mezo avesse già condotto,
E il giorno in quella parte omai di sotto
Tutta scaldasse l'altra minor gente;

Quel sol che m'infiammò d'amor la mente,
Di poi che il mio riposo ebbe interrotto,
Sentir già mi faceva al mio ridotto
Qual fusse il foco tramortito ardente.

Ne, come quel che inganna, vano insogno;
Ma visione et senza fantasia
Turbata, et sospirando, pria ne apparve.

Poi sorridendo della mia follia,
Mi disse cose, onde anco mi vergogno,
Quando io di doglia piansi, et ella sparve.

CXXXV

Zeffiro, vieni et la mia vela carca
Et se di quel che io bramo non ti accorgi,
Là ver la parte occidental mi scorgi
La disiosa et debile mia barca.

Sicura et lieve, benché d'error carca,
Ne andrà, se da man destra ancor tu sorgi,
Et quel poter, che agli altri suoli, or porgi
Alla mia nave, che solcando varca.

Menami al mio terrestre paradiso,
Dove si acquetan tutti i pensier miei,
Sì come in porto d'ogni lor salute:

Fa che io riveggia il disiato riso,
Il fronte, i lucenti occhi di colei,
Che sola in terra è specchio di virtute.

CXXXVI

Ratto per man di lei, che in terra adoro,
Amor negli occhi vaghi io vidi un giorno
Tesser la corda, che al mio cor d'intorno
Già ne i primi anni avolse sì, ch'io moro.

Ordito era di perle, et testo d'oro
Il crudel laccio, et di tanta arte adorno,
A tal che Aracne troppo arebbe scorno,
Dove natura è vinta dal lavoro.

Et vidi allor come gli aurati strali
Amor nel foco affina, et di qual forza
Si armò la gentil man che il cor mi prese:

Et per che in questa età son più mortali
I colpi di Colui che gli altri sforza,
Et più che già, felici le sue imprese.

CXXXVII

Tanto è possente il fiero mio disio,
Et sì la spene altera che m'affanna,
Che del giudizio il mio veder appanna
A tal ch'ogni ragion posta ho in oblio.

Veggiomi quinci chiar l'utile mio,
Et quindi la vaghezza che m'inganna,
Ma a seguitare il peggio mi condanna
La forte mia sventura, Amore, e Dio,

Qual Letè tal virtude ebbe giammai,
Che non mi tolga nostre ricordanze,
E tanto error negli animi distille?

Così m'abbaglian due begli occhi gai,
E al cor m'accendon sì calde speranze,
Che fino al ciel ne manda le faville.

CXXXIX

Qual Salamandra in su l'acceso foco
Lieta si gode nell'amato ardore,
Et qual finice a sua voglia arde et more
Nel tempo che gli avanza al viver poco,

Così l'arder d'amor mi pare un gioco,
Et pascomi d'angelico splendore,
Così contento mi conduce amore
Al sacro, ove io mi struggo, et dolce loco.

Ah nuova vita, ah disusata morte,
Che nel cor mio rinnova alti disiri,
Et puommi nelle fiamme far beato:

In van si cerca quanto il mondo giri
Per ritrovare altra amorosa sorte,
Che si pareggi al mio felice stato.

CXL

Se 'll' è natural vostro, over costume,
Star contra chi più v'ama ognor più fera,
Non so che di mia vita più si spera,
Et meglio è che tacendo mi consume.

Ecco già gli occhi miei son fatti un fiume,
Per sempre lagrimar mattino e sera:
Io manco come imagine di cera
Dinante ad un possente et vivo lume.

Et voi non muove né ragion, né prieghi,
Né pianti, né sospiri; onde conviene
Per forza alfin ch'io mi disfaccia ardendo,

Se già qualche pietà da voi non viene
Subita sì che tal dureza pieghi:
Ma veggio ben che invan da voi l'attendo.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XVIII)

Post n°864 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XVIII

[1 Di Giambattista Guarini]
 
Madrigale del signor cavaglier Guarini per una gentildonna innamorata d'un cavagliero, che non ardiva palesargli l'amor suo.
 
