Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Gennaio 2015 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
      1 2 3 4
5 6 7 8 9 10 11
12 13 14 15 16 17 18
19 20 21 22 23 24 25
26 27 28 29 30 31  
 
 

Messaggi del 21/12/2014

Fabbruzzo

Post n°881 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Ho già parlato di Fabbruzzo (da Perugia), del quale nessuna notizia avevo trovato. Sono ora in grado di rettificare quanto da me in precedenza affermato.

La potente ed illustre famiglia Lambertazzi ebbe molti individui di nome Fabro, i quali per vezzo consueto venivan chiamati Fabruzzo. Uno di questi fu l'esimio poeta del quale verremo a recar qui le notizie, e che al dire dell'imolese Benvenuto Rambaldi fu nobile cavaliere, e uomo sapiente e di gravissimo consiglio.

Egli nacque di Tommasino Lamberlazzi, più tardi al certo del 1250, non tanto perchè dall'Alighieri vien posto sempre dopo il Guinicelli e l'altro Guido, de' quali fu alquanto più giovine, ma perchè nel memorando anno 1274, tanto funesto ai Lambertazzi per la lor cacciata da Bologna, soscrisse contratti civili, per la validità de' quali gli fu mestieri dell'assistenza d'un curatore: il che significa non aver egli in quel tempo compiuti ancora i venticinque anni d'età. Dov'egli studiasse le lettere non è chi l'accenni; nè di lui nè degli altri illustri bolognesi di quel secolo remoto ci sono cogniti i maestri. E però a supporre che la dotta Bologna, madre celebrata degli studi scientifici, quelli pur anche letterari a' figli suoi insegnasse. Certo è che molti uomini segnalati uscirono allora dalla Sapienza bolognese, fra i quali il nostro Fabruzzo fu certamente uno de' primi; nè molto da lungi gli tenne dietro il fratello Azzone, canonico della chiesa cattedrale e dottore in Decreti.

Del 1266 perdette il padre, e dopo otto anni la patria; poichè venendo cacciati, come s'è detto, i Lambertazzi e tutti i seguaci che n'aveano preso le parti, Fabruzzo non fu in miglior condizione degli altri, leggendosi il nome di lui in tutti i libri de' banditi, così della prima come della seconda cacciata dei Lambertazzi e de' consorti Ghibellini; a cui forse alludeva esso Fabruzzo con que' suoi versi eptasillabi, che al dir di Dante incominciavano: Lo mio lontano gire ecc. Secondo l'opinione più verosimile pare che Fabruzzo si ritirasse a Perugia, ed ivi uscisse di vita, non trovandosi più memoria nei pubblici libri ch'ei ritornasse alla patria. La sua dimora di ben cinque lustri nella gentile e cordial Perugia, diede luogo alla falsa opinione espressa da qualche scrittore, ch'egli fosse perugino.

Del 1289 e del 93 e del 98 il nostro Fabruzzo ancora vivea; poichè nel primo di questi anni essendo morto in esiglio il fratello di lui Azzone canonico, all'assente poeta ne toccò una parte dell'eredità; nel secondo riscosse dall'Arciprete della Cattedrale una poca somma di cui era questi debitore ad Azzone; e nel terzo trovasi notato il nome di Fabruzzo di Tommasino fra quelli de' capi fuorusciti di parte Lambertazza che si radunarono in Imola il 30 ottobre dell'anno suddetto, facendo compromesso nelle autorevoli persone di Matteo Visconti e di Alberto della Scala, circa le differenze che avevano colla città di Bologna. E avvegnaché per la sentenza pronunciata dai due arbitri fosse a molti dei Ghibellini conceduto l'anno appresso di ritornare alla patria, non si ha però nessuna prova che Fabruzzo entrasse di quel novero. Nè oltre a questo tempo si trova più memoria della sua vita ma solo delle opere sue: delle quali riportiamo qui un sonetto, tratto dalla raccolta di Rime antiche pubblicate già da Leone Allacci, il quale insiem con altri (siccome abbiam detto) cadde nell'errore di ritener perugino il bolognese Lambertazzi.

Uomo non prese ancor sì saggiamente
Nessun affar, se talor gli addivenne
Che l'usanza che corre in fra la gente
Il tenga folle, poi che mal sostenne.

Mentre colui che adopra follemente
Beato andrà, se per ventura avvenne
Che tornasse a buon fin quant'ebbe in mente,
Onde poi d'uomo saggio in voce venne.

Questa nel cieco mondo è grande erranza
Che fortuna fa il folle parer saggio,
E ciascuno che piace al suo volere.

E non guarda ragion, non misuranza,
Anzi fa bene, a cui dovila dannaggio,
E male a quei che ben dovrebbe avere.

Questo Sonetto, dettato con passione, allude senza dubbio all'impresa de' Ghibellini d'Italia, che nello scorcio del secolo XIII. avversando il prepotente indirizzo de' Guelfi, che tutto toglieva alla nazione per dar tutto ai Pontefici, tentarono una riscossa, nel concetto di farsi forti; se non anzi d'unificar la Penisola, all'ombra del vessillo d'Impero. Ma toccata la peggio ad essi Ghibellini, e nelle Romague, e in Lombardia ed in Toscana, que'medesimi che sarebbero stali dichiarati saggi ed eroi, trionfando, furono chiamati folli e ribaldi, soccombendo: e questo avviene sempre nelle geste ardimentose degl'individui e de' popoli; in quelle che in moderno linguaggio appellansi colpi di stato, e che ti prostran nella polvere o t'innalzano in sugli altari. Tal è il concetto che Fabruzzo (probabilmente ne' primi giorni d'esilio) svolse nel Sonetto morale di cui sopra, il quale se non ha l'eleganza delle rime del Guinicelli e dei toscani contemporanei, non manca però di naturale condotta e di lodevole chiarezza.

Tratto da: "I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine

 
 
 

Tasso madrigali 26-30

Post n°880 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri

Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana

26

Alle candide membra,
Al lampeggiar dell'indorate chiome,
Al bel viso, al bel nome.
Non so se Donna o Dea costei rassembra; 
Ben di lei mi rimembra. 
Che mentre in sul mattin col Sole apparo 
Mostra gioirne il Ciel, la terra e'l mare.

27

Quando nascesti, Amore, 
Nacque ad un parto insieme 
Il pallido timor, l'accesa speme; 
Albergo d'ambo due fu gentil core, 
Speranza, ardore e tema il giel nutrio: 
Speme vien sempre teco, alato Dio, 
Ma te, Signor, la tema a guerra sfida 
E spesso avvien ch'el suo temer t'ancida.

28

Nell'amorosa mente 
Due nemiche, sovente unite insieme, 
Stanno paura e speme 
E fan dubbiar qual più dell'altra pote; 
Questa solleva il cuor, quella lo scuote: 
L'una con giel, con fiamme l'altra assale. 
Ahi! che la tema è più di lei mortale. 
Tema ch'elesse Amor nella sua corte 
Ministra di dolor, seggio di morte.

29

Hor che farà 'l timor se speme ancide 
Che pur di gioia suol nutrir gli amanti. 
Ed ei li pasce di tormenti e pianti! 
Non sa come di morte Amor ne sfide 
Chi dal timor non vide 
Tutta nel volto di pietà dipinta, 
Un'anima gentil battuta e vinta.

30

E' nuova Alba celeste, 
Questa ch' innanzi Tl'lba in terra aggiorna? 
E chi l'adorna e di splendor la veste? 
Ha forse a lei conteste 
Sì bionde treccie il Sol di raggio d'oro? 
O ricco alto lavoro, 
Ben tu di questa chioma Alba sei degna: 
Ben ella in Ciel sarà del Sole insegna. 


Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti.

XXVI. 
3. Al bel nome. Nella Canzone del Tasso alla Granduchessa Bianca, incominciata Talvolta sopra Pella, Olimpo et Ossa. Dopo aver lodato in lei il candore come suprema bellezza, decanta anche (strofa III, v. 15-16):
E 'l bel nome, che piace a vaghi sensi 
Ove se 'n parli o pensi.

XXVII.
3. il pallido timor. Amore sospetta e impallidisce. Il Tasso lo ha pur descritto bene quest'effetto nell' Aminta; e a lui bastava vedere in volto per convincersene. 
Si legga ponderatamente questo ed i consecutivi due Madrigali che sono proprio belli e mirabili e forse dei migliori del Tasso pel sentimento. Si riscontrano pure manoscritti ne'Codici 55, filasse VII, pagine 40-41 e 329, Classe VII, pagine 114-116 della Maglia bechiana.

XXVIII.
3. Coll'esempio nel Petrarca e nell' Ariosto:
S'il cuor tema e speranza mi puntella 
Petrarca, Son. 196. 
Tema e speranza il dubbio cuor le scuote 
Ariosto, Canto I, St. 39. 
Nella Gerusalemme il Tasso in due luoghi, Canto V, St. 35: 
Goffredo ascolta; e in rigida sembianza 
Porge più di timor che di speranza. 
E nel Canto XX, St. 50: 
Così si combatteva; e 'n dubbia lance 
Col timor le speranze eran sospese.

XXIX. 
1. Tutto il Madrigale è una fedele dipintura di mente e di cuore per effetto di dispiacevoli avvisi. Anche nella Gerusalemme, Canto VI, St. 64, l'espresse mirabilmente lo stesso autore:
Ma poi ch'el vero intese e intese ancora 
Che dee l'aspra tenzon rinnovellarsi, 
Insolito timor' co A l'accora 
Che sente il sangue suo di ghiaccio farsi. 
Talor scerete lacrime e talora 
Sono occulti da lei gemiti sparsi: 
Pallida, esangue e sbigottita in atto 
Lo spavento e'I dolor v'avea ritratto. 
E nel Sonetto lo vidi quel celeste altero viso, ec. 
Oh color degli amanti! Oh vago e caro, 
Pallor, onde ha l'Aurora invidia e sdegno. 
Che di rose men vaghe il volto inostral 
Ben avrei fato avventuroso e raro. 
Se come in lei d'amor l'aspetto mostra. 
Cosi il cor ne mostrasse un piccol segno.

XXX.
2. Aggiorna, s'aggiorna, ec. Vedi il Madrigale Alba di stel'e adorna, ec. 

 
 
 

La Bella Mano (157-170)

Post n°879 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLVII

Deh se Laura mi fosse sì suave
Sempre com'ora, et amor sì benegno,
Qual stato al mondo più gioioso e degno
Fora del mio, et qual peso men grave?
Ch'io miro gli occhi bei c'hanno le chiave
Del mio cor lasso e del debole ingegno,
Nel qual consiste l'amoroso regno,
E 'l sicur porto di mia fragil nave.
Et ella che di ciò par si contenti,
Poscia mi mostra la sua bionda treza
Tessuta, oimè, dalla man che mi sface.
Ivi mi specchio, indi prendo dolceza;
Talché, per tema di futur tormenti,
Vorrei morir finché 'l viver mi piace.

CLVIII

Non so se Laura, che il divin Poeta
Sospirando in bei carmi chiuse et strinse,
Fu vera donna, o lauro et donna il finse,
Ch'altri de suo desi' avesse più pieta.
Questa vegg'io ch'è donna; amor nol vieta,
Ché al primier guardo in mio cor la dipinse
In guisa, che da poi mai non si stinse;
Sì fu sua vista allor dolce et quieta.
Né maraviglia s'egli fu fervente
In esaltarla in beltà e in maniera;
Ché 'l più del tempo si mostrò benegna.
Maraviglia è di me, che quest'altera
Ascoltar non mi vuole, anzi mi sdegna,
Et io sempre le son più obbidiente.

