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Messaggi del 22/12/2014

Il Dittamondo (2-29)

Post n°890 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXIX

Mille dugento sessantotto appunto
si carteggiava, quando Curradino
tradito fu e per Carlo defunto.
Sol non si vide a sí crudel destino,
ché il conte Calvagno e Gualferano 5
seguitâr lui a l’ultimo cammino.
Similemente a quel tormento strano
si vide lagrimar Bartolomeo
con due figliuoli e Gherardo pisano.
Ancora al gran dolore acerbo e reo 10
li fece compagnia quel di Sterlicchi,
che senza reda il ducato perdeo.
E perché l’occhio dentro al mio dir ficchi,
* Rodolfo né Albertonon funno mai d’animo sí ricchi, 15
che ’n contro a Carlo o in contro a Ruberto
movesson pie’ a far l’alta vendetta,
ai quali appartenea per doppio merto.
Ma qui di ricordarti mi diletta
di Fiandra il conte, che ’l giudice uccise, 20
come per lui fu la sentenza letta,
dicendo: - Questo ghiottoncel si mise
a giudicar sí nobil sangue e degno,
sappiendo ben che ’l fallo non commise -.
Non mostrò Carlo di questo disdegno, 25
come che i suoi pensier fosson acerbi,
sí piacer vide il colpo a quei del Regno.
Ben vo’ che quello che or ti dico serbi,
ché tale asempro è buono a ricordarlo
quando i signor nel ben si fan superbi. 30
Tu hai udito come questo Carlo
quanto piú si vedea in grande altura,
piú venia aspro e fiero a riguardarlo.
Onde Colui, ch’a tutto pone cura,
dov’era in maggior pompe sí ’l percosse, 35
ch’assai con danno li fece paura:
ché mai trattato non credo che fosse
sí lungo e piú secreto, che quel fue
che Gian di Procita contro a lui mosse.
Lo Paglialoco il seppe e qui fun due, 40
Gregorio papa e Piero d’Aragona,
e ne l’isola tre e poi non piue.
Miracol parve a ogni persona
ch’a una boce tutta la Cicilia
si ribellò da l’una a l’altra nona, 45
gridando: - Mora, mora la familia
di Carlo; moran, moran li Franceschi -.
E cosí ne tagliar ben otto milia.
Oh, quanto i forestier, che giungon freschi
ne l’altrui terra, denno esser cortesi, 50
fuggir lussuria e non esser maneschi!
Qui piú non dico; ma, per quel ch’io intesi,
Carlo ben la Cicilia racquistava,
fosse stato pietoso a’ Messinesi.
Un poco prima, dove piú si stava
sicuro Arrigo, il conte di Monforte
l’alma del cuor con un coltel li cava.
Non molto poi vid’io ch’a Nuova corte
morto e sconfitto fu quel de la Torre,
lasciando di Melan palagi e porte. 60
Pensa che ’l tempo al mio parlar sen corre
e ch’io non posso, come si digrada
di novella in novella, l’anno porre.
Colui che seppe tanto de la spada
e sí trovare in guerra ogni ricovero, 65
che ’ndarno d’un migliore allor si bada,
fe’ de’ Franceschi mucchi senza novero,
per sua franchezza e per sua maestria,
per Forlí, dico, e di sotto dal rovero.
Costui sconfisse la cavalleria 70
a San Procolo e il popol di Bologna,
che con tanta superbia fuora uscia.
Qui fu lá dove disse, per rampogna,
quel da Panago: - Sozzo popol marcio,
or leggi lo Statuto, ché bisogna -. 75
Cosí come tu odi, e non par ciò,
i grandi mal contenti, quand’han possa,
volentier fanno del popolo squarcio.
La nobiltá di Pisa e la gran possa
si cadde in questi tempi a la Melora, 80
che convenne rifar di gente grossa.
Pur seguitando questo tempo ancora,
la sconfitta fu fatta a Campaldino,
che ’l ghibellin per mezzo il core accora.
In questo tempo il conte Ugolino 85
morir si vide coi figliuol di fame,
che fu sí grande e nobil cittadino.
E cominciâr le parti tristi e grame
in Fiorenza e in Pistoia, Bianchi e Neri,
e venne Carlo ad acquistar reame; 90
ma trovossi ingannato del pensieri.

 
 
 

La Bella Mano (191-200)

Post n°889 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CXCI

Ahi tempo speso, ahi pronti pensier vani,
Ahi lingua or muta, già sì ardita et franca,
Ahi occhi, ahi core, a cui giammai non manca
Piangere et sospirar presso et lontani!

Ahi lasso ingegno, ahi mie affannate mani,
Ahi mente vaga, che ancor non sei stanca
Di lusingar quella man bella et bianca,
Et far quegli occhi pietosi et umani!

Ahi passi sparsi tanto che i piè vostri
Infermi sono, et l' alma in grande errore;
Ahi penna, ahi carta, ahi mal locati inchiostri!

Ahi fugace speranza, che n' hai mostre
Fallaci ciance, ahimè mio dolce amore,
Perse son tutte le fatiche nostre.

CXCII

Il dì sospiro, et le lacrime ch' io
Per vergogna nascondo, a mille doppie
La notte io rendo, perché il cor non scoppie,
Che di dolersi ognor cresce il disio.

Et se talora di porle in oblio
Cerco, et dentro le stringo a coppie a coppie,
Di subito convien ch' io le raddoppie,
Come il pensiero alla cagione invio.

Onde il viver mi spiace per l' affanno,
Né spero mai trovar cosa altra alcuna,
Se non che a pianto et morir mi conforte.

Et perché amando bene alma ciascuna,
Ben more il corpo, anzi eterni si fanno,
Ognor più bramo et più chieggio la morte.

