Quid novi?Letteratura, musica e quello che mi interessa |
CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
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I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)
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Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)
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La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)
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Messaggi del 25/12/2014
Post n°908 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamonado di Fazio degli Uberti LIBRO TERZO CAPITOLO II Seguendo a dí a dí il mio cammino, Ascoli vidi, Fermo e Recanata, Ancona, Fano, Arimino e Urbino. Ne l’ultima cittá, ch’è qui nomata, trovai quel vago sol, trovai la rosa 5 che sopra Lun de’ mali spini è nata. Or s’alcuna favilla in te riposa d’amor, lettore, pensa qual divenni ché la mia mano qui notar non l’osa. Ma tanto ti vo’ dire: appena tenni 10 l’anima al cor, sí dolce l’aescava l’alto piacer co’ suoi vezzosi cenni. Or quivi fu che ’l partir mi gravava; e poi la donna, per la qual fui desto nel bosco, ov’io dormia, pur m’affrettava. 15 Alfin partio da quel bel volto onesto contra ’l voler, come dal tempio Achille, quando fu prima in Troia ad amar desto. Con piccol passo fuggia le faville, quando Solin mi riprese: "Che fai? 20 Se vai così, tardi vedremo il Nille". Io non rispuosi, ma co’ piè sforzai quel gran disio, che mi traeva a dietro come ago calamita fe’ piú mai. La Potenza, il Lamone, il Savio e ’l Metro 25 passato avea, quando fummo a Ravenna, che per vecchiezza ha il mur che par di vetro. La novitá, che piú quivi s’impenna, è ch’ogni pola per San Polinaro, che può per lo paese muover penna, 30 vengono a festeggiare e far riparo quel dí, come gli uccelli diomedei, al tempio suo, che fu giá ricco e caro. Cosí movendo in vèr Romagna i piei, sempre cercando e dandomi lagno 35 s’alcuna novitá trovar potrei, a piè de l’alpe udimmo ch’era un bagno cinto d’un muro e pietre fitte in esso che fan, di notte, altrui buono sparagno. Per quel cammin, che piú ci parve presso, 40 per la pineta passammo a Ferrara, dove l’aquila bianca il nido ha messo. Ne’ suoi lagumi un animal ripara ch’è bestia e pesce, il qual bivaro ha nome, la cui forma a vedere ancor m’è cara. 45 La casa fa incastellata, come a lei bisogna e la testa e le branche tien sopra l’acqua e ’l piú vive di pome. Qual d’oca ha i piè, che si tengon con l’anche, coda di pesce e però non convene 50 che l’acqua a la sua vita troppo manche: onde, quando per accidente avene che ’l lago cresca, per la casa monta e cosí in esso la sua coda tene. Ferrara lungo il Po tutta s’affronta; 55 la gente volentier lá s’infamiglia, per lo buon porto che quivi si conta. Per quella via, che in vèr Chioggia si piglia, senza piú dir ci traemmo a Vinegia, torcendo dove fu Adria le ciglia. 60 Se tra’ cristian questa cittá si pregia, maraviglia non è, sí per lo sito, sí per li ricchi alberghi onde si fregia. E per quel che da molti io abbia udito, Eneti fun, Paflagoni e Troiani, 65 che ad abitar si puosono in quel lito. Per mar passammo verso gl’Istriani, co’ quai lo Schiavo e Dalmazia confina di vèr levante e piú popoli strani. Vidi Fiume e ’l Carnaro a la marina, 70 Pola, Parenzo e Civita nova, Salvor, nel mar, dove uom talor ruina. Passammo un fiume, che per sole e piova fellon diventa, il qual Risan si dice, e Istria vidi come nel mar cova. 75 Vidi Trieste con le sue pendice: e tale nome udio che gli era detto perché tre volte ha tratto la radice. Pur lungo il mare era il nostro tragetto in vèr ponente e Timavus trovammo, 80 ch’al ber mi fu e al veder diletto. Cosí andando, nel Friuli entrammo: vidi Aquilea, Durenza, e ’l muramento che fe’ lá Agoncio e Liquenza passammo. Poi, per vedere Italia a compimento, 85 volgemmo in vèr la Marca Trevigiana, che prende de la coda il Tagliamento. Quivi è il Mesco e la campagna piana, se non da costa, ove ’l giogo la cinge, che passa in Osterich e ’n Chiarentana. 90 L’onore e ’l ben, che di lá si dipinge, si son que’ da Collalto e da Camino, ben ch’ora il lor per forza altrui costringe. Noi trovammo Trevigi, nel cammino, che di chiare fontane tutta ride 95 e del piacer d’amor, che quivi è fino. Lo suo contado la Piave ricide e ’l Sile; e ciascun d’essi alcuna volta a chi li passa per gran piena uccide. Questa per sé il Viniciano ha tolta. |
Post n°907 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.41 Vaga amorosa stella, Col Sol tu sola in Ciel lampeggi e splendi: Tu sola il mondo accendi, D'amor tu sola agli occhi altrui sei bella. Luce pur l'Alba anch'ella E tutto il Ciel col guardo suo rischiara, Ma ben di te, di lei, del Sol più chiara Novella Alba riluce Che in fronte il Sol, negli occhi il giorno adduce. 42 Che nuova luce è quella Che 'l Ciel de' raggi suoi tutto innamora, La terra sì di sue bellezze infiora, Che par di man d'amor fatta sì bella? Quest'è l'Alba novella Che 'n sen rose e viole Ha: nella fronte Amor, negli occhi il Sole. 43 Alba, di stelle cinta E di puro sereno, Adorna il vago, il bel tranquillo seno, Non di vermigli e bianchi fior dipinta. Se mai da pietà vinta Gradisti un prego humano. Deh! ch'io non preghi il tuo bel Sole invano. 