Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)
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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)
Messaggi del 21/12/2014
Post n°881 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Ho già parlato di Fabbruzzo (da Perugia), del quale nessuna notizia avevo trovato. Sono ora in grado di rettificare quanto da me in precedenza affermato. La potente ed illustre famiglia Lambertazzi ebbe molti individui di nome Fabro, i quali per vezzo consueto venivan chiamati Fabruzzo. Uno di questi fu l'esimio poeta del quale verremo a recar qui le notizie, e che al dire dell'imolese Benvenuto Rambaldi fu nobile cavaliere, e uomo sapiente e di gravissimo consiglio. |
Post n°880 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871. I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana 26 Alle candide membra, Al lampeggiar dell'indorate chiome, Al bel viso, al bel nome. Non so se Donna o Dea costei rassembra; Ben di lei mi rimembra. Che mentre in sul mattin col Sole apparo Mostra gioirne il Ciel, la terra e'l mare. 27 Quando nascesti, Amore, Nacque ad un parto insieme Il pallido timor, l'accesa speme; Albergo d'ambo due fu gentil core, Speranza, ardore e tema il giel nutrio: Speme vien sempre teco, alato Dio, Ma te, Signor, la tema a guerra sfida E spesso avvien ch'el suo temer t'ancida. 28 Nell'amorosa mente Due nemiche, sovente unite insieme, Stanno paura e speme E fan dubbiar qual più dell'altra pote; Questa solleva il cuor, quella lo scuote: L'una con giel, con fiamme l'altra assale. Ahi! che la tema è più di lei mortale. Tema ch'elesse Amor nella sua corte Ministra di dolor, seggio di morte. 29 Hor che farà 'l timor se speme ancide Che pur di gioia suol nutrir gli amanti. Ed ei li pasce di tormenti e pianti! Non sa come di morte Amor ne sfide Chi dal timor non vide Tutta nel volto di pietà dipinta, Un'anima gentil battuta e vinta. 30 E' nuova Alba celeste, Questa ch' innanzi Tl'lba in terra aggiorna? E chi l'adorna e di splendor la veste? Ha forse a lei conteste Sì bionde treccie il Sol di raggio d'oro? O ricco alto lavoro, Ben tu di questa chioma Alba sei degna: Ben ella in Ciel sarà del Sole insegna. Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti. XXVI. 3. Al bel nome. Nella Canzone del Tasso alla Granduchessa Bianca, incominciata Talvolta sopra Pella, Olimpo et Ossa. Dopo aver lodato in lei il candore come suprema bellezza, decanta anche (strofa III, v. 15-16): E 'l bel nome, che piace a vaghi sensi Ove se 'n parli o pensi. XXVII. 3. il pallido timor. Amore sospetta e impallidisce. Il Tasso lo ha pur descritto bene quest'effetto nell' Aminta; e a lui bastava vedere in volto per convincersene. Si legga ponderatamente questo ed i consecutivi due Madrigali che sono proprio belli e mirabili e forse dei migliori del Tasso pel sentimento. Si riscontrano pure manoscritti ne'Codici 55, filasse VII, pagine 40-41 e 329, Classe VII, pagine 114-116 della Maglia bechiana. XXVIII. 3. Coll'esempio nel Petrarca e nell' Ariosto: S'il cuor tema e speranza mi puntella Petrarca, Son. 196. Tema e speranza il dubbio cuor le scuote Ariosto, Canto I, St. 39. Nella Gerusalemme il Tasso in due luoghi, Canto V, St. 35: Goffredo ascolta; e in rigida sembianza Porge più di timor che di speranza. E nel Canto XX, St. 50: Così si combatteva; e 'n dubbia lance Col timor le speranze eran sospese. XXIX. 1. Tutto il Madrigale è una fedele dipintura di mente e di cuore per effetto di dispiacevoli avvisi. Anche nella Gerusalemme, Canto VI, St. 64, l'espresse mirabilmente lo stesso autore: Ma poi ch'el vero intese e intese ancora Che dee l'aspra tenzon rinnovellarsi, Insolito timor' co A l'accora Che sente il sangue suo di ghiaccio farsi. Talor scerete lacrime e talora Sono occulti da lei gemiti sparsi: Pallida, esangue e sbigottita in atto Lo spavento e'I dolor v'avea ritratto. E nel Sonetto lo vidi quel celeste altero viso, ec. Oh color degli amanti! Oh vago e caro, Pallor, onde ha l'Aurora invidia e sdegno. Che di rose men vaghe il volto inostral Ben avrei fato avventuroso e raro. Se come in lei d'amor l'aspetto mostra. Cosi il cor ne mostrasse un piccol segno. XXX. 2. Aggiorna, s'aggiorna, ec. Vedi il Madrigale Alba di stel'e adorna, ec. |
Post n°879 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CLVII Deh se Laura mi fosse sì suave Sempre com'ora, et amor sì benegno, Qual stato al mondo più gioioso e degno Fora del mio, et qual peso men grave? Ch'io miro gli occhi bei c'hanno le chiave Del mio cor lasso e del debole ingegno, Nel qual consiste l'amoroso regno, E 'l sicur porto di mia fragil nave. Et ella che di ciò par si contenti, Poscia mi mostra la sua bionda treza Tessuta, oimè, dalla man che mi sface. Ivi mi specchio, indi prendo dolceza; Talché, per tema di futur tormenti, Vorrei morir finché 'l viver mi piace. CLVIII Non so se Laura, che il divin Poeta Sospirando in bei carmi chiuse et strinse, Fu vera donna, o lauro et donna il finse, Ch'altri de suo desi' avesse più pieta. Questa vegg'io ch'è donna; amor nol vieta, Ché al primier guardo in mio cor la dipinse In guisa, che da poi mai non si stinse; Sì fu sua vista allor dolce et quieta. Né maraviglia s'egli fu fervente In esaltarla in beltà e in maniera; Ché 'l più del tempo si mostrò benegna. Maraviglia è di me, che quest'altera Ascoltar non mi vuole, anzi mi sdegna, Et io sempre le son più obbidiente. CLIX Secco è il bel lauro, anzi è spenta sua foglia, L'aura, l'ombra, l'odor, che mentre visse Parea che il mondo di beltà vestisse, Di fiori et d'erbe et d'amorosa voglia. Qui giace il tronco; et la miglior sua spoglia Nel ciel tornò (benché al partire afflisse Me che di lei già sospirando scrisse) D'onde prega or via scacci ogni mia doglia; Et se pur pianger vuo', pianga me stesso Rimaso in terra nudo, pien d'affanni, Senza sole, et in mar senza governo. Lei più non pianga, et il mortale eccesso Che le fu vita; ma vuol che mill'anni Sua fama duri, et fia suo nome eterno. CLX L'albor sacro et gentile, in cui molti anni, Come in suo albergo il mio cor lieto giacque, Mentre a fortuna invidiosa piacque Al mio mal sempre pronta et a' miei danni, Morte mi ha tolto co' suoi usati inganni Per farne il ciel più bello, ond'eterne acque Usciran de' miei occhi, sì gli spiacque Veder spento il riposo de' suoi affanni. Né spero mai finché mia vita