Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)
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Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)
I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)
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Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)
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Bacco in Toscana (di Francesco Redi)
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La Bella Mano (di Giusto de' Conti)
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Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
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Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)
Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)
Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)
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Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)
Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)
La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)
Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)
Nove Poesie (di Trilussa)
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Poesie romanesche (di Antonio Camilli)
Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)
Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)
Quo Vadis (di Nino Ilari)
Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)
Messaggi del 22/12/2014
Post n°890 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamonado |
Post n°889 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CXCI Vogli de' tuoi suggetti una fiata |
Post n°888 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CLXXXI Dunque è meglio ch'io taccia, et lena prenda Fuggendo Amore a lei, che ha cor di smalto, Et chi la segue d'onor spoglia et priva; Et ponga il mio dolce desio più alto, Ché la mia voce al nono ciel s'intenda, E infin diventi la mia alma diva. CLXXXII Un pensier mosso da ragion talvolte, Che s'accorge del tempo come fugge, E' mondan ben fallaci morte strugge Più che il sol neve, et l'alme in quelli avolte, Mi punge et dice: Ahi lasso, a che ti volte A seguitar costei che ti distrugge ? Torna in tua libertà pria che s'adugge Di pene il core in parte ora distolte. Dall'altro lato Amor contrasta et vince, Promettendomi ancor mille piaceri, Et farmi poi di sua più eccelsa gregge. Io che 'l veggio esser magnanimo prince, Rimango servo a lui più volentieri: Ché meglio è giusto re, che giusta legge. CLXXXIII Occhi, non occhi, anzi due gran condutti, Che discendete al cor per mezo il petto, Deh non piangete più, ch'io fo concetto Por fine al nostro duol senz'altri lutti! Or non vedete a che noi siam ridutti, Che Amor, Madonna, e il mondo ci ha in dispetto Non per nostro fallir, né per difetto; Ma rei fati crudel n'han sì dedutti. Voi ne piangete, e 'l cor nostro sospira, Et ciascun membro se ne strugge et sface, Né ci giova però la pena vostra. Sapete che farem? Daremci pace; Che fortuna sua rota sempre gira, Et forse ancor verrà la volta nostra. CLXXXIV Questa donna gentile al mondo un sole, Che la parte miglior di me possede, Et di bellezze ogni altra donna eccede, (Perdonimi qual più bella esser suole). Qualora avvien, siccome empio amor vuole, Che io più mi doglia, meno ella mi crede; Sol per provarmi, spero, che mercede Mostra negli occhi, et più nelle parole. Onde il cor si dispone, et io consento, Pur che le piaccia che per Lei sospire, Paziente soffrire ogni tormento, Et pria tacendo ed amando morire, Poiché sol di piacerle io mi contento, Che per mio lamentare ella si adire. CLXXXV CLXXXVI CLXXXVII CLXXXIX CXC Or ben m' accorgo che son vane et casse Le mie credenze: et veggio esser tradito Con promesse et lusinghe, a tal partito, Che disperato amor convien ch' io lasse, Vorrei dolermi, et non so bene a cui: Anzi il so bene, et se talor mi doglio Ella sen fugge, et non m' udir s' infinge. Questo è il buon merto, e 'l frutto ch' io ricoglio Di mie fatiche, et d' amar tanto altrui. O morte, vieni, et del mondo mi spinge. |
