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Messaggi del 25/12/2014

Il Dittamondo (3-02)

Post n°908 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO II

Seguendo a dí a dí il mio cammino, 
Ascoli vidi, Fermo e Recanata, 
Ancona, Fano, Arimino e Urbino. 
Ne l’ultima cittá, ch’è qui nomata, 
trovai quel vago sol, trovai la rosa 5 
che sopra Lun de’ mali spini è nata. 
Or s’alcuna favilla in te riposa 
d’amor, lettore, pensa qual divenni 
ché la mia mano qui notar non l’osa. 
Ma tanto ti vo’ dire: appena tenni 10 
l’anima al cor, sí dolce l’aescava 
l’alto piacer co’ suoi vezzosi cenni. 
Or quivi fu che ’l partir mi gravava; 
e poi la donna, per la qual fui desto 
nel bosco, ov’io dormia, pur m’affrettava. 15 
Alfin partio da quel bel volto onesto 
contra ’l voler, come dal tempio Achille, 
quando fu prima in Troia ad amar desto. 
Con piccol passo fuggia le faville, 
quando Solin mi riprese: "Che fai? 20 
Se vai così, tardi vedremo il Nille". 
Io non rispuosi, ma co’ piè sforzai 
quel gran disio, che mi traeva a dietro 
come ago calamita fe’ piú mai. 
La Potenza, il Lamone, il Savio e ’l Metro 25 
passato avea, quando fummo a Ravenna, 
che per vecchiezza ha il mur che par di vetro. 
La novitá, che piú quivi s’impenna, 
è ch’ogni pola per San Polinaro, 
che può per lo paese muover penna, 30 
vengono a festeggiare e far riparo 
quel dí, come gli uccelli diomedei, 
al tempio suo, che fu giá ricco e caro. 
Cosí movendo in vèr Romagna i piei, 
sempre cercando e dandomi lagno 35 
s’alcuna novitá trovar potrei, 
a piè de l’alpe udimmo ch’era un bagno 
cinto d’un muro e pietre fitte in esso 
che fan, di notte, altrui buono sparagno. 
Per quel cammin, che piú ci parve presso, 40 
per la pineta passammo a Ferrara, 
dove l’aquila bianca il nido ha messo. 
Ne’ suoi lagumi un animal ripara 
ch’è bestia e pesce, il qual bivaro ha nome, 
la cui forma a vedere ancor m’è cara. 45 
La casa fa incastellata, come 
a lei bisogna e la testa e le branche 
tien sopra l’acqua e ’l piú vive di pome. 
Qual d’oca ha i piè, che si tengon con l’anche, 
coda di pesce e però non convene 50 
che l’acqua a la sua vita troppo manche: 
onde, quando per accidente avene 
che ’l lago cresca, per la casa monta 
e cosí in esso la sua coda tene. 
Ferrara lungo il Po tutta s’affronta; 55 
la gente volentier lá s’infamiglia, 
per lo buon porto che quivi si conta. 
Per quella via, che in vèr Chioggia si piglia, 
senza piú dir ci traemmo a Vinegia, 
torcendo dove fu Adria le ciglia. 60 
Se tra’ cristian questa cittá si pregia, 
maraviglia non è, sí per lo sito, 
sí per li ricchi alberghi onde si fregia. 
E per quel che da molti io abbia udito, 
Eneti fun, Paflagoni e Troiani, 65 
che ad abitar si puosono in quel lito. 
Per mar passammo verso gl’Istriani, 
co’ quai lo Schiavo e Dalmazia confina 
di vèr levante e piú popoli strani. 
Vidi Fiume e ’l Carnaro a la marina, 70 
Pola, Parenzo e Civita nova, 
Salvor, nel mar, dove uom talor ruina. 
Passammo un fiume, che per sole e piova 
fellon diventa, il qual Risan si dice, 
e Istria vidi come nel mar cova. 75 
Vidi Trieste con le sue pendice: 
e tale nome udio che gli era detto 
perché tre volte ha tratto la radice. 
Pur lungo il mare era il nostro tragetto 
in vèr ponente e Timavus trovammo, 80 
ch’al ber mi fu e al veder diletto. 
Cosí andando, nel Friuli entrammo: 
vidi Aquilea, Durenza, e ’l muramento 
che fe’ lá Agoncio e Liquenza passammo. 
Poi, per vedere Italia a compimento, 85 
volgemmo in vèr la Marca Trevigiana, 
che prende de la coda il Tagliamento. 
Quivi è il Mesco e la campagna piana, 
se non da costa, ove ’l giogo la cinge, 
che passa in Osterich e ’n Chiarentana. 90 
L’onore e ’l ben, che di lá si dipinge, 
si son que’ da Collalto e da Camino, 
ben ch’ora il lor per forza altrui costringe. 
Noi trovammo Trevigi, nel cammino, 
che di chiare fontane tutta ride 95 
e del piacer d’amor, che quivi è fino.
Lo suo contado la Piave ricide 
e ’l Sile; e ciascun d’essi alcuna volta 
a chi li passa per gran piena uccide.
Questa per sé il Viniciano ha tolta.