dura, Che sarà breve, avere altro conforto, Se non di pianti et dolorosa guerra: Ch'io veggio il nostro vivere esser corto, Et morir pria i migliori, et sua ventura Data a ciascun dal dì che nasce in terra. CLXI Un anno ohimè ! lasso oggi è ch'io perdei Me stesso, ogni mio bene, et quel bel volto: In tal dì fui dal suo car spirto sciolto Per crudel morte, ond'io son pien d'omei. Et l'ombra dell'allor sotto cui fei Di pensieri et disii dolce raccolto, E il gentil nodo in ch'io ancor so' involto, Et sarò sempre fin ch'io sia con lei, Spenta vid'io; et l'albor da radice Et svelto et secco et rotto, onde di doglia Fu quasi il cor dall'alma mia diviso, Et prego ognor da me pur che si toglia Questo peso terrestre et infelice, Per gire a star con lei in paradiso. CLXII Ben fo neffando, infausto et mal[e] decto El dì primo ch'al mondo gli occhi apersi, Poy che, nascendo, di rei casi adversi Esser dovea preservato ricepto. Ben fo infelice il ventre, che, constrecto A·ppartorir un tal mostro, soffersi Organiçarlo pria, se ad sì diversi Affanni, ire et sdegni era subgepto. Ma più infelice l'alma, che in quell'ora Sì stratiabil corpo et inpudico Per suo proprio destin prender convenne. Et se esser mixer debbo et pur mendico, La terra e i ciel perisca, et chi l'adora, Et chi m'ascolta, si non presta uno amenne. CLXIII Perch'io pur pianga ognor con più dolcezza, Né mai senza sospir passi mia vita, Di nuovo Amor mi ha fatto una ferita Di suo stral d'oro, et pien d'altra vaghezza. Et la mia mente a contemplar s'avezza Un'Angela dal Ciel scesa et partita A darmi pace, ché, senz'ella, aita Ed ogni ben mondano odia et disprezza. In lei spero et mi specchio, et ciascun pio Suo atto amante io noto, e il dolce sguardo, Che fa di marmo chi gli s'affigura. Et perché indegno mi sento, et non tardo A tanta impresa, io vò con ferma cura Per ben far meritar quel che disio. CLXIV Dolci capelli dolcemente sciolti Della dolce Aura al collo dolce intorno. Dolci et dolci occhi, anci dui sol, che giorno Dolce fanno ad chi son dolci rivolti: Dolci coralli et perle, onde escon molti Dolci sospiri, e 'l parlar dolce e[t] adorno; Dolce è il bel vixo, ove a specchiar in torno, Pien di dolceçça, quando tu m'ascolti: Dolce, rotonde et candide mamelle, Dolce parte secrete, di che spesso Dolcemente amor meco ne ragiona: Dolci mani et pulite, schiecte et belle, Che dolce offitio ad voi dolce è concesso Per più adolcir quella dolce persona. CLXV Mirate, occhi miei vaghi, quel bel viso, Le maniere e i costumi di costei, Che averian forza a innamorar gli Dei, Et fargli abbandonare il paradiso. Mirate quel soave et dolce riso Che in parte è gran cagion de' sospir miei, Miratela dal capo insino a' piei, Che ogni membro è più bello et mè diviso. Ma son di più dolceza le parole; Che zucchero, armonia, mele et moscato Par ch'escan dalle labbra di corallo. Qui nascono le rose et le viole, Qui si vede l'avorio et il cristallo, Quivi et no in Ciel poss'io farmi beato. CLXVI Come tu fosti, benedetto insogno, Il primo a farla del mio amore accorta Con quel stretto abbracciar che mi conforta, Dolceza tal che vegghiando io m'assogno; Et come spesso non pur quand'io sogno, Ma in vera vision senz'altra scorta, Con soavi parole mi conforta, Onde allegrezza et disio rompe il sogno; Così ti prego che torni sovente A farla pia con quell'accesa face, Bench'esser soglia gentil cor clemente, La vita mia, che consumando sface, Talora muove da sì amare stente, Che sol di lei pensando ho tregua e pace. CLXVII Quale ingiuria, dispetto, o quale isdegno, Finestre avare et pien di gelosia, Vi feci io mai, nol so: ma a chi ne spia Dirò, che mille da voi ne sostegno. Umil divoto et reverente vegno A visitar voi no, ma quella mia Novella Donna, come Amor m'invia, Per farmi de' suoi servi il non men degno. Et voi trovo rinchiuse essere ognora. Non basta assai che per più mio tormento Altissime et ferrate esser vi veggio? Che cascar possa fin dal fondamento La casa, et perir chi dentro dimora, Purché sia salva lei, che io bramo e chieggio. CLXVIII Finestre mie, quand'io ve veggio aperte, Et posar sopra voi quel gentil viso, Parmi vedere aperto il paradiso, Et voi di rose et viole coperte. Et le bellezze a me dal cielo offerte, E i leggiadri occhi, et quel soave riso, Io mi fermo a mirarli intento et fiso, Per far mie voglie del suo ben più certe. Et veggio Amor con refrigerio starsi, Trastullando con lei, nel suo bel seno, Et accennarmi di su' aurato dardo. E il mio cor di disio dolce ripieno, Et più d'invidia, cerca di accostarsi, Per più dolcezza trar del suo bel guardo. CLXIX Non dolse più alla sventurata Dido Quando sentì partir l'ingrato amante, Né più alla dolente Ero, che già tante Volte il suo vide tornare in Abido; Né più ad Arianna, che nel lido Lassata fu da quel che poco innante Scampato avea da morte, et trionfante Seco sen gì lassando il proprio nido; Che a me la tua sì subita partenza, Donna mia cara: onde il mio afflitto core, Seguendo te, di sé m'ha fatto senza; Perché onestà non consente ad amore, Che come il cor, così la mia presenza Fosse con te per trarmi di dolore. CLXX |
Post n°878 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) XIX [1 Di Giovan Francesco Bruni] Di monsignore Bruno Vescovo di Nola Che cosa è amor? Egli è un vano appetito. Che causa quest'amor? Pensier' oziosi. Du' stan questi pensier? Nel petto ascosi, La volontà da poi ne fa convito. Che fa il libero arbitrio? Ei tien l'invito, Lascivia vien con suoi cibi gelosi Dove sta il cuor tra strali amorosi, E nudo no, di gelosia è vestito. Che cosa son quei strali? Strali o dardi Son stral d'un legno che si chiama viso Alcun son di parole, alcun di sguardi. Dove sta l'arco tuo? In un bel viso. Potrebbesi fuggir per tempo, o tardi? No, perché il colpo suo giunge improviso. [2 Di Giovan Francesco Bruni] Del medesimo La mi fa sol la diva mia sospeso, Sol mi fa fa re 'l pazzo sua durezza, Fa re mi sol la mira ch'io sia preso, Mi fa fa la re sol la sua bellezza, Re fa re la mi niega il tempo speso, Ut re mi fa cantando con dolcezza La mi rimira, sol la mi dà berta Sol la mi fa stentar la mi diserta. [3 Di Giovan Francesco Bruni] Del medesimo S'è dolce amor, come amar duolo e pianto N'ha l'amante in la mente, e gelosia? S'ai cridi credi amor che crudo sia Come ha nel cor sì car' ch'il preme tanto? Se, come è pinto, appunto è cieco, il