44 Alba, di stelle adorna Vestita di sereno eterno manto, Volgi benigna il tuo bel lume santo. Alla mia notte un bel mattin ritorna. Senza te non s' aggiorna Perchè giammai non vuole Senz'ALBA il giorno riportarne il Sole. 45 Non più levate in alto Gl' occhi a mirar l'eterne luci sole, Ma'n terra un' Alba, un Sole, Rimirate quaggiù sul verde smalto. In me stesso n' esalto Che quando in tanta luce il guardo invio Tanto mi sento alzar ch' io son piùceh' io. XLI. Dante descrive la bellezza di Beatrice con un paragone: La sua bellezza mi parve un riso Dell' Universo XLII. 5. Alba novella. Nella Gerusalemme St. 8, Canto II: Ma come apparse in del alba novella^ ec. St. 78, Canto V: Non aspetta al partir falba novella ec. 7. Del Tasso si può dir come d'un espertissimo pittore. La mano obbediente all' ingegno leva dalla tavolozza l'attraente colorito e fa che si rasBomigli alle sue immagini. La chiusa di questo Madrigale ha le attrattive dell'altro dello stesso autore: Al tuo dolce pallore ec. cosi per le stesse rime finito: Che più? L'alba ornai sdegna L'ostro, e invaghisce il ciel di tue viole E teco brama impallidirsi il sole. XLIII. 1. Alba, di stelle cinta ec. La serena alba domina in cielo azzurro tutta splendida di stelle all'intorno. Il Tasso usa cingere per coronare e se n'ha un esempio in quel Madrigale: Vw, Montagne frondose ec, tra i pubblicati dal Resini, riprodotto qui a pag. 38. 4. Nel Cod. 55, CI. VII, Magliabechiano, intitolato Del Signor Strozzi alla Gran Ducessa: Non di rose e di bei fior dipinta, ec. Il raffazzonatore si studiò d'allontanare il modo del Tasso. All'alba dà pregio il Tasso di adornarsi di vermigli insieme e bianchi fiori ora il petto ora il crine. Nella Gerusalemme St. 15, Canto IV: Le guance asperse di que'vivi umori. Che giù cadean fin della veste al lembo, Parean vermigli insieme e bianchi fiori. Se pur gl'irriga un rugiadoso nembo Quando sull'apparir de'primi albori Spiegano aJlCaure liete il chiuso grembo; E l'alba che li mira e se n'appaga, D'adornarsene il crin diventa vaga. 7. Questo e il seguente Madrigale rafforzan l'osservazione al v. 2 dell'altro Madrigale XL: Dall'Alba e non dal Sole, ec. Vennero forse acclusi in qualche lettera che ora non si conosce, scritta però alla granduchessa, chiedendo a lei ed al marito una grazia. Era veramente una premurosa e calda raccomandazione del genere di quelle che furono al poeta, cosi per fare, consolate alcuna volta o con una tazza d'argento oppure con venticinque scudi! XLIV. 5. S'aggiorna. Aggiornare in neutro passivo farsi giorno alla latina illuscere, diem illucere. Petrarca Son. 9: Ma dentro dove mai non s'aggiorna. Gravido fa di se il terrestre umore. E Son. 94: Degli occhi è il duol, che tosto che s'aggiorna. Per gran disio de'be'luoghi a lor tolti Danno a me pianto ec Ed il Tasso nel Sonetto Ecco l'Alba, ecco il dì, che se ritorna, ec. Da questa amica luce, onde s'aggiorna, Lunge siate voi nembi e procelle, Lunge voi spirti e scosse al ciel ribelle. Ch'ebbe corona U gran Clemente adoma. 7. Nella Gerusalemme St. 50, Canto XIX: Goffredo alloggia nella terra e vuole, Rinnovar poi Vmìollo al novo tote. XLV. 7. Ch'io son più ch'io. Frase letta in Dante nel canto XVI v. 18 del Paradiso, quando il Poeta ò in dialogo con Cacciaguida: . ... Voi siete il padre mio, Voi mi date a parlar tutta balde%%a^ Voi mi levate anch'io son più ch'io. |
Post n°906 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Pensate or voi se tutto quel ch'avvenne Degno d'historia il possi dir con voce S'allo scriver non bastan mille penne. Stanno per pormi, s'io nol dico, in croce; Voglion saper de l'opra il gran lavoro E gran disio per ciò gli sprona e coce; Tal ch'io sono nel mezzo di costoro Ché del mio ragionar pendono intenti Come parlasse il papa in concistoro Tutti gli rendo docili et attenti E talor dò risposta a più d'un paio Che m'intronan' l'orecchie d'argomenti. Fatti lingua, dico io, fatti d'acciaio Ch'a ragionar de' vostri chiari gesti Bisogna ch'io mi stracci e cavi il saio. Né pur avvien ch'un'ora mai m'arresta Per far palese a chi creder non vole Quanto ogn'altro signor dopo voi resti. Descrivo prima la superba mole, Il regal edificio in varie forme, Ornato sì ch'ognun strabiliar suole. Ché il Castellan non teme anco se dorme Chi possi a quella Rocca insidia farsi, Che non si temon del nemico l'orme. Né gl'uomini dovranno essere scarsi Al creder mio, se col tempo predico Sassuol potrà a ogni città agguagliarsi. Io son, signor, per dirla in grand'intrico, S'a tutti bado, nondimen m'ingrasso Di voi parlando come un beccafico. E poi soggiungo che cotesto Sasso (Gran miracol lor par) produce in copia Tale che ciaschedun può andar a spasso. Egli è pur ver quando vi fu, ma inopia V'è pur formento quivi, che trarebbe La fame, ho quasi detto, all'Etiopia. E chi già mai vin più eccellente bebbe, Che scaturiscon da quei santi colli, Chi non dice com'io pazzo sarebbe. Che malvagie! Che Greco! Che fan molli Gli animi ben robusti e questi ponno Chi un sorso sol ne gusta far satolli. Dirò di me che più non trovo il sonno Da che son privo di sì buon liquore, Dico da senno, se mi sete donno. Domandatelo al fido servitore Del vostro paesano, che mi fece Berne di quel che tocca il vivo core. È ver ch'un ne gustai come la pece, Che mi de' il canovaio, anzi Caronte, Che chi ne trinca le budella rece. Che diavol d'uomo è quel, che brusca fronte, Che zeffo è il suo, che razza d'uom salvatico! Possi egli pur volar come Fetonte. È forza pur ch'io 'l dica: ei non è pratico, Vuo' ch'egli sappia la mia complessione, Né darmi il vin fumoso, o troppo acquatico. Pregalo pur, se sai, fagli un sermone, Dagli anco del Messer, digli che Marco Mi vuol gran bene, in fin non vuol canzone. Ma ritorniamo ove lasciai, al varco Dico che a questi vado descrivendo