 
 
 

Tasso madrigali 41-45

Post n°907 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri

alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

41

Vaga amorosa stella, 
Col Sol tu sola in Ciel lampeggi e splendi: 
Tu sola il mondo accendi, 
D'amor tu sola agli occhi altrui sei bella. 
Luce pur l'Alba anch'ella 
E tutto il Ciel col guardo suo rischiara, 
Ma ben di te, di lei, del Sol più chiara 
Novella Alba riluce 
Che in fronte il Sol, negli occhi il giorno adduce. 


42

Che nuova luce è quella 
Che 'l Ciel de' raggi suoi tutto innamora, 
La terra sì di sue bellezze infiora, 
Che par di man d'amor fatta sì bella? 
Quest'è l'Alba novella 
Che 'n sen rose e viole 
Ha: nella fronte Amor, negli occhi il Sole. 


43

Alba, di stelle cinta 
E di puro sereno, 
Adorna il vago, il bel tranquillo seno, 
Non di vermigli e bianchi fior dipinta. 
Se mai da pietà vinta 
Gradisti un prego humano. 
Deh! ch'io non preghi il tuo bel Sole invano. 


44

Alba, di stelle adorna 
Vestita di sereno eterno manto, 
Volgi benigna il tuo bel lume santo. 
Alla mia notte un bel mattin ritorna. 
Senza te non s' aggiorna 
Perchè giammai non vuole 
Senz'ALBA il giorno riportarne il Sole. 

45

Non più levate in alto 
Gl' occhi a mirar l'eterne luci sole, 
Ma'n terra un' Alba, un Sole, 
Rimirate quaggiù sul verde smalto. 
In me stesso n' esalto 
Che quando in tanta luce il guardo invio 

Tanto mi sento alzar ch' io son piùceh' io.


Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti.

XLI. 

Dante descrive la bellezza di Beatrice con un paragone: 
La sua bellezza mi parve un riso Dell' Universo 

XLII. 

5. Alba novella. Nella Gerusalemme St. 8, Canto II:
Ma come apparse in del alba novella^ ec.
St. 78, Canto V:
Non aspetta al partir falba novella ec.
7. Del Tasso si può dir come d'un espertissimo pittore. La mano obbediente all' ingegno leva dalla tavolozza l'attraente colorito e fa che si rasBomigli alle sue immagini. La chiusa di questo Madrigale ha le attrattive dell'altro dello stesso autore: Al tuo dolce pallore ec. cosi per le stesse rime finito:
Che più? L'alba ornai sdegna
L'ostro, e invaghisce il ciel di tue viole
E teco brama impallidirsi il sole.

XLIII.

