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Messaggi del 23/12/2014

I Primi bolognesi (1)

Post n°894 pubblicato il 23 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Quel miracolo d'uomo che fu Dante Alighieri, nel Libro del Volgare Eloquio e nella Divina Commedia fece molta lode di alcuni poeti bolognesi che scrissero nobilmente in quella lingua italiana, la quale era parlata dai dotti senza che avesse però una letteratura. Il Perticari ne fa pure le lodi nel suo Libro dei Trecentisti e nell'altro dell'amor patrio di Dante; ma nè Dante nè il Perticari porsero intere le notizie dei nove bolognesi che furono in voce di poeti nel primissimo secolo della nuova lingua d'Italia. Il perchè io mi credo di non fare inutile e dispregiata fatica raccogliendone qui gli appunti storici ed alcun saggio poetico, parendomi che non si possa tessere una perfetta narrazione de' primordi della lingua nostra se non vi ha chi raccolga le notizie speciali di coloro che la coltivarono con frutto nei varii luoghi della Penisola e della Sicilia; come non si avrà un' intera storia civile dell' Italia ne' bassi tempi, senza rovistarla negli archivi delle città, e trarla fuori dalle ordinanze e dalle provisioni de'Municipi. Per ciò adunque che riguarda i nove poeti di Bologna, che dettarono versi italiani negli esordi della lingua nostra, ho qui raccolto con pazientissima diligenza quanto ne concerne la vita e gli scritti, affinchè non durino questa fatica coloro che avessero vaghezza di dettare una storia ben compiuta e bene ordinata dell'italiana letteratura.

E' detto comunemente che i Bolognesi, i quali scrissero da principio il bel volgare, adoperarono una migliore favella di quella usata dai Siciliani e dai Romagnoli, che li precedettero. Vuolsi però primamente avvisare che questa sentenza non è di Dante, siccome alcuni vanno predicando, ma ch'egli narra d'averla udita da altri: e solamente aggiunge che quella forse non era mala opinione. Ma poi da quella dubbiezza a un tratto si discioglie, e conchiude che il parlar comune de' Bolognesi non era illustre, e che i grandi dottori e gli uomini di piena intelligenza nelle cose volgari usavano parole al tutto diverse da quelle del minuto popolo bolognese. Da queste frasi è manifesto che il linguaggio de' Bolognesi nei giorni di Dante era in sì grande pregio non per le mozze parole delle fantesche e de'servi, ma per quelle che s'adoperavano in quel concilio nobilissimo d'Italiani maestri, che detto era Università. A questa convenivano ben diecimila discepoli, che da que' sapienti apprendevano non pur le scienze ma le più elette e sincere voci, e sparsi quindi per la città fra i cavalieri e le gentildonne, vi diffondevano un bel costume di polita favella; onde per opera di costoro nel principio del trecento Bologna fra le città d'Italia teneva quel luogo, che nel dugento occupato aveano Palermo e Napoli per le corti leggiadre di Manfredi e di Federigo. Ed ecco manifesta la verità di quel dettato di Dante, col quale asserisce che il parlar gentile sempre siede colà dove pongono loro stanza gli spiriti più gentili. E senza dubbio ve n'aveano di molti in Bologna, dove allora teneva seggio il vero fiore d'ogni dottrina. Né la lingua poteva in migliore luogo gittare ogni abito selvaggio; o, come disse l'Ariosto, traggersi fuor del volgare uso tetro: imperciocchè tanti maestri e tanti discepoli convenendo in un solo luogo da tutte le parti d'Italia, tutti i nostri dialetti mescolavansi in un medesimo campo; e que' molti sapienti potevano più d'ogni altro sceverare il buono dal tristo, e dal buono raccogliere l'ottimo: i giovani parlare non secondo l'andazzo del volgo ma secondo il consiglio e l'esempio dei filosofi e de' prudenti: la materna lingua farsi più bella e a un tempo medesimo più comune; e venirne lode a Bologna, non già come a patria dei soli Bolognesi, ma come a sede d'ogni studio, anzi a nobilissimo domicilio dell'italiana sapienza.