Post n°887 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Nudo e rigido il core In voi dispose, in voi dipinse amore, Perché col paradiso Di gioia che nel volto Havete fuori dolcemente avvolto L'alma allettaste, e poi Col gran rigor' interno Nei crudi scempi suoi Gravasse lei d'un doloroso inferno. Queste d'Amor son' opre Che in voi l'inferno e 'l paradiso scopre. [2 Di Domenico Veniero] Canzone in lingua venetiana del Venieri dove loda la bella mano della sua donna. O man di puro latte, Bella quanto crudel, Che più che la mi batte Più devento un agnel, O benedetta man, pompa d'amor Man che zioga alla balla col mio cuor. Bianca falda di neve E pur la m'ha scotà Tal ch'ho il viver più breve Che un albero sbusà, O miracul d'amor, che è sì possente Che tra' da viva neve il fuogo ardente. Man, ch'ha cinque rubini Ove Amor suol cavar I stralli cusì fini Che non se puol parar, Che no gh' è cuor sì duro che contrasta Che non para l'azzal come de pasta. Man, che me dà più strette Quanto l'onoro più; Man, ch'ha quattro fossette Ov'ho el cuor sopelì, Che par ch'Amor sentando l'abbia fatte Con averle improntà su le culatte. Man, che me squarza el petto E che m'ensegna el sen, Ch'e m'ha legà sì stretto, Che mi tien tanto in fren; Man che rese il mio fatto e la mia sorte Che m'ha depento in vista Amore e morte. Man, che me traze a terra Che me tien spento alfin, Man, che fa tanta guerra A un misero meschin; Man che inchiava e deschiava quei pensieri Che me lieva dal cuor tutti i piaseri. Va da si bella man, Canzon mia, pechinina, e daghe un baso, Se ben si havessi un ganasson sul naso. XXII [1 Di Giovanni Muzzarelli] Del Muzzarello Fatto son per affanni ombra sì oscura Che mirandomi al specchio di me tremo, Che per uscir di questa vita dura Vado cercando morte in ogni estremo; E se la trovo, ha tal di me paura Che più mi fugge quanto men la temo, E credo sol che si creda essa morte Ch'al mondo io nato sia per nova morte. Or, se mi fugge morte, come morte Aver potrà questa mia mortal vita? E s'io son fatto un'altra nova morte, Non posso dar la morte a la mia vita. Da me morir non posso, e men per morte; Dunque da morte nasce la mia vita. Così non spero mai di vita uscire; Ma peggio assai per non poter morire. Ogni animal che vive di rapina Per suo cibo miglior s'elegge il core, E similmente la virtù divina Dal peccator non vuole altro che 'l core. El fidel servo al suo signor se inchina E in mille parti gli offerisse il core, E tu lo sprezzi, onde ch'al parer mio Non ti veggio animal, donna, né Dio. Pers'è via sacra, lata, i fori e gli archi, Simulacri, trofei, templi adolatri, Aquedutti, colonne, stagni e barchi, Rostri, terme, colossi, amfiteatri, Consuli regii, Augusti di onor carchi Dittator, decemvir, tribuni e patri. Tutto è converso in cenere e in ruine; Ma sol le pene mie son senza fine. [2 Di Giovanni Muzzarelli] Del Muzzarelli Alta, frondosa riva, oscura foce, Care querce, riposto mio soggiorno Dove io m'ascondo a lamentarmi il giorno, Udiste mai sì dolorosa voce? Alpestre fiume, rapido, veloce, Che vaneggiar mi vedi ognor qui intorno, Ov'or stanco m'assido, or vado, or torno, Udiste mai una passion sì atroce? Pietre tra questi monti affisse e salde, Che bagna il piagner mio, sentiste mai Sospir sì ardenti, o lacrime sì calde? Almo sol, quanto spandi in terra rai, Ove men tocchi il mondo, ove più scalde, Uom più miser di me veder non sai. [3 Di