Il tutto, benché a me sia troppo carco. L'ordine poi vi espongo arcistupendo Ch'era diviso a varï della terra, E di tutti gli uffici il conto rendo. D'uomini mostro il numero da guerra Che su la nobil piazza in ordinanza Fer' col rimbombo scuotere la terra. Militia eletta, che il gran Xerse avanza Di numer no, ma ben di disciplina, Di coraggio, di fede e di baldanza. Su le muraglie poi fer' gran ruina Muschette, artigliarie, schioppi e bombarde Tosto che la signora fu vicina. Di mille e mille lumi avampa et arde La terra, che 'l troiano incendiò pare, Fra le picche, le lancie e l'alabarde. Oh che vista! soggiungo, al vagheggiare Tante e varie pitture, che nel chiaro Pareano a' riguardanti opre sì rare. E dame e cavaglier venìano a paro: Prima molti cavalli alla leggiera, Ben in arnese innanzi a questi andàro. Così, dopo una lunga e nobil schiera, Apparve Clelia, e sotto a' trionfali Archi passò di tanti onori altèra. I motti arguti e gravi quanti e quali, Ch'erano su i proverbi, io non potrei Dir le prefisse cose a questi tali; Ma bene il contenuto e dei trofei E de l'imprese dissegli i concetti Che sol nel senso pago gli rendei. Facil mi fu poi dirgli i varî effetti Di trombe, squille, tamburi e concerti Musici che s'udian con dolci affetti. Con parole ch'espressero i gran' merti Di sì gran donna e le sue lodi altere Da poeti di nome e d'arte esperti. Ma quel che fu mirabile al vedere Era coperto il ciel di tante stelle Che sembravan per dio tante lumiere. E ragion che a mirare opre sì belle Non pur occhio mortal vi sia concorso, Ma mille occhi del ciel, mille fiammelle. Qui forte mi riprese, il signor Borso: Che naso hai d'ogni cosa! Perché troppo Io poeteggi essendo in ciel trascorso. Che basta ben s'io vado di galoppo Senza volare, non avendo io l'ali Però il mio ragionar strinsi in un groppo. E diedi a dirmi cose generali Come di sontuosi e gran conviti Che ai Luculli ed ai Gracchi andàro eguali. Che i paggi e gli scudieri eran vestiti Con nobili livree, et altri ancora, Staffier, guattari, cuochi eran forbiti. E dopo cena senza altra dimora Si stava in suono, in canto, in danza e in ballo Fin che spuntasse fuor quasi l'aurora. Dei prodi cavaglier e dei cavalli Gli dissi ancor, che ponno star a prova Co' Scipï in giostra, o pur con gl'Annibali. E par che nell'Iddea mi si rinnovi D'Amadio quella lunga diceria Di tanti campioni a far la prova. Ma troppo lungo inver' stato sarìa, Se tutti avessi detto i colpi fieri Ch'eran fatti con core e maestria. De' Barbari gli dissi più leggieri Che cervi al corso, ch'emuli di gloria Prestamente volar fra quei sentieri. La scena alfin dipinsi ch'un'istoria Merita certo, e lor mostrai in fatto L'Arcadia vera degna di memoria. L'abete, il faggio, il pin fur' messi in atto E tanti altri arboscelli, e tanti rivi E frutti natural al gusto, al tatto. Si vider colti allor i gigli vivi, E tante varietà d'erbe e di fiori, E armenti che pareano fuggitivi. Dai lauri l'ombre avean dai mirti odori Specchi di fiumi e canti d'augelletti Scherzi di pesci e strilli di pastori. Di belle ninfe i vezzosetti aspetti E di bifolchi agli abiti e a' sembianti, Un tempio solitario, in rozzi tetti. Non v'eran l'aure estive a noi spiranti (Questa mancò), ma delle donne il fiato Dolce esalava fuor fra i circostanti. V'era il Vrato istrïon, così nomato, Nacque per recitar, e credo certo Ch'a Plauto et a Terenzio abbia insegnato. È di bianca lanugine coperto Con barba lunga al petto e sembra a punto Un satiro che vada pel deserto. Ride, se torna ben, piange in un punto Si fa tutto orgoglioso e a un tempo istesso Umil diviene a i gesti ha 'l saper giunto. Due ninfe ha seco, e se le tiene appresso In custodia, cioè gli serba il frutto Che a Diana pudica hanno promesso. Hanno più d'un amante arso e distrutto, Che in penitenza il padre Pan Linceo Quattro giorni le tenne a pane asciutto. Degl'intermedii poi stupir gli fèo, Che il carro della luce era guidato Da Fetonte, che in Po tosto cadèo; E del miser garzon mal consigliato Piansero le sorelle al miser caso Con un canto che i sassi avrìa spezzato. Sorse dal palco il monte di Parnaso Col Pegaso, e la fonte d'Elicona Che a tutti di stupor s'affilò il naso. Le Muse e Apol' facean lieta corona; Ma con dolce concerto quei di dentro In lor vece ingannar' ogni persona. V'era una nube, che dal cielo al centro Scese tre volte, o quattro, in varï casi, Notate più, ch'ora nel bello io entro. Da l'arte furon tutti persuasi Che pregna nube fosse e d'acqua piena, E l'architetto istesso il credea quasi. Ne l'ultimo apparir si fe' sereno, A poco, a poco l'aria e il ciel s'aperse Mostrando ciascun dio letizia piena. Nove armonie là sù s'udìan diverse E stavan per l'udito e per la vista Le folte genti nel stupor immerse. E a quella gloria che pur là s'acquista Per merto e per virtù fu richiamata Quella ch'è Pia e così bella in vista. Vieni di gigli d'oro incoronata, Vieni, gloria del Tebro, anzi del cielo Vien pur, che la tua sede è qui parata. Questo invito con santo e puro zelo Da cinque ninfe con bel canto s'ode, Che fuor de' boschi uscir' con aureo telo. Molte altre cose degne di gran lode Lasciai, che nel più bel della leggenda La campana di terza ecco che s'ode. A questo suon tralascio ogni faccenda, Che suono di leuto, o d'epicordo, Non v'è che più di questo il cor m'accenda. È pur gran cosa quando mi ricordo Che questa campanella mi nutrisce Più che ginepro non fa 'l merlo, o 'l tordo. E chi sprezza il suo suono impoverisce, Che del poco un'assai si fa pian piano S'or