CXCIII

Doloroso mio cor, tu ti lamenti
Di me senza ragione et di costei:
Lamentati di te, poiché tu sei
Cagion tu sol di tutti i tuoi tormenti.

Allor che da disio mosso consenti,
Che gli occhi di costei per gli occhi miei
Penetrando là dentro ove tu sei,
In te scolpiti ognor mi sien presenti.

Che posso io poi, se non per maraviglia
Contemplar la incredibil sua bellezza,
Che a noi fa spesso infino il sole oscuro!

M' abbaglia sì della dolce vaghezza
Quando in me volge le radianti ciglia,
Che bene ho paradiso; altro non curo.

CXCIV

Amor, tu vedi che costei mi sdegna,
Et più non posso, et tu vuoi ch' io la segua:
Deh non, per Dio! ma i suoi pensieri adegua
All'animo suo altier dove disegna.

Per me ferma il più bel volto tua 'nsegna;
Di qui leva il mio cor che si dilegua,
Né spera mai aver pace né tregua;
Tanta superbia et crudeltà in lei regna!

Vogli de' tuoi suggetti una fiata
Crescendo il numer compiacer a doi,
Et trar me et forse altrui di grave stento.

Deh fallo, io te ne prego, ora che puoi!
Et se il servir mio poi più non t' aggrata,
Lassami in libertà, ch' io son contento.

CXCV

Passato è il tempo, Amor, che di me stratio
Per contentar costei tu far solevi;
Passata è la stagion che tu dovevi
Farmi beato, ond' io di te son satio.

Passato è il tempo, anzi non hai più spatio
Ad effetto mandar quel che volevi;
Persa hai la forza in me e 'l valor che avevi:
Fammi il peggio che puoi, ch' io ten disgratio.

Ch' io sono in libertà ; et quest' altera,
Crudele, ingrata, falsa donna, a cui
Di volontà mi fei servo fedele,

Rivolti ha i suoi pensier tutti in altrui,
Di ch' io non curo: ché il mio core spera
A miglior vento dirizzar sue vele.

CXCVI

Spento è quel fuoco che sì lungamente
A poco a poco consumando m'arse,
Et le bellezze che mi fur sì scarse
Forse dell' error suo tardi si pente.

Però che una più dolce e assai più ardente
Fiamma il benigno Arcier sopra mi sparse,
Tal ch' io sentii di subito cambiarse
Non pur mio volto, ma il core e la mente,

E innamorarmi d' un più gentil fiore,
Anzi d' un più bel viso et più perfetto,
Che mai natura e il ciel mostrasse in terra:

Apparso qui fra noi per mio rispetto,
Com' anco spero a trarmi di dolore,
Et pace darmi di sì lunga guerra.

CXCVII

La donna ch' io già porto in cor scolpita,
Che acceso di disio pregando adoro,
E in versi e in rime a mio potere onoro,
Per farla in l' amor mio ferma et gradita,

Ognor più co' vaghi occhi m' invita
A seguir l' alta impresa e il bel lavoro,
E il pronto lusinghier de' suoi stral d' oro
Rinfresca al cor la non mortal ferita.

Ché a mal mio grado volentier comenzio
A temer et sperar non so di cui,
Et piangendo cantar miei dolci affanni.

Che fia di me non so: sassel colui
Che tempra a' servi suoi mel con assenzio,
Et cangia il viso e 'l pelo innanzi gli anni.

CXCVIII

Col viso bianco, anzi pallido et smorto
Vo pauroso ove i begli occhi stanno,
Per fin che scorgo ben se a schifo m'hanno,
E il capo basso di vergogna porto.

Elli co 'l guardo benigno ed accorto
Più certo ognor del loro amor mi fanno,
Tal che ho 'l cor pien di dilettoso affanno,
Et di speranza tutto mi conforto;

Ringraziando i cieli e la natura,
Et più Cupido, et molto più ancor Lei
Che si contenta che per Lei sospire.

Languisca o mora, omai mio cor non cura,
Purché rimanga il titolo a costei:
Ché l'onor della vita è un bel morire.

CXCIX

Come in pigliarmi diversa maniera
Amore oprò, così ancor nuova legge
Usa, ch'or m'ammonisce, or mi corregge,
Or mi lusinga, or mi mostra aspra cera.

Questa mia mansueta et vaga fera,
Che sol co 'l guardo suo mia vita regge,
Et di quaggiù non ha chi la paregge,
Parmi ogni dì più grata et meno altera.

Con tutto questo il cor non si assicura,
Rimembrando fra sé prove altre molte
Del mio Signor, che a nessun fede osserva.

Fiamma amorosa in femina non dura,
Anzi in un punto si cambia più volte,
Se 'l tatto o il guardo almen non la conserva.

CC

Qual chi mai cose insolite et stupende
Sospeso guarda et poi si maraviglia,
Et spia, cerca, dimanda, et s'assottiglia,
Finché del suo disio parte comprende,

Questo m'avviene ognora che si stende
Mia vista in l'ombra delle vaghe ciglia,
Onde il cor di lassarmi si consiglia,
Et verso loro il cammin ratto prende.

Poi si ritien, perché non è ancor fido
Di là benignamente essere accolto
Ché vede usarsi al mondo di nuov'arte.

Così dubbio di sé, legato, et sciolto
Torna pien di vergogna al primo nido,
Dove non sta volentier, né si parte.

 
 
 

La Bella Mano (181-190)

Post n°888 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLXXXI

A cui mi doglio, o di cui mi lamento?
Di ria fortuna non già, et d'amor meno,
Ch'io so che è sono instabil, senza freno,
Et più leggier che foglia arida al vento.