vanto Com'ha che vadi e vedi ogn'arte, o via? Se è putto, hor con che patto e forza fia Che più che toro tiri, e più ch'incanto? S'è nudo al nido come d'altri spinto Li furti suoi sa sì coprir talora? S'ha il vanto nel volar ch'il vento ha vinto, Perché par che sia lento a chi l'adora? Se suol del tel d'or dar dur' cor convinto, Con l'altro stral con stril far che si mora, Dov'è segno di fora Del suo ferir? Furor adunque è questo E l'amante per far fuor di sé stesso. [4 Di Giovan Francesco Bruni] Del medesmo Che cosa è dio? Egli è un sommo bene. Che ben è questo? Un ben che sempre abbonda. E come è fatto? Come forma tonda, Che sol principio è fin in sé contiene. E dove uscite son sue proprie vene? Sono da un mar' ch'ogni cosa circonda. Puossi veder? No, no, ch'essenza monda L'occhio nostro mortal non la sostiene. Come dunque si sa, se non si vede? Egli s'umilia tanto l'intelletto Che fa veder con gli occhi della fede. Che cosa è fede? È un don, che se difetto Non trova in l'uomo ch'or ben chiaro crede Guidal con gli occhi chiusi al ben perfetto. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°877 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XXVI Un .M. un .C. due .I. con uno .L. si dicea, quando il primo Federico eletto fu e ch’io n’ebbi novelle. Il Barbarossa è questo ch’io ti dico, che fece arar la piazza di Cremona e seminar di miglio e di panico. Costui è quel che disfece Tortona e che Spoleti mise tutto al piano, come per lo Ducato si ragiona. Costui è quel che distrusse Melano, da poi che li fu dato Ugo Visconte, con ogni suo seguace preso, in mano. I magi tolse e mandolli oltra monte: lo pianto che ne fu per me si tace, se non ch’assai vi fen de gli occhi fonte. La fine sua a ragionar mi piace: dico, per acquistar la Santa terra di lá passò e fe’ col papa pace. E se la mia memoria qui non erra, il buono Saladino era allor vivo, che contro a’ cristian facea gran guerra. Or questo mio signor sí alto e divo bagnandosi nel Ferro poco stette, ché freddo venne e de l’anima privo. E come per alcuno autor si mette, al tempo suo nel cielo in una croce tre lune fun vedute schiette e nette; similemente, per scrittura e boce, che fun tre soli per quel propio modo veduti e l’un quanto l’altro ir veloce. Morto questo signor, del qual mi lodo, Arrigo, il suo figliuol, mi tenne apresso, del cui valor, parlando, ancora godo. Costui, da poi ch’ad acquistar fu messo, passò in Puglia col suo forte stuolo, la qual conquise per valore espresso. La donna di Tancredi col figliuolo Guglielmo prese e le sorelle ancora, che poi portâr ne la pregion gran duolo. Veduto fu un tale eclisso allora, che l’aire venne scura come notte di mezzo giorno e stette piú d’un’ora. Quegli uccelli, che volavano, a frotte sentito avresti cadere tra’ piedi, senza vedere albori né grotte. 45 Questo signor, del qual parlar mi vedi, regnar si vide otto anni imperadore, movendo contro al papa spesso i piedi. Non guardò vel né tempo al suo migliore Costanza sposa, a la qual succedea 50 di Puglia e di Cicilia l’onore. Ma poi che morte li fu cruda e rea, Otto ad Aquisgrani fu eletto, lo quale venne a me com’el dovea. Qui non ti conto se per suo difetto 55 fosse scomunicato, ma tal visse ricevendo e facendo altrui dispetto. Qui piacque a Dio che nel mondo apparisse a predicar Domenico e Francesco, onde la Fé rinnovando fiorisse. 60 Ancora in questo tempo ch’io riesco, Gog e Magog, ch’Alessandro racchiuse col suon, che poi piú tempo stette fresco, uscîr de’ monti con diverse muse e col fabbro Cuscan, lo qual fu tale 65 che piú paesi conquise e confuse. In questo tempo, per lo molto male che facea de’ Latin la gente Grecia, una compagna s’ordinò, la quale Costantinopol, che tanto si precia, 70 vinse per forza e ’l conte di Fiandra fu fatto imperador senza piú screcia. In questo tempo raunò gran mandra Otto di gente e, in Francia combattendo, coniglio venne e Filippo calandra. 75 Apresso quel che tutto qui comprendo, 155 quest’Otto, ch’io ti dico, passò il mare con ricco stuolo e di ciò lo commendo: ché, per volere il fallo ristorare, lo quale fatto avea contro a la Chiesa, passò di lá, ma tardi fu il tornare, ché, dopo lunga guerra e molta spesa, di morte natural costui morio, prima che Damiata fosse presa. Diece anni governò e tenne il mio 85 e al suo tempo in Fiorenza le parti s’incominciaro, secondo ch’io udio. Qui fu al ponte suo, con l’arme, Marti; qui Venus, col parlar falso e pietoso, col vago volto e coi capelli sparti; 90 qui fu Saturno giusto e disdegnoso, per cui influenza mosse la parola, onde piú tempo fu senza riposo la mia gentile e nobile figliola. |
Post n°876 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871. 21 Benché sfavilli e splenda I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana Stella talor con chioma accesa intorno Lucida sì che 'l giorno Non come all'altre il lume suo contenda, Non è già ch'ella prenda Un crine eguale a questa Treccia di fuoco e di splendor contesta: Ond'ei rimane in picciol tempo estinto, Ed ella eterna un sì bel viso ha cinto. 22 In suo stellante regno Benogno Amor destina Questo sol di bellezza eterno pegno A Te del Tosco lido alta Regina; Io lo ti porgo in humil atto inchina, Ch'in te mirando fiso Parmi veder che al biondo pastorello Sembri del tuo men bello il mio bel viso. 23 Hor se d'invidia tinti Diran pur ciechi amanti I dolci lumi tuoi restarsi estinti Allo apparir di più begl'occhi santi, Ecco, Regina, a te venir davanti E già col brando in opra Mostrarne e l'uno e l'altro mio Guerriero, Che folle, incontro al vero altri s'adopra. 24 Qual miracolo Amore, Se la Bianca Alba mia Dell'Alba in ciel che l'Oriente apria Luce spargea maggiore? Non ha, non ha per sé l'Alba splendore: Dal Sol ben ella il prende, Ma la Bianca Alba mia per sé risplende. 25 Novella Alba celeste Co' suoi begli occhi tutto il Ciel serena El suo bel guardo affrena Per quante ha il Cielo e quante ha il mar tempeste; Di nuovi fior la terra adorna e veste E perch' à ne' begli occhi aprile eterno Mai non sarà che ne la spogli il verno. Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti. XXI. 9. Stinto con cinto nella Gerusalemme, St. 66, Canto ni: E colà trasse ove il buon duce estinto Da mesta turba t lacrimosa è cinto. XXII. 1. Edito assieme al seguente col nome di Giambattista Strozzi, equivocato, forse, per essere stati musicati da un Piero Strozzi. Per la sbarra che si fece a' Pitti a' 14 di ottobre 1579 nelle nozze della Granduchessa. Venere si dà per vinta dalle bellezze della Bianca e le rende ciò che da Paride si avea avuto, temendo col di lei confronto di esser superata e di doverglielo poi restituire. E'un leggiadro pensiero di gentile poeta, vagamente espresso, ancorchò dello stesso autore ci sia altro Madrigale bellissimo di simile soggetto. 7. Biondo è colore di accortezza; epperciò il Tasso nel Canto IV, St. 24 ne dipinge sotto questo colore il crine dell'astuta Armida, facendole dire del mago Idraote: .... diletta mia, che sotto biondi CapelU e fra si tenere sembianze Canuto senno e cor gemile ascondi, E già neU'arti mie me stesso avante, Gran pensier volgo; e se tu lui secondi Seguiteran gli effetti alle sperarne: Tessi la tela che io ti mostro ordita Di cauto vecchio esecutrice ardita. XXIII. 1. Nella stessa occasione della sbarra. Col titolo nel manoscritto: Venere conducendo (in campo) due guerrieri. Facendo plauso alla bellezza di Bianca, Fautore ricorda come per vecchi esempi la beltà disarmi la forza. V'è ragione di credere che uno de'due guerrieri fosse D. Virginio Orsini giovane prode e d'immensa ricchezza a queirepoca. Non si sa come in alcune stampe vada a lui intitolato il sonetto del Tasso A nobiltà di sangue in cui belle%%a, ec. mentre come Tabbiamo riferito alla pag. 12, fu diretto alla Bianca. 4. Degl'occhi santi. E' del Petrarca e piacque all'autore usarlo ancora nel Madrigale XXXI, ec. XXV. 6. Aprile eterno, è pure nel Madrigale 141 del Tasso nella raccolta del Rosini. |
Post n°875 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti CAPITOLO XXV "Mille anni con cinquanta cinque apresso si scrivea, quando il terzo Arrigo venne per la corona, com’io dissi adesso. Ventinove con venti poi la tenne; onde al suo tempo imaginar ben dèi 5 che di piú novitá esser convenne. Qui funno lagrimosi gli occhi miei e per Italia le genti sí grame, ch’a pena il gran dolor dir ti saprei. L’uno piangea per la misera fame, 10 l’altro la gran mortalitade e trista, che sparta s’era per le nostre lame. E fu nel cerchio de la luna vista la pianeta di Venus tanto chiara, ch’io ne vidi segnare il piú salmista. 15 La vita di Giovanni santa e cara fiorio, a cui il Crocifisso inchina, quando col perdonato a lui ripara. Vidi allora la cisma e la ruina in fra due papi sí crudele e tale, 20 che niuno vi trovava medicina. Or questo imperador fu il primo, il quale fosse scomunicato per la Chiesa, ben ch’a dir taccia la cagion del male. Finito lui con ogni sua impresa, 25 Arrigo quarto, ch’alcun dice il quinto, tenne l’onor senz’alcuna contesa. Costui, poi ch’ebbe Pontremolo vinto, col fiero stuolo fe’ piangere Arezzo e mutar sito dov’è or dipinto. In ogni suo costume e ciascun vezzo seguio il padre: cosí il papa prese con piú de’ suoi, i quai nomar non prezzo. Costui col padre a guerreggiare intese e a la fine lo chiuse in un castello, 35 dove il suo tempo sospirando spese. Costui un papa fe’, Bordin, novello, lo quale nel papato poco stette, ché a ritroso fu posto in sul camello. Un anno dico e piú due volte sette 40 questo signor del mio si vide reda; pro fu e vago di far guerre e sette. Portarono i Pisan con altra preda di Maiolica le colonne e porte, di che Fiorenza poi e sé correda. 45 Dopo questo signore, a la mia corte per la corona seguitò Lottaro, lo quale a tale onor mi piacque forte. Nel mondo fu, al tempo suo, gran caro e vennon l’acque in Francia cosí meno, 50 che laghi e fiumi e fonti si seccaro. E vidi surger guerre nel mio seno per cagion d’un figliuol di Pier Leone, che fu senza misura e senza freno. E tanto, lassa!, fu la quistione, 55 che di Sansogna Lottaro tornato Innocenzo rimise in sua ragione. Molto fu questo imperadore amato, divoto a Dio e con la gente umile, e visse un anno e diece in questo stato. 60 E se deggio seguire il dritto stile, or mi conviene nominar Currado, largo, franco e di animo gentile. Questo signor, del qual parlando vado, non portò mai la mia corona in testa: 65 di che mi dolse, tanto m’era a grado. La croce prese a priego ed a richiesta del re di Francia e passò oltra mare, ben ch’a l’andar sofferse gran tempesta. Assai del suo valore udio contare; 70 a la fine Loisi si ridusse in Francia ed ello ne la Magna a stare. Un poco pria che tutto questo fusse, per gran servigi che Genova e Pisa fenno a la Chiesa, il papa si condusse 75 d’accrescer loro onore e qui t’avisa che ciascheduno arcivescovo avesse i vescovadi sotto lor divisa. Cinque e diece anni mi par che vivesse questo Currado, il quale chiamo re, 80 chè ’mperador non è, s’io nol facesse. In questo tempo il Fiorentin disfé la forte rocca di Fiesole antica per guisa che poi mai non si rifé. Qui non bisogna che ’l modo ti dica, 85 ch’assai ne son che ’l sanno in questo mondo: bon fu lo ’ngegno e poca la fatica. Da notare è, e però nol nascondo: in questo tempo venne men Giovanni, lo quale era vivuto in questo mondo, 90 secondo il dir, trenta sei croci d’anni. |
Post n°874 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CLI Et con l'ale amorose del pensero A volo alzar si può nostro intelletto Tanto che io veda, immaginando, il vero, Amore, il tempo, e il mio vago concetto Acceso in fiamma di novel disire, Che mi sgombrava ogni voler del petto, Un giorno avean rivolto al mio martire Ogni mio senso già sviato altronde, Per veder la cagion del mio languire. E il dolce imaginar, che mi confonde, Avea ritratta la mia stanca mente Da quei begli occhi et dalle trecce bionde. Già sentia sollevar sì dolcemente L'anima grave, et l'affannato velo, Che or mi fa lieto nel pensier sovente: Et carco d'un soave et caldo gelo, Non so se falso sogno, overo oblio Mi scorse et spinse infino al terzo cielo. Ivi così condotto da disio, Mirai le stelle erranti ad una ad una, Che son principio del mio stato rio. Mirai con loro il corso della Luna, Et vidi perché il mondo chiama a torto La Sorte iniqua, et ceca la Fortuna. Poi rassembrava lor viaggio torto Al vago giro del fatal mio sole, Che dentro volve gli occhi che m'han morto. Suo chiaro viso, et sue sante parole Col sospirar dell'anima gentile, All'armonia, che lì sentir si sole, Il senno, la beltade, et l'atto umile, Et le virtuti, in quel bel petto sparse, Ove non si creò mai pensier vile, Pensando agli altri effetti ancor mi parse