Ohimè! m'ami, o non m'ami?
S'io sospiro, sospiri,
S'io te miro talor, me tu rimiri;
Par che mi dica: io ardo;
Ma però muto amante
Parli sol col sembiante.
Che dico amante? Amor non ha in te foco
E, se tacer lo puoi, fint'è 'l tuo foco.
Io ch'avvampo non taccio;
Ma tu ch'hai muta lingua hai cor di ghiaccio.
 
[2 Di Giambattista Guarini]
 
Quale assimiglia la sua dama all'aurora.
Non è questa l'aurora,
Ch'oro il crin, rose il volto e gigli il seno
Sorge dei mar Tirreno?
No che splender non suole
Mai l'alba più del sole,
Sì ch'aurora è costei del sol d'Amore
Già sento il caldo de' suoi raggi al core.
 
[3 Di Giambattista Guarini]
 
Anima dolorosa, che vivendo
Tanto peni e tormenti,
Quant'odi, e parli, e pensi, e miri, e senti.
Ancor sospiri? Che speri? Ancor timori
In questa viva morte, in questo inferno
De le tue pene eterno?
Mori, misera, mori,
Che tardi tu, che fai?
Perché morta al piacer vivi al martire,
Perché vivi al morire?
Consuma il duol che ti consuma omai
Di questa morte, che par vita uscendo:
Mori, meschina, al tuo morir morendo.
 
[4 Di Giambattista Guarini]
 
Di Battista Guarino
Avido sonno, ingordo,
Che ne' begli occhi di madonna stai
Dove ti nutri e pasci,
E i miei la notte neghittoso e sordo
A le lunghe vigilie in preda lasci.
Fuggi, deh! fuggi omai,
Che 'l sol già ruota in alto i caldi rai.
Tu fratel della morte, tu' d'orrore
Padre e d'ombre e de' fiumi,
Che fai dentro a quei lumi
Che son nidi d'Amore?
[5 Di Giambattista Guarini]
 
Erano infermi i più leggiadri lumi
Ch'abbia il cielo e la terra,
E 'n quei bei lumi infermi infermo Amore.
Talché l'arco e lo strale,
Ond'anco al ciel fa guerra
Sprezzava ogni mortale.
Quand'ei con un dolcissimo licore,
Che in quei begli occhi mise,
Sanò due stelle e mille cori ancise.

[6 Di Giambattista Guarini]
 
Del signor Guerrino
Licori
S'altrui splende il mio sole
Più tosto egli m'invole
Quella serena sua vita gioconda,
E pur ch'altri non miri, a me s'asconda.
Dafne
Et io non amerei
Quel sol degli occhi miei,
Se non fosse l'ardor di tutti i cori
Pur ch'a me non s'asconde, ognun l'adori.
Licori
Prima ch'altri sospiri
Gradisca altri martiri,
A miei nieghi pietate e non risponda,
E pur ch'altra nol miri, a me s'asconda.
Dafne
Prima che 'l paradiso
Perder del suo bel viso,
Trovino in lui pietà tutti gli ardori
Pur ch'a me non s'asconda, ognun l'adori.
Licori
Nessuna il miri, o 'l brami,
O sospirando il chiami
Che quel non è tesor ch'a tutti abbonda
E pur ch'altri nol miri, a me s'asconda.
Dafne
Speri ognun, e si vante
D'amarlo e farlo amante,
E l'istessa beltà se n'innamori,
Pur ch'a me non s'asconda, ognun l'adori.
Licori
Sia tutto, o nulla mio
Il mio dolce desio,
Né prima io sarò mai, s'altra seconda,
Più tosto io prego Amor che me l'asconda.
Dafne
O miri, o segua, o prezze
Il di mille bellezze
Et io l'ultima sia di tanti amori
Non farà gelosia ch'io non l'adori.
Dafne e Licori
Amiam, che sol per fede
S'acquista gran mercede;
Amiam, che i fidi cor' non abbandona
Amor, ch'a nullo amante amar perdona.