CLIX

Secco è il bel lauro, anzi è spenta sua foglia,
L'aura, l'ombra, l'odor, che mentre visse
Parea che il mondo di beltà vestisse,
Di fiori et d'erbe et d'amorosa voglia.
Qui giace il tronco; et la miglior sua spoglia
Nel ciel tornò (benché al partire afflisse
Me che di lei già sospirando scrisse)
D'onde prega or via scacci ogni mia doglia;
Et se pur pianger vuo', pianga me stesso
Rimaso in terra nudo, pien d'affanni,
Senza sole, et in mar senza governo.
Lei più non pianga, et il mortale eccesso
Che le fu vita; ma vuol che mill'anni
Sua fama duri, et fia suo nome eterno.

CLX

L'albor sacro et gentile, in cui molti anni,
Come in suo albergo il mio cor lieto giacque,
Mentre a fortuna invidiosa piacque
Al mio mal sempre pronta et a' miei danni,
Morte mi ha tolto co' suoi usati inganni
Per farne il ciel più bello, ond'eterne acque
Usciran de' miei occhi, sì gli spiacque
Veder spento il riposo de' suoi affanni.
Né spero mai finché mia vita dura,
Che sarà breve, avere altro conforto,
Se non di pianti et dolorosa guerra:
Ch'io veggio il nostro vivere esser corto,
Et morir pria i migliori, et sua ventura
Data a ciascun dal dì che nasce in terra.

CLXI

Un anno ohimè ! lasso oggi è ch'io perdei
Me stesso, ogni mio bene, et quel bel volto:
In tal dì fui dal suo car spirto sciolto
Per crudel morte, ond'io son pien d'omei.
Et l'ombra dell'allor sotto cui fei
Di pensieri et disii dolce raccolto,
E il gentil nodo in ch'io ancor so' involto,
Et sarò sempre fin ch'io sia con lei,
Spenta vid'io; et l'albor da radice
Et svelto et secco et rotto, onde di doglia
Fu quasi il cor dall'alma mia diviso,
Et prego ognor da me pur che si toglia
Questo peso terrestre et infelice,
Per gire a star con lei in paradiso.

CLXII

Ben fo neffando, infausto et mal[e] decto
El dì primo ch'al mondo gli occhi apersi,
Poy che, nascendo, di rei casi adversi
Esser dovea preservato ricepto.
Ben fo infelice il ventre, che, constrecto
A·ppartorir un tal mostro, soffersi
Organiçarlo pria, se ad sì diversi
Affanni, ire et sdegni era subgepto.
Ma più infelice l'alma, che in quell'ora
Sì stratiabil corpo et inpudico
Per suo proprio destin prender convenne.
Et se esser mixer debbo et pur mendico,
La terra e i ciel perisca, et chi l'adora,
Et chi m'ascolta, si non presta uno amenne.

CLXIII

Perch'io pur pianga ognor con più dolcezza,
Né mai senza sospir passi mia vita,
Di nuovo Amor mi ha fatto una ferita
Di suo stral d'oro, et pien d'altra vaghezza.
Et la mia mente a contemplar s'avezza
Un'Angela dal Ciel scesa et partita
A darmi pace, ché, senz'ella, aita
Ed ogni ben mondano odia et disprezza.
In lei spero et mi specchio, et ciascun pio
Suo atto amante io noto, e il dolce sguardo,
Che fa di marmo chi gli s'affigura.
Et perché indegno mi sento, et non tardo
A tanta impresa, io vò con ferma cura
Per ben far meritar quel che disio.

CLXIV

Dolci capelli dolcemente sciolti
Della dolce Aura al collo dolce intorno.
Dolci et dolci occhi, anci dui sol, che giorno
Dolce fanno ad chi son dolci rivolti:
Dolci coralli et perle, onde escon molti
Dolci sospiri, e 'l parlar dolce e[t] adorno;
Dolce è il bel vixo, ove a specchiar in torno,
Pien di dolceçça, quando tu m'ascolti:
Dolce, rotonde et candide mamelle,
Dolce parte secrete, di che spesso
Dolcemente amor meco ne ragiona:
Dolci mani et pulite, schiecte et belle,
Che dolce offitio ad voi dolce è concesso
Per più adolcir quella dolce persona.

CLXV

Mirate, occhi miei vaghi, quel bel viso,
Le maniere e i costumi di costei,
Che averian forza a innamorar gli Dei,
Et fargli abbandonare il paradiso.
Mirate quel soave et dolce riso
Che in parte è gran cagion de' sospir miei,
Miratela dal capo insino a' piei,
Che ogni membro è più bello et mè diviso.
Ma son di più dolceza le parole;
Che zucchero, armonia, mele et moscato
Par ch'escan dalle labbra di corallo.
Qui nascono le rose et le viole,
Qui si vede l'avorio et il cristallo,
Quivi et no in Ciel poss'io farmi beato.

CLXVI

Come tu fosti, benedetto insogno,
Il primo a farla del mio amore accorta
Con quel stretto abbracciar che mi conforta,
Dolceza tal che vegghiando io m'assogno;
Et come spesso non pur quand'io sogno,
Ma in vera vision senz'altra scorta,
Con soavi parole mi conforta,
Onde allegrezza et disio rompe il sogno;
Così ti prego che torni sovente
A farla pia con quell'accesa face,
Bench'esser soglia gentil cor clemente,
La vita mia, che consumando sface,
Talora muove da sì amare stente,
Che sol di lei pensando ho tregua e pace.

CLXVII

Quale ingiuria, dispetto, o quale isdegno,
Finestre avare et pien di gelosia,
Vi feci io mai, nol so: ma a chi ne spia
Dirò, che mille da voi ne sostegno.
Umil divoto et reverente vegno
A visitar voi no, ma quella mia
Novella Donna, come Amor m'invia,
Per farmi de' suoi servi il non men degno.
Et voi trovo rinchiuse essere ognora.
Non basta assai che per più mio tormento
Altissime et ferrate esser vi veggio?
Che cascar possa fin dal fondamento
La casa, et perir chi dentro dimora,
Purché sia salva lei, che io bramo e chieggio.

CLXVIII

Finestre mie, quand'io ve veggio aperte,
Et posar sopra voi quel gentil viso,
Parmi vedere aperto il paradiso,
Et voi di rose et viole coperte.
Et le bellezze a me dal cielo offerte,
E i leggiadri occhi, et quel soave riso,
Io mi fermo a mirarli intento et fiso,
Per far mie voglie del suo ben più certe.
Et veggio Amor con refrigerio starsi,
Trastullando con lei, nel suo bel seno,
Et accennarmi di su' aurato dardo.
E il mio cor di disio dolce ripieno,
Et più d'invidia, cerca di accostarsi,
Per più dolcezza trar del suo bel guardo.

CLXIX

Non dolse più alla sventurata Dido
Quando sentì partir l'ingrato amante,
Né più alla dolente Ero, che già tante
Volte il suo vide tornare in Abido;
Né più ad Arianna, che nel lido
Lassata fu da quel che poco innante
Scampato avea da morte, et trionfante
Seco sen gì lassando il proprio nido;
Che a me la tua sì subita partenza,
Donna mia cara: onde il mio afflitto core,
Seguendo te, di sé m'ha fatto senza;
Perché onestà non consente ad amore,
Che come il cor, così la mia presenza
Fosse con te per trarmi di dolore.

CLXX

Aventuroso et più di me contento,
Vago augelletto, che il tuo dolce amore
Apri cantando il giorno a tutte l'ore
Con sì soave e sì pietoso accento,
Vorrei stato cambiar teco lì drento,
L'amor non già, ma tua forma et colore;
Ch'io sveglierei pietà forse nel core
Di tal, che s'ha piacer del mio tormento.
Et quella man, da cui spero ancor pace,
Che per prender di te lungo diletto
Ti porge i cibi e a lusingar t'avvezza,
Io pur la bacerei senza sospetto,
Specchiandomi in quel viso che mi face
Rider di doglia et pianger di dolcezza.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XIX)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XIX

[1 Di Giovan Francesco Bruni]

Di monsignore Bruno Vescovo di Nola

Che cosa è amor? Egli è un vano appetito.
Che causa quest'amor? Pensier' oziosi.
Du' stan questi pensier? Nel petto ascosi,
La volontà da poi ne fa convito.
Che fa il libero arbitrio? Ei tien l'invito,
Lascivia vien con suoi cibi gelosi
Dove sta il cuor tra strali amorosi,
E nudo no, di gelosia è vestito.
Che cosa son quei strali? Strali o dardi
Son stral d'un legno che si chiama viso
Alcun son di parole, alcun di sguardi.
Dove sta l'arco tuo? In un bel viso.
Potrebbesi fuggir per tempo, o tardi?
No, perché il colpo suo giunge improviso.

[2 Di Giovan Francesco Bruni]

Del medesimo

La mi fa sol la diva mia sospeso,
Sol mi fa fa re 'l pazzo sua durezza,
Fa re mi sol la mira ch'io sia preso,
Mi fa fa la re sol la sua bellezza,
Re fa re la mi niega il tempo speso,
Ut re mi fa cantando con dolcezza
La mi rimira, sol la mi dà berta
Sol la mi fa stentar la mi diserta.

[3 Di Giovan Francesco Bruni]

Del medesimo

S'è dolce amor, come amar duolo e pianto
N'ha l'amante in la mente, e gelosia?
S'ai cridi credi amor che crudo sia
Come ha nel cor sì car' ch'il preme tanto?
Se, come è pinto, appunto è cieco, il vanto
Com'ha che vadi e vedi ogn'arte, o via?
Se è putto, hor con che patto e forza fia
Che più che toro tiri, e più ch'incanto?
S'è nudo al nido come d'altri spinto
Li furti suoi sa sì coprir talora?
S'ha il vanto nel volar ch'il vento ha vinto,
Perché par che sia lento a chi l'adora?
Se suol del tel d'or dar dur' cor convinto,
Con l'altro stral con stril far che si mora,
Dov'è segno di fora
Del suo ferir? Furor adunque è questo
E l'amante per far fuor di sé stesso.

[4 Di Giovan Francesco Bruni]

Del medesmo

Che cosa è dio? Egli è un sommo bene.
Che ben è questo? Un ben che sempre abbonda.
E come è fatto? Come forma tonda,
Che sol principio è fin in sé contiene.
E dove uscite son sue proprie vene?
Sono da un mar' ch'ogni cosa circonda.
Puossi veder? No, no, ch'essenza monda
L'occhio nostro mortal non la sostiene.
Come dunque si sa, se non si vede?
Egli s'umilia tanto l'intelletto
Che fa veder con gli occhi della fede.
Che cosa è fede? È un don, che se difetto
Non trova in l'uomo ch'or ben chiaro crede
Guidal con gli occhi chiusi al ben perfetto.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (2-26)

Post n°877 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 
Foto di valerio.sampieri