Considerando questi fatti, sarà manifesta la ragione per la quale Lorenzo de' Medici, se non meglio Angelo Poliziano, all'uso de' migliori filosofi, seguendo il vero più che per affetto, spogliò la sua patria d'una grande pompa, e ne fece lieta Bologna, dicendo che il bolognese Guido Guinicelli certamente fu il primo da cui la bella forma del nostro idioma fu dolcemente colorita; la quale appena da quel rozzo Guittone era stata adombrata. E quest'illustre scrittor toscano, il quale disse un Bolognese essere stato il primo a colorire la forma della favella, non era egli già nè un Ghibellino nè un esule nè un traditore della bella Firenze, ma quegli che di lei sì altamente scrisse, che non dubitò affermare che la greca dottrina, morta fra' Greci rivisse fra i popoli di Toscana, ed ivi per tal guisa fiorì, che Atene non parve già occupata da barbari e fatta polvere, ma spontaneamente divelta dal loco suo, con tutte le sue dovizie, e fuggita e trapiantata lung'Arno, e quivi con novello e soavissimo nome appellata Firenze. Così il forbito Poliziano vedendo i Fiorentini in una tanta ricchezza, stimava bene ch'ei si mostrassero generosi, e che paghi della loro gloria, non gissero ad accanare l'altrui.

Egli è certo che Guido Guinicelli fu di tanto valor letterario che Dante nel 26° del Purgatorio lo salutò maestro suo e di quanti mai furono i migliori che rime d'amor usar dolci e leggiadre. E nel Libro del volgare Eloquio lo disse massimo: del qual titolo nè può darsi il più alto, nè fu mai da Dante onorato alcun uomo. Duolci che le opere d'un tanto scrittore siano andate in molta parte smarrite, con grave danno alla storia della lingua, e che quel poco che ne rimane sia bruttamente sformato e lacero per l'ignoranza de' copiatori; cosicché per la scarsa diligenza de' posteri non s'è adempiuto l'augurio col quale Dante consolò il Guinicelli, dicendogli che i dolci detti di lui avrebbero fatto chiari gl'inchiostri, per quanto durerebbe l'uso moderno, cioè l'uso dell'italica lingua. Quest'uso ancor dura, ma que' dolci detti più non si ascoltano.

Nè credasi che l'Alighieri chiamasse il poeta da Bologna col nome di Padre per basso consiglio di adulazione, perchè nè i morti si adulano, nè così abbietta voglia poteva entrare nel sacro petto di Dante. Credasi piuttosto che tale il chiamasse, perocchè l'ebbe in sì alto pregio, ch'ei si fu fatto imitatore del grave stile di lui. E se più versi del Guinicelli ci fossero rimasti, più scopriremmo di quelle parti che lo fecero meraviglioso ad un tant' uomo quanto fu Dante; il quale è manifesto, anche dai pochi versi che di Guido ci rimasero, come il tenesse in estimazione e come l'imitasse. - Ma bastino pel Guinicelli così antichi e venerabili testimoni; e conchiudiamo che costui, il quale dal Poliziano fu detto il Primo e dell'Alighieri il Massimo, tenne la signoria dell'italica lingua mentre la gloria de' Siciliani giva mancando e quella de' Toscani non era ancor nata.

Nulla diremo degli altri ducentisti bolognesi Guido Ghisilieri e Fabrizio Lambertazzi, che dallo stesso Dante furono assai lodati, e detti scrittori del tragico stile, dottori illustri e pieni d'intelligenza nelle cose volgari: ma solo vogliamo che si sappia come Onesto da Bologna, cui Dante pose quarto fra cotanta eleganza, fu l'inventore del decasillabo italiano; la quale condizione notata venne la prima volta dal Perticari, e non fu disdetta da nessuno, anzi si trova confermata dall' autorevole Nannucci nel Manuale della letteratura del primo secolo della lingua d'Italia. Questo riferiamo, affinchè sia dato il merito a cui si deve, e perchè gl'Italiani non ignorino i primi autori de' poetici numeri.

Ci basti poi il nominare Ser Bernardo da Bologna, vivuto ai giorni di Guido Cavalcanti; la Giovanna Bianchetti, che dopo la Nina Siciliana fu la più antica delle rimatrici volgari; Ranieri de' Samaritani, che vide probabilmente la corte di Federigo, e che, per sentenza del Redi, scrisse frottole misteriose, forse perchè Bologna ancora avesse il suo Pataffio; e Messer Semprebene, che l'erudito Sarti crede fiorisse nel 1226: per cui ritiene la poesia italiana aver avuto in Bologna un'origine assai più alta che dagli storici non si sospetta. E comechè i versi di lui debbano essere alquanto orridi per quella tanta vecchiezza, pure non ci soffre l'anima nel vederli così malconci e deformi, come il Crescimbeni li pubblicò ne' libri della Volgare poesia, per cui le parole del poeta paiono gl'intrichi della Sfinge.