oggi, e s'or domane altri fallisce. E l'impetrar perdono è tutto vano, Ché a nissuno già mai si fa ristoro, Anzi se gli fa un Vespro Siciliano. Non Posso poi contendere con loro Che sfodrano il Concilio e 'l Viguerio Che toglie il pane a chi non serve il coro. E s'io facessi un furto, o un adulterio, Più facilmente spararei perdono; Ma questo è solo ingiusto desiderio. E ch'ho da far nel mal? S'io parangono Lo stato mio con quei di manco stima Trovo che Dio mi fa troppo del dono. Tanto, o misero l'uom quanto si stima, (Dice colui) non starò già per questo Di non cantar e scriver prosa e rima. Ma udite ben, signor, vi fo un protesto, Che non badiate a quel ch'io scrivo in carta, Ché a' vostri cenni sarò sempre presto. Ch'io vi son servo già la fama è sparta, Son qui a sua posta, né mi cur che suoni La campana di terza, anco di quarta. Perché, s'altri s'acquista de' patroni, Fruttano più con l'aura del favore Che le stentate distributïoni. Massime voi (dico per Dio) signore, Che mai non comportasti ch'alcun servo Tolto gli fosse il pan del suo sudore. Io per me il so che la memoria servo Nel seno, e lo san quei che costì furo A servirvi, e chi il niega è un uom protervo. Oh!, dice il Paesan', che troppo curo Qualche utile che vien da questa chierca; Ma s'inganna per certo, ch'io vel giuro: Io ben il dovrei far, ché lo ricerca Il carico degli anni che io mi trovo, E sin qui la fortuna m'è noverca. Tre croci ho su la schiena, e una ne covo Che a partorir non starà un lustro intero, E pur un soldo in borsa non mi trovo. Né mai n'havrò, se non fo come Homero, Che l'opre sue vendeva a suon di lira Per con star di danar sempre leggiero. Qui par che il paesan meco s'adira, Dicendo: e dove spendi tanta entrata Che 'l tuo canonicato ogn'anno tira? Io l' dirò, facciam pur buona derrata Centocinquanta scudi ho di guadagno, E in capo a l'anno io devo la corata. Chi, mi risponderà qui il buon compagno, Assotiglia la spesa soffre e stenta, Digiuna per piacer, questo è sparagno. Oh questo no, e dirò ch'ogniun' senta; Vengan(o) pur le petecchie e 'l mal francioso A chi per arricchir miser diventa. Prodigo non son già, non son goloso, E 'l conto vi farò per far vedervi Ch'io non m'avanzo un bagatin' tignoso. In primis vuo' una fante che mi servi, Quest'è il dovere, e quivi vuol salario E un paggio che l'ufficio fa de' servi. E poi v'è sempre un sopranumerario, E ogn'un senza pensier mangia e tracanna, Ché il pane non si chiude nell'armario. Ho casa a fitto buona, e ogni capanna (Si sa pur dov'è grosso, e buon pressidio) Paga un occhio, e 'l terren si vende a spanna. Il vitto mio è honesto, e non invidio A nissun cittadin, che per havere Del buono anch'io farei un'homicidio. Vuo' su la mensa mia sempre vedere Vittella, e se si può qualche augel grasso, Tosto come cominciano apparere. E talor anco vado passo passo Spolpando un buon cappone, o pollastrelli Per ogni gran denar mai non li lasso. Da magro vuo' de fiumi o de ruscelli E pesci, o pescarie, che vanno in stampa E spesso le Morene, o Tarantelli. Due fuochi voglio, e godo che la vampa In alto saglia in camera, o in cucina, Che una massa di legna sempre avampa. Usano gli Spagnoli ogni mattina Al sol scaldarsi longo le muraglie; Ma il VECCHI a questa strada non camina. Et a' suoi tempi d'altre vittovaglie Procuro, e viver voglio da par mio, E lasciamo stentar alle gentaglie. Di pernici, o fagian non mi cur' io, Né pavoni e hortolani, ch'io so bene Che questo si conviene a Marco Pio. Ogn'anno vuo' che sian le botti piene, E sopra tutto s'è possibil, voglio Del vin che tutto l'anno il dolce tiene. Di tutte queste cose nulla i' coglio, E conforme al mio grado par più giusto E onesto se talor vestir mi soglio Quando un paio di calze e quando un busto; E s'io voglio vestirmi questo verno, Mezza l'entrata spendo a conto giusto. Ho una pelliccia che più non discerno Se sia volpe, o castron, varo, od agnello: Contende fra l'antico e fra 'l moderno; Ma par che si sostenta col duello, Che di martore sia; poi ch'io la veggio Martirizzata a colpi di flagello. Compro ogni giorno libri, e quel ch'è peggio Mi vuol un Brevïario alla moderna, Se no' ch'io fo sclamar tutto Correggio. E dove lascio la pietà paterna? Qualche aiuto vuol pur fra l'anno almanco Che spense già degli occhi la lucerna. Sempre mi trovo poi (dio grazia) al fianco Forestier' che mi mangiano le coste, Né d'animo per questo io vengo manco. Oh fate il conto un poco, o messer oste, Dico a voi, paesan', s'al tutto basta Quest'entratella, e s'al dover m'accoste. Il mal conosco al mover della testa (Disse il Falloppia) e 'l fisico provvede La febbre, s'a l'infermo il polso tasta. Hor per troncar alle mie ciancie il piede Questa vita qual sia mi godo in pace, Ché chi vive contento assai possiede. Mirate il Braida, che sogghigna e tace, Come che dica quel teston sì sodo: L'umor del VECCHI col mio si conface. Così al mio ragionar ficcando il chiodo Le man vi bacio, e alla signora assai, Piegando il ciel per così illustre nodo. Non mi offro più, ché già mi vi donai. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°905 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Io chieggio a' gravi affanni libertate, E pace, onde dir possa quel ch'intende L'ascoso mio pensiero, e lo riduca In chiare note, e a lieto fin' conduca. Datemi voi lo stile, e dolci e tersi Sien per voi questi accenti e questi versi. L'alto re de le stelle, e gran motore, Che fe' ciò che si vede, e lo mantiene Senz'altro mezzo e sol co 'l suo volere A tutto quel di su scende e vîene Del suo spirito infonde e del suo amore; Ma dove meno, e dove più sincere Mostra le forze sue possenti e vere, Quindi è ch'or' questo, or' quel mortal si scorge Per fatti egregi sopra il mondo alzarsi, E grande, e chiaro farsi, Tanto che maraviglia al mondo porge. Quindi gl'Ercoli al cielo e gl'alti Augusti Saliro, ch'ebber luogo in fra le stelle Mercurio, Marte, Apollo et altri molti, De' quai da questa vil carne disciolti Non fia per l'opre lor' tante e sì belle Chi giamai del liquor di Lethe gusti. Hor fra quelli onorati, e fra quei giusti Sarete, Cosmo, voi, poich'in voi sempre Più largo è Giove ognora in varie tempre. Ecco in segno di ciò con la corona Real di grande il degno nome in dono Oggi vi dà chi tien di Pietro il manto, Chi presso e lungi fa sentire il suono Dell'alta sua bontà. Tutto Elicona Dovrebbe qui voltar le rime e 'l canto. Egli, che 'l folle e 'l rio del saggio e santo Scernendo col giudizio suo divino Dà premio a' buoni, e dà castigo a' rei Fra gli altri semidei Ha visto voi, più raro e pellegrino, Pien di casto pensier, d'alto costume, Ornato e pronto d'animo e di forza A la difesa di sua santa sede. Questa donque e maggiore a voi mercede Convien, come a chi sempre al ben si sforza, A ciò che voi fuor d'ogni uman costume A la cieca età nostra un chiaro lume. Siate, onde poi ognuno al ben s'appigli Nel dir, nel fare, a voi si rassomigli. Tra quanti mai natura e 'l ciel crearo Uomini glorïosi, uomini illustri, Che furo a li scrittori ampio soggetto, Stati son mai in tanti e tanti lustri Che del nome di grande, e d'altro chiaro Segno onorati sieno, e ognor nel petto Dessero a gran' pensieri alto ricetto. Fra questi pochi, o onor dell'età nostra, O di valor, di vera gloria tempio, O di ben fare esempio, Splendete voi per l'alta virtù vostra. Quindi è che 'l Pio pastor tanto cortese Non sol fu a voi di cotal' don; ma ancora A quei che sono e che giamai saranno Eredi vostri, e 'l scettro in man terranno. E ben conviensi, poi che già dimora Quell'ardente virtù, per cui palese Fate veder' vostre onorate imprese Nel vero successor del sangue vostro Degno d'ogn'alto e ben lodato inchiostro. A lui 'l governo avete dato in mano Di città e di provincie, e mari, e porti, Giovane ancor, ma sopra gl'anni saggio. Egli discerne le ragioni e i torti Con vista grave, e con sembiante umano Del nobil sì, come del vil lignaggio, Simil'al sol, che luce col suo raggio In basso e in alto, e in ogni parte scalda. Quest'orme son de la paterna altezza, Ove ha la pianta avvezza Di posar come in base giusta e salda, Del regnar' questi son gli accorti esempi I quai maraviglioso il mondo ammira Con bella invidia, e con soave scorno, Et a ragion; poscia che quanto intorno Distende l'ocean le braccia e gira Non fu mai ne' moderni e antichi tempi Chi 'l rio più distinguesse dal sincero, E meglio conoscesse il falso e 'l vero. La dotta Grecia, che si vanta e gloria Di tanti savi suoi, che con le leggi A molte patrie procacciar' salute, S'avesse hauto voi dentro a' suoi seggi, Dopo non l'era far d'altri memoria, Ché di tutti è maggior vostra virtute, In cui mirando, immantinente mute Restan le lingue. Or non avete voi Creato mille leggi, e dato norma D'onesta vita, e forma A varie e strane genti, non ch'a noi? Non piglian Francia e Spagna e Italia tutta Da voi consiglio, sì com'anco aiuto? Non porgete voi loro armi e tesoro? E Roma u' lascio e 'l suo purpureo coro, Che s'è spesso per voi salvo renduto? Nel qual' vittrice in la terrena lutta Splende la stirpe vostra, che condutta Vedremo un giorno, spero, a tanto pregio Ch'avrà de' sacri onori il sommo fregio. Fur' gli avi e padri vostri illustri e degni D'ogni eccelsa fortuna; ma promesso Avean tal' dono a voi stelle fatali, A voi, signore, han tanto ben concesso Nell'età nostra quei celesti segni Per far che noi levassem' suso l'ali. De' pensieri a bell'opre et immortali, Che l'impara da voi chi ben le stima, In voi fan le virtù vago drappello, E com'in questo, e quello. Una n'appare, o due; onde ben prima Tornarà l'Arno vostro al proprio fonte Che manchi il vostro nome, o che s'estingua Tutti quei che fur' mai pregiati e rari, O che saranno fien' di voi men' chiari. Deh! avess'io come il mio voler' la lingua, E le voci, e le rime ardite e pronte, Che risonar farei la valle e il monte Di vostre lodi; ma mia sorte vuole Ch'io le mormori in semplici parole Direi di voi fin' dalle fascie come Dal padre vostro in voce alta chiamato Ricolto fusto nell'ardite mani, Né stelle fisse allor, né largo fato Tenne cura di voi dal pie' alle chiome; Ma chi 'l ciel regge; onde non pur fe' vani Col suo poter, ma discacciò lontani Tutti i perigli ch'a le picciol' membra Né ferme ancor nuocer potevan forse, Quando da sì alto scorse Il corpo vostro, orrore a chi 'l rimembra. Direi del grato conversare, onesto Negl'anni giovenili, e dell'ingegno. Del cuor sdegnoso d'ogni cosa vile, E che 'l più generoso e più gentile Non vide il sol, né giunse alcuno al segno Dove giugneste voi, che sempre desto Foste ad opre onorate, e pronto, e presto, Indicij certi di trovare il guado, Di passare ove or' sete a tanto grado. Io cantarei che 'l quarto ancor finito Lustro non era, che lo scettro aveste De la bella città, che l'arno inonda, E come la giustizia in man prendeste, Prima il governo, e cominciaste ardito Aver per lei al navigar seconda Quell'aura, ch'or' vie più che mai v'abbonda, E se, come sovente fa fortuna, Che con virtù mal' volontier s'accorda, Cieca ai buon' sempre e sorda Gravi ingiurie v'ha fatto, e