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXVI

Un .M. un .C. due .I. con uno .L. 
si dicea, quando il primo Federico 
eletto fu e ch’io n’ebbi novelle. 
Il Barbarossa è questo ch’io ti dico, 
che fece arar la piazza di Cremona 
e seminar di miglio e di panico. 
Costui è quel che disfece Tortona 
e che Spoleti mise tutto al piano, 
come per lo Ducato si ragiona. 
Costui è quel che distrusse Melano, 
da poi che li fu dato Ugo Visconte, 
con ogni suo seguace preso, in mano. 
I magi tolse e mandolli oltra monte: 
lo pianto che ne fu per me si tace, 
se non ch’assai vi fen de gli occhi fonte. 
La fine sua a ragionar mi piace: 
dico, per acquistar la Santa terra 
di lá passò e fe’ col papa pace. 
E se la mia memoria qui non erra, 
il buono Saladino era allor vivo, 
che contro a’ cristian facea gran guerra. 
Or questo mio signor sí alto e divo 
bagnandosi nel Ferro poco stette, 
ché freddo venne e de l’anima privo. 
E come per alcuno autor si mette, 
al tempo suo nel cielo in una croce 
tre lune fun vedute schiette e nette; 
similemente, per scrittura e boce, 
che fun tre soli per quel propio modo 
veduti e l’un quanto l’altro ir veloce. 
Morto questo signor, del qual mi lodo, 
Arrigo, il suo figliuol, mi tenne apresso, 
del cui valor, parlando, ancora godo. 
Costui, da poi ch’ad acquistar fu messo, 
passò in Puglia col suo forte stuolo, 
la qual conquise per valore espresso. 
La donna di Tancredi col figliuolo 
Guglielmo prese e le sorelle ancora, 
che poi portâr ne la pregion gran duolo. 
Veduto fu un tale eclisso allora, 
che l’aire venne scura come notte 
di mezzo giorno e stette piú d’un’ora. 
Quegli uccelli, che volavano, a frotte 
sentito avresti cadere tra’ piedi, 
senza vedere albori né grotte. 45 
Questo signor, del qual parlar mi vedi, 
regnar si vide otto anni imperadore, 
movendo contro al papa spesso i piedi. 
Non guardò vel né tempo al suo migliore 
Costanza sposa, a la qual succedea 50 
di Puglia e di Cicilia l’onore. 
Ma poi che morte li fu cruda e rea, 
Otto ad Aquisgrani fu eletto, 
lo quale venne a me com’el dovea. 
Qui non ti conto se per suo difetto 55 
fosse scomunicato, ma tal visse 
ricevendo e facendo altrui dispetto. 
Qui piacque a Dio che nel mondo apparisse 
a predicar Domenico e Francesco, 
onde la Fé rinnovando fiorisse. 60 
Ancora in questo tempo ch’io riesco, 
Gog e Magog, ch’Alessandro racchiuse 
col suon, che poi piú tempo stette fresco, 
uscîr de’ monti con diverse muse 
e col fabbro Cuscan, lo qual fu tale 65 
che piú paesi conquise e confuse. 
In questo tempo, per lo molto male 
che facea de’ Latin la gente Grecia, 
una compagna s’ordinò, la quale 
Costantinopol, che tanto si precia, 70 
vinse per forza e ’l conte di Fiandra 
fu fatto imperador senza piú screcia. 
In questo tempo raunò gran mandra 
Otto di gente e, in Francia combattendo, 
coniglio venne e Filippo calandra. 75 
Apresso quel che tutto qui comprendo, 155 
quest’Otto, ch’io ti dico, passò il mare 
con ricco stuolo e di ciò lo commendo: 
ché, per volere il fallo ristorare, 
lo quale fatto avea contro a la Chiesa, 
passò di lá, ma tardi fu il tornare, 
ché, dopo lunga guerra e molta spesa, 
di morte natural costui morio, 
prima che Damiata fosse presa. 
Diece anni governò e tenne il mio 85 
e al suo tempo in Fiorenza le parti 
s’incominciaro, secondo ch’io udio. 
Qui fu al ponte suo, con l’arme, Marti; 
qui Venus, col parlar falso e pietoso, 
col vago volto e coi capelli sparti; 90 
qui fu Saturno giusto e disdegnoso, 
per cui influenza mosse la parola, 
onde piú tempo fu senza riposo
la mia gentile e nobile figliola.

 
 
 

Tasso madrigali 21-25

Post n°876 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri

alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

21
Benché sfavilli e splenda
I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana
Stella talor con chioma accesa intorno
Lucida sì che 'l giorno
Non come all'altre il lume suo contenda,
Non è già ch'ella prenda
Un crine eguale a questa
Treccia di fuoco e di splendor contesta:
Ond'ei rimane in picciol tempo estinto,
Ed ella eterna un sì bel viso ha cinto.

22
In suo stellante regno
Benogno Amor destina
Questo sol di bellezza eterno pegno
A Te del Tosco lido alta Regina;
Io lo ti porgo in humil atto inchina,
Ch'in te mirando fiso
Parmi veder che al biondo pastorello
Sembri del tuo men bello il mio bel viso.

23
Hor se d'invidia tinti
Diran pur ciechi amanti
I dolci lumi tuoi restarsi estinti
Allo apparir di più begl'occhi santi,
Ecco, Regina, a te venir davanti
E già col brando in opra
Mostrarne e l'uno e l'altro mio Guerriero,
Che folle, incontro al vero altri s'adopra.

24
Qual miracolo Amore, 
Se la Bianca Alba mia 
Dell'Alba in ciel che l'Oriente apria 
Luce spargea maggiore? 
Non ha, non ha per sé l'Alba splendore: 
Dal Sol ben ella il prende, 
Ma la Bianca Alba mia per sé risplende.

25
Novella Alba celeste 
Co' suoi begli occhi tutto il Ciel serena 
El suo bel guardo affrena 
Per quante ha il Cielo e quante ha il mar tempeste; 
Di nuovi fior la terra adorna e veste 
E perch' à ne' begli occhi aprile eterno 
Mai non sarà che ne la spogli il verno.

Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti.

XXI.
9. Stinto con cinto nella Gerusalemme, St. 66, Canto ni: 
E colà trasse ove il buon duce estinto 
Da mesta turba t lacrimosa è cinto.

XXII.
1. Edito assieme al seguente col nome di Giambattista Strozzi, equivocato, forse, per essere stati musicati da un Piero Strozzi. Per la sbarra che si fece a' Pitti a' 14 di ottobre 1579 nelle nozze della Granduchessa. Venere si dà per vinta dalle bellezze della Bianca e le rende ciò che da Paride si avea avuto, temendo col di lei confronto di esser superata e di doverglielo poi restituire. E'un leggiadro pensiero di gentile poeta, vagamente espresso, ancorchò dello stesso autore ci sia altro Madrigale bellissimo di simile soggetto. 
7. Biondo è colore di accortezza; epperciò il Tasso nel Canto IV, St. 24 ne dipinge sotto questo colore il crine dell'astuta Armida, facendole dire del mago Idraote: 
.... diletta mia, che sotto biondi 
CapelU e fra si tenere sembianze 
Canuto senno e cor gemile ascondi, 
E già neU'arti mie me stesso avante, 
Gran pensier volgo; e se tu lui secondi 
Seguiteran gli effetti alle sperarne: 
Tessi la tela che io ti mostro ordita 
Di cauto vecchio esecutrice ardita.

XXIII.
1. Nella stessa occasione della sbarra. Col titolo nel manoscritto: Venere conducendo (in campo) due guerrieri. Facendo plauso alla bellezza di Bianca, Fautore ricorda come per vecchi esempi la beltà disarmi la forza. V'è ragione di credere che uno de'due guerrieri fosse D. Virginio Orsini giovane prode e d'immensa ricchezza a queirepoca. Non si sa come in alcune stampe vada a lui intitolato il sonetto del Tasso A nobiltà di sangue in cui belle%%a, ec. mentre come Tabbiamo riferito alla pag. 12, fu diretto alla Bianca. 
4. Degl'occhi santi. E' del Petrarca e piacque all'autore usarlo ancora nel Madrigale XXXI, ec.

XXV.
6. Aprile eterno, è pure nel Madrigale 141 del Tasso nella raccolta del Rosini. 

 
 
 

Il Dittamondo (2-25)

Post n°875 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXV

"Mille anni con cinquanta cinque apresso 
si scrivea, quando il terzo Arrigo venne 
per la corona, com’io dissi adesso. 
Ventinove con venti poi la tenne; 
onde al suo tempo imaginar ben dèi 5 
che di piú novitá esser convenne. 
Qui funno lagrimosi gli occhi miei 
e per Italia le genti sí grame, 
ch’a pena il gran dolor dir ti saprei. 
L’uno piangea per la misera fame, 10 
l’altro la gran mortalitade e trista, 
che sparta s’era per le nostre lame. 
E fu nel cerchio de la luna vista 
la pianeta di Venus tanto chiara, 
ch’io ne vidi segnare il piú salmista. 15 
La vita di Giovanni santa e cara 
fiorio, a cui il Crocifisso inchina, 
quando col perdonato a lui ripara. 
Vidi allora la cisma e la ruina 
in fra due papi sí crudele e tale, 20 
che niuno vi trovava medicina. 
Or questo imperador fu il primo, il quale 
fosse scomunicato per la Chiesa, 
ben ch’a dir taccia la cagion del male. 
Finito lui con ogni sua impresa, 25 
Arrigo quarto, ch’alcun dice il quinto, 
tenne l’onor senz’alcuna contesa. 
Costui, poi ch’ebbe Pontremolo vinto, 
col fiero stuolo fe’ piangere Arezzo 
e mutar sito dov’è or dipinto. 
In ogni suo costume e ciascun vezzo 
seguio il padre: cosí il papa prese 
con piú de’ suoi, i quai nomar non prezzo. 
Costui col padre a guerreggiare intese 
e a la fine lo chiuse in un castello, 35 
dove il suo tempo sospirando spese. 
Costui un papa fe’, Bordin, novello, 
lo quale nel papato poco stette, 
ché a ritroso fu posto in sul camello. 
Un anno dico e piú due volte sette 40 
questo signor del mio si vide reda; 
pro fu e vago di far guerre e sette. 
Portarono i Pisan con altra preda 
di Maiolica le colonne e porte, 
di che Fiorenza poi e sé correda. 45 
Dopo questo signore, a la mia corte 
per la corona seguitò Lottaro, 
lo quale a tale onor mi piacque forte. 
Nel mondo fu, al tempo suo, gran caro 
e vennon l’acque in Francia cosí meno, 50 
che laghi e fiumi e fonti si seccaro. 
E vidi surger guerre nel mio seno 
per cagion d’un figliuol di Pier Leone, 
che fu senza misura e senza freno. 
E tanto, lassa!, fu la quistione, 55 
che di Sansogna Lottaro tornato 
Innocenzo rimise in sua ragione. 
Molto fu questo imperadore amato, 
divoto a Dio e con la gente umile, 
e visse un anno e diece in questo stato. 60 
E se deggio seguire il dritto stile, 
or mi conviene nominar Currado, 
largo, franco e di animo gentile. 
Questo signor, del qual parlando vado, 
non portò mai la mia corona in testa: 65 
di che mi dolse, tanto m’era a grado. 
La croce prese a priego ed a richiesta 
del re di Francia e passò oltra mare, 
ben ch’a l’andar sofferse gran tempesta. 
Assai del suo valore udio contare; 70 
a la fine Loisi si ridusse 
in Francia ed ello ne la Magna a stare. 
Un poco pria che tutto questo fusse, 
per gran servigi che Genova e Pisa 
fenno a la Chiesa, il papa si condusse 75 
d’accrescer loro onore e qui t’avisa 
che ciascheduno arcivescovo avesse 
i vescovadi sotto lor divisa. 
Cinque e diece anni mi par che vivesse 
questo Currado, il quale chiamo re, 80 
chè ’mperador non è, s’io nol facesse. 
In questo tempo il Fiorentin disfé 
la forte rocca di Fiesole antica 
per guisa che poi mai non si rifé. 
Qui non bisogna che ’l modo ti dica, 85 
ch’assai ne son che ’l sanno in questo mondo: 
bon fu lo ’ngegno e poca la fatica. 
Da notare è, e però nol nascondo: 
in questo tempo venne men Giovanni, 
lo quale era vivuto in questo mondo, 90
secondo il dir, trenta sei croci d’anni.