[7 Di Giambattista Guarini]
 
Di Battista Guarino
Baci soavi e cari,
Cibi della mia vita,
Ch'or m'involate, or mi rendete il core;
Per voi convien ch'io impari
Com'un'alma rapita
Non sente il duol di morte, e pur si more.
Quanto ha di dolce amore
Perch'io sempre vi baci,
O dolcissime rose,
In voi tutto ripose,
E s'io potessi ai vostri dolci baci
La mia vita finire,
Oh che dolce morire!
Baci amorosi e belli,
Mentre che voi m'aprite
Di rubini e di perle alti tesori,
E tra questi, e tra quelli,
Aure dolci e gradite,
Spirano di vitali arabi odori,
L'alme dai nostri cori
Parton da la radice,
E su le labia estreme
L'una e l'altra si preme
E bascia, e stringe, e sospirando dice:
Amor, ch'unisce l'alme,
Unirà ancor le salme.
Baci affamati e ingordi
Ai cui misti diletti,
Né mai si sazia amor, né mai respira:
Tu, dente avido mordi,
E tu, lingua, saetti,
E mormorando parli: il cor respira.
Intanto il guardo mira
E mentre ognun pur vuole
Mordere e sospirare,
E vedere e baciare,
Baci, morsi, sospir, guardi e parole
Fan sì dolce concento
Che vi sta il cielo intento.
Baci, cortesi e grati,
E voi, labri amorosi,
Che tanto date altrui quanto togliete.
Chi v'ha così infiammati
De' miei? Che sì bramosi
Vi fa di quello onde sì ricchi siete?
Rose d'Amor ch'avete
D'ogni bellezza il vanto,
Ben riconosco il dono,
Per voi sì dolce sono:
Basciate questi pur, che da voi quanto
In me si cura e prezza
Tutto è vostra dolcezza.
Baci, ohimè non mirate,
Che mentr'io parlo oblio
Come l'ora sen' va fugace e breve.
Baciate, ohimè!, baciate,
Lungo è il nostro disìo;
Ma la speranza è frale e 'l tempo breve.
Taccia chi gioir deve;
Baci, non siate lenti,
Venite a mille, a mille:
Quante son le faville
Del mio bel foco, e quanti raggi ardenti,
Mia luce, han gli occhi vostri,
Sian tanti i baci nostri.
Baci, di tante gioie una sol resta,
Che tutte l'altre avanza,
Sola del cor speranza.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Rime inedite del 500 (XVII)

Post n°863 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XVII

[Di Antonio Montecatini]

Dal signor Antonio Montecatini secretario del Duca di Ferrara nelle nozze degl'illustrissimi Principe di Urbino et madama Lucrezia da Este.


Ora, santo Imeneo, l'aurata face
A' santi fuochi di Giunone accendi,
E la catena di diamante prendi
Serbata al dì, che fatal legge face.

Al dì, che con piacer saldo e verace
A Ciprigna celeste unir intendi
Novello Giove, ond'altri al cielo attendi
Apolli, e Marti, a Italia eterna pace.

Egli di quercia, d'or il corpo adorno,
Essa in mezzo a le grazie, amore e fede,
L'un e l'altro ne l'alma asconde e chiude.

Tu sol ci manchi, al tuo venir intorno
Ecco il ciel s'apro, e quanto ben possede
Versa già sopra noi con largo corno.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

La Bella Mano (121-130)

Post n°862 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXXI

Se pria non torneran suo corso al monte
Il Tebro et l'Arno, et mentre il Sol più coce
Rodano agghiaccerà nella sua foce,
E il Ren si asconderà nel proprio fonte:

Se pria non fermerassi all'Orizonte
Ciascun pianeta, qual sia più veloce;
Et se chi m'ha allacciato et posto in croce
Non mi scapestra dalle man sì pronte,

Non fia giamai che avanti agli occhi miei
Non sia quell'atto, che affrenò l'ardore
Della vaghezza, che oltra mi sospinse.

Benedetto il consiglio di colei,
Che essendo già sì prossimo all'errore
Colla sua mano il mio voler restrinse.

CXXII

Occhi del pianger mio bagnati et molli,
Perché il gran duolo in voi non si rinfresca?
O foco dispietato giunto all'esca,
Per che la vita tosto non mi tolli?