non pur' una, L'alta vostra virtù, che fin' al cielo Alzar vi vuol tutte l'ha rese vane, E resolute in fumo, in nebbia, in polve, E seguirei com'ora il crine avvolve A la man vostra per seguir' lontane Le vostre imprese con ardente zelo Fin' al caldo maggiore, e al maggior' gelo. Or se in voi con virtù fortuna è insieme, Convien che 'l mondo v'ami e di voi trieme. Signor, io lodarei l'ordini e i modi Ch'avete dato, e con divin giudizio Per fare altrui ragione al vostro tempo, Per lo cui mezzo d'ogni inganno e vizio Altri si tolga, si ritenga, e snodi, Che fien' laudati infin che sarà 'l tempo Raccontarci com'anco in breve tempo Ridotto avete ad ogni piccol cenno Via più bella milizia, e d'ogni sorte, Nobile, saggia, e forte, Che quei di maggior stato unqua non fenno, La qual' non loda pure il re de' fiumi, Che sì superbamente come al mare, E quel già sì possente antico Tebro; Ma Eufrate ancora e Tana, et Histro et Hebro, E vostre forze omai son note e chiare, Vivi del vostro onore altieri lumi, A colui che i Cristiani e i lor costumi Cotanto offende, e per voi resta indietro Che non soggioga Italia, e Roma, e Pietro. Contra questo tiranno, che la santa Nostra legge disprezza, e che sol vive Di rapine, superbo et orgoglioso, Fondato avete in su le belle rive Dell'arno e posto l'onorata pianta Del tempio al santo martir glorïoso Della chiesa di Dio, già in terra sposo, La cui religïon di croce rossa Porta per voi alla e verace insegna, Che di lei solo è degna. Quella virtù che far vermiglio possa Del suo sangue per Cristo il mare e i liti, E mille suoi forti guerrier già indietro Respingon le rie genti, e ne fan preda; Onde convien' ch'egli si roda e ceda, Lassando d'ogni parte il mar quïeto. Questi signor con voi si stanno uniti, Ch'un vostro cenno che li chiami e inviti Faran veder che l'Otomanno volta Le spalle, e sua virtù resta sepolta. Ma non potrei già dir con mille penne Quanta industria, quant'arte e quanta cura Ne' superbi edifitii ognor si veggia Onde vostra memoria oblio non cura Quel grande Augusto, che l'imperio tenne Anni cinquantasei ne la sua reggia, Con tanta gloria appena vi pareggia. Ordinar veggio alti disegni et opre Ovunque io miro, ovunque il passo muovo, Per cui più ognor di nuovo L'alto vostro saper maggior si scuopre. In opra vostra son ben mille Apelli, Mille Lisippi, e mille Fidii e mille Inventor d'arti nobili e famose. Questi le più segrete e più nascose Opre degne ch'il cielo all'uom instille Fanno palesi, questi con pennelli Rendon viva, e con punte di scarpelli L'imagin vostra, e li scrittor' l'interna Virtù, ch'assai più val, faranno eterna. D'imagini ornan' molti l'ampia sala, Camere e loggie, e di mirabil fregi Sì ben che nulla al ver' più s'assomiglia. Miransi in maestate i volti egregi De' vostri antichi, e come in alto sale De' Medici la nobile famiglia Ch'Italia e 'l mondo empie di maraviglia. Fra l'altri illustri ivi si vede il vecchio Cosmo, dal popul richiamato e accolto Con dolce e lieto volto, Far de la sua bontà lucente specchio Ancora agli empi e fieri suoi nimici, Onde Arno poi ne la grat'urna scrisse; (Bel don), ch'ei fu de la sua patria padre. Fur' infinite l'opre sue leggiadre, E saggio sempre in ciò che fece e disse, Ebbe, siccome voi, possenti amici E fur' chiamati i giorni suoi felici, A Dio pe' tempi infin' là dove atroce Morte sostenne il Signor nostro in croce. Quel gran saggio Lorenzo, e tanto fido A la sua patria che d'andare elesse Del re nimico in forza per salvarla, Quivi com' uom' si vede a cui porgesse E lode e premio da ciascun suo lido Italia tutta, poi ch'in consigliarla Si mostrò padre; onde ogni storia parla, Splendonvi ancor per vie più alte insegne E Clemente e Leon', con mitre e chiavi, E con modi alti e gravi La via del ciel par che ciascun' insegne; Ma qual fulmine appar, qual vivo fuoco, Qual nuovo Achille, anzi qual vero Marte Il gran genitor vostro, altiero, invitto, Cui cedon tutti quei di cui fu scritto, Tanto alto in greche, od in romane carte. Ahi! morte rea, che se tardavi un poco Non era Italia e Roma preda e gioco Del barbarico stuolo, e non sentiva Tante percosse questa tosca riva. La tosca riva, che per voi le piaghe Sue antiche ha poi saldate, oggi quieta Vi rende e dona eterne grate e lode, Né pur ella è per voi gioconda e lieta; Ma tutte l'altre rive amene e vaghe, Che l'uno e l'altro mar vagheggia e gode, Sentito il gran romor ch'intorno s'ode Ovunque andate: ecco, ognun lieto grida, Ecco il gran Duca di Toscana, et ecco Parla e risponde ecco; Ma in voce tal che par che canti e rida. Austria gioisce, e si rallegra Spagna, Francia fa festa, con le cui corone, Col cui sangue real congionto siete. Or' ogn'altro pensier tuffate in Lethe, Che sol di gioia ognor non vi ragiona, Dentro al petto nissun v'odia, o si lagna Di voi, se dal ver (dir) non si scompagna, Sepolta è omai l'invidia e ognuno a gara V'ama, v'ammira e ad onorarvi impara Chiunque alberga dal mar' Indo al Mauro, E dall'onde più fredde a le più calde Viene a rendervi onor, viene a lodarve; Né son' queste, signor, fint'ombre, o larve; Ma vere glorie vostre, intere e salde, Degne d'esser accolte in bel tesauro Degne di qual più sia pregiato lauro; Onde non pur Gran Duca; ma vi chiama Gran Re già il mondo, e tal' v'aspetta e brama. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°904 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine Guido Guinicelli |
Post n°903 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Guido Ghisilieri "I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine. |