 
 
 

La Bella Mano (151-156)

Post n°874 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLI

Et con l'ale amorose del pensero
A volo alzar si può nostro intelletto
Tanto che io veda, immaginando, il vero,
Amore, il tempo, e il mio vago concetto
Acceso in fiamma di novel disire,
Che mi sgombrava ogni voler del petto,
Un giorno avean rivolto al mio martire
Ogni mio senso già sviato altronde,
Per veder la cagion del mio languire.
E il dolce imaginar, che mi confonde,
Avea ritratta la mia stanca mente
Da quei begli occhi et dalle trecce bionde.
Già sentia sollevar sì dolcemente
L'anima grave, et l'affannato velo,
Che or mi fa lieto nel pensier sovente:
Et carco d'un soave et caldo gelo,
Non so se falso sogno, overo oblio
Mi scorse et spinse infino al terzo cielo.
Ivi così condotto da disio,
Mirai le stelle erranti ad una ad una,
Che son principio del mio stato rio.
Mirai con loro il corso della Luna,
Et vidi perché il mondo chiama a torto
La Sorte iniqua, et ceca la Fortuna.
Poi rassembrava lor viaggio torto
Al vago giro del fatal mio sole,
Che dentro volve gli occhi che m'han morto.
Suo chiaro viso, et sue sante parole
Col sospirar dell'anima gentile,
All'armonia, che lì sentir si sole,
Il senno, la beltade, et l'atto umile,
Et le virtuti, in quel bel petto sparse,
Ove non si creò mai pensier vile,
Pensando agli altri effetti ancor mi parse
Che avesse più che loro in me possanza
La vista che in un punto il mio core arse.
Et rimembrando mia dolce speranza,
Mentre che il pensier dentro più forte ergo,
Sì come egli il pareggia et come avanza,
Rivolgo gli occhi al glorioso albergo,
Al loco aventuroso, ove oggi vive
Lei, per che piango et sempre carte vergo,
Fra i dolci colli et l'onorate rive
Dove è colei, che arà mia vita in mano
Finché del suo spirar morte la prive:
Era in quell'ora il viso più ch'umano
Rivolto verso il Ciel, dove è il Sol degno,
Et gli occhi che mi struggon di lontano.
Non so se il riso, o suo leggiadro sdegno,
Non so se il lume allor che il cor m'infiamma,
Avea di foco l'universo pregno.
Non era al parer mio rimasa dramma
In cielo, in terra, in mare, in el abisso,
Che non ardesse d'amorosa fiamma.
Io non era possente a mirar fisso
Di lungi pur, la vista di colei,
Per che gran tempo in ghiaccio, in foco ho visso:
Così abagliava infra gli sensi miei
Quel bel raggio seren del viso adorno,
Che per seguirlo libertà perdei.
Ma ben vedeva il mondo d'ogn'intorno
Arder già tutto, et le mortal faville
Nascer nel mezzo del suo bel soggiorno;
Et le serene luci sue tranquille,
Sole cagion della mia grave doglia,
Per che convien piangendo io mi distille.
Sapea ben come cangia ogni mia voglia,
Se volge il lume tra il bel nero e il bianco,
Colei, che d'ogni ben mia vita spoglia.
Et io sentiva a poco venir manco
Il mio debil valore; et di paura
Tremare il freddo cor nel lato manco.
Et l'alma sbigottita per l'arsura
Sul sangue che bollia già nelle vene,
Chiamar soccorso a lei che non ha cura.
Lasso me, non poria parlando, bene
Ridire il modo, la stagione et l'ora,
Né la cagion di sì leggiadre pene.
Mentre che ardendo Roma struggea allora,
Ecco più chiara vista omai rappella
In parte ove il pensier più s'inamora,
Vedeami inanzi l'amorosa stella,
Che amar m'insegna con suoi rai possenti,
A sì gran torto contro me rubella,
I lumi a noi nemici eran già spenti
Per tutto il mondo, et li crudeli aspetti,
Saturno e Marte et li contrari venti.
Le stelle più felici, e i cari effetti
Vedeansi insieme tutte in sé raccolte
In luoghi signorili alti et eletti.
Et sì benignamente eran rivolte
Al sacro loco, di che pria parlai,
Che spiegar non porian parole sciolte.
Scendea da i santi et benedetti rai
Tal dal ciel pioggia in su l'amate trezze,
Che non fia stella che 'l pareggi mai.
Et una nube carca di bellezze
L'arco dintorno avea tutto ripieno
Di gioia, d'onestate et di vaghezze.
Mirando il ciel sì lieto et sì sereno,
Et l'altre stelle volte nel bel viso,
Che già il foco mortal m'accese in seno,
Ripien di maraviglia, in Paradiso
Credeva esser portato inanzi morte,
O spirto errante, dal corpo diviso.
Et volea dire: Ahi dispietata Sorte,
In ciel di quei begli occhi or si fa festa,
Che io scelsi per miei segni et fide scorte;
Et me fra l'onde et la maggior tempesta
Mia guida lascia, ove mi spinge Amore
Ohi me che poco spirto ormai ci resta.
Ma non più tosto tal pensiero al core
Giunse, ch'io mi rivolsi all'altra parte,
Là dove a sé mi trasse un nuovo errore.
Io vidi con questi occhi ivi in disparte
La imagine gentil, la bella idea,
Donde il mio cor dal ciel tolse tanta arte.
Mentre che più da presso io me facea,
Lo esempio, la figura, et la bella ombra
Già viva viva tutta mi parea.
Così giuso, nel mondo, il cor m'ingombra
Quella pietà, che schiva talor move
Tra il lume e il fronte, che mia vista adombra.
Così simil bontà da gli occhi piove
Giù nel bel mento il fronte pelegrino;
Così si adorna di vagheze nove.
Or qui conobbi quanto può destino
Quanto natura, e il cielo: et quanto possa
L'ingegno sol senza voler divino.
Conobbi la cagion, donde è sol mossa
La guerra, che mi strugge et arde sempre
Col foco, che mi è acceso in mezzo l'ossa.
Conobbi, per che a sì diverse tempre
Amor governe la mia frale vita,
Et perché dall'angoscia non si stempre.
Era la mia virtù vinta et smarrita
Già nanzi l'alto obietto e il bel sembiante,
Che solo è adorno di beltà infinita.
Vedea le mie suavi luci sante
Non sfavillar, ma chiuse nella stampa;
E il viso ornato di belleze tante:
E il chiaro impallidir d'una tal vampa
Biancarlo tutto, e l'onorato fronte,
Che ogni core adolcisce e il mio divampa;
Le ciglia aventurose agli occhi gionte,
Chi gira et volge Amor con sua man sola,
Porto di mia salute, albergo et fonte;
Le chiome sciolte intorno a quella gola,
Onde vien quel parlare umano et tardo,
Che l'anima, ascoltando, il cor m'invola.
Mentreché il duolo mio fiso riguardo,
Veder mi parve, d'un leggiadro nembo
Coperte ambe le luci, ond'io tanto ardo:
Et sopra al fortunato et suo bel grembo
La bianca man di perle star distesa,
Et circondata d'amoroso lembo.
Questa è la man da chi fu l'alma presa,
Et fece il laccio di che amor la noda,
Et tienla in croce, et mai non fece offesa.
Questa è la bella man, che il cor m'enchioda,
Soavemente, sì che il sento apena;
Questa è la man, che tutto il mondo loda.
Questa è la bella man, che al fin mi mena;
Et, vaneggiando, in parte l'alma induce,
Dove è sol pianto, doglia, angoscia, e pena.
Questa è la man, che la mia cara luce,
Che io vidi in l'alto exempio imaginato;
Questa è la man che a morte mi conduce.
Questa è la bella man, che il manco lato
Mi aperse, et piantovv' entro il malvolere,
Perché convien ch'io pera in questo stato.
El stare in sé raccolta, e il bel tacere,
Et questo a tempo, e il riso mansueto
Né lice, né conviensi a me vedere:
Il mirar vago et fiso, e il volger lieto
Non per destin ma per arte si acquista,
L'andar soave et l'atto umile et queto.
Non vi era il duol, che la bella alma attrista;
Né il sospirar, che par già mi consume;
Né il lampeggiar della soperchia vista,
Ma in gli occhi, che m'hanno arso, e spento il lume,
Il lume che m'abaglia, non m'invia:
Spento era nel sembiante ogni costume.
Suo senno, suo valor, sua leggiadria
Né quel, Né l'altro orgoglio si è dipinto,
Che m'ha ingannato con sembianza pia.
Era già il sole all'orizzonte spinto,
Tratto per forza al fondo de la spera;
E l'aere nostro d'ombra era già tinto:
Et la nimica mia già rivolta era
A vagheggiar se stessa, et sua beltade
E infino a terza avea la vista altera.
Dico di lei che adorna nostra etade,
Et sola infiora il mondo che nol merta,
In cui s'osserva il pregio di beltade .
Sicché di doppia notte era coperta
La terra allor, che il santo raggio volse,
Che volto in su facea mia vista incerta.
Non so che la memoria qui mi tolse,
Ch'io non so ben ridir se più soffersi,
Non so, se il mio pensiero ivi più accolse:
Et qui fuggendo il sonno, gli occhi apersi.

CLII

Caro Libretto, et più ch'altro felice,
Tocco da quelle man leggiadre et sante,
Deh dinne il vero: leggendoti, quante
Lagrime ha sparte in te la mia finice?
Io 'l vo' saper per render le mie vice
Bagnandote di più, o d'altre et tante,
Pria ch'io proceda a vederte più avante,
Ché sai che a noi più lamentar ne lice.
Dè sospiri et dè oimè non ti dimando;
Ché so che mille et mille ella n'ha tratti,
Ché ne sei pieno, et lei l'ha per usanza:
Et se a lei più torni io ti comando,
Che la costringhi a far teco tal patti,
Che io viva del desi' 'n bona speranza.

CLIII

Laura, ch'io già cantai piangendo in rima,
Et finsi ancor, poetizzando, alloro,
Scesa è dal Ciel col suo pudico coro,
Dove virtù più che quaggiù si stima,
Per porvi di sua schiera in sulla cima,
Et prendere or con voi qualche ristoro,
Poiché vinto ha colui, che con stral d'oro
Ferir credette, et vincer lor da prima.
Tolte gli han l'arme et poste a una colonna,
Et trionfan di lui che nel suo regno
Solea de' Dei trionfare et di noi:
Et vien legato or nanzi alla mia donna
Pien d'ira, di vergogna, et di disdegno:
Piacciavi dunque accettarla tra voi.

CLIV

Mille vaghi pensier, mille disii,
Che mi van per la mente notti et giorni,
Mi dicono: or che fai? che non ritorni
Al giogo usato, ai sospir dolci et prii?
Amor, ch'è presso me, par che s'invii
Verso un viso leggiadro, et che l'adorni,
Non già di beffe, di sdegni et di scorni,
Ma di beltà, et vezosi atti et pii.
Poscia le trecce inanellate et bionde
All'aura spiega con le sue man sante,
Facendo lampeggiare il viso et gli occhi.
Ivi coll'arco teso si nasconde,
Et drizza in me lo stral con un sembiante
Tal, che mi par sentir che al core scocchi.

CLV

Quando Laura i capei d'or crespi et tersi
Soavemente al sol commove et gira,
Porge tanta dolcezza a chi li mira,
Che i solar raggi gli par bruni o persi.
Io benedico l'ora e 'l dì che apersi
Gli occhi, e 'l piacer che a mirarli mi tira;
Et benedico l'alma che sospira
Per lor mai sempre, et quanto mai soffersi.
Ma dogliomi d'amore empio e protervo,
Che poi che vuol per costei strugga ed arda,
Non fa sentir parte del foco a lei.
Et duolmi più di lei che non mi guarda
Sovente et fiso ancor com'io vorrei,
Per saper s'ella vuol ch'io le sia servo.

CLVI

Ben che Laura sovente mi sospinga
A rimirar la beltà, ch'io vorrei,
Per più mia pace et più fama di lei,
Stesse non sì rinchiusa o sì solinga;
Et ben che Amor, che allora mi lusinga
Forse per acquetare i sospir miei,
Me la mostri, et con cenni or dolci, or rei
Di color mille il mio volto dipinga;
L'alma con tutto questo non si pente,
Anzi s'infiamma, ed ognor più disia
Parlar seco il mio stato altrui nascoso.
Et fissa poi rimanmi nella mente
L'immagin sempre; e 'l suo viso ov'io sia
Parmi più bello, et ver me più pietoso.
 