Che avesse più che loro in me possanza La vista che in un punto il mio core arse. Et rimembrando mia dolce speranza, Mentre che il pensier dentro più forte ergo, Sì come egli il pareggia et come avanza, Rivolgo gli occhi al glorioso albergo, Al loco aventuroso, ove oggi vive Lei, per che piango et sempre carte vergo, Fra i dolci colli et l'onorate rive Dove è colei, che arà mia vita in mano Finché del suo spirar morte la prive: Era in quell'ora il viso più ch'umano Rivolto verso il Ciel, dove è il Sol degno, Et gli occhi che mi struggon di lontano. Non so se il riso, o suo leggiadro sdegno, Non so se il lume allor che il cor m'infiamma, Avea di foco l'universo pregno. Non era al parer mio rimasa dramma In cielo, in terra, in mare, in el abisso, Che non ardesse d'amorosa fiamma. Io non era possente a mirar fisso Di lungi pur, la vista di colei, Per che gran tempo in ghiaccio, in foco ho visso: Così abagliava infra gli sensi miei Quel bel raggio seren del viso adorno, Che per seguirlo libertà perdei. Ma ben vedeva il mondo d'ogn'intorno Arder già tutto, et le mortal faville Nascer nel mezzo del suo bel soggiorno; Et le serene luci sue tranquille, Sole cagion della mia grave doglia, Per che convien piangendo io mi distille. Sapea ben come cangia ogni mia voglia, Se volge il lume tra il bel nero e il bianco, Colei, che d'ogni ben mia vita spoglia. Et io sentiva a poco venir manco Il mio debil valore; et di paura Tremare il freddo cor nel lato manco. Et l'alma sbigottita per l'arsura Sul sangue che bollia già nelle vene, Chiamar soccorso a lei che non ha cura. Lasso me, non poria parlando, bene Ridire il modo, la stagione et l'ora, Né la cagion di sì leggiadre pene. Mentre che ardendo Roma struggea allora, Ecco più chiara vista omai rappella In parte ove il pensier più s'inamora, Vedeami inanzi l'amorosa stella, Che amar m'insegna con suoi rai possenti, A sì gran torto contro me rubella, I lumi a noi nemici eran già spenti Per tutto il mondo, et li crudeli aspetti, Saturno e Marte et li contrari venti. Le stelle più felici, e i cari effetti Vedeansi insieme tutte in sé raccolte In luoghi signorili alti et eletti. Et sì benignamente eran rivolte Al sacro loco, di che pria parlai, Che spiegar non porian parole sciolte. Scendea da i santi et benedetti rai Tal dal ciel pioggia in su l'amate trezze, Che non fia stella che 'l pareggi mai. Et una nube carca di bellezze L'arco dintorno avea tutto ripieno Di gioia, d'onestate et di vaghezze. Mirando il ciel sì lieto et sì sereno, Et l'altre stelle volte nel bel viso, Che già il foco mortal m'accese in seno, Ripien di maraviglia, in Paradiso Credeva esser portato inanzi morte, O spirto errante, dal corpo diviso. Et volea dire: Ahi dispietata Sorte, In ciel di quei begli occhi or si fa festa, Che io scelsi per miei segni et fide scorte; Et me fra l'onde et la maggior tempesta Mia guida lascia, ove mi spinge Amore Ohi me che poco spirto ormai ci resta. Ma non più tosto tal pensiero al core Giunse, ch'io mi rivolsi all'altra parte, Là dove a sé mi trasse un nuovo errore. Io vidi con questi occhi ivi in disparte La imagine gentil, la bella idea, Donde il mio cor dal ciel tolse tanta arte. Mentre che più da presso io me facea, Lo esempio, la figura, et la bella ombra Già viva viva tutta mi parea. Così giuso, nel mondo, il cor m'ingombra Quella pietà, che schiva talor move Tra il lume e il fronte, che mia vista adombra. Così simil bontà da gli occhi piove Giù nel bel mento il fronte pelegrino; Così si adorna di vagheze nove. Or qui conobbi quanto può destino Quanto natura, e il cielo: et quanto possa L'ingegno sol senza voler divino. Conobbi la cagion, donde è sol mossa La guerra, che mi strugge et arde sempre Col foco, che mi è acceso in mezzo l'ossa. Conobbi, per che a sì diverse tempre Amor governe la mia frale vita, Et perché dall'angoscia non si stempre. Era la mia virtù vinta et smarrita Già nanzi l'alto obietto e il bel sembiante, Che solo è adorno di beltà infinita. Vedea le mie suavi luci sante Non sfavillar, ma chiuse nella stampa; E il viso ornato di belleze tante: E il chiaro impallidir d'una tal vampa Biancarlo tutto, e l'onorato fronte, Che ogni core adolcisce e il mio divampa; Le ciglia aventurose agli occhi gionte, Chi gira et volge Amor con sua man sola, Porto di mia salute, albergo et fonte; Le chiome sciolte intorno a quella gola, Onde vien quel parlare umano et tardo, Che l'anima, ascoltando, il cor m'invola. Mentreché il duolo mio fiso riguardo, Veder mi parve, d'un leggiadro nembo Coperte ambe le luci, ond'io tanto ardo: Et sopra al fortunato et suo bel grembo La bianca man di perle star distesa, Et circondata d'amoroso lembo. Questa è la man da chi fu l'alma presa, Et fece il laccio di che amor la noda, Et tienla in croce, et mai non fece offesa. Questa è la bella man, che il cor m'enchioda, Soavemente, sì che il sento apena; Questa è la man, che tutto il mondo loda. Questa è la bella man, che al fin mi mena; Et, vaneggiando, in parte l'alma induce, Dove è sol pianto, doglia, angoscia, e pena. Questa è la man, che la mia cara luce, Che io vidi in l'alto exempio imaginato; Questa è la man che a morte mi conduce. Questa è la bella man, che il manco lato Mi aperse, et piantovv' entro il malvolere, Perché convien ch'io pera in questo stato. El stare in sé raccolta, e il bel tacere, Et questo a tempo, e il riso mansueto Né lice, né conviensi a me vedere: Il mirar vago et fiso, e il volger lieto Non per destin ma per arte si acquista, L'andar soave et l'atto umile et queto. Non vi era il duol, che la bella alma attrista; Né il sospirar, che par già mi consume; Né il lampeggiar della soperchia vista, Ma in gli occhi, che m'hanno arso, e spento il lume, Il lume che m'abaglia, non m'invia: Spento era nel sembiante ogni costume. Suo senno, suo valor, sua leggiadria Né quel, Né l'altro orgoglio si è dipinto, Che m'ha ingannato con sembianza pia. Era già il sole all'orizzonte spinto, Tratto per forza al fondo de la spera; E l'aere nostro d'ombra era già tinto: Et la nimica mia già rivolta era A vagheggiar se stessa, et sua beltade E infino a terza avea la vista altera. Dico di lei che adorna nostra etade, Et sola infiora il mondo che nol merta, In cui s'osserva il pregio di beltade . Sicché di doppia notte era coperta La terra allor, che il santo raggio volse, Che volto in su facea mia vista incerta. Non