Però se i versi di questo Semprebene sono assai spesso offesi da parole e da forme troppo antiche, vedremo accostarsi meglio ai segni dell'eleganza quelli che si scrissero in sullo scorcio del secolo: fra' quali tiene un nobilissimo luogo il bel Trattato di virtù del filosofo e cancellier bolognese Graziolo Bambagiuoli. Questo poeta, toltosi dalla schiera de' cantori delle donne, si volse a morali subbietti, e fece servire i suoi versi a giovamento del popolo e della repubblica sociale.

Ma tempo è ormai di venir a dire partitamente de' poeti bolognesi prenominati, traendone le notizie dai migliori critici e le rime dai migliori filologi; dando fra i primi la preminenza al Fantuzzi, accurato storiografo della felsinea letteratura, e fra i secondi al Nannucci, al Muratori ed al Cavedoni, che si studiarono a tutta possa di ridurre le antiche rime alla più vera lezione.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXV)

Post n°893 pubblicato il 23 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXV

[1 Di Pietro Barignano]

Del Barignano

Se (ho) mai di vostra grazia acqua non bagni
Il mio terreno asciutto
Perirà il seme onde s'attende il frutto.
Non siete voi quel fonte onde se cria
Largo rivo corrente
Che mille e mille campi magri impingua,
Spargete dunque sopra questa vite
Onesta sete ardente,
Umor che in qualche parte almen l'estingua,
E serà l'opra vostra
Conforme, Padre, alla speranza nostra.


[2 Di Pietro Barignano]

Del signor Marchese Del Vasto al Sannazarro.

Imposto hai fine all'aspettate rime
Con stile ornato a par del grande Homero,
Narrando di colei il parto altero
Che in ciel riluce, in sede alta e sublime.

E gionto sei nelle beate cime
Del glorïoso lucido emisfero
Con l'ingegno mostrando al mondo il vero
Camin, ch'all'alme il ben eterno imprime.

Io più che gli altri me ne glorio e vanto
Di veder gionto al fin sì bella impresa
Per la tua man, che la mia patria onora.

E ancor perché lasciando il divin canto
Esser d'altro non può tua voglia accesa
Che di lodar colei che l'alma adora.

[3 Di Pietro Barignano]

Del Barignano

Perch'io cerchi non trovo
Quai sian maggiori, o le speranze nostre,
O di ben far altrui le voglie vostre.
Vostro largo voler che doppìa 'l corso
Per giunger quei desiri
A miei d'honestà 'nanzi, a sé scorge
Quante nostre credenze ho già precorse,
Et par seco s'adiri
Se tardi a gran bisogno le man porge.
Questo è dunque onde sorge
Un fonte in me sì vivo di speranza
Che quasi quel di vostre grazie avanza?

[4 Di Pietro Barignano]

Del Barignano

D'un bianco marmo in due parti diviso
Ch'amor senz'arte sospirando more
Tragge dolcezze il cor tante e sì nove
Che forse poche più n'ha il paradiso.

Così potess'io sempre mirar fiso
La meraviglia mai non vista altrove,
E dir cantando del piacer che piove
Dal lampeggiar d'un angelico riso.

Ch'io pascerei de l'un quest'occhi tanto
Quanto conviensi a disbramar la voglia
Che mi può far parer sempre digiuno.

E temprerei coll'altro quella doglia
Ond'io provo talor più dolce il pianto
Che di ben lieto amante riso alcuno.

[5 Di Pietro Barignano]

Del Barignano

Vaneggio, od è pur vero
Ch'i' mi senta nel cuore
Nova fiamma d'amore?
Se freddo era pur dianzi
E lontan da ogni foco,
Chi m'ha tratto sì 'nanzi
Ch'io n'arda a poco, a poco?
Il mio ardito pensiero
Vago (è) di quel splendore
Onde mi vien l'ardore.

[6 Di Pietro Barignano]

Del detto

Né volger gli occhi in sì piatoso giro,
Che in miei quasi n'enganni
E già già foco in cuore mi rinovelli;
Né dopo 'l far due parti d'un sospiro
Talor segno d'affanni,
Donna bella, può mai voci sì belle
Mover di qui a mill'anni,
Che l'indurato affetto in cuor mi stempre
Sì l'impero che vol ch'odi amor sempre.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

La Bella Mano (201-206)

Post n°892 pubblicato il 23 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CCI

Sole in altrui minuir della fama
Una gran parte poi la sua presenza:
Non in costei che è famosa in assenza,
Et chi la vede più la pregia et brama.