 
 

Il Dittamondo (2-24)

Post n°873 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXIV

Era vivuto un anno men di venti 
questo nobil signor con la mia insegna, 
quando la morte il morse coi suoi denti. 
Arrigo primo apresso di lui regna 
(il primo, dico, che me prima tenne) 
con la sua Cunegonda santa e degna. 
Mille e tre anni correan, quando venne 
di Baviera a me questo mio Arrigo 
per la corona e per le sacre penne. 
Poi fece tanto costui ch’io ti dico, 
che Stefan, ch’era re in Ungaria, 
credette in Cristo e dispregiò il nimico. 
E vidi allor tra la mia chericia 
la discordia tal, che funno eletti 
piú papi, di che nacque gran resia. 
E perché il mio dir piú ti diletti, 
dico che allora Fiorenza disfece 
Fiesole tutta di mura e di tetti. 
Questo signor, del qual parlar mi lece, 
in Buemme, in Sansogna e ne la Magna 
molte battaglie con vittoria fece. 
Al fin colei, che niuno non sparagna, 
dopo li dodici anni e alcun mese 
prese e chiuse costui ne la sua ragna. 
Currado primo, poi, a me discese, 
lo qual non per ricchezza ad Aquisgrani, 
ma per valore la corona prese. 
Costui, trovando i Melanesi strani, 
orgogliosi e superbi, gli assalio 
guastando la cittá e i suoi bei piani. 
Odi miracol che di questo uscio: 
che lá, dov’era, incoronato Augusto, 
folgor cadere e forti tuon s’udio. 
E fu veduto col volto robusto 
Santo Ambruogio in contro a lui venire 35 
e minacciarlo col capo e col busto. 
Con gran podere e con molto ardire 
passâr su la Calavra i Saracini, 
quando per forza li fece fuggire. 
Costui vidi da’ suoi e da’ Latini 40 
essere amato e temuto sí forte 
e io per lui ne le mie confini. 
Due volte diece tenne la mia corte 
e dèi saper che molto trista fui, 
quando detto mi fu de la sua morte. 45 
Arrigo il secondo apresso lui 
seguio; e se sapessi, quando nacque, 
perché Currado il diede in mano altrui, 
e poi udissi dir sí come ei giacque, 
mandato per morir, con la sua sposa, 50 
ben potresti veder quanto a Dio piacque. 
Non è qui da tacere un’altra cosa, 
che si vide nel tempo ch’io favello, 
ch’assai parve fra noi miracolosa: 
che fu trovato intero in uno avello 55 
un gigante di sí fatta statura, 
che ne vidi segnare questo e quello. 
E non solo al gigante ponean cura, 
ma perché ne la tomba ardeva un lume, 
che parea incantamento e non natura. 60 
Per gran franchezza e per nobil costume 
e per larghezza ti dico che degno 
è da notare in ciascun bel volume. 
Costui Campagna, Puglia e tutto il Regno 
per forza vinse e prese Pandolfo, 65 
che ne la Magna tenne poi per pegno. 
Costui, veggendo tra’ cherici il zolfo 
acceso per tre papi, ne fe’ uno, 
cacciando quei tre via per ogni golfo. 
Cinque con cinque e sette anni aduno 70 
che questo imperadore visse meco 
e che la morte il punse col suo pruno. 
Arrigo terzo a la mente ti reco, 
figliuol del primo Arrigo, col qual poi 
mi vidi assai contenta viver seco. 
Al tempo suo si racquistò per noi 
la Terra santa, dove tal cristiano 
fu Gottifré, che ’l par non so ancoi. 
Fedele a Dio, pietoso, umile e piano 
e in arme tal, che fece spessamente 80 
con Corboran lacrimare il Soldano. 
Sopra costui, pregando molta gente 
Iddio d’un re, una colomba scese 
dal ciel, che vista fu visibilmente. 
Per lo miracol grande allor si prese 85 
una corona d’or per farlo re, 
la qual del tutto di portar contese, 
dicendo lor: – Non si convene a me 
portar corona d’oro, dove Cristo 
d’aguti spin la portò sopra sé –. 90 
Ancora in questo tempo avresti visto 
Ruberto Guiscardo, che d’argento 
ferrò i cavai per fare il bel conquisto. 
E come fu sottil ne l’argomento, 
cosí veduto l’avresti pietoso 95 
e pien contro a’ nimici d’ardimento. 
E se sapessi sí come il lebbroso 
si puose in groppa e poi in su la sella 
e nel suo letto per darli riposo, 
molto ti piacerebbe la novella. 100 
Similemente Matelda contessa 
vivea, di cui tanto si favella. 
La madre fu, per quel che si confessa, 
figliuola d’uno imperador di Grezia, 
ch’al suo piacer prese marito in pressa. 105 
E se ben vuoi saper quanto si prezia 
Matelda per valore e intelletto, 
e perché col marito prese screzia, 
iscritto il truovi ov’è San Benedetto 
in Mantovana e quivi il corpo giace". 110 
Allor diss’io fra me: Il ver m’ha detto,
ché il vidi giá; ma ’l come qui si tace.

 
 
 

La Bella Mano (148-150)

Post n°872 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXLVIII

Amor con tanto sforzo omai m'assale,
Che a mal mio grado al fin pur me conduce
Ove io non voglio, et contrastar non vale.
Mosse dai due begli occhi pria la luce
Che mentre al cielo mi scorgeva, un tempo
Era d'ogni mia fè colonna et duce,
Poi le speranze mie di tempo in tempo
Disperse, e in cor mi accese quel disio,
Che già m'infiamma quanto più m'attempo.
Et or quanto in me possa il furor mio,
Et quanto fuor d'usanza il mio core arda,
Sassel chi n'è cagion, Madonna ed io.
Ogni altra aita omai per me fia tarda,
Se non questa una, ove il dolor mi mena,
Se pianti né sospiri il ciel riguarda.
Dall'una parte la ragion mi affrena,
Dall'altra mi combatte sempre, et preme
L'oltraggio et l'onta, et la mia ingiusta pena.
Ma perché il cor vacilla, et perché teme,
Non debbo una fiata uscir d'affanno,
Et vendicarmi innanzi l'ore estreme?
Ecco la notte inchina; et, senza inganno,
All'Oriente torna omai l'Aurora:
Il tempo è accetto, et la stagion dell'anno.
Finché il dolce silentio, et la dolce ora
Fra il dolce sonno gli animi adolcisca:
Ecco la luna spenta, eccola fora,
Perch'io contra mia voglia incrudelisca:
Che biasmo fia se ciò da Amor procede,
Da Amor procede, che la mente ardisca?
Ponti dinanzi a gli occhi la tua fede,
Et poi ripensa al suo spietato core:
Merita tanto affanno tal mercede?
Merita questo il mio fedele amore?
E questo il ristorar de i miei tormenti;
E il refrigerio dell'antico ardore?
Deh forse meglio fia che ancor ritenti,
Se pietà mai piegasse tal dureza;
Et pensi pria che a tanto mal consenti.
Ma che giova il pregar se lei nol preza,
Se lei di me, né del martir mio cura,
Se della morte mia prende vagheza?
Non sa la vita mia quanto ella è dura?
Or come io spero, che il parlar la pieghi,
Se pur d'un picciol cenno ella ha paura?
Essi commossa mai dai nostri prieghi?
O mente stolta, quanto or sei ingannata.
Et, benché la cagion per me si nieghi,
So ben perché : deh, prendi una fiata
L'arme al bisogno, come far si suole;
Che troppo è innanzi già la piaga andata.
Così facciamo: et mentre il giorno e il sole
Si celano a ciascun, che alberga in terra,
Comincio: poiché il cielo ed Amor vuole,
Tu Notte, et voi Tenebre, che sotterra
Nasceste eterne giù nell'altro polo,
Dove il nostro emisperio il giorno serra,
Or muovati a pietade il mio gran duolo,
Qual tu sai ben quanto al mio cor si accoglia,
Quando me vede sconsolato et solo.
Più volte mi vedeste per gran voglia
Di lagrimar, giacer tra i fiori et l'erba;
Et poi mancar le lagrime per doglia.
Proserpina, che fede anco mi serba
Agli notturni et queti miei sospiri,
O testimon della mia vita acerba,
Tu sola puoi saper dei miei martiri
Il pondo et la graveza; et sola sai
Quai siano et quanti tutti i miei disiri.
Tu d'ogni tempo, nel girar che fai,
Mi vedi come Amor mi sprona et volve,
Et nulla è a te celato nei miei guai.
Ombre amorose, et spirti ignudi et polve,
Che al doloroso fine Amor sospinse;
Et Pluto or sotto a noi danna et assolve,
Per quella fe' che già al morir vi strinse,
Per quella stessa fede io vi scongiuro,
La qual come ora me, così voi vinse:
Con voi, non solo l'animo sì duro
Vincer potrem di quella, per cui arsi,
Ma il sole a mezo 'l dì vedere oscuro;
Ristare i fiumi, e i colli al Ciel levarsi,
Il mar turbare, et acquetarsi poi,
L'aquile et le colombe amiche farsi.
Debbon gli prieghi miei dinanzi a voi
Esser sì santi, che il mio cor si veda
Della passata fede i frutti suoi.
Qui son dell'erbe, che lodò già Leda
Tanto a sua figlia; onde il pastor Troiano
Vinto da lor virtù fe' la mal preda:
De l'altre, onde già Circe un corpo umano
In rigido orso trasformar solea,
Sì che ad Ulixe un tempo parve strano:
De l'herbe, che da Pindo ebbe Medea;
Et la radice, che d'Olimpo svelse,
Quando all'età sua prima Exon rendea:
De l'altre che fra mille erbette scelse
Per iscampar Giason, quando lui volse
Monstrar per oro sue virtuti eccelse:
Dei versi, donde Orfeo le selve accolse,
Et Sisifo del sasso lassò l'opra,
Nel tempo che Euridice a morte tolse.
Raccolto insieme ho quanto, qui di sopra,
Si possa fra noi miseri mortali,
Quando Vendetta contro Amor s'adopra.
Ma benché sian queste arti tante et tali,
Pur l'alma sconsolata altronde spera
Il suo soccorso, per quetar suoi mali.
Si affida tanto nella fe' sincera,
Che in voi sempre ebbe, che per suo sostegno
Fia assai vostra mercè senza preghiera.
Et, benché il cor villano fusse degno
Di mille et più vendette insieme aggiunte,
Non voglio al tutto armarmi ancor di sdegno:
Sempre sì ben saran le mie man pronte,
Ch'io potrò ritornare alla vendetta,
Per vendicar gli oltraggi et punir l'onte.
Deh sciocco et vano, or così sia: aspetta
Col tuo sì tardo et facile costume.
La morte nostra nanzi tempo affretta.
Or dunque come io stirpo le sue piume
A questa mia colomba a poco a poco,
Così di tempo in tempo si consume:
Lei si consume come cera al foco;
Et, quale io già nel rassembrar di lei,
Per aver pace, mai non trove loco.
Io parlo lagrimando, et ben vorrei,
Che udisse ne' miei prieghi pieni d'ira
Il Tigre dispietato i dolor miei.
Et come fra i miei denti più non spira,
Così il gran foco del mio cor si allente,
Per chi tanto or si piange et si sospira.
Tengami sempre solo nella mente,
Come io già tenni lei gran tempo prima,
Che in me l'alte faville fussin spente,
Amor con quella dispietata lima
Il cor gli roda, onde egli Dido accese,
Il cor che di virtù sì il ciel sublima:
Contra ella aduopri Amor tutte sue offese:
La luce, morte, il sol, le paia un angue;
Le notti, piene d'angoscia in ciascun mese.
E, come già morendo questa langue,
Così languendo lei se altrui disia,
Rimanga senza vita et senza sangue.
Né resti mai lagnarsi già, se pria
Il nodo che qui faccio non discioglio,
Che adoppio acciò che indissulibil sia.
Che più dirò, non so: ma ben mi doglio,
Che le parole mie non son più folte
Di sdegno et d'ira, et pien di più orgoglio.
Domandemi perdono, et non l'ascolte
S'esser potesse: et quanto più s'infiamme,
Al suo gridar mercè l'orecchie volte.
Et veggia spente l'amorose fiamme
Che or sovra ogni altro fanno altero il viso,
Che sempre vivo nella mente stamme.
Né più, qual suole, germine il bel riso
Intra le nevi, le viole e i fiori,
Che fanno in terra un altro Paradiso.
Senza sperare, il disiar l'accori:
Ogni suo fallo ogni pensier raggrave,
Sempre pensando dei passati errori,
Et come il suo parlar tanto è soave,
Quanto sa ben chi l'ha nel cor dipinto,
Si faccia altrui noioso, et a sé grave.
Veggia nel bel sembiante un pallor tinto.
Che pietà faccia a me, che più domando?
Da poi che il mio signor da sdegno è vinto.
Su questo foco alfine a voi non spando
Né lauro già né mirto, che non lice;
Ma gli ultimi sospiri; et lagrimando,
Atti dolenti, misera e infelice
Vita angosciosa, et triste ricordanze,
Che lieto consacrar non si condice.
Non si condice a me false speranze,
Né più leggiadre lode, ma tal verso,
Che di pietate ogni lamento avanze.
Quel poco di mie lagrime qui verso,
Che ancor mi resta: et del buon cor le porge
Lo spirto doloroso a voi converso.
Ma per troppo dolor l'uom non si accorge
Che il tempo fugge: et come il Sol dà volta
Ecco la notte cala e il giorno sorge.
Or basta, io spero che la spera volta
Due volte non arà Proserpina anco,
Che l'alma mia verà da amor disciolta.
Quel Corno, che mi canta a lato manco,
Dice che tosto si apparecchia il giorno,
Che l'alta mia tempesta verrà manco:
Et quella fiamma, che a quell'altra intorno
Spesso si aggira, et spesso inrossa e inbruna,
Segno è, come ora in libertà ritorno.
Conoscolo a le stelle, ed alla Luna:
A non so che nel petto, che predire
Mi suole l'una et l'altra mia fortuna,
Vedi che al ciel dispiace il mio martire.