Se per costei morissi, io son contento.
S'io son contento, perché piango et peno?
Non ho io 'l petto d'un vulgar ripieno:
Mille piacer non vagliono un tormento.

Dunque è meglio ch'io taccia, et lena prenda
Fuggendo Amore a lei, che ha cor di smalto,
Et chi la segue d'onor spoglia et priva;

Et ponga il mio dolce desio più alto,
Ché la mia voce al nono ciel s'intenda,
E infin diventi la mia alma diva.

CLXXXII

Un pensier mosso da ragion talvolte,
Che s'accorge del tempo come fugge,
E' mondan ben fallaci morte strugge
Più che il sol neve, et l'alme in quelli avolte,

Mi punge et dice: Ahi lasso, a che ti volte
A seguitar costei che ti distrugge ?
Torna in tua libertà pria che s'adugge
Di pene il core in parte ora distolte.

Dall'altro lato Amor contrasta et vince,
Promettendomi ancor mille piaceri,
Et farmi poi di sua più eccelsa gregge.

Io che 'l veggio esser magnanimo prince,
Rimango servo a lui più volentieri:
Ché meglio è giusto re, che giusta legge.

CLXXXIII

Occhi, non occhi, anzi due gran condutti,
Che discendete al cor per mezo il petto,
Deh non piangete più, ch'io fo concetto
Por fine al nostro duol senz'altri lutti!

Or non vedete a che noi siam ridutti,
Che Amor, Madonna, e il mondo ci ha in dispetto
Non per nostro fallir, né per difetto;
Ma rei fati crudel n'han sì dedutti.

Voi ne piangete, e 'l cor nostro sospira,
Et ciascun membro se ne strugge et sface,
Né ci giova però la pena vostra.

Sapete che farem? Daremci pace;
Che fortuna sua rota sempre gira,
Et forse ancor verrà la volta nostra.

CLXXXIV

Questa donna gentile al mondo un sole,
Che la parte miglior di me possede,
Et di bellezze ogni altra donna eccede,
(Perdonimi qual più bella esser suole).

Qualora avvien, siccome empio amor vuole,
Che io più mi doglia, meno ella mi crede;
Sol per provarmi, spero, che mercede
Mostra negli occhi, et più nelle parole.

Onde il cor si dispone, et io consento,
Pur che le piaccia che per Lei sospire,
Paziente soffrire ogni tormento,

Et pria tacendo ed amando morire,
Poiché sol di piacerle io mi contento,
Che per mio lamentare ella si adire.

CLXXXV

Quanta noia me fa quel vel si bianco,
Che copre in parte il vixo, et me nasconde
Il capo adorno et le due trecce bionde.
Di quella in cui mirar mai non me stanco!

Quanta me fa il suo braccio dricto e 'l manco
Che spesso il volge et gira ad onde ad onde
Intorno al collo, et sopra le rotonde
Mamelle, dove amor se fa sì franco!

Ma più noia me fan le veste ancora,
Che m' ocultan la parte, onde 'l dilecto
Spera il mio cor d' aver, pace et riposo.

Che s' io potesse sol, sença sospecto,
Tractarle et remirarle per un'ora,
Saria più d' om felice et glorioso.

CLXXXVI

Io non posso soffrir più tanti sdegni,
Che questa donna ria piena d' orgoglio
A diletto mi sface, et s'io mi doglio,
Sempre di peggio far par che s' ingegni.

Nemica di pietà la vede a' segni
Aperto et chiar ch'io l'amo come soglio;
Né però del mio mal prende cordoglio,
Anzi più spreza gli amorosi regni.

Ond' io non so che far; mal s' io la fuggo,
Et s'io la seguo peggio; ch'io mi sento
Venir men come al Sol candida brina.

Ma pur meglio è, poiché amando mi struggo,
Temprar con la sua vista il mio tormento,
Ché rosa non si coglie senza spina.

CLXXXVII

S'io spendesse il mio tempo e 'l viver frale
In laude della Vergin gloriosa
Madre eletta di Dio, Figliuola et Sposa,
Che né prima né poi mai ebbe eguale,

Com'io spendo in costei, cosa mortale,
Che per più mio dolor sta sempre ascosa,
Dura. fiera, crudele et disdegnosa,
A cui miei prieghi o lamentar non vale;

Io sarei di più fama, et spereria
Per merto no, ma per superna gratia
Salire ancor nel regno de' Beati:

Onde perché 'l desir mio non si satia
Di lusingar costei per farla pia,
Temo trovarmi infine intra' dannati.

CLXXXVIII

O Fonte, o Muse, o Apollo, o verde alloro,
Che amai già tanto, o risonante Cetra,
Che per umiliare un cor di pietra
Di man tolto mi avete alto lavoro,

Io vo' lassarvi, et tu, Signor che adoro,
Cupido mio, ripon la tua faretra,
Poiché 'l mio stil da costei non impetra
Gratia né dono, et spreza il tuo stral d' oro.

Anzi di onesti sguardi si fa scudo,
Mostrando quell' altiera esser pudica,
Et di piacere altrui par ch' abbia a sdegno.

Che maledetta sia ogni mia fatica,
Le rime e i versi del mio lasso ingegno:
Ma tardi sonmi a mie spese pentudo.

CLXXXIX

Io perdo il tempo e 'l mio fedel servire,
Indarno prieghi et mie parole spendo:
Ne' per mio lamentare ancor conprendo
Pietà alcuna in costei del mio martire.

Né valmi da' suoi begli occhi fuggire,
Anzi s' io m' allontano, più m' accendo;
Et se talora un poco mi difendo,
Doppia la voglia, et raddoppia il disire.

Che debbo far non so: chi mi consiglia?
Amor non già, però ch' el teme et fugge,
Ed ella ognor si mostra più crudele.