Almo gentil paese, o selve, o colli,
Che rimirando par che il mio mal cresca,
Felice terra, dove Amor m'invesca,
Et dove per destin piagar mi volli:

O sasso aventuroso, che il bel piede
Preme sì dolcemente: o dolce piano,
Dove, pensando, spesso rinamoro:

O cielo, o movimenti, onde procede
Virtù che regge chi mia vita ha in mano,
Siavi raccomandato il mio tesoro.

CXXIII

Hora che 'l freddo i colli d'erba spoglia,
Et vansi colmi i fiumi nei lor giri,
Zefiro tace, et Euro par che spiri,
Et non si vede in ramo verde foglia:

Di pace nuda, l'alma ognior m'invoglia
A morte, e il petto m'empie di sospiri,
Onde trabocca il cor, ma i miei disiri
Verdeggian sotto al caldo di mia doglia.

Et tanto ho posa, quanto al cor mi viene
L'alta sembianza del bel guardo altero
Che dolce per natura fa il mio pianto,

E il caro riso che più volte in spene
Già mi ritiene; et l'alto mio pensiero
Al mondo, se no il mio, non scorge tanto.

CXXIV

Anima, che sì tosto et sì sovente
Pur là, ritorni et siedi co 'l pensiero,
Dove è viva colei, per chi sol spero
Trovar riposo a la mia pena ardente,

Come te mena l'affannata mente
Ad ora ad or per sì dritto sentiero,
Così sapeste il corpo tutto intero
Portar, per far le mie voglie contente;

Et discoprir le piaghe ad una ad una,
Che chiuse dentro al doloroso petto,
Morto, sì lungamente, il mio cor hanno,

Havriami ancora il Ciel tanto a dispetto,
Che quell'ingrata non avesse alcuna
Volta pietà del mio non degno affanno?

CXXV

Quando l'alta tempesta in me si aventa,
Et un pensier mi assale a poco a poco,
Conosco i segni dell'antico foco,
Che piglian forza nella fiamma spenta;

Et mentre questo al cor mi si appresenta,
Una favilla piu là non ha loco,
Che tutto ancor m'infiamma sì che un gioco
Mi pare ogni altro duol che al cor si senta.

Et come suole all'apparir dei rai,
Se all'Orizonte spunta la gran luce,
Che l'alba nasce, et fugge la grand'ombra;

Così quando un pensiero al cor traluce,
Amor mi risospinge ai primi guai,
Et ogni altro volere indi mi sgombra.

CXXVI

Quando sarà quel giorno, o cor dolente,
Che agli occhi miei sia reso il proprio sole;
Quando sarà che oda le parole,
Che mi sonan sì care nella mente?

Vedrò mai il dì, che dal mio cor si allente
L'acceso nodo, che infiammar mi suole:
Et chi senza fallir morto mi vuole,
Volga la vista in me più dolcemente?

O passeggiare altero onesto et tardo,
Per che il mio cor tradito a te si diede,
Sì che io non spero omai, che più sia mio,

Quando sarà che il bel leggiadro piede
Ver me si mova, et si giri il bel guardo,
Che mai per tempo non porrò in oblio?

CXXVII

Non sa Fortuna in sì terribil porto
Condur la stanca et fral mia navicella,
Che pur dinanzi non mi veggia quella,
Per chi scolpito Amor nel fronte porto:

Né porrà mai recarmi tal conforto,
Per volger di sua rota, o di mia stella,
Che come già gran tempo, così d'ella
Non parli sempre, et scriva vivo et morto.

Con lei mi sto se io dormo, qual se io veglio;
Et di lei penso, se la lingua tace,
Che ragionando sempre d'ella dice.

Amor, che a sì bel foco mi disface,
Così mi gira per divin conseglio,
Per farmi più nel mio martir felice.

CXXVIII

Quel sol, che mi trafisse il cor d'amore,
Che di sua rimembranza ancor si accende,
Fortuna a gli occhi miei veder contende,
Et gelosia mi cela il suo splendore,

Onde infinito in me cresce il dolore,
Talché nostro intelletto nol comprende:
La lingua è muta, et già più non s'intende,
Mercè chiamando per pietà del core.