CXLIX

La notte torna, et l'aria e il ciel si annera,
E il sol si affretta a fornire il viaggio
Dietro alle spalle avendo omai la sera.
Et come intorno al fugitivo raggio
Sparisce altrui, così dentro m'infosco
Per lo novello in me commesso oltraggio.
Iteve a casa, et noi lassate al bosco
Pasciute pecorelle: et voi d'intorno
Pastori omai venite a pianger nosco.
Et benché l'ora a noi ne cele il giorno
Sotto il gravoso velo della terra,
La luna ha pieno l'uno et l'altro corno.
Ma tu vicin perdio la mandra serra
Sì tosto come a noi di su sì oscura,
Et la gran luce se ne va sotterra:
Né qui, né altrove è ben la fe' sicura:
Et chi nol sa si specchi nel meschino,
Che per fidarsi tal tempesta dura.
Un altro Cacco qui sotto Aventino,
Con orme averse et disusati inganni
Fura gli armenti di ciascun vicino.
Hercole è morto già, che di tanti anni
Gli rammentò l'offese, et punì l'onte,
Et fe' vendetta dei passati danni.
Et già il carro stellato tocca il monte
Con la sua punta, sicché l'ora è tarda:
Mira che oscura tutto l'orizonte.
Di che, per Dio, sta desto, et ben ti guarda.
Ira di stelle, et di fortuna colpo
Uman provedimento pur riguarda.
Ma chi ne incolpo
In tanta mia ruina?
Sententia divina, et mia scioccheza,
El volto, et la dureza di chi io adoro.
Se il serpe, che guardava il mio tesoro,
Fusse dal sonno stato allor più desto,
Quando per Damnae Giove si fe' d'oro;
Né quel né questo, ond'io mi lagno ogni ora
In guisa che mi accora, et è ragione,
Savrebbe la cagione
Al duol ch'io provo.
Ah! ch'un novo Sinone! or basta omai,
Amor, che assai tai guai per noi son pianti,
Et gli occhi santi, donde ancor mi struggi.
Ma tu, per chi mi fuggi, cor di sasso?
Deh ferma il passo, e i miei lamenti ascolta;
Prendi una volta del mio mal cordoglio.
Io sarò pur qual soglio
Infin che Morte
Le corte mie giornate no interrompa.
Soperchia pompa di vederti bella
Ti fa sì fella contra me et te stessa
In cui mai speme ho messa.
Ahi crudo Amore
Non hai del mio dolore ancor pietate?
Del verno estate fa per forza il tempo;
Et tu di tempo in tempo stai più salda;
Et men ti scalda l'amoroso foco;
Et parti un gioco
Il gran martir ch'io sento:
Deh, per che il mio tormento a te non duole?
Ben son le mie parole senza senso;
Ch'io penso far d'un Orso un cor pietoso,
Et per trovar riposo, guerra chieggio.
Ma se chi il pote il vole,
A che ripenso?
L'immenso suo volere el mi è nascoso:
Et pur cercar non oso miglior seggio.
Se io veggio che costei
Mi cela il suo bel viso, e il vago lume,
Che fe' Natura per mio mal sì adorno,
Sol perch'io mi consume,
Deh, cor tradito et vani pensier miei,
Perché, smarrito, dal camin non torno?
Lasso, la notte e il giorno
Mi vo struggendo, et pur l'ingorda voglia
Per tutto ciò non sbramo;
Né del cor levo la tenace spene.
Così tra due mi tene
Amor, che dall'un lato morte io chiamo;
Dall'altro, cerco d'acquetar la doglia;
Se d'ogni ben mi spoglia
La fiamma che mi rode nervi et polpe
Né so, chi, lasso, del mio mal ne incolpe,
L'astuta volpe che svegliò per forza
Il topo che dormiva,
Quando vi penso a lagrimar mi sforza.
Venga Siringa all'infamata riva,
Dove la canna nacque et fece i fiori,
Perché convien che in mille carte scriva.
O tu che al mondo ancor Certaldo onori,
Deh maledetto sia quando mostrasti
Tale arte nel trattar de' nostri amori:
Per più mia pena lasso tu informasti
Qualunque dopo te nel mondo nacque
Allor che di Guiscardo tu trattasti.
Rise la mia speranza et poscia tacque
Vedendo dentro come il core ardea
Del bel messer, che a lei cotanto piacque.
Seco leggendo tutta si struggea,
Di faville d'amor nel volto accesa,
Poi sorridendo l'occhio li porgea .
Allor credette il topo averla presa;
Né si accorgeva che a sì poca forza,
Al parer mio, troppo alta era la impresa.
L'astuta volpe, che svegliò per forza
Il topo che dormiva
Quando vi penso, a lagrimar mi sforza;
Talché da gli occhi un fonte mi deriva.
Solea nel petto mio già viva viva
Pietosa et schiva starsi la mia Donna,
Come ferma colomba in loco posta;
Et or posto ha in oblio, come a sua posta
Son posto in croce, et tormentato a torto;
Né spero mai conforto,
Né trovar posto in tanta mia tempesta.
Questa sirena al suo cantar m'arresta
Finché m'investa l'onda, che m' affonda:
Non sento chi risponda
Al mio gridar, che par già mi consume:
L'altero et dolce lume
Degli occhi, che mi fur governo et vela,
Fortuna, isdegno, et gelosia mi cela.
Rotta è la tela, che con tanto affanno
Già più d'un anno avea piangendo ordita;
Compiuta è la mia trama in sul fiorire.
Chi mi rivela come andò l'inganno
Che tanto danno a lagrimar m'invita,
Sicché di vita l'alma vuol partire:
Non pote più soffrire,
Che quella, per chi ancora ella respira,
Ver me si è volta in ira:
Ond'io dì et notte piango et non mi stanco,
Perché mia vita tosto venga manco.
Ha manco il manco: et forse, chi sa? il ritto;
Et così manco lui, tal guerra famme.
Deh, cieco Amore, or non l'hai tu a dispitto?
Io fuggirò in Egitto,
Perché il tuo sguardo ingrato non m'infiamme,
Poscia che qui riposo mi è interditto.
El ne è già scritto sì che mille carte
Ne ingombra il fiero inchiostro
Della mia pura fede.
Il sempre sospirare, e il pianger nostro
Rimbomba in tanta parte,
In quante il sol ne salda, e il Ciel si vede:
Né te han mosso a mercede
Né miei lamenti, né miei giusti prieghi
Anzi a colui ti pieghi
A cui più manca quel che più si chiede:
Chi l'ha veduto il crede:
Se io dico il vero, deh perché me nieghi?
Stolto, tu prieghi il sordo:
Non ha ricordo delle sue impromesse
Giurate et spesse, che già lei ti fe':
Et che mi vale? il mio voler se ingordo
Non vole accordo, che ragion gli fesse;
Ma spesse volte duolme di sua fe'.
Di ciò ne incolpo te,
Amore amaro, et quella falsa vista,
Che nel pensier mi attrista
Col fuggir che or mi fan gli occhi sereni;
Colla qual forza come vuoi mi meni.
Niccolò vieni, or chi fia chi m'intenda?
Comprenda mia ragion colui a chi tocca,
Che scocca la balestra senza legge,
Corregge il servo, et regge il sire, et menda.
Venda la donna, et l'uom prenda la rocca:
Sciocca et sinistra cosa a chiunque legge;
Ei par che mi dilegge
Messer quanto vaghegge allor per caso
Il giorno, che di fresco lui sia raso.
La mosca che mi vola intorno al naso
Non altramente da mattina a terza,
Che quando il sole è già presso all'occaso,
Con altro creda, che con debil ferza
Lei minacciando quindi scacciarò .
Mira che a guisa d'asinello scherza.
Così noi avrem pace, et poi farò
Del guardo traditor crudel vendetta,
Che quel che in cor non era mi monstrò .
Ahi falsa, intendi, io dico a te, aspetta
Vedi che volan l'ore et gli momenti,
Et come il tempo al trapassar si affretta.
Apollo non avrà d'intorno venti
Volte trascorso tutto in giro il mondo
Che d'esser viva converrà ti penti:
Io parlo chiaro, et non mi nascondo.

CL

Grandezza d'arte, et sforzo di natura
Al tutto fan costei
Simile in sua sustanzia agli altri Dei:
Senno, valor, virtute et gentilezza
Son tutte insieme aggiunte
Per adornar sua natural bellezza.
Et quelle sopra ogni altre altere et pronte
Soave parolette, anzi armonia
Fanno che l'alma mia,
Come beata omai, d'altro non cura.