Sai che farò, poich' ella pur mi strugge
Con quelle dolci, et radianti ciglia?
Vincer la vo' con esserle fedele.

CXC

El fu già tempo, bench' io nol mostrasse,
Che il Ciel toccare mi parea col dito,
E al colmo della rota esser salito:
Credea che sempre mio stato durasse.

Or ben m' accorgo che son vane et casse
Le mie credenze: et veggio esser tradito
Con promesse et lusinghe, a tal partito,
Che disperato amor convien ch' io lasse,

Vorrei dolermi, et non so bene a cui:
Anzi il so bene, et se talor mi doglio
Ella sen fugge, et non m' udir s' infinge.

Questo è il buon merto, e 'l frutto ch' io ricoglio
Di mie fatiche, et d' amar tanto altrui.
O morte, vieni, et del mondo mi spinge.
 
 
 

Rime inedite del 500 (21-24)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXI

[1 Di Domenico Veniero]

Madrigale del Veniero

Dolce e leggiadro viso

Nudo e rigido il core
In voi dispose, in voi dipinse amore,
Perché col paradiso
Di gioia che nel volto
Havete fuori dolcemente avvolto
L'alma allettaste, e poi
Col gran rigor' interno
Nei crudi scempi suoi
Gravasse lei d'un doloroso inferno.
Queste d'Amor son' opre
Che in voi l'inferno e 'l paradiso scopre.

[2 Di Domenico Veniero]

Canzone in lingua venetiana del Venieri dove loda la bella mano della sua donna.

O man di puro latte,
Bella quanto crudel,
Che più che la mi batte
Più devento un agnel,
O benedetta man, pompa d'amor
Man che zioga alla balla col mio cuor.
Bianca falda di neve
E pur la m'ha scotà
Tal ch'ho il viver più breve
Che un albero sbusà,
O miracul d'amor, che è sì possente
Che tra' da viva neve il fuogo ardente.
Man, ch'ha cinque rubini
Ove Amor suol cavar
I stralli cusì fini
Che non se puol parar,
Che no gh' è cuor sì duro che contrasta
Che non para l'azzal come de pasta.
Man, che me dà più strette
Quanto l'onoro più;
Man, ch'ha quattro fossette
Ov'ho el cuor sopelì,
Che par ch'Amor sentando l'abbia fatte
Con averle improntà su le culatte.
Man, che me squarza el petto
E che m'ensegna el sen,
Ch'e m'ha legà sì stretto,
Che mi tien tanto in fren;
Man che rese il mio fatto e la mia sorte
Che m'ha depento in vista Amore e morte.
Man, che me traze a terra
Che me tien spento alfin,
Man, che fa tanta guerra
A un misero meschin;
Man che inchiava e deschiava quei pensieri
Che me lieva dal cuor tutti i piaseri.
Va da si bella man,
Canzon mia, pechinina, e daghe un baso,
Se ben si havessi un ganasson sul naso.

XXII

[1 Di Giovanni Muzzarelli]

Del Muzzarello

Fatto son per affanni ombra sì oscura
Che mirandomi al specchio di me tremo,
Che per uscir di questa vita dura
Vado cercando morte in ogni estremo;
E se la trovo, ha tal di me paura
Che più mi fugge quanto men la temo,
E credo sol che si creda essa morte
Ch'al mondo io nato sia per nova morte.
Or, se mi fugge morte, come morte
Aver potrà questa mia mortal vita?
E s'io son fatto un'altra nova morte,
Non posso dar la morte a la mia vita.
Da me morir non posso, e men per morte;
Dunque da morte nasce la mia vita.
Così non spero mai di vita uscire;
Ma peggio assai per non poter morire.
Ogni animal che vive di rapina
Per suo cibo miglior s'elegge il core,
E similmente la virtù divina
Dal peccator non vuole altro che 'l core.
El fidel servo al suo signor se inchina
E in mille parti gli offerisse il core,
E tu lo sprezzi, onde ch'al parer mio
Non ti veggio animal, donna, né Dio.
Pers'è via sacra, lata, i fori e gli archi,
Simulacri, trofei, templi adolatri,
Aquedutti, colonne, stagni e barchi,
Rostri, terme, colossi, amfiteatri,
Consuli regii, Augusti di onor carchi
Dittator, decemvir, tribuni e patri.
Tutto è converso in cenere e in ruine;
Ma sol le pene mie son senza fine.

[2 Di Giovanni Muzzarelli]

Del Muzzarelli

Alta, frondosa riva, oscura foce,
Care querce, riposto mio soggiorno
Dove io m'ascondo a lamentarmi il giorno,
Udiste mai sì dolorosa voce?

Alpestre fiume, rapido, veloce,
Che vaneggiar mi vedi ognor qui intorno,
Ov'or stanco m'assido, or vado, or torno,
Udiste mai una passion sì atroce?

Pietre tra questi monti affisse e salde,
Che bagna il piagner mio, sentiste mai
Sospir sì ardenti, o lacrime sì calde?

Almo sol, quanto spandi in terra rai,
Ove men tocchi il mondo, ove più scalde,
Uom più miser di me veder non sai.

[3 Di Giovanni Muzzarelli]

Del Mozarello

Vorrei pur dirvi in qual stato, in qual forma
Mi trovi, donna, o lieto, od in martìri
Qualor negli occhi vostri avvien ch'io miri;
Ma in ciò non so trovar principio, o norma.

Che un certo non so che sì mi trasforma
En tal confusïon par che mi giri,
Che non so s'io sia morto, o s'io respiri,
E perdo di me stesso il segno e l'orma.