so che la memoria qui mi tolse, Ch'io non so ben ridir se più soffersi, Non so, se il mio pensiero ivi più accolse: Et qui fuggendo il sonno, gli occhi apersi. CLII Caro Libretto, et più ch'altro felice, Tocco da quelle man leggiadre et sante, Deh dinne il vero: leggendoti, quante Lagrime ha sparte in te la mia finice? Io 'l vo' saper per render le mie vice Bagnandote di più, o d'altre et tante, Pria ch'io proceda a vederte più avante, Ché sai che a noi più lamentar ne lice. Dè sospiri et dè oimè non ti dimando; Ché so che mille et mille ella n'ha tratti, Ché ne sei pieno, et lei l'ha per usanza: Et se a lei più torni io ti comando, Che la costringhi a far teco tal patti, Che io viva del desi' 'n bona speranza. CLIII Laura, ch'io già cantai piangendo in rima, Et finsi ancor, poetizzando, alloro, Scesa è dal Ciel col suo pudico coro, Dove virtù più che quaggiù si stima, Per porvi di sua schiera in sulla cima, Et prendere or con voi qualche ristoro, Poiché vinto ha colui, che con stral d'oro Ferir credette, et vincer lor da prima. Tolte gli han l'arme et poste a una colonna, Et trionfan di lui che nel suo regno Solea de' Dei trionfare et di noi: Et vien legato or nanzi alla mia donna Pien d'ira, di vergogna, et di disdegno: Piacciavi dunque accettarla tra voi. CLIV Mille vaghi pensier, mille disii, Che mi van per la mente notti et giorni, Mi dicono: or che fai? che non ritorni Al giogo usato, ai sospir dolci et prii? Amor, ch'è presso me, par che s'invii Verso un viso leggiadro, et che l'adorni, Non già di beffe, di sdegni et di scorni, Ma di beltà, et vezosi atti et pii. Poscia le trecce inanellate et bionde All'aura spiega con le sue man sante, Facendo lampeggiare il viso et gli occhi. Ivi coll'arco teso si nasconde, Et drizza in me lo stral con un sembiante Tal, che mi par sentir che al core scocchi. CLV Quando Laura i capei d'or crespi et tersi Soavemente al sol commove et gira, Porge tanta dolcezza a chi li mira, Che i solar raggi gli par bruni o persi. Io benedico l'ora e 'l dì che apersi Gli occhi, e 'l piacer che a mirarli mi tira; Et benedico l'alma che sospira Per lor mai sempre, et quanto mai soffersi. Ma dogliomi d'amore empio e protervo, Che poi che vuol per costei strugga ed arda, Non fa sentir parte del foco a lei. Et duolmi più di lei che non mi guarda Sovente et fiso ancor com'io vorrei, Per saper s'ella vuol ch'io le sia servo. CLVI Ben che Laura sovente mi sospinga A rimirar la beltà, ch'io vorrei, Per più mia pace et più fama di lei, Stesse non sì rinchiusa o sì solinga; Et ben che Amor, che allora mi lusinga Forse per acquetare i sospir miei, Me la mostri, et con cenni or dolci, or rei Di color mille il mio volto dipinga; L'alma con tutto questo non si pente, Anzi s'infiamma, ed ognor più disia Parlar seco il mio stato altrui nascoso. Et fissa poi rimanmi nella mente L'immagin sempre; e 'l suo viso ov'io sia Parmi più bello, et ver me più pietoso. |
Post n°873 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti CAPITOLO XXIV Era vivuto un anno men di venti questo nobil signor con la mia insegna, quando la morte il morse coi suoi denti. Arrigo primo apresso di lui regna (il primo, dico, che me prima tenne) con la sua Cunegonda santa e degna. Mille e tre anni correan, quando venne di Baviera a me questo mio Arrigo per la corona e per le sacre penne. Poi fece tanto costui ch’io ti dico, che Stefan, ch’era re in Ungaria, credette in Cristo e dispregiò il nimico. E vidi allor tra la mia chericia la discordia tal, che funno eletti piú papi, di che nacque gran resia. E perché il mio dir piú ti diletti, dico che allora Fiorenza disfece Fiesole tutta di mura e di tetti. Questo signor, del qual parlar mi lece, in Buemme, in Sansogna e ne la Magna molte battaglie con vittoria fece. Al fin colei, che niuno non sparagna, dopo li dodici anni e alcun mese prese e chiuse costui ne la sua ragna. Currado primo, poi, a me discese, lo qual non per ricchezza ad Aquisgrani, ma per valore la corona prese. Costui, trovando i Melanesi strani, orgogliosi e superbi, gli assalio guastando la cittá e i suoi bei piani. Odi miracol che di questo uscio: che lá, dov’era, incoronato Augusto, folgor cadere e forti tuon s’udio. E fu veduto col volto robusto Santo Ambruogio in contro a lui venire 35 e minacciarlo col capo e col busto. Con gran podere e con molto ardire passâr su la Calavra i Saracini, quando per forza li fece fuggire. Costui vidi da’ suoi e da’ Latini 40 essere amato e temuto sí forte e io per lui ne le mie confini. Due volte diece tenne la mia corte e dèi saper che molto trista fui, quando detto mi fu de la sua morte. 45 Arrigo il secondo apresso lui seguio; e se sapessi, quando nacque, perché Currado il diede in mano altrui, e poi udissi dir sí come ei giacque, mandato per morir, con la sua sposa, 50 ben potresti veder quanto a Dio piacque. Non è qui da tacere un’altra cosa, che si vide nel tempo ch’io favello, ch’assai parve fra noi miracolosa: che fu trovato intero in uno avello 55 un gigante di sí fatta statura, che ne vidi segnare questo e quello. E non solo al gigante ponean cura, ma perché ne la tomba ardeva un lume, che parea incantamento e non natura. 60 Per gran franchezza e per nobil costume e per larghezza ti dico che degno è da notare in ciascun bel volume. Costui Campagna, Puglia e tutto il Regno per forza vinse e prese Pandolfo, 65 che ne la Magna tenne poi per pegno. Costui, veggendo tra’ cherici il zolfo acceso per tre papi, ne fe’ uno, cacciando quei tre via per ogni golfo. Cinque con cinque e sette anni aduno 70 che questo imperadore visse meco e che la morte il punse col suo pruno. Arrigo terzo a la mente ti reco, figliuol del primo Arrigo, col qual poi mi vidi assai contenta viver seco. Al tempo suo si racquistò per noi la Terra santa, dove tal cristiano fu Gottifré, che ’l par non so ancoi. Fedele a Dio, pietoso, umile e piano e in arme tal, che fece spessamente 80 con Corboran lacrimare il Soldano. Sopra costui, pregando molta gente Iddio d’un re, una colomba scese dal ciel, che vista fu visibilmente. Per lo miracol grande allor si prese 85 una corona d’or per farlo re, la qual del tutto di portar contese, dicendo lor: – Non si convene a me portar corona d’oro, dove Cristo d’aguti spin la portò sopra sé –. 90 Ancora in questo tempo avresti visto Ruberto Guiscardo, che d’argento ferrò i cavai per fare il bel conquisto. E come fu sottil ne l’argomento, cosí veduto l’avresti pietoso 95 e pien contro a’ nimici d’ardimento. E se sapessi sí come il lebbroso si puose in groppa e poi in su la sella e nel suo letto per darli riposo, molto ti piacerebbe la novella. 100 Similemente Matelda contessa vivea, di cui tanto si favella. La madre fu, per quel che si confessa, figliuola d’uno imperador di Grezia, ch’al suo piacer prese marito in pressa. 105 E se ben vuoi saper quanto si prezia Matelda per valore e intelletto, e perché col marito prese screzia, iscritto il truovi ov’è San Benedetto in Mantovana e quivi il corpo giace". 110 Allor diss’io fra me: Il ver m’ha detto, ché il vidi giá; ma ’l come qui si tace. |