Giovanni Muzzarelli] Del Mozarello Vorrei pur dirvi in qual stato, in qual forma Mi trovi, donna, o lieto, od in martìri Qualor negli occhi vostri avvien ch'io miri; Ma in ciò non so trovar principio, o norma. Che un certo non so che sì mi trasforma En tal confusïon par che mi giri, Che non so s'io sia morto, o s'io respiri, E perdo di me stesso il segno e l'orma. Questo so ben ch'io ardo e voi 'l vedete, E tremo, e voi 'l vedete, e forsi a sdegno, O peggio forsi a scherno ancor m'avete, E forsi no; ma assai prezioso pegno Mi par d'aver che so che voi sapete Che tante aspre passion per voi sostegno. XXIII [Di Andrea Navagero] Del Navagero Come cerva percossa da saetta Da lo nemico arcero, Onde fugge et col ferro dentro al fianco Et quanto più s'affretta e il corso stende Lontan dal cacciatore Più perde il sangue e cresce il suo dolore; Così fugg'io l'orgoglio in te raccolto, Ma non sì che 'l pungente mio pensiero Non porti meco in mezzo il lato manco, E tanto più d'umor agli occhi getta La piaga interna e tanto il duol m'offende Quanto m'allungo più dal tuo bel volto. XXIV [Di Carlo Montecuccoli] In lode della signora Lodovica Chellini da Bologna non men bella che gratiosa nel ballare. Ove il bel fianco, ove il pie' vago gira Questa nova angioletta in varie forme Stampa danzando sue vestigie, et orme E in mille dolci scherzi si raggira. Ella talor se n' ride e talor mira Sé stessa in atto a sua beltà conforme; Poi co' begli occhi quel vigor che dorme Desta dal prato e in fior l'accoglie e spira. Così natura et a stagion fa scorno Che l'erba tocca dal soave raggio Tragge repente qualità e costume. April cedendo a quel bel viso adorno Gode del ricco et onorato oltraggio Et d'esser vinto da sì nobil lume. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°886 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.31 Se l'Alba in sue tranquille eterne rive Sen va cinta di stelle, Qui fra più Ninfe e Dive, E pur del Cielo anch'elle, Sen va nuov'Alba al suo bel Sole avanti. Ne' suoi begli occhi santi Un raggio eterno di virtù risplende, Che l'alme illustri all'alte imprese accende. 32 Poca fiammella accesa Rimane allo spirar d'ogn' aura estinta, Ma non da picciol vento a morte è spinta Gran fiamma in alto ascesa: Donna Real, dal bel seren discesa. Mira, per ogni sdegno oppressa giace D'amor picciola face, Ma quando avvampa tutto un gentil core Un lieve sdegno non estingue Amore. 33 Lucida face ardente Da lieve sospirar dell'aura mossa Sfavilla immantinente E lieta s'erge più da lei percossa: Sia la face d'amor vibrata e scossa Per suo maggior sostegno, Talor da piccioletto alato sdegno Più sempre ella risorge; Così per nuovo arder l'esca si porge. 34 Da venticel soave Si nodrisce la fiamma e si rinfresca; Ma le sottraggo il nutrimento e l'esca Vento rabbioso e grave. Ahi! l'amorosa fiamma altro non pave Che se del fiero sdegno impeto atroce Le s'avventa feroce, Spenta lei, vint'Amor, perde suo regno, Sen fa tiranno impetuoso sdegno. 35 Quando i più fidi Amor più crudo avvampa, Talor dal cieco Averno Sdegno di gelosia seguace eterno A noi sen vola e contro Amor s' accampa Donna del puro arder serena lampa; Hor quinci hor quindi percotendo l'ali Mentre l' un l' altro assale Sdegno guerrier più forte In un momento Amor conduce a morte.
XXXI. 6. Degl'occhi santi. Nel Sonetto del Tasso Vaga isoletta che si bèlla sede, ec. Anche il Madrigale Hor se d'invidia tinti, ec. si cita pe^begV occhi santi. A rime posposte ci ricorda la chiusa della Stanza 125 del Canto XX della Gerusalemme: Sani piaga di strai piaga d'amore E sia la morte medicina al cuore. XXXIII. 3. Sfavilla immantinente^ ec. Che in alto tempre sfavillando ascende, ec. Nel Madrigale XIII Nobil fiamma celeste, ec. Benché sfavilli e splenda, ec. Vedi Madrigale XXI. XXXV. 9. Forte con morte nella Gerusalemme, St. 3, Canto XIX: Che non potrai dalle mie mani, o forte. Delle donne ucisor, fuggir la morte. |