Post n°902 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Guido Guinicelli "I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine. |
Post n°901 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
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Post n°900 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Il Dittamonado Solino in prima e io apresso entrai per quella fabbricata e lunga strada 5 che fa parlare di Vergilio assai. Di dietro ci lasciammo la contrada, dove Saturno ammaestrò a noi piantar la vigna e seminar la biada. Vidi dove Catillo visse, poi 10 che lasciò Tebe, e ne la cittá fui che a la balia d’Enea dá fama ancoi. Vidi Vesuvio, che dá lume altrui, e vidi i bagni antichi, buoni e sani, dove annegò Baia e gli ostier sui. 15 Soavi colli e piacevoli piani noi passammo e trovammo molte selvi di pomi ranci e d’altri frutti strani. E, sempre andando, spiavamo se ’l vi fosse pur da notare cosa alcuna 20 d’uccelli, di serpenti e d’altre belvi. Vidi quel monte, ove stette digiuna Circes piú volte a far suoi incantamenti al lume de le stelle e de la luna. E vidi quelli, onde parlan le genti, 25 che la sorore visitando andava, l’erbe cogliendo a far soavi unguenti. Passai la Mora, che ’l paese lava, la Verde, e non ci fu la terra ascosa dove Medea, morto il figliuolo, stava. 30 Pur dietro a la mia guida, che non posa, andai tanto, che ad Aversa giunsi, dove trovai la gente dolorosa. E poi che con alcun lá mi congiunsi e seppi la cagion del disconforto, 35 forte nel cuor per la pietá compunsi. Detto mi fu che un giovinetto accorto, bello e gentil, ch’aspettava il reame, a tradimento v’era stato morto. Non credo che mai fosse in gente brame 40 aguzza per disdegno, come quella mostrava a la vendetta d’aver fame. La gran cittade lacrimosa e bella, la qual fu detta giá Partenopea, sconsolata piangea per la novella. 45 Quivi l’infamia di Caserta rea e de li Infragnipani e de la Cerra per questa crudeltá morta parea. Io fui nel castel, che, se non erra, la gente quivi un uovo ci mostraro, 50 ch’esso rompendo, il muro andrebbe a terra. Tanto è il paese piacevole e caro di belle donne e d’altra leggiadria, che piú che non dovea vi fei riparo. Apresso questo, prendemmo la via 55 cercando Puglia e Terra di lavoro, le novitá notando, ch’io udia. In Arpi e in Benevento fei dimoro per riverenza a Diomedes, il quale porta ancor fama del principio loro. 60 Apuglia è detta, ché ’l caldo v’è tale, che la terra vi perde alcuna volta la sua vertú e fruttifica male. E come quel che va e sempre ascolta, seguitava, orecchiando, il mio disio, 65 che prese in vèr Salerno la sua volta. Siler, Vulturno e uno e altro rio passammo e vidi novitá, ch’a dire lascio, per non far lungo il parlar mio. Apresso questo, ci mettemmo a ire quasi tra il levante e ’l mezzogiorno, ognora dimandando per udire. Cosí volgemmo a la punta del corno che guarda la Cicilia, dov’è Reggio, cercando la Calavra poi d’intorno. 75 Vidi Tietta, dove giá fu il seggio de la madre d’Achilles e di questo per testimon quei del paese cheggio. Vidi lá dove ancora è manifesto che le cicale diventaron mute, 80 perché Ercules dal suon non fosse desto. Vidi la boa con le sanne acute, che la bufola allatta e di tai fiere non son di qua fra noi altre vedute. Passato avea dove fun le schiere 85 ardite d’Annibal di sopra Canni, quando cadde di Roma il gran podere. Ma non cercammo senza molti affanni Isquillaci e Taranto e Brandizio, perché v’èn malandrin da tutti inganni. 90 In quella parte ci fu dato indizio che Bari v’era presso, ond’io divoto di Nicolao visitai l’ospizio. Similemente, quando ci fu noto monte Galganeo, lá dov’è Sant’Agnolo, 95 in fino a lui non mi parve ire in vôto. Con lo studio che fa la tela il ragnolo, ci studiavam per quel cammino alpestro e passavam or questo or quel rigagnolo. Noi andavam, tra ponente e maestro, 100 lungo ’l mare Adriano, in verso il Tronto, lasciando Abruzzo e ’l suo cammin silvestro. Entrati ne la Marca, com’io conto, io vidi Scariotto, onde fu Giuda, secondo il dir d’alcun, di cui fui conto. 105 La fama qui non vo’ rimanga nuda del monte di Pilato, dov’è il lago che si guarda la state a muda a muda, però che qual s’intende in Simon mago per sagrare il suo libro lá su monta, 110 ond’è tempesta poi con grande smago, secondo che per quei di lá si conta. |
Post n°899 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.36 Ecco l'Alba ecco il Sole, Inchinatevi pur novelle erbette, E voi destate, aurette, Col dolce mormorar gigli e viole; Sì bel mattin spuntar giammai non suole. Dal Sol mai tanta luce non si sparse; Ma qual in terra apparse Alba novella Che fa nel Ciel sembrar l'altra men bella? 37 All'apparir di nova Alba celeste L'altra si discolora: Mirate il bel sereno ella ne indora! L'altra nel Ciel di tenebre si veste. S'acquetan le tempeste Ov'ella il Sol de' suoi begli occhi gira, L'altra d'invidia tinta ne sospira. 38 Se più che'n Cielo il Sole Quaggiù l'Alba riluce. Dal Sol com'ella suole La luna haver non vuole homai più luce, Che senno esser non crede, S'a quel che splende più, splendor non chiede. 39 Se più che 'n Cielo il Sole Quaggiù l'ALBA risplende, L'Alba s'al ben oprar gli animi accende, Se la Bianc'Alba in terra è nuovo Sole, Dalla Bianc'Alba vuole, E non dal Sol, la Luna ombrosa e mesta Che la Bianc'Alba di splendor la vesta. 40 Dall' Alba e non dal Sole, Anzi dal Sol l'oscura Luna mia Suo lume haver desia. Dal Sol ch' innanzi l'Alba, Anzi coll'Alba apparir suole; Dal Sol dall'ALBA il vuole.