Post n°872 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti |
Post n°871 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XXIII Del millesimo nostro eran giá corsi novecento anni e cinque con cinquanta, quando l’aquila e ’l mio a Otto porsi. Costui fu il primo che portò la pianta ne la Magna dell’albore, il cui frutto 5 senza sette gran princi non si schianta. Cherici son li tre e fan ridutto l’uno in Maganza e l’altro in Cologna e ’l terzo Trieves governa del tutto. Dei laici è l’uno quello di Sansogna, 10 quel di Baviera e quel di Brandiborgo e quello di Buemme, se bisogna. Li primi tre, che dinanzi ti porgo, sono del gran monarca cancellieri; ma come sian partiti non ti scorgo. 15 De’ quattro, l’un lo serve del taglieri; l’altro li porta dinanzi la spada; pincerna è il terzo e ’l quarto camerieri. Quest’ordine, che tanto ben digrada, fu proveduto a ciò che fosse sempre 20 sí per elezione e in lor contrada. Due anni e diece vissi a le sue tempre e voglio ben, se di lui scrivi mai, che secondo al buon Carlo tu l’assempre. Apresso di costui, ch’io tanto amai, Otto secondo la corona prese, che somigliò lo suo buon padre assai. Incontro a Pietro prefetto difese il Papa mio, il quale era per certo morto, se pigro stato fosse un mese. 30 E come per ben far s’aspetta merto, similemente, operando il contraro, dee l’uom pensar di rimaner deserto. Dico che molti a costui rubellaro, violando la pace ch’avea fatta, 35 li quai distrusse con tormento amaro. Qui non ti conto la mortal baratta che fe’ coi Saracin, né la paura ch’egli ebbe in mar, dopo la lunga tratta. Cinque anni e diece visse in quell’altura 40 e, poi che morte il suo corpo saetta, Otto il terzo prese di me cura. Costui de la sua sposa maladetta provato il vero con la vedovella, col fuoco fece iusticia e vendetta. 45 Io non ti posso dire ogni novella di questi miei signor, ma quella arrivo che mi par di ciascuno a dir piú bella. E se in quel tempo fossi stato vivo, Ugo marchese averesti in Fiorenza 50 veduto, un gran baron possente e divo. E se di lui vuoi piena sperienza, di quella avision fa che dimandi de la qual fe’ sí buona coscienza. E spiane ancora quel da’ Gangalandi, 55 quello de’ Pulci, Giandonati e Nerli, e molti, che per lui fun poi piú grandi. Or perché in te ogni mio dir s’imperli, qui t’ammaestro che non pigli briga con uom ch’abbia piú alto di te i merli. 60 Io dico che Crescenzio s’affatiga contro a lo ’mperio di far novo papa, onde Otto poi l’uno e l’altro gastiga. E voglio che ne l’animo ti capa che allora Ugo Ciapetta si fe’ vespa 65 e, per prendere il mele, uccise l’apa. Qui puoi vedere che cosí s’incespa qua giú la gente, come in pianta fronda: surge la nova e cade la piú crespa. In questo tempo mi vedea gioconda 70 e Italia mia tanto contenta, quanto colei che d’ogni bene abonda. Per questi tre signori vid’io spenta la tirannia di qua, sí che non c’era chi spaventasse com’or si spaventa. 75 Qui non si ponea dazio a la statera del pan, del vin, del mulino o del sale, che disperasse altrui com’or dispera; ma solo il censo al modo imperiale ciascun pagava e questo era sí poco, 80 che a niuno non dolea né facea male. Qui si potea d’uno in altro loco passar per le cittá a una a una, senza costar bullette un gran di moco; qui non temea la gente comuna 85 trovarsi nel tambur né esser preso per lo bargello, senza colpa alcuna; qui non temea che fosse difeso il mal fattor né tratto di pregione, né l’aver del comune essere speso 90 per un uom sol, senza mostrar ragione. |
Post n°870 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Pari 'n bbabbà |
Post n°869 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871. I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana 16 Candido Sol, co'dolci raggi tuoi Se l'herbe i fior, se 'l mondo serbi in vita E spenta e scolorita Pianta ravvivi e 'n giovenir la puoi, Deh! or come tu suoi Dal giel difendi l'honorate piante; Me pur gradisti avante: Che pro se 'n premio sia Ch'el tuo splendor gradi già l'ombra mia? 17 Tanto splendore in te del Ciel s'aduna, Candido Sol terreno. Che senza il tuo sereno Quando è più luminoso il mondo imbruna; Mira qual senza te sorge la Luna, Pur sovr'ogn'altra suole Di sua luce arricchir la Luna il Sole. 18 A te mi volgo, a te m'inchino humile, Per me ti pregan questi Pargoletti Miei figli e tuoi fioretti, S'havran del peregrino e del gentile. Ahi! se non cangia stile Il sole, ohimè se con pietà non mira. Questo è quel fior che amando a lui si gira, Qual veggio horrido verno Già far di me di loro empio governo? 19 Mentre mormorerà correndo il fiume, Mentre le stelle in Cielo Si pasceranno di rugiada e gielo, Candido adorerò celeste Nume; Deh! scenda in me del suo benigno lume Tacciomi io qui, ch'amor pietade e fede Per me Candida il chiede E tua chiarezza il vuole Vivo mio Fonte e Fiamma e Stella e Sole. 20 Fiammeggia ben quel tuo crin biondo. Aurora, In sul mattin fra la rugiada el gielo, Ma si cuopre e scolora Com'il sol vibra raggi suoi dal Cielo; Però sotto un bel velo Risplende più quest'altra chioma ardente, Che'l Sol non è possente A farla oscura, anz'ella Per lui si fa più luminosa e bella. XVI. 1. Candido Sol, ed in altro Madrigale pur esso alla Bianca nella raccolta del Kosini Candido flor^ eo. Candido è preso per Tiimocensa e semplicità del suo carattere, che non tramata effetti né abitadini. 6. Vhonorate piante^ l'amato alloro, che Dante nel Paradiso, Canto I, v. 90, dice cogliersi qualche rada volta Per trionfare o Cesare o poeta. L'impresa mostrava in&tti un alto alloro col motto: Non Ultima Laus. XVII. 2. Colla luna neirimpresa ed il motto Nil Barn Tb. XVIII. 