Post n°885 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo nel ritornar Farinata in Fiorenza, del buon Camillo antico mi sovenne: ché laddove io l’avea per sentenza sbandito, con vittoria a me discese, 5 di pace pieno e d’ogni provedenza. E quando udio che ’l partito si prese per ciascun di gittarla tutta al piano, e come a volto aperto la difese, qui mi sovenne del mio Africano, 10 che nel consiglio mi difese el solo col bel parlare e con la spada in mano. Ma ben mi maraviglio e parmi un duolo che i cittadini stati son sí crudi in quarto grado a’ figliuoi del figliuolo. 15 Nel tempo quasi, che or qui conchiudi, fu la battaglia, ove quel di Buemme a gli Ungar tolse archi, saette e scudi. E non fan sí gran numero trenta emme, quanti di quei vi funno morti e presi, 20 vincendo terra piú che sei Maremme. In questo tempo ragionare intesi d’un miracolo bel che fu in Parigi, lo qual vo’ noti sí com’io l’appresi. Dico, dov’era presso il re Luigi, 25 ch’un prete levando il corpo di Cristo tra gente assai di giovani e di grigi, che tra le mani un fanciul li fu visto, lo quale era sí bel dal capo al piede, che detto avresti: – sempre quivi mi sto –. 30 Ma nota ben d’un re verace fede: che i suoi ’l chiamâr che l’andasse a vedere; rispuose: – Quel ci vada che nol crede –. Piú per ingegno, che per gran podere, prese in quel tempo l’Aretin Cortona 35 e quella sfece e fenne al suo piacere. Per acquistar la Spagna e l’Aragona, quel di Morocco e di Bellamarina, di Tunisi, di Bugea e di Ippona, con altra gente tutta Saracina 40 e con tanti navili il mar passaro, ch’a vederli parea una ruina. La croce si bandio a quel riparo; poi, come piacque a Dio, funno sconfitti per modo tal, che pochi ne scamparo. 45 Qui bassa gli occhi e tienli vèr me dritti, che non turbin l’udir, ché l’uom che guata in qua o lá mal nota gli altrui ditti. Io dico che nel regno di Granata s’adora Macometto e ch’ello è tutto 50 di qua fra noi e l’Africa guata. Qui fa suo guarnimento e suo ridutto il Saracino e ’l paese poi corre e ’n questo modo l’ha piú volte strutto. Per cacciar questi e quel reame tôrre, 55 Chimento e Carlo non darebbe un grosso, se n’avesse ciascun piena una torre. Dei re e de’ signor che dir ti posso e de’ cherci, se non ch’egli hanno il volto dove gli antichi buon teneano il dosso? 60 Propio nel tempo, ch’io ho qui raccolto, fu per Fiorenza veduto un leone bramo e fiero andar correndo sciolto e prender questo un picciolin garzone e tenerlo abbracciato tra le branche, 65 com fa col cucciolin ne la pregione; e scapigliata e battendosi l’anche giunger la madre trista e vedovella e senza danno trargliel de le zanche. In questo tempo apparve la stella 70 che l’uom chiama cometa, con tal coda di fuoco, che parea una facella. Tra Asolo e Bascian, da quella proda un monte sta vedovo e orfanino, che del peccato altrui poco si loda. 75 Di lassú scese in quel tempo Azzolino, che fe’ de’ Padovan tal sacrifizio, qual sa in Campagnola ogni fantino. Partirsi ancor, nel tempo ch’io t’indizio, il re di Francia e quello d’Inghilterra, 80 di Navarra e di Puglia da l’ospizio. E vinto avrebbe Tunisi e la terra d’Africa il grande stuol, se non che ’l morbo fece lor peggio troppo che la guerra. E, ben che ’l male fosse grave e torbo, pur si vinceva, se Carlo non fosse, ch’ogni compagno suo quivi fece orbo. Io non so bene onde Romeo si mosse, quando in Provenza venne al buon Ramondo col mulo, col bordone e scarpe grosse. 90 Ma questo ti so dir: de’ ben del mondo tanto avanzar gli fece per suo senno, che fu per lui un Gioseppo secondo. Al fin gl’invidiosi tanto fenno, che Ramondo li domandò ragione; 95 e qual di Scipio, tal di lui t’impenno: che sol sen gio col mulo e col bordone. |