XXXVI. 1. Ecco falba, ecco il dì che in se ritorna, ec. Principio d*un sonetto del Tasso per l'incoronazione del papa Aldobrandini, Clemente VIII. 3. Ricorda quel Sonetto deir Autore Aura ch'or quinci scherzi or quindi voli, ec . 4. Come a'gigli sarian miste viole, ec. Gerusalemme St. 69, Canto XII. XXXVIII. 6. Il Tasso nella Gerusalemme St. 30, Canto II: Ho petto anch'io che ad una morte crede Di bastar solo e compagnia non chiede. XXXIX. 3. sospira al pensiero in chiusa del Madrigale XXXI: Un raggio eterno di virtù risplende. Che l'alme illustri all'alte imprese accende. XL. 2. Potrebbe interpretarsi il Tasso stesso, che supplicando la granduchessa chiedeva però il favore del di lei marito. La luna non avendo luce che per il sole, fidava il poeta, che dal principe assistito, avrebbe aiutata in valevole guisa la sua fortuna se non la sua ambizione; e mancante di quell'appoggio si considerava come nulla. |
Post n°898 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Viator, non vedi, ben puoi onorarmi, Ché sotto orrida terra e inculti marmi Un ricco e bel tesor spesso s'asconde. Francesco Accolto è qui, cui sì seconde Fur le grazie del ciel, che degno parmi Di farse udir con più soavi carmi Che mai s'udisse cosa degna altronde. Qua giù mostrasse appena; perché come Loco degno di sé non vide in terra: Tornosse in ciel là d'onde prima venne. Piange hor il mondo, che non ch'altro il nome Non seppe, et hor invan cercando l'erra, Ché nol conobbe mentre seco il tenne. [2 Di Giovanni Mahona] Ne la stagion ch'ogni albero si spoglia De la bella sua verde antica veste Non penetrato ancor l'orrenda peste, De' regii tetti havea l'altera soglia, Quando non sazia ancor sua ingorda voglia Del sangue afflitto de le ignote teste, Disse: homai tempo è che mie cagne infeste A più onorata e ricca preda scioglia. E rimirando infra la turba scelse Francesco Accolto, o nobile olocausto, Che di vittima tal primiero felse. Piangi tu, Roma, che di tante excelse A' sacri tempii tuoi quel giorno infausto Future spoglie la speranza svelse. [3 Di Giovanni Mahona] Francesco Accolto qui sepulto sono, Già fulminato da celeste telo Due volte, prima in fuoco, poscia in gelo Tacito in questo, in quel con grave suono. Ma questo morte, e quel mi die' perdono; Così distratto il mio corporeo velo Fu ne' verdi anni e meritai dal cielo Di sempre lieta e immortal vita dono. Non che mi spiaccia che di qui partita Sia l'alma e giunta a più securo porto, Per corre il frutto di mia onesta vita; Ma uno stimolo sol meco ne porto Ch'a mostrar mia virtù nel cor unita Com'io sempre bramai, fu il tempo corto. [4 Di Giovanni Mahona] Dignissim'ombra, che d'intorno aggiri Questa felice è glorïosa tomba, Qui chiama hor quella candida colomba Ch'al ciel volò con sì soavi giri. Per ch'oda il suon di tanti alti sospiri, Di cui quest'aere sì dolce rimbomba, E senta hor questa, hor quella altera tromba Sparger le lodi de' suoi bei desiri; Si dirà bene ancor ch'assai men gisse, Ch'a mezzo il corso che finir volea Sol per lasciar di sé qui chiari esempii. Che punto men del debito non visse Se più vivendo acquisto non potea Far di più ricchi e più famosi tempii. [5 Di Giovanni Mahona] Altera tomba, hor di pompose spoglie Il cielo e tu superbi ornate il volto, Poi che del caro mio signor Accolto Tu 'l corpo tieni, et ei lo spirto accoglie. Portate al tempio hor d'adempìte voglie Il don promesso in ricchi drappi involto; Io del mio cor, che seco mi fu tolto, Lagrime porterò, sospiri e doglie. Godete hor lieti, voi ch'io voglio in pene Finir mia vita, che finir disio Anzi di viver pur sempre mi piace, Per pianger sempre il mio perduto bene E per cantar, se degno ne son io, Sue belle lodi, e nostra eterna pace. [6 Di Giovanni Mahona] Spirto gentil, ch'in sì tranquillo porto Dopo grave fortuna lieto entrasti, Perché il tuo servo, che qui sol lasciasti, Di menar teco non ti fusti accorto? Se quella fe' ch'io ti portai, e porto In vita e 'n morte senza fin trovasti E trovi ancor; veder puoi quanto errasti Ch'io pur bramai teco esser vivo e morto. Ma se pur qui vuoi tenermi anco, a questa Man' che per sé medesma non arriva Di tue alte lodi al segno, vigor presta. Che s'io non ho di che sol pianga, o scriva, Altro da far quà giù più non mi resta Per cui sia degno senza te ch'io viva. [7 Di Giovanni Mahona] S'io pur potessi col mio basso ingegno Far testimonio in versi allegri, o mesti Del bel disìo che sempre in cor avesti Non d'aquistar già sovra gli altri il regno; Ma sol di fare a' buoni alto sostegno, Exempio a' rei de' tuoi bei studii onesti, I' direi ben con ragion: vuoi ch'io resti Vivo di viver dopo te non degno? Ma se in ciò vano ogni mio sforzo vede, Signor, la tua pietà, n'altro so io Onde aggradir ti possa ancor mia fede. Prego ch'adempi il giusto mio desio, O in ciel seco mi chiami a la mercede, O qui trovi materia al servir mio. Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
Post n°897 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Natale de pace Er fatto che a Nnatale só' ppiù bbone, Ma, si tte fà ppiacere, famo finta Più bbono d'antri ggiorni nu' mme sento, Ma puro si esse bbono nu' mme piace, Valerio Sampieri |
Inviato da: Vince198
il 25/12/2023 alle 09:06
Inviato da: amistad.siempre
il 20/06/2023 alle 10:50
Inviato da: patriziaorlacchio
il 26/04/2023 alle 15:50
Inviato da: NORMAGIUMELLI
il 17/04/2023 alle 16:00
Inviato da: ragdoll953
il 15/04/2023 alle 00:02