Misero me che del mio grave stratio
Pietà non si ebbe mai, onde or sospira
La mente, quando tardi sia il soccorso,

Et fu il mio affanno tal, che avrebbe satio
Non pur Medea nel maggior colmo d'ira,
Ma d'un spietato tigre e il cor d'un orso.

CXXIX

Gli occhi, che fur cagion pria del mio male;
Et le parole che poi morto m'hanno,
E il riso et le maniere che mi stanno
Confitte al cor con sì pungente strale,

Mi son pur tolti, et son condotto a tale,
Pensando al grave irreparabil danno,
Che altro gli miei che lagrimar non fanno,
Così gli rota il corso suo fatale.

Lagrime ardenti di fontana accesa
Già l'infiammata vena in tutto spenta,
E i cocenti sospir m'hanno arso il core;

Ma calda spene, del gran pianto offesa,
L'alma conforta in sì soave ardore
Che il pianto ne l'angoscia par che senta.

CXXX

Quelli suavi et cari occhi lucenti
Che furno un tempo ai miei verace sole,
Le ardite et belle braccia, et le parole
Che ad una ad una par che mi rammenti,

Con quella crudeltà mi son presenti,
Che Amor già volse, e il rimembrar mi dole;
Così dove io mi sia far di me sole
La ricordanza dei passati stenti.

Gli occhi che m'ardon d'un spietato lume,
Le braccia che mi tiran dove è morte,
Et le parole che abagliato m'hanno,

Le tre faville son che han per costume
Far sì ch'io pianga, et mai non mi conforte,
Sempre sì accese in mezo al cor mi stanno.

 
 
 

Sei lettere ('ndovinarello)

Post n°861 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Sei lettere ('ndovinarello)

Ciò fforma de 'n quadrato o arrotonnato,
ma ce la posso avé rettangolare,
come te piace a tte, come te pare,
dipenne da come l'hanno 'ntajata

la cosa che tte serve pe' ttenette.
De solito ciò zzampe, ma 'n cammino
e, si sei stanco, tienime vicino,
ciavrai 'r mi' appoggio sempre, pôi scommette.

Come so ffatto, tu me chiederai?
Nun ciò la ciccia, manco si so ggrosso,
materie assai diverse troverai.

Tu  pôi consideramme 'n amichetto,
tanto che mme  pôi puro salì addosso:
nun t'arabbià, si te tasto 'r culetto.

Valerio Sampieri
19 dicembre 2014

 
 
 

Poesia

Post n°860 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Poesia

Pe ffà ppoesia, se dice, devi mette
l'immaggine de fiori e dde natura,
de monti, sole, mare e dde verdura:
se dice che só' cquelle più perfette.

Io preferisco de parlà d'amore,
de sentimenti bbelli e d'emozzioni,
ma puro de chi rompe li cojoni:
inzomma, tuttecose, 'n po', dde côre.

Vôi mette quant'è bbello de parlà
de 'na perzona che t'ha emozzionato,
o 'n gran fetente stallo ad inzurtà?

Che dichi tu de 'st'impressione mia?
Me potrai dì che me sarò sbajato,
pe' mme, però, è cquesta la poesia.

Valerio Sampieri
18 dicembre 2014

 
 
 

Pischellè

Post n°859 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Pischellè

Me dichi 'n po' che ffamo, Pischellè?
Quant'anni só' passati da quer giorno?
A vvorte co' la mente ciaritorno,
perché nu' riesco a nun pensacce a tte.

M'hai detto 'nnome tuo de fantasia,
quasi a 'nnisconne, dietro quer timore,
quelo che doppo è ddiventato amore,
er fatto de pijamme e d'esse mia.

Pischè, nun sarai ppiù 'na regazzina,
li fiji só' cresciuti, ma sei bbella,
cor viso dorce e l'aria sbarazzina

ch'ha 'lluminato tutta la mia vita.
Nun sei cambiata, Amò, sei sempre quella
e ddevi créde a mme: nun è finita.

Valerio Sampieri
18 dicembre 2014

 
 
 

Rime inedite del 500 (XVI)

Post n°858 pubblicato il 20 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XVI

[1 Di Francesco Panigarola]

L'orsa.