Al mio cor che in sospir sempre la chiama,
Né saperia, né vorria viver senza,
La si mostra di tanta riverenza,
Ch'altro in terra non crede, altro non ama.

Né ponno i miei vaghi occhi altra bellezza
Mirar; sì gran piacer questa li dona,
Che ogni altra per vil cosa odia et disprezza.

Né mi è grato ascoltare altra persona;
Tanta mi porge lo suo dir dolcezza;
Se non lei, chi di lei meco ragiona.

CCII

Non per sdegni o geloxia quest'alma
Mai scema ponto della dolce face;
Anci con maggior vampa ogni ora face
Reintegrarmi in amoroxa salma:

Et la speranza de octener la palma
Per ascusi signal, ch'altrui se face,
Fiorendo sempre in me più verde giace,
Et d'ogni suo contrario se dispalma,

E 'l pensiero, e 'l dixio cresce et rinforça
E 'l cor s'accende ad seguitar l'impresa,
Né vol già per viltà perder se stesso.

Amor mostra ripar dov'è difesa,
Porgendo all'ardir mio bastevol força
Per ch'io pervenga al fin da lui promesso.

CCIII

Le rime nude, che noi fanno indegni
Di posseder quest'angelico viso
Mandato per destin dal paradiso,
Per più adornar d'amore i nostri regni,

Rendano oramai posa agli occhi pregni,
Et al mio petto stanco, ch'è diviso
Dal soave parlare et dolce riso,
Dal bel costume et dagli atti benegni;

Et cerchino a stil rozzo altra matera;
Che a costei, di cui pur non sanno il nome,
Credendola onorar, fanno vergogna.

Le sue virtù, la beltà, la maniera
Son d'altri assai più degni omeri some,
Et da cetra d'Orfeo, non da sampogna.

CCIV

Occhi ligiadri, ove si posa Amore,
Qualor con gran trionfo in terra scende,
Ove ferma sue insegne et l'arco tende
Per mostrar maggior forza et più valore;

Occhi benigni, onde mi giunge al core
Un soave disio che m'arde e incende,
Né quali apertamente si comprende
Il paradiso e il celico splendore:

Occhi cortesi che, il sangue tolto
Su nel vostro apparir, com'io vi guardo,
Quel mi rendete, et più al pallido volto:

Per quanto non vorrei prima o più tardo
Esser venuto al mondo, et esser sciolto
Dalle catene di sì dolce sguardo.

CCV

Mentre l'alma talor meco s'adira
Della pena soverchia, che le porge
Costei; ché il mondo di lei non s'accorge,
E 'l mio cor sì, che sempre ne sospira,

Amor m'assal dicendo: ingrato, or mira
Quanto ben t'apparecchio, ove si scorge
La virtude et beltà che in costei sorge,
Qual più chiar'acqua d'un bel fonte spira.

Mira il costume, i gesti et la maniera,
Et l'adornar di sua candida gonna,
Come ben mostra, morbida et vezosa.

Deh non sai tu, benché a te paia altera,
Che gentil, virtuosa et bella donna
Di natura conviene esser pietosa?

CCVI

Chi vuol veder la neve et latte inseme
Misti con rose et fior bianchi et vermigli,
Mira il viso a costei quand'alza i cigli
Che vergogna o disio gli abbassa o preme;

Miri il candido collo et l'altre estreme
Parti che mostra dal piede a' capigli,
Né punto poi di me si maravigli,
Se il mio cor arde, et l'alma spera e teme.

Ché non pur io, ma il sol se la vagheggia;
Et tolta me l'avria, se il corso ancora
Nol ritirasse ove Dafne verdeggia.

Per lei Titon lasserebbe l'Aurora:
Costei che il sa, perch'egli non la veggia,
Chiusa et nascosta sta sempre in quell'ora.
 
 
 

Il Dittamondo (2-30)

Post n°891 pubblicato il 23 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO SECONDO