Questo so ben ch'io ardo e voi 'l vedete,
E tremo, e voi 'l vedete, e forsi a sdegno,
O peggio forsi a scherno ancor m'avete,

E forsi no; ma assai prezioso pegno
Mi par d'aver che so che voi sapete
Che tante aspre passion per voi sostegno.

XXIII

[Di Andrea Navagero]

Del Navagero

Come cerva percossa da saetta
Da lo nemico arcero,
Onde fugge et col ferro dentro al fianco
Et quanto più s'affretta e il corso stende
Lontan dal cacciatore
Più perde il sangue e cresce il suo dolore;
Così fugg'io l'orgoglio in te raccolto,
Ma non sì che 'l pungente mio pensiero
Non porti meco in mezzo il lato manco,
E tanto più d'umor agli occhi getta
La piaga interna e tanto il duol m'offende
Quanto m'allungo più dal tuo bel volto.

XXIV

[Di Carlo Montecuccoli]

In lode della signora Lodovica Chellini da Bologna non men bella che gratiosa nel ballare.

Ove il bel fianco, ove il pie' vago gira
Questa nova angioletta in varie forme
Stampa danzando sue vestigie, et orme
E in mille dolci scherzi si raggira.

Ella talor se n' ride e talor mira
Sé stessa in atto a sua beltà conforme;
Poi co' begli occhi quel vigor che dorme
Desta dal prato e in fior l'accoglie e spira.

Così natura et a stagion fa scorno
Che l'erba tocca dal soave raggio
Tragge repente qualità e costume.

April cedendo a quel bel viso adorno
Gode del ricco et onorato oltraggio
Et d'esser vinto da sì nobil lume.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Tasso madrigali 31-35

Post n°886 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri

alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

31

Se l'Alba in sue tranquille eterne rive 
Sen va cinta di stelle, 
Qui fra più Ninfe e Dive, 
E pur del Cielo anch'elle, 
Sen va nuov'Alba al suo bel Sole avanti. 
Ne' suoi begli occhi santi 
Un raggio eterno di virtù risplende, 
Che l'alme illustri all'alte imprese accende. 

32

Poca fiammella accesa 
Rimane allo spirar d'ogn' aura estinta, 
Ma non da picciol vento a morte è spinta 
Gran fiamma in alto ascesa: 
Donna Real, dal bel seren discesa. 
Mira, per ogni sdegno oppressa giace 
D'amor picciola face, 
Ma quando avvampa tutto un gentil core 
Un lieve sdegno non estingue Amore. 

33

Lucida face ardente 
Da lieve sospirar dell'aura mossa 
Sfavilla immantinente 
E lieta s'erge più da lei percossa: 
Sia la face d'amor vibrata e scossa 
Per suo maggior sostegno, 
Talor da piccioletto alato sdegno 
Più sempre ella risorge; 
Così per nuovo arder l'esca si porge. 

34

Da venticel soave 
Si nodrisce la fiamma e si rinfresca; 
Ma le sottraggo il nutrimento e l'esca 
Vento rabbioso e grave. 
Ahi! l'amorosa fiamma altro non pave 
Che se del fiero sdegno impeto atroce 
Le s'avventa feroce, 
Spenta lei, vint'Amor, perde suo regno, 
Sen fa tiranno impetuoso sdegno. 

35

Quando i più fidi Amor più crudo avvampa, 
Talor dal cieco Averno 
Sdegno di gelosia seguace eterno 
A noi sen vola e contro Amor s' accampa 
Donna del puro arder serena lampa; 
Hor quinci hor quindi percotendo l'ali 
Mentre l' un l' altro assale 
Sdegno guerrier più forte
In un momento Amor conduce a morte.



Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti.

XXXI. 

6. Degl'occhi santi. Nel Sonetto del Tasso Vaga isoletta che si bèlla sede, ec. Anche il Madrigale Hor se d'invidia tinti, ec. si cita pe^begV occhi santi. A rime posposte ci ricorda la chiusa della Stanza 125 del Canto XX della Gerusalemme:
Sani piaga di strai piaga d'amore
E sia la morte medicina al cuore. 

XXXIII. 

3. Sfavilla immantinente^ ec. Che in alto tempre sfavillando ascende, ec. Nel Madrigale XIII Nobil fiamma celeste, ec. Benché sfavilli e splenda, ec. Vedi Madrigale XXI. 

XXXV. 

9. Forte con morte nella Gerusalemme, St. 3, Canto XIX: 
Che non potrai dalle mie mani, o forte.
Delle donne ucisor, fuggir la morte.

 
 
 

Il Dittamondo (2-28)