Post n°884 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti Tu mi perdonerai, ch'io sarò il primo Che la tua deità orba rinneghi Vago di seguir lei ove mi mena: Perch'io son suo, né mai, se bene stimo Per lagrime o sospir, né per miei prieghi Ebbi un piacer da te, ma sdegno et pena. CLXXII Io vi priego, occhi bei, quand'io ve miro, Da poi che vivo sol del vostro lume, Che vi piaccia d'aver sempre in costume Di guardarmi con più cortese giro. Et quando avvien che in Voi, lasso, io respiro, Acciò che il cor da sé non si consume, Non vogliate de' miei far nascer fiume, Ché basta bene assai ch'io ne sospiro. Ch'io pur son vostro: et se lo mio destino M'induce a questo, per dio, non v'incresca Di quel, che non vi costa, contentarmi. Ché in voi trova mio foco sua dolc'esca, In voi s'accende, in voi veggio il cammino Di gire al cielo, et di beato farmi. CLXXIII Dolce mia cara et delettevol terra, Dov'è il viso di quella che mi uccide, Da cui fortuna, e amor non mi divide, Per aver maggior fama di mia guerra, Deh fa, come il mio cor lei 'n petto serra, Che or seco forse del mio pianger ride, Ch'almeno il suo fino al tornar mi fide Per speranza dell'alma che m'atterra! Se no, convien che a poco mi trasforme Qual per stizzo si fa: tal fe' Meleagro: Si ferme in me le stelle et il ciel s'adira! Et da paura vinto et pensier agro Con duolo insieme io son già sì deforme, Che qual mi guarda di pietà sospira. CLXXIV Altri possede et io piango il mio bene, Che in acquistarlo tanto tempo persi, Cercando valli et monti aspri et diversi Con gli occhi molli et voci de duol piene. Un piacer sol me resta de mie pene Et di tanti martir per lei soffersi Ch'io canto et piango il so bel nome in versi, Et questo solo ancor qui me mantene. Con disio vivo et son fuor di speranza, Et morir non vorrei, né cambiar stato, Né guerra mai non ho, né sento posa. Così me sto fra misero et beato, Et nulla altro che pianto mai m'avanza, Ch'amar con troppa fede è mortal cosa. CLXXV O crini, o capei d'oro, o crespe chiome, O fronte ornato, o vaghi occhi sereni, O man bella et pulita che ancor tieni Il mio cor lasso da soverchie some: O sonor, dolce, o grazioso nome, Che a mal mio grado in vita mi ritieni, Che solo spesso a consolar mi vieni Com'io ti chiamo proponendo gli ome; Non so s'io vi vedrò più in terra mai, Né s'io vi chiamerò più in questo canto, Che già mi foste un sol quando afflitto era; Ch'io conosco, convien con grave pianto Lassi le stanche spoglie, et compia omai La mia trista giornata innanzi sera. CLXXVI [Q]uella donna crudel che tanto amavi, Per cui soffristi già sì acerbi affanni, Partita s'è, né ti ristora i danni Dov'è il piacer, dove il ben ch'aspettavi, E il guiderdon dov'è or di tant'anni Che l'hai servita, et chi fia che ti sganni Delle promesse sue false et soavi? Sai che dei fare omai, poiché ti vede Del suo bel volto et di speranza privo? Non poner mai più in donna amor né fede; Et al superbo faretrato Divo, Che di tua morte gloriar si crede, Mostrati sciolto da' suoi lacci vivo. CLXXVII Se dal dì primo ch'io mi innamorai Creduto avessi quel ch'or provo et sento, Forse che, dove ardendo io mi lamento, Ridrei d'altrui, ma non con simil lai. Né forse ancor saria donna che mai Gloriar si potesse, con istento Di vita avermi et della luce spento, Amando io lei più che me stesso assai. Deh quanto fora meglio et di men danno, Di minor mia vergogna, et d'altro grido, Che vedermi or sì privo di conforto! Benché né cor pietosi assai mi fido, Che gettino un sospir poiché sapranno, Che per amar con fede una m'ha