1. Alba, di stelle cinta ec. La serena alba domina in cielo azzurro tutta splendida di stelle all'intorno. Il Tasso usa cingere per coronare e se n'ha un esempio in quel Madrigale: Vw, Montagne frondose ec, tra i pubblicati dal Resini, riprodotto qui a pag. 38.
4. Nel Cod. 55, CI. VII, Magliabechiano, intitolato Del Signor Strozzi alla Gran Ducessa: Non di rose e di bei fior dipinta, ec. Il raffazzonatore si studiò d'allontanare il modo del Tasso. All'alba dà pregio il Tasso di adornarsi di vermigli insieme e bianchi fiori ora il petto ora il crine. Nella Gerusalemme St. 15, Canto IV:
Le guance asperse di que'vivi umori.
Che giù cadean fin della veste al lembo,
Parean vermigli insieme e bianchi fiori.
Se pur gl'irriga un rugiadoso nembo
Quando sull'apparir de'primi albori
Spiegano aJlCaure liete il chiuso grembo;
E l'alba che li mira e se n'appaga,
D'adornarsene il crin diventa vaga.
7. Questo e il seguente Madrigale rafforzan l'osservazione al v. 2 dell'altro Madrigale XL: Dall'Alba e non dal Sole, ec. Vennero forse acclusi in qualche lettera che ora non si conosce, scritta però alla granduchessa, chiedendo a lei ed al marito una grazia. Era veramente una premurosa e calda raccomandazione del genere di quelle che furono al poeta, cosi per fare, consolate alcuna volta o con una tazza d'argento oppure con venticinque scudi! 

XLIV. 

5. S'aggiorna. Aggiornare in neutro passivo farsi giorno alla latina illuscere, diem illucere. Petrarca Son. 9: 
Ma dentro dove mai non s'aggiorna.
Gravido fa di se il terrestre umore.
E Son. 94:
Degli occhi è il duol, che tosto che s'aggiorna.
Per gran disio de'be'luoghi a lor tolti
Danno a me pianto ec
Ed il Tasso nel Sonetto Ecco l'Alba, ecco il dì, che se ritorna, ec.
Da questa amica luce, onde s'aggiorna,
Lunge siate voi nembi e procelle,
Lunge voi spirti e scosse al ciel ribelle.
Ch'ebbe corona U gran Clemente adoma. 
7. Nella Gerusalemme St. 50, Canto XIX:
Goffredo alloggia nella terra e vuole,
Rinnovar poi Vmìollo al novo tote.

XLV. 

7. Ch'io son più ch'io. Frase letta in Dante nel canto XVI v. 18 del Paradiso, quando il Poeta ò in dialogo con Cacciaguida: 

. ... Voi siete il padre mio, 
Voi mi date a parlar tutta balde%%a^ 

Voi mi levate anch'io son più ch'io.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXVIII)

Post n°906 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXVIII

[Di Orazio Vecchi]

Come suol ch'alla patria fa ritorno
Dal mondo nuovo, o dalle fortunate

Isole, che gran turba ha sempre intorno;

Questo è quell'altro i passi e le pedate

Sceglion di lui che son pur curiosi

D'udir novelle di quelle contrate.

A tal son' io, così son qui bramosi

D'intendere ch'andò, chi ste', chi venne

Costì alle nozze di sì illustri sposi.