 
 
 

Il Dittamondo (2-23)

Post n°871 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXIII

Del millesimo nostro eran giá corsi 
novecento anni e cinque con cinquanta, 
quando l’aquila e ’l mio a Otto porsi. 
Costui fu il primo che portò la pianta 
ne la Magna dell’albore, il cui frutto 5 
senza sette gran princi non si schianta. 
Cherici son li tre e fan ridutto 
l’uno in Maganza e l’altro in Cologna 
e ’l terzo Trieves governa del tutto. 
Dei laici è l’uno quello di Sansogna, 10 
quel di Baviera e quel di Brandiborgo 
e quello di Buemme, se bisogna. 
Li primi tre, che dinanzi ti porgo, 
sono del gran monarca cancellieri; 
ma come sian partiti non ti scorgo. 15 
De’ quattro, l’un lo serve del taglieri; 
l’altro li porta dinanzi la spada; 
pincerna è il terzo e ’l quarto camerieri. 
Quest’ordine, che tanto ben digrada, 
fu proveduto a ciò che fosse sempre 20 
sí per elezione e in lor contrada. 
Due anni e diece vissi a le sue tempre 
e voglio ben, se di lui scrivi mai, 
che secondo al buon Carlo tu l’assempre. 
Apresso di costui, ch’io tanto amai, 
Otto secondo la corona prese, 
che somigliò lo suo buon padre assai. 
Incontro a Pietro prefetto difese 
il Papa mio, il quale era per certo 
morto, se pigro stato fosse un mese. 30 
E come per ben far s’aspetta merto, 
similemente, operando il contraro, 
dee l’uom pensar di rimaner deserto. 
Dico che molti a costui rubellaro, 
violando la pace ch’avea fatta, 35 
li quai distrusse con tormento amaro. 
Qui non ti conto la mortal baratta 
che fe’ coi Saracin, né la paura 
ch’egli ebbe in mar, dopo la lunga tratta. 
Cinque anni e diece visse in quell’altura 40 
e, poi che morte il suo corpo saetta, 
Otto il terzo prese di me cura. 
Costui de la sua sposa maladetta 
provato il vero con la vedovella, 
col fuoco fece iusticia e vendetta. 45 
Io non ti posso dire ogni novella 
di questi miei signor, ma quella arrivo 
che mi par di ciascuno a dir piú bella. 
E se in quel tempo fossi stato vivo, 
Ugo marchese averesti in Fiorenza 50 
veduto, un gran baron possente e divo. 
E se di lui vuoi piena sperienza, 
di quella avision fa che dimandi 
de la qual fe’ sí buona coscienza. 
E spiane ancora quel da’ Gangalandi, 55 
quello de’ Pulci, Giandonati e Nerli,
e molti, che per lui fun poi piú grandi. 
Or perché in te ogni mio dir s’imperli, 
qui t’ammaestro che non pigli briga 
con uom ch’abbia piú alto di te i merli. 60 
Io dico che Crescenzio s’affatiga 
contro a lo ’mperio di far novo papa, 
onde Otto poi l’uno e l’altro gastiga. 
E voglio che ne l’animo ti capa 
che allora Ugo Ciapetta si fe’ vespa 65 
e, per prendere il mele, uccise l’apa. 
Qui puoi vedere che cosí s’incespa 
qua giú la gente, come in pianta fronda: 
surge la nova e cade la piú crespa. 
In questo tempo mi vedea gioconda 70 
e Italia mia tanto contenta, 
quanto colei che d’ogni bene abonda. 
Per questi tre signori vid’io spenta 
la tirannia di qua, sí che non c’era 
chi spaventasse com’or si spaventa. 75 
Qui non si ponea dazio a la statera 
del pan, del vin, del mulino o del sale, 
che disperasse altrui com’or dispera; 
ma solo il censo al modo imperiale 
ciascun pagava e questo era sí poco, 80 
che a niuno non dolea né facea male. 
Qui si potea d’uno in altro loco 
passar per le cittá a una a una, 
senza costar bullette un gran di moco; 
qui non temea la gente comuna 85 
trovarsi nel tambur né esser preso 
per lo bargello, senza colpa alcuna; 
qui non temea che fosse difeso 
il mal fattor né tratto di pregione, 
né l’aver del comune essere speso 90
per un uom sol, senza mostrar ragione.

 
 
 

Pari 'n bbabbà

Post n°870 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Pari 'n bbabbà

Ma sai che tu mme pari 'n ber bbabbà,
de rumme tutto bbello che 'mbibbito,
magara co' la crema 'n po' condito?
Te guardo e te vorei propio pappà.

La crema nu' lo só 'ndove l'ho vista,
però me vién i' mmente 'sto sapore
e poi, pe' daje 'n po' de più d'odore,
mettice puro 'n po' de frutta mista.

La fravola è 'r color de li guanciotti,
li tui, che più li guardo e me 'nnamoro:
só' belli tonni, mica só' cicciotti.

Er cedro, 'nvece, cià 'r color de l'oro,
come 'st'uva, co' l'acini pienotti,
che me fà 'ricordà che io t'adoro.

Valerio Sampieri
20 dicembre 2014

 
 
 

Tasso madrigali 16-20

Post n°869 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso
alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871. 
I Madrigali alla Serenissima Granduchessa di Toscana

16 
Candido Sol, co'dolci raggi tuoi 
Se l'herbe i fior, se 'l mondo serbi in vita 
E spenta e scolorita 
Pianta ravvivi e 'n giovenir la puoi, 
Deh! or come tu suoi 
Dal giel difendi l'honorate piante; 
Me pur gradisti avante: 
Che pro se 'n premio sia 
Ch'el tuo splendor gradi già l'ombra mia?

17 
Tanto splendore in te del Ciel s'aduna, 
Candido Sol terreno. 
Che senza il tuo sereno 
Quando è più luminoso il mondo imbruna; 
Mira qual senza te sorge la Luna, 
Pur sovr'ogn'altra suole 
Di sua luce arricchir la Luna il Sole.

18
A te mi volgo, a te m'inchino humile, 
Per me ti pregan questi Pargoletti 
Miei figli e tuoi fioretti, 
S'havran del peregrino e del gentile. 
Ahi! se non cangia stile 
Il sole, ohimè se con pietà non mira. 
Questo è quel fior che amando a lui si gira, 
Qual veggio horrido verno 
Già far di me di loro empio governo?

19 
Mentre mormorerà correndo il fiume, 
Mentre le stelle in Cielo 
Si pasceranno di rugiada e gielo, 
Candido adorerò celeste Nume; 
Deh! scenda in me del suo benigno lume 
Tacciomi io qui, ch'amor pietade e fede 
Per me Candida il chiede 
E tua chiarezza il vuole 
Vivo mio Fonte e Fiamma e Stella e Sole.

20 
Fiammeggia ben quel tuo crin biondo. Aurora, 
In sul mattin fra la rugiada el gielo, 
Ma si cuopre e scolora 
Com'il sol vibra raggi suoi dal Cielo; 
Però sotto un bel velo 
Risplende più quest'altra chioma ardente, 
Che'l Sol non è possente 
A farla oscura, anz'ella 
Per lui si fa più luminosa e bella.

XVI. 
1. Candido Sol, ed in altro Madrigale pur esso alla Bianca nella raccolta del Kosini Candido flor^ eo. Candido è preso per Tiimocensa e semplicità del suo carattere, che non tramata effetti né abitadini. 
6. Vhonorate piante^ l'amato alloro, che Dante nel Paradiso, Canto I, v. 90, dice cogliersi qualche rada volta 
Per trionfare o Cesare o poeta. 
L'impresa mostrava in&tti un alto alloro col motto: Non Ultima Laus.

XVII. 
2. Colla luna neirimpresa ed il motto Nil Barn Tb.

XVIII. 
1. Con un girasole in messo ad altri fioretti ed il motto Non Mutat Obnvs. 
4. Come reminiscenza della Gerusalemme, St. 46, Canto lY: 
Io crebbi e crebbe U figlio e mai ni ttUe 
Di cavalier, né nobU arte apprese^
Nulla di pellegrino o di gentile 
Gli piacque mai né mai troppo alto intese. 
7. Alludendo alla favola di Clisia il Tasso nel sonetto: Già difendesi con ramose braccia^ ec. 
E come CliMa suole 
Sei tu per grazia volta al nuovo Sole.

XIX. 
3. Si pasceranm di rugiada e gielo, con un richiamo alla reminiscenza del Petrarca in nota del Madrigale III: Il dì che costei nacque era nel delo, ec. 
4. Qui la gentildonna fa la sua professione di fede e dietro a lei l'autore alla Bianca; ed il verso 
Candido adorerò celeste Nume
dice pur troppo che la signora Bianca era divenuta granduchessa e che per la nota sua benignità Tuno e l'altra molto s'aspettavan da lei.

XX. 
1. Fiammeggiar fra la rugiada e 'l gielo s'osservò già nel Madrigale III II dì che costei nacque era nel Cielo, ec. allegando l'esempio del Petrarca. 
Si direbbe aver per argomento questo Madrigale qualche dipintura col ritratto della signora Bianca. N'avevano uno i Piccolomini di Siena, che c'interesserebbe tanto di conoscere. Ci ricordiamo di aver veduto in una Galleria certo ritratto vaghissimo di donna con capellatura fulva e col velo in capo, che ci produsse le stesse considerazioni del Poeta. 
Rispetto al velo bianco per adornezza d'un bel volto, potrà dirsi che fìi massima del celebre Tiziano che il vivido e luminoso colore delle carni acquistasse pregio a confronto di un panno bianco facendocelo vedere nella sua Flora e nella sua Venere. L'osserva anche il Lanzi. 
In altra copia sincrona a pag. 24 del Cod. num. 329, Classe VII della Magliabechiana, in fronte a questo con altri tre Madrigali consecutivi, vi ò apposto questo titolo: In lode di Capei Rossi di Messer Gir. , G. Scrittovi, pare, perchè non si avessero a credere Madrigali dello Strozzi, del quale fu in origine il Codice. 
6. Per impresa un cane levriere riguardante il sole ed il motto Sbmper Honob. 

 
 
 

La Bella Mano (141-147)

Post n°868 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXLI

Caro conforto a mie dolenti pene,
Onde han sua pace le mie voglie stanche:
O labre mie vermiglie, o perle bianche,
Di rose et d'armonia celeste piene:

Alta colonna et ferma, che sostiene
Mia vita perché affatto ancor non manche:
Parole, sopra le altre accorte et franche
Per darmi sol baldanza et darmi spene;

Se il Ciel non prende mio concetto a sdegno,
Et se anima gentil d'amor sia presa
Et giusto priego impetri omai mercede,

Io spero alla magnanima mia impresa
Non mancherà vittoria, perché è degno
Che acquisti gratia per sì ferma fede.

CXLII

Ritorna al foco, o mio debil coraggio,
Et l'anima gelata omai riscalda
La tua virtù che il tempo omai risalda
Struggendo al caldo del possente raggio:

Et s'esser può, quel freddo cor selvaggio
Di lei, che sta ver me sì ferma et salda,
Al vento acceso dei sospir miei scalda,
Che lagrimando notte et giorno traggio:

Ritenta se pietà fiorisse mai
Nell'aspra mente, gravida di sdegno,
Che vedermi languir sì poco appreza:

Che se debbeno eterni esser miei guai,
Piacemi, almen pensando che ogni ingegno
Al tempo usasse contra sua dureza.

CXLIII

Viemmi la fiamma antica, e i dolci affanni
A mente, onde giamai non sia sbandita,
E il discoprir dei colli ancor m'invita,
Et dice: Or piangi dei passati inganni.

Et par, che un'altra volta Amor condanni
Nella prigion tra' ferri la mia vita,
Et giunghi al fianco mio nova ferita
All'altra che non salda in cotanti anni.

Et se con tanta forza le faville
Non escon dal soave et puro lume,
Come al principio del mio stato rio,

Non son già le mie pose più tranquille,
Spesso interrotte per lungo costume
Dalla stagion che nacque il gran disio.

CXLIV

Mentre che io m'avicino al bel terreno,
Dove per forza Amor mi riconduce,
Apparir sento i raggi della luce,
Che fa, dovunque splende, il ciel sereno:

Et l'esca sfavillar dentro al mio seno,
Raccesa dal piacer dove mi adduce
L'imagine, che viva al cor mi luce
Et mi fa vaneggiando venir meno.

Et spesso risospinto dal disio,
Pensoso fra me stesso et con parole,
Conforto con speranza l'alma trista:

Et tacito ne prego Amore et Dio,
Che nel primo apparir del vivo Sole,
Io sia possente a sofferir la vista.

CXLV

Ancor vive, Madonna, il bel disio
Che nel cor mi accendeste ne i primi anni:
Non ho la luce mia per tanti affanni,
Né per fortuna mai posta in oblio.

Cangerà nanzi il ciel suo corso, ch'io
Non segua ognior de i vostri onesti panni
L'ombra leggiadra, et gli amorosi inganni
De gli occhi, che fan foco nel cor mio.