Post n°885 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXVIII

Quando intesi de l’ordine che tenne 

nel ritornar Farinata in Fiorenza, 
del buon Camillo antico mi sovenne: 
ché laddove io l’avea per sentenza 
sbandito, con vittoria a me discese, 5 
di pace pieno e d’ogni provedenza. 
E quando udio che ’l partito si prese 
per ciascun di gittarla tutta al piano, 
e come a volto aperto la difese, 
qui mi sovenne del mio Africano, 10 
che nel consiglio mi difese el solo 
col bel parlare e con la spada in mano. 
Ma ben mi maraviglio e parmi un duolo 
che i cittadini stati son sí crudi 
in quarto grado a’ figliuoi del figliuolo. 15 
Nel tempo quasi, che or qui conchiudi, 
fu la battaglia, ove quel di Buemme 
a gli Ungar tolse archi, saette e scudi. 
E non fan sí gran numero trenta emme, 
quanti di quei vi funno morti e presi, 20 
vincendo terra piú che sei Maremme. 
In questo tempo ragionare intesi 
d’un miracolo bel che fu in Parigi, 
lo qual vo’ noti sí com’io l’appresi. 
Dico, dov’era presso il re Luigi, 25 
ch’un prete levando il corpo di Cristo 
tra gente assai di giovani e di grigi, 
che tra le mani un fanciul li fu visto, 
lo quale era sí bel dal capo al piede, 
che detto avresti: – sempre quivi mi sto –. 30 
Ma nota ben d’un re verace fede: 
che i suoi ’l chiamâr che l’andasse a vedere; 
rispuose: – Quel ci vada che nol crede –. 
Piú per ingegno, che per gran podere, 
prese in quel tempo l’Aretin Cortona 35 
e quella sfece e fenne al suo piacere. 
Per acquistar la Spagna e l’Aragona, 
quel di Morocco e di Bellamarina, 
di Tunisi, di Bugea e di Ippona, 
con altra gente tutta Saracina 40 
e con tanti navili il mar passaro, 
ch’a vederli parea una ruina. 
La croce si bandio a quel riparo; 
poi, come piacque a Dio, funno sconfitti 
per modo tal, che pochi ne scamparo. 45 
Qui bassa gli occhi e tienli vèr me dritti,
che non turbin l’udir, ché l’uom che guata 
in qua o lá mal nota gli altrui ditti. 
Io dico che nel regno di Granata 
s’adora Macometto e ch’ello è tutto 50 
di qua fra noi e l’Africa guata. 
Qui fa suo guarnimento e suo ridutto 
il Saracino e ’l paese poi corre 
e ’n questo modo l’ha piú volte strutto. 
Per cacciar questi e quel reame tôrre, 55 
Chimento e Carlo non darebbe un grosso, 
se n’avesse ciascun piena una torre. 
Dei re e de’ signor che dir ti posso 
e de’ cherci, se non ch’egli hanno il volto 
dove gli antichi buon teneano il dosso? 60 
Propio nel tempo, ch’io ho qui raccolto, 
fu per Fiorenza veduto un leone 
bramo e fiero andar correndo sciolto 
e prender questo un picciolin garzone 
e tenerlo abbracciato tra le branche, 65 
com fa col cucciolin ne la pregione; 
e scapigliata e battendosi l’anche 
giunger la madre trista e vedovella 
e senza danno trargliel de le zanche. 
In questo tempo apparve la stella 70 
che l’uom chiama cometa, con tal coda 
di fuoco, che parea una facella. 
Tra Asolo e Bascian, da quella proda 
un monte sta vedovo e orfanino, 
che del peccato altrui poco si loda. 75 
Di lassú scese in quel tempo Azzolino, 
che fe’ de’ Padovan tal sacrifizio, 
qual sa in Campagnola ogni fantino. 
Partirsi ancor, nel tempo ch’io t’indizio, 
il re di Francia e quello d’Inghilterra, 80 
di Navarra e di Puglia da l’ospizio. 
E vinto avrebbe Tunisi e la terra 
d’Africa il grande stuol, se non che ’l morbo 
fece lor peggio troppo che la guerra. 
E, ben che ’l male fosse grave e torbo, 
pur si vinceva, se Carlo non fosse, 
ch’ogni compagno suo quivi fece orbo. 
Io non so bene onde Romeo si mosse, 
quando in Provenza venne al buon Ramondo 
col mulo, col bordone e scarpe grosse. 90 
Ma questo ti so dir: de’ ben del mondo 
tanto avanzar gli fece per suo senno, 
che fu per lui un Gioseppo secondo. 
Al fin gl’invidiosi tanto fenno, 
che Ramondo li domandò ragione; 95 
e qual di Scipio, tal di lui t’impenno: 
che sol sen gio col mulo e col bordone.
 
 
 

La Bella Mano (171-180)

Post n°884 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLXXI

Tu non t'accorgi, Amore, et non comprende
Che costei tolte ha l'ale, et ora il velo
S'ha posto agli occhi, et ruberatti il telo
Et la faretra, se non ti difende.

Pensa, quando ora ogni uom più freddo accende
Col suo bel guardo in disioso zelo,
Ch'ella ti priverà del terzo cielo,
Se in l'arme tue sì bianca man si stende.

Tu mi perdonerai, ch'io sarò il primo
Che la tua deità orba rinneghi
Vago di seguir lei ove mi mena:

Perch'io son suo, né mai, se bene stimo
Per lagrime o sospir, né per miei prieghi
Ebbi un piacer da te, ma sdegno et pena.

CLXXII

Io vi priego, occhi bei, quand'io ve miro,
Da poi che vivo sol del vostro lume,
Che vi piaccia d'aver sempre in costume
Di guardarmi con più cortese giro.

Et quando avvien che in Voi, lasso, io respiro,
Acciò che il cor da sé non si consume,
Non vogliate de' miei far nascer fiume,
Ché basta bene assai ch'io ne sospiro.

Ch'io pur son vostro: et se lo mio destino
M'induce a questo, per dio, non v'incresca
Di quel, che non vi costa, contentarmi.

Ché in voi trova mio foco sua dolc'esca,
In voi s'accende, in voi veggio il cammino
Di gire al cielo, et di beato farmi.

CLXXIII

Dolce mia cara et delettevol terra,
Dov'è il viso di quella che mi uccide,
Da cui fortuna, e amor non mi divide,
Per aver maggior fama di mia guerra,

Deh fa, come il mio cor lei 'n petto serra,
Che or seco forse del mio pianger ride,
Ch'almeno il suo fino al tornar mi fide
Per speranza dell'alma che m'atterra!

Se no, convien che a poco mi trasforme
Qual per stizzo si fa: tal fe' Meleagro:
Si ferme in me le stelle et il ciel s'adira!

Et da paura vinto et pensier agro
Con duolo insieme io son già sì deforme,
Che qual mi guarda di pietà sospira.