CAPITOLO XXX

Vacò l’imperio mio da Federigo
secondo in fin al tempo che poi venne
di Luzinborgo il magnanimo Arrigo.
Di spazio due e sessanta anni tenne.
Or puoi pensar sí come lunga etate 5
la parte sua e io pianger convenne.
Tanto fu pien costui d’ogni bontate,
che d’un piccolo conte fu eletto,
senza quistione, a la mia dignitate.
Oh di Bruciati, oh nato maladetto, 10
quanto facesti mal far contro a lui,
benché la morte tua puní il difetto!
Che se non fossi, montava costui,
per lo suo gran valore, in tale stato,
che fatto avria di sé segnare altrui. 15
Contro gli Orsini e contro l’ordinato
poder del re Ruberto e la potenza
de’ Guelfi fu per forza incoronato.
Apresso, l’oste sua pose a Fiorenza;
ma giovò poco e ritornossi a Pisa 20
e contro a’ suoi rubelli diè sentenza.
Poi in vèr Puglia il suo cammin divisa
e, giunto a Buonconvento questo Augusto,
li fu per morte la strada ricisa.
Qui dèi pensare e riducerti al gusto 25
che ’l ghibellino e io rimasi come
mozza la testa poi rimane il busto.
Di questo dolce e grazioso pome
surgeron piante, per le quali ancora
di qua l’aquila vive in pregio e in nome. 30
E quella, che altamente e piú l’onora,
si è la Vipera: e certo ciò è degno,
ché la rimise nel suo nido allora.
Contro a Filippo e contro al suo gran regno
e contro a quel di Puglia e di Caorsa,
di sua grandezza è stata poi sostegno.
Similemente si trovò soccorsa
dal Cane e dal Mastin, contra ogni avverso,
or con la spada e quando con la borsa.
E l’oro e ’l nero listato a traverso, 40
che portan quelli a cui le piagge bagna
Benaco, sempre li sono iti al verso.
Il gran marchese, nato de la Magna,
ch’alluma la balzana per le piaggi,
rosso e bianco, per lei non si sparagna. 45
Di verso Massa di piú alti faggi
un gigante appario, nel qual Marti
grazia infuse co’ suoi forti raggi.
Con la lepre marina e le sue arti,
lungo il Serchio l’annida e la sostenne 50
in su la Nievol, dico, e in altre parti.
E quella pietra, che piú tempo tenne
il caval senza fren, giusto sua possa
non le lasciò mancare al volar penne.
Cosí dal veltro si vide riscossa, 55
che partorito fu da la pantera,
quando ’l Guelfo a Gallena lasciò l’ossa.
E la colonna con la fede intera
sí ben co’ suoi seguaci l’ha difesa,
che col mio leofante e meco impera. 60
E quel da Montefeltro, a cui la spesa
il piú del tempo al gran volere manca,
quanto può guarda che non sia offesa.
E la cittá, che tiene in man la branca
verde, la qual poco si vede in pace, 65
per lei guardar mai non si vide stanca.
Morio il mio signor tanto verace
nel mille con trecento tredici anni
e men di due fu meco e in Pisa giace.
Poi, dopo tanto lunghi e gravi affanni, 70
di Baviera Lodovico seguio
che mal guardar si seppe da gl’inganni.
Con pace venne dentro al grembo mio
nel mille trecent’otto e apresso venti
e venti visse poi, per quel ch’i’ udio. 75
Io non so ben perché con gravi stenti
prese il Visconte e cacciò di Melano,
ma presso fu ch’allor non funno spenti.
Io non so la cagion perché il Pisano
le porte chiuse e negogli l’onore, 80
benché in men di due mesi l’ebbe in mano.
Un pastor fece questo mio signore,
lo qual guardasse il luogo di San Pietro,
dove quel di Vignon poco avea il core.
E se state non fossono di vetro 85
l’altrui promesse, ito sarebbe innanzi,
dove ingannato si ritrasse a dietro.
Ma tal si crede far di ricchi avanzi
per ingannare altrui, che matto e stolto
si truova, pria che ’l pensier vada innanzi. 90
Al tempo suo, senza titolo tolto,
passò quel di Buemme in Lombardia,
dove da piú cittá fu ben raccolto.
E, senza fallo, in gran poder venía,
se non fosse ito a torneare in Francia, 95
quando fermar dovea la signoria.
Non de’ il signor tener le ’mprese a ciancia,
ma seguitarle in sino a la radice
col senno, con la borsa e con la lancia:
ché tu sai bene che ’l proverbio dice 100
che chi due lievri caccia, perde l’una
e l’altra lassa e rimane infelice.
Così a questo re fe’ la fortuna:
per seguire altra traccia e lasciar noi,
di qua non gli rimase cosa alcuna.
Carlo, il figliuolo, incoronai da poi
in nel mille trecento cinquantuno
e cinque piú; e questo vive ancoi.
Ma vedi il cielo ch’è stellato e bruno
e vedi me, c’ho finito il mio dire, 110
e vedi l’erba fresca e senza pruno".
Per ch’io l’intesi e puosimi a dormire.

 
 
 
 
 

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