Questa altera dal ciel vaga figura

Cui tuffarsi ne l'onde
Vetò, Giunon, la tua fredda paura
Con l'ardente virtù de' raggi suoi,
Tante elice da me lagrime amare
Ch'ella ne forma un mare,
Poi di te ride, e de' sospetti suoi,
De la mia stella al chiaro capo attorte
Le chiome in dolci nodi
Quando adivien ch'Amor disciogli e snodi,
Moro, e con la mia morte
Mostro ch'augurio il suo bel crin m'apporte.
Stella gentil, che nei maggior perigli
Ogni nocchiero addita,
Or dove sei sparita?
Già pur son scogli, e cielo, e mare, e venti
Tutti in mio danno 'ntenti
E tu, mia fida scorta, anco te n' vai?
Benché non fia giamai
Ch'io non ti miri; poiché in mezzo al core
Con le sue proprie man ti fisse amore.
S'a me maggïor che al gran poeta Tosco
E soggetto e rivale
Donasti, Amor, perché non tromba eguale?
Questo si pur conosco
Che dove ei pianta io lodo stella, e dove
Ebb' egli un Febo, ho io rivale un Giove.
Qual'a l' 'ncendio mio
Scampo trovar poss'io?
Poiché fin l'orsa dove
Nodrir quà giù solea pruine e ghiaccio
Hor foco e fiamma entro il mio petto piove;
Perch'io pur m'ardo e sfaccio.
La stella mia, che là più presso al polo
Spinta ancor da Boote
Fare appena solea picciole rote,
Or dove ha preso, ohimè!, sì largo il volo?
Questo so che di Delo
Non l'ha fugata il dio, perch'ella è tale
Che contra il sol prevale;
Oltre che poi di sua partita il cielo
Vestito ha sempre d'atra notte il velo.
Non fu Giunone, o Giove
Né dei marini Dei tutto il consiglio
Che diede a l'orsa mia perpetuo esiglio;
Però che di lontano
Il gran padre oceano,
Sentendo il suo celeste immenso ardore,
Disse: stia pur di fuori;
Ché, se tra noi discende,
D'onor, ne priva e i regni nostri incende.

[2 Di Francesco Panigarola]

Del Panigarola

Non ha men bianco il petto,
Non ha men freddo il core
Di questo ghiaccio la mia donna, Amore,
Né men di questo ghiaccio
A tue faci io mi spaccio,
Ed a miei prieghi tu rigido sei,
Sì che nel don di lei
Al bianco, al freddo, all'umile et al rio
Et essa e tu siamo dipinti et io.

[3 Di Francesco Panigarola]

Del Panigarola

Febo, un Piton novello
Là nel paese Tosco
Spento ci ha pur col tosco
Quanto v'avea di bello:
Ma tu, se 'l prevedesti
Perché non l'uccidesti?
O se le piaghe almen fatte mirasti,
Perché non le sanasti?
In somma né profeta,
Né medico, o guerriero
Sei tu; ma sol pastor forse, o poeta;
Ond'ancor tosto spero
Che la tripode, e l'erbe, e la faretra
Lasci, e sol con la cetra
Od a sparger ti stii voti nel vento,
O per maggior tuo onor torni all'armento.

[4 Di Francesco Panigarola]

Del Panigarola

Havrebbe, o Leonora,
L'angelico tuo viso
Di morte istessa il fiero cor conquiso.
E la tua voce udita
L'avrebbe intenerita;
Ond'essa a chi pietade a scorno fora
Non die' luce al mirare,
Né pur tempo al parlare;
Ma sol per non vederti, o non udirti
Venne di notte, e subito a ferirti.

[5 Di Francesco Panigarola]

Del padre Panigarola

Squarciossi il sacro velo
Del tempio e d'ogni intorno
S'imbrunì il chiaro giorno.
Tremò la terra ed oltr'ogni costume
Il sol perse il suo lume,
Quando piagato il petto,
Quando il capo trafitto,
Quando vider confitto
Pender sul duro letto
Il lor fattore; ed io
Che in croce il veggio sol per fallir mio,
Dagli occhi non pur una
Lagrima verso? Ahi lasso!
Perché? L'ostinazion m'ha fatto un sasso.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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