CLXXIV

Altri possede et io piango il mio bene,
Che in acquistarlo tanto tempo persi,
Cercando valli et monti aspri et diversi
Con gli occhi molli et voci de duol piene.

Un piacer sol me resta de mie pene
Et di tanti martir per lei soffersi
Ch'io canto et piango il so bel nome in versi,
Et questo solo ancor qui me mantene.

Con disio vivo et son fuor di speranza,
Et morir non vorrei, né cambiar stato,
Né guerra mai non ho, né sento posa.

Così me sto fra misero et beato,
Et nulla altro che pianto mai m'avanza,
Ch'amar con troppa fede è mortal cosa.

CLXXV

O crini, o capei d'oro, o crespe chiome,
O fronte ornato, o vaghi occhi sereni,
O man bella et pulita che ancor tieni
Il mio cor lasso da soverchie some:

O sonor, dolce, o grazioso nome,
Che a mal mio grado in vita mi ritieni,
Che solo spesso a consolar mi vieni
Com'io ti chiamo proponendo gli ome;

Non so s'io vi vedrò più in terra mai,
Né s'io vi chiamerò più in questo canto,
Che già mi foste un sol quando afflitto era;

Ch'io conosco, convien con grave pianto
Lassi le stanche spoglie, et compia omai
La mia trista giornata innanzi sera.

CLXXVI

[Q]uella donna crudel che tanto amavi,
Per cui soffristi già sì acerbi affanni,
Partita s'è, né ti ristora i danni
Dov'è il piacer, dove il ben ch'aspettavi,
E il guiderdon dov'è or di tant'anni
Che l'hai servita, et chi fia che ti sganni
Delle promesse sue false et soavi?
Sai che dei fare omai, poiché ti vede
Del suo bel volto et di speranza privo?
Non poner mai più in donna amor né fede;
Et al superbo faretrato Divo,
Che di tua morte gloriar si crede,
Mostrati sciolto da' suoi lacci vivo.

CLXXVII

Se dal dì primo ch'io mi innamorai
Creduto avessi quel ch'or provo et sento,
Forse che, dove ardendo io mi lamento,
Ridrei d'altrui, ma non con simil lai.

Né forse ancor saria donna che mai
Gloriar si potesse, con istento
Di vita avermi et della luce spento,
Amando io lei più che me stesso assai.

Deh quanto fora meglio et di men danno,
Di minor mia vergogna, et d'altro grido,
Che vedermi or sì privo di conforto!

Benché né cor pietosi assai mi fido,
Che gettino un sospir poiché sapranno,
Che per amar con fede una m'ha morto.

CLXXVIII

S'io mi credessi, Amor, per supplicarte
Colle man giunte e il capo riverente,
Ch'este pene da me fossero spente,
Mille il dì ne farei per satisfarte.

Ma perch'io so ch'ogni tuo ingegno et arte
È di beffar chi t'è più obbediente,
Io dispongo soffrir pria queste stente,
Che priego alcun porgerti a bocca o in carte.

Et fa se sai, protervo, ignudo et rio,
Ch'io non temo tue forze, né tue arme,
Né ingegni, né minacce, né tuoi scorni.

Et che peggio oramai potrai tu farme,
Se non darme la morte che io disio,
Da poi ch'io te conobbi et notte et giorni?

CLXXIX

Hor ch'io son quivi, Amor, Fortuna, e i Cieli
De' primi strazi ancor non ben contenti,
Ma per più rinverdire i miei tormenti,
Voglion che quel bel viso mi si celi,

Per cui costumo spesso cangiar peli;
Lontan da sé mi vide, et quasi spenti
Gli occhi miei stanchi a lacrimare intenti
Per lassar, credo, i lor corporei veli.

O mia disgrazia, o mio crudel destino,
O stelle congiurate a stratiarme,
Non debbo dunque aver mai ora allegra?

S'esser dee questo, vieni or con tue arme,
Atropo, et tronca il mio mal torto lino,
Di brun vestita con tua benda negra.

CLXXX

Sento mia vita ad poco venir meno,
Et pascermi di spem, lacrime et duolo,
Né mi rincresce in miseria esser solo,
Che di tai malcontenti il mondo è pieno.

Duolmi che Amor di suo dolce veneno
Lassa ir netta costei che adoro et colo;
Ché titol di beltà nel nostro polo
Altier porta il suo chiar viso sereno.

Ahi vile Arciero, effeminato et pigro,
Vincesti Atlanta, et la gelata Iuno,
Et temi or questa che sprezza tua etade?

Prendi il tuo stral dorato, et lassa il bruno,
Et pungendo il suo core, anzi di un tigro,
Se non mia, falla amica di pietade.
 
 
 

Il Dittamondo (2-27)