1. Con un girasole in messo ad altri fioretti ed il motto Non Mutat Obnvs. 4. Come reminiscenza della Gerusalemme, St. 46, Canto lY: Io crebbi e crebbe U figlio e mai ni ttUe Di cavalier, né nobU arte apprese^ Nulla di pellegrino o di gentile Gli piacque mai né mai troppo alto intese. 7. Alludendo alla favola di Clisia il Tasso nel sonetto: Già difendesi con ramose braccia^ ec. E come CliMa suole Sei tu per grazia volta al nuovo Sole. XIX. 3. Si pasceranm di rugiada e gielo, con un richiamo alla reminiscenza del Petrarca in nota del Madrigale III: Il dì che costei nacque era nel delo, ec. 4. Qui la gentildonna fa la sua professione di fede e dietro a lei l'autore alla Bianca; ed il verso Candido adorerò celeste Nume dice pur troppo che la signora Bianca era divenuta granduchessa e che per la nota sua benignità Tuno e l'altra molto s'aspettavan da lei. XX. 1. Fiammeggiar fra la rugiada e 'l gielo s'osservò già nel Madrigale III II dì che costei nacque era nel Cielo, ec. allegando l'esempio del Petrarca. Si direbbe aver per argomento questo Madrigale qualche dipintura col ritratto della signora Bianca. N'avevano uno i Piccolomini di Siena, che c'interesserebbe tanto di conoscere. Ci ricordiamo di aver veduto in una Galleria certo ritratto vaghissimo di donna con capellatura fulva e col velo in capo, che ci produsse le stesse considerazioni del Poeta. Rispetto al velo bianco per adornezza d'un bel volto, potrà dirsi che fìi massima del celebre Tiziano che il vivido e luminoso colore delle carni acquistasse pregio a confronto di un panno bianco facendocelo vedere nella sua Flora e nella sua Venere. L'osserva anche il Lanzi. In altra copia sincrona a pag. 24 del Cod. num. 329, Classe VII della Magliabechiana, in fronte a questo con altri tre Madrigali consecutivi, vi ò apposto questo titolo: In lode di Capei Rossi di Messer Gir. , G. Scrittovi, pare, perchè non si avessero a credere Madrigali dello Strozzi, del quale fu in origine il Codice. 6. Per impresa un cane levriere riguardante il sole ed il motto Sbmper Honob. |
Post n°868 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CXLI Caro conforto a mie dolenti pene, |
Post n°867 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo LIBRO SECONDO CAPITOLO XXII Secondo il mio parlar ben puoi vedere che Carlo Magno in Francia fu il primo a cui dessi giá mai il mio podere. E puoi trovar, cercando in fine a imo, chi e quanti ne funno e come fatti 5 imperador discesi del suo vimo. Or ti vo’ dire, a ciò che, se mai tratti di sí fatta materia, il tempo veggi che meco funno e ch’io li vidi sfatti, dire che ’n quante croniche tu leggi, 10 truovi ch’esser potean da due cent’anni che governaro me e le mie greggi. E se qui vuoi che del ver non t’inganni, contenta assai ne fui, se vennon meno: sí poco giá curavan de’ miei danni. 15 E poi che sciolto in man mi tornò il freno de lo ’mperio mio, cosí il porsi a Lodovico, che piú m’era in seno. Vero è che di cui fosse avresti in forsi trovato al mondo molti e molti popoli, 20 tanto eran giá i fatti miei trascorsi: ché l’un lo si credea ’n Costantinopoli e l’altro ne la Magna, colá dove or la corona de la paglia copoli. Ma perché miri al segno e non altrove, 25 sol Lodovico allor l’onor tenea che da me prese, in cui la grazia piove. Or odi di costui fortuna rea: che preso fu e poi cieco in Verona, quando disfare Berlinghier credea. 30 Sei anni guidò il mio la sua persona; poi Berlinghieri Forlivese venne, al quale puosi in testa la corona. Quattro anni, poi, la governò e tenne; pro fu in arme e di alti ministeri; 35 altrui fe’ guerra e molta ne sostenne. Seguio apresso un altro Berlinghieri, ma nato Veronese, e costui poco ne’ suoi nove anni ebbe di me pensieri. Lottaro, dopo lui, ritenne il loco 40 sette anni e poi Berlinghieri il terzo, Piagentin, tre; e costui fu un foco. Tu vedi ben come mi sforzo e sferzo venire al fin di questa trista schiatta, che fun peggior che gli orsi in ogni scherzo. 45 In questo tempo fu Genova sfatta per gli Africani, sí ch’ancor ne langue ogni suo cittadin de la baratta. In questo tempo una fontana sangue isparse per la terra, ch’a’ lor guai 50 annuncio fu peggior che morso d’angue. In questo tempo fun discordie assai in Francia, ne la Magna e tra’ Latini, de le quai danno spesso mi trovai. In questo tempo ancora i Saracini 55 passâr su la Cicilia e vinser tutta, ponendo ai liti miei le lor confini. In questo tempo fu rubata e strutta Italia sí per gli Ungari crudeli, ch’ancor c’è, credo, chi ne piange e lutta. In questo tempo si vide tra’ cieli sí rosso il sol, ch’a molti, per sospetto d’alcun giudicio, s’arricciaro i peli. In questo tempo fun con un sol petto due corpi uman, che, quando l’un dormia, 65 e l’altro da la fame era costretto. In questo tempo fen vita sí ria Alberto e Berlinghier, ch’assai ne piansi e piansene Toscana e Lombardia. E come rimembranze talor fansi, 70 costui mi fe’ ricordar di Nerone, cotanto duro m’era e tenea in transi. Tre papi funno allora in quistione e tutti e tre in un sol tempo vivi: Giovanni, Benedetto e Leone. 75 E se giá mai di tal Giovanni scrivi, dir puoi, per ver, che fu pien di lussuria e d’altri vizi bestiali e cattivi. Senza fallo commesso o altra ingiuria, la maladetta schiatta impregionaro 80 Alonda imperadrice con gran furia. Pur tanto i lor gran mal moltiplicaro, che ne la Magna ad Otto di Sansogna il popol mio e gli Italian mandaro. Or qui voglio che chiaro si ripogna 85 ne lo ’ntelletto tuo ciò ch’a dir vegno, ché alquanto lungo parlar mi bisogna. Dico che come Carlo tolse il regno a Desiderio, a Berlinghier costui, prendendo lui, li tolse ogni sostegno. 90 Poi tanto amata e riguardata fui, per lo suo gran valor, che la corona e me e ’l mio diedi tutto a lui. Assai mi piacque, quando dispregiona Alonda e piú ancor poi che la fece 95 compagna e sposa de la sua persona. Da queste genti sí crudeli e biece l’aquila posso dir che fu tenuta tre anni e piú di cinque volte diece. Vero è ch’ell’era giá tal divenuta, 100 per lo tristo governo, in questo tempo, qual se ’l Greco l’avesse posseduta. Qui puoi veder come di tempo in tempo la somma Provedenza alcun produce che, per sua gran vertú, poi lungo tempo 105 fa che nel mondo la mia luce luce. |
Inviato da: cassetta2
il 12/08/2024 alle 08:41
Inviato da: amistad.siempre
il 11/08/2024 alle 23:52
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50