morto. CLXXVIII S'io mi credessi, Amor, per supplicarte Colle man giunte e il capo riverente, Ch'este pene da me fossero spente, Mille il dì ne farei per satisfarte. Ma perch'io so ch'ogni tuo ingegno et arte È di beffar chi t'è più obbediente, Io dispongo soffrir pria queste stente, Che priego alcun porgerti a bocca o in carte. Et fa se sai, protervo, ignudo et rio, Ch'io non temo tue forze, né tue arme, Né ingegni, né minacce, né tuoi scorni. Et che peggio oramai potrai tu farme, Se non darme la morte che io disio, Da poi ch'io te conobbi et notte et giorni? CLXXIX Hor ch'io son quivi, Amor, Fortuna, e i Cieli De' primi strazi ancor non ben contenti, Ma per più rinverdire i miei tormenti, Voglion che quel bel viso mi si celi, Per cui costumo spesso cangiar peli; Lontan da sé mi vide, et quasi spenti Gli occhi miei stanchi a lacrimare intenti Per lassar, credo, i lor corporei veli. O mia disgrazia, o mio crudel destino, O stelle congiurate a stratiarme, Non debbo dunque aver mai ora allegra? S'esser dee questo, vieni or con tue arme, Atropo, et tronca il mio mal torto lino, Di brun vestita con tua benda negra. CLXXX Sento mia vita ad poco venir meno, Et pascermi di spem, lacrime et duolo, Né mi rincresce in miseria esser solo, Che di tai malcontenti il mondo è pieno. Duolmi che Amor di suo dolce veneno Lassa ir netta costei che adoro et colo; Ché titol di beltà nel nostro polo Altier porta il suo chiar viso sereno. Ahi vile Arciero, effeminato et pigro, Vincesti Atlanta, et la gelata Iuno, Et temi or questa che sprezza tua etade? Prendi il tuo stral dorato, et lassa il bruno, Et pungendo il suo core, anzi di un tigro, Se non mia, falla amica di pietade. |
Post n°883 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti CAPITOLO XXVII Trenta volte quaranta e venti piue d’anni correa, allora che ’l secondo buon Federigo incoronato fue. Costui si vide grazioso al mondo, largo, con bei costumi e d’alto core 5 e ne la scienza sottile e profondo. E piú mostrato avrebbe il suo valore, non fosse stato Onorio e Gregoro, che mal seguiro in lui lo primo amore. Quel ch’io dico ora nota, e non sie soro, 10 per dare asempro a molte lingue adre, che dàn crudei biastemie a’ figliuol loro. Nicola, biastemiato da la madre che non potesse mai del mare uscire, convenne abbandonar parenti e padre; 15 e poi, volendo il precetto ubbidire di Federigo, nel profondo mare senza tornar mai su si mise a ire. In questo tempo, che m’odi contare, Michele Scotto fu, che, per sua arte, 20 sapeva Simon mago contraffare. E se tu leggerai ne le sue carte le profezie ch’el fece, troverai vere venire dove sono sparte. In questo tempo udii novelle assai 25 de’ Tartari, di ch’io presi gran dubio, e gli Ungar ne sentîr tormento e guai. E certa sono, e qui nol pongo in dubio, che ’l danno m’era piú che la paura, non fosse stato il fiume del Danubio. 30 Ben vo’ che ponghi a quel ch’or dico cura: solo per un cagnuol, ch’è una beffe, si mosse sdegno e guerra ch’ancor dura (se ’l sai non so) dica dal .P. all’Effe, tra i quai di Falterona un serpe corre, 35 che par che ’l corpo di ciascuno acceffe. Oh quanto è saggio l’uomo, che sa porre freno a la lingua e a la mano ancora e che, per fallo altrui, sé non trascorre! In questo tempo appunto, ch’io dico ora, 40 funno tremoti con sí gran fracasso, ch’assai Borgogna pianse e Brescia allora. E fu trovato nel centro d’un sasso, ch’era senza rottura intero tutto, un libro grande, d’assai bel compasso, 45 dentro dal quale era, in breve costrutto, da Adamo fino al tempo d’Anticristo ciascuna profezia che porta frutto. E ne la terza parte ancor fu visto ebraico, greco e latino scritto: 50 – De la vergin Maria nascerá Cristo. E io, che sono in questo sasso fitto, sarò trovato al tempo che Ferrante re di Castella sie nomato e ditto –. Qui torno al mio signore, ch’un diamante d’animo fu, ch’oltra mar fe’ il passaggio, vincendo molto de le terre sante. E piú avrebbe fatto nel viaggio, se ribellato non li fosse stato il regno tutto, ch’era suo retaggio. 