Lasso, non fu, dal dì spietato, un giorno,
Che nanzi non mi fusse per mia pena
L'aspetto, onde disdegno m'ha diviso;

E il caro sguardo sovra ogni altro adorno,
Donde ho la mente stanca ognior sì piena,
L'andare, et le parole, et il dolce riso.

CXLVI

Va, testimon della mia debil vita,
Nanzi all'altero et venerabil fronte,
Appiè del bel fiorito et sacro monte;
Mira se l'alma nostra indi è partita.

Ivi è la vista, che a ben far m'invita
Et d'ogni mia salute il vero fonte;
Ivi son, lasso, quelle man sì pronte,
Ond'io soffersi l'immortal ferita.

A lei t'inchina et di, ch'io più non posso:
Il core è stanco, et stanchi i miei pensieri,
Vivendo sempre dal mio ben lontano:

Ma pur l'usanza con la morte addosso,
Vuol che in tanta aspra guerra pace io speri
Dalla benigna et sua pietosa mano.

CXLVII

Udite, monti alpestri, li miei versi,
Fiumi correnti et rivi,
Udite quanto per amar soffersi.
Udite i miei lamenti, anime dive;
Et voi, che infino al sommo colmo sete
Del nostro lagrimar, fontane vive.
O boschi ombrosi et voi riposte et chete
Strade selvagge, a cui il mio stato è chiaro:
O chiuse valli, a sospirar segrete.
Soave colle: o fido porto et caro
Nelle tempeste quando Amor mi assale,
Mentre ardere et tremare insieme imparo.
Udite come l'amoroso strale,
Quando al cor passa, poi non sana mai
Il colpo, che difesa far non vale.
Et poi che avrete intesi i nostri guai
Piangete meco sì, che il senta quella,
Che avermi morto non gli pare assai.
Ascolte nei miei pianti la novella,
Che aspetta et chiede ognior cotal disio
L'alma spietata et di mercè rubella.
Et tu, crudel Signor, del dolor mio
Prendi vagheza, poiché sì diversi
Miei prieghi non ti fer mai dolce, o pio.
Piangano insieme gli angosciosi versi:
Spirti gentili e gnudi,
Udite quanto per amar soffersi.
Chi vide mai dolor tanti et sì crudi?
Chi mai l'udì nei nostri, o nei primi anni?
Qual mente è tal, che nel pensier gli chiudi?
Nacque favilla d'amorosi inganni,
Et d'un crudel voler che a poco a poco
Ognior si fa più forte nei miei danni.
Quinci si accese poscia quel gran foco
Che il mondo tutto ha già mosso a pietade
Se non la Fera a cui soccorso invoco.
Né fuggir valmi a tanta crudeltade,
Se lei, dovunque io vada, venir suole;
Né mi abandona mai per mille strade.
Sì come stanco peregrin che il sole
Di poggio in poggio per la via accompagna
Infinché il giorno all'altra gente vole:
Et poi che al tardo in mare il Sol si bagna
Tornami in sogno, et del mio gran martire
Tra sé ragiona, et del mio mal si lagna,
Sol perché nulla manche al mio languire
Et corra sempre più bramando l'esca
Con gli occhi avolti in fasce al mio morire.
Oimè che lamentando si rinfresca
La fiamma, accesa in mezo i nervi et l'ossa;
Et par che il gran dolor dolendo cresca.
Veggio la mia virtù fiaccata et scossa;
Et sotto il peso mancar mia possenza
Come la neve dal gran sol percossa.
Veggio fuggirmi inanzi ogni speranza;
Et radoppiando le infinite voglie,
Che più, che sospirar, sempre m'avanza?
Perché piuttosto forza non ci accoglie,
Che mi consume al foco, in che io sempre ardo,
Per fuggir, ben morendo, tante doglie?
O cruda voglia: o dispiatato sguardo,
Donde la mente fra il pensier vien meno
O presto ingegno, nel mio ben sì tardo:
O fiero passo: o sacro et bel terreno,
Là dove al gentil lume gli occhi apersi,
Che del disio sì di veder son pieno.
Ricominciamo i nostri usati versi,
O vaghi pensier miei
Cagion di quanto amando mai soffersi.
Che giova a me se il ciel pose costei
Sovra ogni altra beltà ? poi che natura
La fe' sdegnosa più, ch'io non vorrei.
Vera angeletta, una innocente et pura
Colomba, che è discesa allor dal cielo,
Pare, a veder l'angelica figura:
Spirto Celeste avolto in un bel velo,
Cosa più che divina in forma umana,
A passion sugetta, a caldo, a gelo:
Cor d'un diaspro in vista umile et piana:
Dolci parole, et sopra l'altre accorte,
Da far gentil per forza alma villana:
Corde amorose intorno al cor mio attorte:
Possenti arder d'amore un uom selvaggio:
Belleze sol create per mia morte:
Pensar troppo alto, et per mio mal sì saggio,
Che la mia vita dentro et di for vede,
Come traluce in vetro vivo raggio;
Deh, perché non piutosto più mercede
Ti dié Natura, et poco men belleza,
Per far contento in parte tanta fede?
Havrei tue laudi poste in tanta alteza,
E il mondo pien di sì soavi accenti,
Che i monti sarien mossi per dolceza.
Che ben felici troppo son le genti,
Che per fortuna a te compagne fersi:
Beati gli occhi che ti son presenti.
Udite ancora i miei dolenti versi,
Rose, viole et fiori,
Udite quanto per amar soffersi.
Qual forza, qual destin vuol ch'io m'adori
Costei, che mille volte il dì mi uccide,
Et che della mia morte io m'inamori?
Se del mio sempre lagrimar si ride
Che mi conduce all'esca acerba et fiera,
Col foco in man che nel mio cor s'annide.
Non veggio come indarno omai si spera
Di mia salute: et come sta contenta
Vedermi lagrimar mattino et sera:
Vedrò mai lasso una favilla spenta
Di tanto mal, quanto al mio cor si accende;
O lei di simil fiamma in parte tenta?
Che allor poria nel foco che m'incende
Giacer contento, et fra pungenti spine;
Ardendo il laccio, che mercè contende.
Però, Signor gentil, nanzi al mio fine
Fanne vendetta un dì ; prendi a dispetto,
Che a sempiterno affanno mi destine:
Spira virtù nel freddo et crudel petto;
Che meco insieme sforze ella a dolersi,
Rompendo il velo all'indurato affetto.
Poi seguitando gli amorosi versi
In più dolci sospiri,
Non mi dorrà quantunque mai soffersi,
Non per mio ben, ma per gli altrui martiri.

 
 
 

Il Dittamondo (2-22)

Post n°867 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXII

Secondo il mio parlar ben puoi vedere 
che Carlo Magno in Francia fu il primo 
a cui dessi giá mai il mio podere. 
E puoi trovar, cercando in fine a imo, 
chi e quanti ne funno e come fatti 5 
imperador discesi del suo vimo. 
Or ti vo’ dire, a ciò che, se mai tratti 
di sí fatta materia, il tempo veggi 
che meco funno e ch’io li vidi sfatti, 
dire che ’n quante croniche tu leggi, 10 
truovi ch’esser potean da due cent’anni 
che governaro me e le mie greggi. 
E se qui vuoi che del ver non t’inganni, 
contenta assai ne fui, se vennon meno: 
sí poco giá curavan de’ miei danni. 15 
E poi che sciolto in man mi tornò il freno 
de lo ’mperio mio, cosí il porsi 
a Lodovico, che piú m’era in seno. 
Vero è che di cui fosse avresti in forsi 
trovato al mondo molti e molti popoli, 20 
tanto eran giá i fatti miei trascorsi: 
ché l’un lo si credea ’n Costantinopoli 
e l’altro ne la Magna, colá dove 
or la corona de la paglia copoli. 
Ma perché miri al segno e non altrove, 25 
sol Lodovico allor l’onor tenea 
che da me prese, in cui la grazia piove. 
Or odi di costui fortuna rea: 
che preso fu e poi cieco in Verona, 
quando disfare Berlinghier credea. 30 
Sei anni guidò il mio la sua persona; 
poi Berlinghieri Forlivese venne, 
al quale puosi in testa la corona. 
Quattro anni, poi, la governò e tenne; 
pro fu in arme e di alti ministeri; 35 
altrui fe’ guerra e molta ne sostenne. 
Seguio apresso un altro Berlinghieri, 
ma nato Veronese, e costui poco 
ne’ suoi nove anni ebbe di me pensieri. 
Lottaro, dopo lui, ritenne il loco 40 
sette anni e poi Berlinghieri il terzo, 
Piagentin, tre; e costui fu un foco. 
Tu vedi ben come mi sforzo e sferzo 
venire al fin di questa trista schiatta, 
che fun peggior che gli orsi in ogni scherzo. 45 
In questo tempo fu Genova sfatta 
per gli Africani, sí ch’ancor ne langue 
ogni suo cittadin de la baratta. 
In questo tempo una fontana sangue 
isparse per la terra, ch’a’ lor guai 50 
annuncio fu peggior che morso d’angue. 
In questo tempo fun discordie assai 
in Francia, ne la Magna e tra’ Latini, 
de le quai danno spesso mi trovai. 
In questo tempo ancora i Saracini 55 
passâr su la Cicilia e vinser tutta, 
ponendo ai liti miei le lor confini. 
In questo tempo fu rubata e strutta 
Italia sí per gli Ungari crudeli,
ch’ancor c’è, credo, chi ne piange e lutta.
In questo tempo si vide tra’ cieli 
sí rosso il sol, ch’a molti, per sospetto 
d’alcun giudicio, s’arricciaro i peli. 
In questo tempo fun con un sol petto 
due corpi uman, che, quando l’un dormia, 65 
e l’altro da la fame era costretto. 
In questo tempo fen vita sí ria 
Alberto e Berlinghier, ch’assai ne piansi 
e piansene Toscana e Lombardia. 
E come rimembranze talor fansi, 70 
costui mi fe’ ricordar di Nerone, 
cotanto duro m’era e tenea in transi. 
Tre papi funno allora in quistione 
e tutti e tre in un sol tempo vivi: 
Giovanni, Benedetto e Leone. 75 
E se giá mai di tal Giovanni scrivi, 
dir puoi, per ver, che fu pien di lussuria 
e d’altri vizi bestiali e cattivi. 
Senza fallo commesso o altra ingiuria, 
la maladetta schiatta impregionaro 80 
Alonda imperadrice con gran furia. 
Pur tanto i lor gran mal moltiplicaro, 
che ne la Magna ad Otto di Sansogna 
il popol mio e gli Italian mandaro. 
Or qui voglio che chiaro si ripogna 85 
ne lo ’ntelletto tuo ciò ch’a dir vegno, 
ché alquanto lungo parlar mi bisogna. 
Dico che come Carlo tolse il regno 
a Desiderio, a Berlinghier costui, 
prendendo lui, li tolse ogni sostegno. 90 
Poi tanto amata e riguardata fui, 
per lo suo gran valor, che la corona 
e me e ’l mio diedi tutto a lui. 
Assai mi piacque, quando dispregiona 
Alonda e piú ancor poi che la fece 95 
compagna e sposa de la sua persona. 
Da queste genti sí crudeli e biece 
l’aquila posso dir che fu tenuta 
tre anni e piú di cinque volte diece. 
Vero è ch’ell’era giá tal divenuta, 100 
per lo tristo governo, in questo tempo, 
qual se ’l Greco l’avesse posseduta. 
Qui puoi veder come di tempo in tempo 
la somma Provedenza alcun produce 
che, per sua gran vertú, poi lungo tempo 105
fa che nel mondo la mia luce luce.
 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

cuspides0cassetta2amistad.siempreVince198massimobrettipiernaniChevalier54_Zforco1gnaccolinocamaciotizianarodelia.marinoamorino11Talarico.Francoantonio.caccavalepetula1960
 

ULTIMI COMMENTI

 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963