Post n°883 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXVII

Trenta volte quaranta e venti piue 
d’anni correa, allora che ’l secondo 
buon Federigo incoronato fue. 
Costui si vide grazioso al mondo, 
largo, con bei costumi e d’alto core 5 
e ne la scienza sottile e profondo. 
E piú mostrato avrebbe il suo valore, 
non fosse stato Onorio e Gregoro, 
che mal seguiro in lui lo primo amore. 
Quel ch’io dico ora nota, e non sie soro, 10 
per dare asempro a molte lingue adre, 
che dàn crudei biastemie a’ figliuol loro. 
Nicola, biastemiato da la madre 
che non potesse mai del mare uscire,
convenne abbandonar parenti e padre; 15 
e poi, volendo il precetto ubbidire 
di Federigo, nel profondo mare 
senza tornar mai su si mise a ire. 
In questo tempo, che m’odi contare, 
Michele Scotto fu, che, per sua arte, 20 
sapeva Simon mago contraffare. 
E se tu leggerai ne le sue carte 
le profezie ch’el fece, troverai 
vere venire dove sono sparte. 
In questo tempo udii novelle assai 25 
de’ Tartari, di ch’io presi gran dubio, 
e gli Ungar ne sentîr tormento e guai. 
E certa sono, e qui nol pongo in dubio, 
che ’l danno m’era piú che la paura, 
non fosse stato il fiume del Danubio. 30 
Ben vo’ che ponghi a quel ch’or dico cura: 
solo per un cagnuol, ch’è una beffe, 
si mosse sdegno e guerra ch’ancor dura 
(se ’l sai non so) dica dal .P. all’Effe, 
tra i quai di Falterona un serpe corre, 35 
che par che ’l corpo di ciascuno acceffe. 
Oh quanto è saggio l’uomo, che sa porre 
freno a la lingua e a la mano ancora 
e che, per fallo altrui, sé non trascorre! 
In questo tempo appunto, ch’io dico ora, 40 
funno tremoti con sí gran fracasso, 
ch’assai Borgogna pianse e Brescia allora. 
E fu trovato nel centro d’un sasso, 
ch’era senza rottura intero tutto, 
un libro grande, d’assai bel compasso, 45 
dentro dal quale era, in breve costrutto, 
da Adamo fino al tempo d’Anticristo 
ciascuna profezia che porta frutto. 
E ne la terza parte ancor fu visto 
ebraico, greco e latino scritto: 50 
– De la vergin Maria nascerá Cristo.
E io, che sono in questo sasso fitto, 
sarò trovato al tempo che Ferrante 
re di Castella sie nomato e ditto –. 
Qui torno al mio signore, ch’un diamante 
d’animo fu, ch’oltra mar fe’ il passaggio, 
vincendo molto de le terre sante. 
E piú avrebbe fatto nel viaggio, 
se ribellato non li fosse stato 
il regno tutto, ch’era suo retaggio. 60 
Volsesi a dietro e, poi che tu tornato, 
tal lavor fe’ de’ molti che ’l tradiro, 
che non parve giustizia, ma peccato. 
E cosí venne di leone un tiro: 
morse la Vipera e la Capra e poi 65 
fece a Flaminea portar gran martiro. 
Fieri e forti funno i fatti suoi 
e videsi montare in tanta gloria, 
che ciascuno il temé di qua fra noi. 
E se non fosse ch’el fu a Vittoria 70 
per lo suo falconare in fuga volto, 
ancor farei maggior la sua memoria. 
Ma prima che da me fosse disciolto 
per colei che disfá ciò che s’ingenera, 
veduto avea trent’anni il suo bel volto. 75 
E perché veggi e pensi quant’è tenera 
questa rota, che l’uom monta e discende, 
e che ogni suo ben tosto s’incenera, 
qui vo’ che ponghi il cuore e che m’intende: 
sei figliuoli ebbe e ciascun grande e re: 80 
li tre di sposa e gli altri d’altre bende. 
E tutta questa schiatta si disfé 
e venne men con ogni signoria 
forse in venti anni, come udrai per me. 
Arrigo e Enzo n’andâr per una via; 85 
Currado, dopo il padre, visse forse 
due anni in Puglia con gran maggioria; 
Giordano e Federigo ciascun corse 
nuovo cammino; poi a Manfredi Carlo 
lo regno tolse e la morte li porse. 90 
Io so bene che quel che qui ti parlo 
è tanto scuro e breve, che fia grave 
d’intendere a ciascun senza chiosarlo. 
Al fine Corradino di Soave 
si mosse e andò in Puglia e fu sconfitto; 95 
poi fu tradito, preso e messo in nave. 
Dinanzi un poco a questo ch’io t’ho ditto, 
Fiorenza prese Pistoia e Volterra 
e poi fece al Pisan danno e dispitto. 
E tanto andò cosí di guerra in guerra, 100 
che fu la gran battaglia a Monte Aperti, 
ch’arricchio Siena d’arnese e di ferra. 
A ciò fu Farinata de gli Uberti 
col gran valore e col sottile ingegno, 
Giordan, Gerardo e molti in arme sperti; 105 
a ciò fu il Bocca del mal voler pregno 
e Razzante bugiardo e lo Spedito 
prosuntuoso, ingrato e pien di sdegno,
e ’l Tegghiaio nel consiglio male udito.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XX)

Post n°882 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XX

[1 Di Giovanni Guidiccioni]

Quanto v'invidio schiera dolce, amica,
Nata (mi vaglia 'l ver) per esser nido
De' miei pensieri, in cui quant'io m'affido
Vede 'l mondo con voi senza ch'io 'l dica.

Che di lieti giardin, più che l'antica
Età non ha d'Adon, d'Alcino 'l grido
Cogliete frutti e fior mentre io m'assido
Fra la turba volgar ch'ho per nemica.

Dei giardin di quel Bembo alta speranza
D'Apollo e scorta alle onorate imprese
In el cui sen non fò cosa non santa

E che 'l gran Rosso mio vera sembianza
E pegno di virtù vi sia cortese
Di quanto è scarso a chi l'adora e canta.

[2 Di Giovanni Guidiccioni]

Rivola, i' sento ch'amorosa face
V'asciuga il sangue e vi fa in vista un'ombra
Mentre vil pianta vostri frutti adombra
Là 've adugge il mio seme et vano face.

Rendete al cor la desiata pace
Cui gelato timor nel foco ingombra
E dietro a l'orme di chi i vizi sgombra
Tornate dal camin torto e fallace.

Dico che voi mercè di quella chiara
Vostra gentile e valorosa duce
Sotto cui si trae vita onesta e cara

Schiviate amore e quanti ei cela inganni,
Ecco ch'io mostro a voi la vera luce
Che vagillando già cerco molt'anni.


Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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