Pensate or voi se tutto quel ch'avvenne
Degno d'historia il possi dir con voce
S'allo scriver non bastan mille penne.
Stanno per pormi, s'io nol dico, in croce;
Voglion saper de l'opra il gran lavoro
E gran disio per ciò gli sprona e coce;
Tal ch'io sono nel mezzo di costoro
Ché del mio ragionar pendono intenti
Come parlasse il papa in concistoro
Tutti gli rendo docili et attenti
E talor dò risposta a più d'un paio
Che m'intronan' l'orecchie d'argomenti.
Fatti lingua, dico io, fatti d'acciaio
Ch'a ragionar de' vostri chiari gesti
Bisogna ch'io mi stracci e cavi il saio.
Né pur avvien ch'un'ora mai m'arresta
Per far palese a chi creder non vole
Quanto ogn'altro signor dopo voi resti.
Descrivo prima la superba mole,
Il regal edificio in varie forme,
Ornato sì ch'ognun strabiliar suole.
Ché il Castellan non teme anco se dorme
Chi possi a quella Rocca insidia farsi,
Che non si temon del nemico l'orme.
Né gl'uomini dovranno essere scarsi
Al creder mio, se col tempo predico
Sassuol potrà a ogni città agguagliarsi.
Io son, signor, per dirla in grand'intrico,
S'a tutti bado, nondimen m'ingrasso
Di voi parlando come un beccafico.
E poi soggiungo che cotesto Sasso
(Gran miracol lor par) produce in copia
Tale che ciaschedun può andar a spasso.
Egli è pur ver quando vi fu, ma inopia
V'è pur formento quivi, che trarebbe
La fame, ho quasi detto, all'Etiopia.
E chi già mai vin più eccellente bebbe,
Che scaturiscon da quei santi colli,
Chi non dice com'io pazzo sarebbe.
Che malvagie! Che Greco! Che fan molli
Gli animi ben robusti e questi ponno
Chi un sorso sol ne gusta far satolli.
Dirò di me che più non trovo il sonno
Da che son privo di sì buon liquore,
Dico da senno, se mi sete donno.
Domandatelo al fido servitore
Del vostro paesano, che mi fece
Berne di quel che tocca il vivo core.
È ver ch'un ne gustai come la pece,
Che mi de' il canovaio, anzi Caronte,
Che chi ne trinca le budella rece.
Che diavol d'uomo è quel, che brusca fronte,
Che zeffo è il suo, che razza d'uom salvatico!
Possi egli pur volar come Fetonte.
È forza pur ch'io 'l dica: ei non è pratico,
Vuo' ch'egli sappia la mia complessione,
Né darmi il vin fumoso, o troppo acquatico.
Pregalo pur, se sai, fagli un sermone,
Dagli anco del Messer, digli che Marco
Mi vuol gran bene, in fin non vuol canzone.
Ma ritorniamo ove lasciai, al varco
Dico che a questi vado descrivendo
Il tutto, benché a me sia troppo carco.
L'ordine poi vi espongo arcistupendo
Ch'era diviso a varï della terra,
E di tutti gli uffici il conto rendo.
D'uomini mostro il numero da guerra
Che su la nobil piazza in ordinanza
Fer' col rimbombo scuotere la terra.
Militia eletta, che il gran Xerse avanza
Di numer no, ma ben di disciplina,
Di coraggio, di fede e di baldanza.
Su le muraglie poi fer' gran ruina
Muschette, artigliarie, schioppi e bombarde
Tosto che la signora fu vicina.
Di mille e mille lumi avampa et arde
La terra, che 'l troiano incendiò pare,
Fra le picche, le lancie e l'alabarde.
Oh che vista! soggiungo, al vagheggiare
Tante e varie pitture, che nel chiaro
Pareano a' riguardanti opre sì rare.
E dame e cavaglier venìano a paro:
Prima molti cavalli alla leggiera,
Ben in arnese innanzi a questi andàro.
Così, dopo una lunga e nobil schiera,
Apparve Clelia, e sotto a' trionfali
Archi passò di tanti onori altèra.
I motti arguti e gravi quanti e quali,
Ch'erano su i proverbi, io non potrei
Dir le prefisse cose a questi tali;
Ma bene il contenuto e dei trofei
E de l'imprese dissegli i concetti
Che sol nel senso pago gli rendei.
Facil mi fu poi dirgli i varî effetti
Di trombe, squille, tamburi e concerti
Musici che s'udian con dolci affetti.
Con parole ch'espressero i gran' merti
Di sì gran donna e le sue lodi altere
Da poeti di nome e d'arte esperti.
Ma quel che fu mirabile al vedere
Era coperto il ciel di tante stelle
Che sembravan per dio tante lumiere.
E ragion che a mirare opre sì belle
Non pur occhio mortal vi sia concorso,
Ma mille occhi del ciel, mille fiammelle.