60 Volsesi a dietro e, poi che tu tornato, tal lavor fe’ de’ molti che ’l tradiro, che non parve giustizia, ma peccato. E cosí venne di leone un tiro: morse la Vipera e la Capra e poi 65 fece a Flaminea portar gran martiro. Fieri e forti funno i fatti suoi e videsi montare in tanta gloria, che ciascuno il temé di qua fra noi. E se non fosse ch’el fu a Vittoria 70 per lo suo falconare in fuga volto, ancor farei maggior la sua memoria. Ma prima che da me fosse disciolto per colei che disfá ciò che s’ingenera, veduto avea trent’anni il suo bel volto. 75 E perché veggi e pensi quant’è tenera questa rota, che l’uom monta e discende, e che ogni suo ben tosto s’incenera, qui vo’ che ponghi il cuore e che m’intende: sei figliuoli ebbe e ciascun grande e re: 80 li tre di sposa e gli altri d’altre bende. E tutta questa schiatta si disfé e venne men con ogni signoria forse in venti anni, come udrai per me. Arrigo e Enzo n’andâr per una via; 85 Currado, dopo il padre, visse forse due anni in Puglia con gran maggioria; Giordano e Federigo ciascun corse nuovo cammino; poi a Manfredi Carlo lo regno tolse e la morte li porse. 90 Io so bene che quel che qui ti parlo è tanto scuro e breve, che fia grave d’intendere a ciascun senza chiosarlo. Al fine Corradino di Soave si mosse e andò in Puglia e fu sconfitto; 95 poi fu tradito, preso e messo in nave. Dinanzi un poco a questo ch’io t’ho ditto, Fiorenza prese Pistoia e Volterra e poi fece al Pisan danno e dispitto. E tanto andò cosí di guerra in guerra, 100 che fu la gran battaglia a Monte Aperti, ch’arricchio Siena d’arnese e di ferra. A ciò fu Farinata de gli Uberti col gran valore e col sottile ingegno, Giordan, Gerardo e molti in arme sperti; 105 a ciò fu il Bocca del mal voler pregno e Razzante bugiardo e lo Spedito prosuntuoso, ingrato e pien di sdegno, e ’l Tegghiaio nel consiglio male udito. |
Post n°882 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) XX [1 Di Giovanni Guidiccioni] Quanto v'invidio schiera dolce, amica, Nata (mi vaglia 'l ver) per esser nido De' miei pensieri, in cui quant'io m'affido Vede 'l mondo con voi senza ch'io 'l dica. Che di lieti giardin, più che l'antica Età non ha d'Adon, d'Alcino 'l grido Cogliete frutti e fior mentre io m'assido Fra la turba volgar ch'ho per nemica. Dei giardin di quel Bembo alta speranza D'Apollo e scorta alle onorate imprese In el cui sen non fò cosa non santa E che 'l gran Rosso mio vera sembianza E pegno di virtù vi sia cortese Di quanto è scarso a chi l'adora e canta. [2 Di Giovanni Guidiccioni] Rivola, i' sento ch'amorosa face V'asciuga il sangue e vi fa in vista un'ombra Mentre vil pianta vostri frutti adombra Là 've adugge il mio seme et vano face. Rendete al cor la desiata pace Cui gelato timor nel foco ingombra E dietro a l'orme di chi i vizi sgombra Tornate dal camin torto e fallace. Dico che voi mercè di quella chiara Vostra gentile e valorosa duce Sotto cui si trae vita onesta e cara Schiviate amore e quanti ei cela inganni, Ecco ch'io mostro a voi la vera luce Che vagillando già cerco molt'anni. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
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il 25/12/2023 alle 09:06
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il 20/06/2023 alle 10:50
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il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
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il 15/04/2023 alle 00:02