Qui forte mi riprese, il signor Borso:
Che naso hai d'ogni cosa! Perché troppo
Io poeteggi essendo in ciel trascorso.
Che basta ben s'io vado di galoppo
Senza volare, non avendo io l'ali
Però il mio ragionar strinsi in un groppo.
E diedi a dirmi cose generali
Come di sontuosi e gran conviti
Che ai Luculli ed ai Gracchi andàro eguali.
Che i paggi e gli scudieri eran vestiti
Con nobili livree, et altri ancora,
Staffier, guattari, cuochi eran forbiti.
E dopo cena senza altra dimora
Si stava in suono, in canto, in danza e in ballo
Fin che spuntasse fuor quasi l'aurora.
Dei prodi cavaglier e dei cavalli
Gli dissi ancor, che ponno star a prova
Co' Scipï in giostra, o pur con gl'Annibali.
E par che nell'Iddea mi si rinnovi
D'Amadio quella lunga diceria
Di tanti campioni a far la prova.
Ma troppo lungo inver' stato sarìa,
Se tutti avessi detto i colpi fieri
Ch'eran fatti con core e maestria.
De' Barbari gli dissi più leggieri
Che cervi al corso, ch'emuli di gloria
Prestamente volar fra quei sentieri.
La scena alfin dipinsi ch'un'istoria
Merita certo, e lor mostrai in fatto
L'Arcadia vera degna di memoria.
L'abete, il faggio, il pin fur' messi in atto
E tanti altri arboscelli, e tanti rivi
E frutti natural al gusto, al tatto.
Si vider colti allor i gigli vivi,
E tante varietà d'erbe e di fiori,
E armenti che pareano fuggitivi.
Dai lauri l'ombre avean dai mirti odori
Specchi di fiumi e canti d'augelletti
Scherzi di pesci e strilli di pastori.
Di belle ninfe i vezzosetti aspetti
E di bifolchi agli abiti e a' sembianti,
Un tempio solitario, in rozzi tetti.
Non v'eran l'aure estive a noi spiranti
(Questa mancò), ma delle donne il fiato
Dolce esalava fuor fra i circostanti.
V'era il Vrato istrïon, così nomato,
Nacque per recitar, e credo certo
Ch'a Plauto et a Terenzio abbia insegnato.
È di bianca lanugine coperto
Con barba lunga al petto e sembra a punto
Un satiro che vada pel deserto.
Ride, se torna ben, piange in un punto
Si fa tutto orgoglioso e a un tempo istesso
Umil diviene a i gesti ha 'l saper giunto.
Due ninfe ha seco, e se le tiene appresso
In custodia, cioè gli serba il frutto
Che a Diana pudica hanno promesso.
Hanno più d'un amante arso e distrutto,
Che in penitenza il padre Pan Linceo
Quattro giorni le tenne a pane asciutto.
Degl'intermedii poi stupir gli fèo,
Che il carro della luce era guidato
Da Fetonte, che in Po tosto cadèo;
E del miser garzon mal consigliato
Piansero le sorelle al miser caso
Con un canto che i sassi avrìa spezzato.
Sorse dal palco il monte di Parnaso
Col Pegaso, e la fonte d'Elicona
Che a tutti di stupor s'affilò il naso.
Le Muse e Apol' facean lieta corona;
Ma con dolce concerto quei di dentro
In lor vece ingannar' ogni persona.
V'era una nube, che dal cielo al centro
Scese tre volte, o quattro, in varï casi,
Notate più, ch'ora nel bello io entro.
Da l'arte furon tutti persuasi
Che pregna nube fosse e d'acqua piena,
E l'architetto istesso il credea quasi.
Ne l'ultimo apparir si fe' sereno,
A poco, a poco l'aria e il ciel s'aperse
Mostrando ciascun dio letizia piena.
Nove armonie là sù s'udìan diverse
E stavan per l'udito e per la vista
Le folte genti nel stupor immerse.
E a quella gloria che pur là s'acquista
Per merto e per virtù fu richiamata
Quella ch'è Pia e così bella in vista.
Vieni di gigli d'oro incoronata,
Vieni, gloria del Tebro, anzi del cielo
Vien pur, che la tua sede è qui parata.
Questo invito con santo e puro zelo
Da cinque ninfe con bel canto s'ode,
Che fuor de' boschi uscir' con aureo telo.
Molte altre cose degne di gran lode
Lasciai, che nel più bel della leggenda
La campana di terza ecco che s'ode.
A questo suon tralascio ogni faccenda,
Che suono di leuto, o d'epicordo,
Non v'è che più di questo il cor m'accenda.
È pur gran cosa quando mi ricordo
Che questa campanella mi nutrisce
Più che ginepro non fa 'l merlo, o 'l tordo.
E chi sprezza il suo suono impoverisce,
Che del poco un'assai si fa pian piano
S'or oggi, e s'or domane altri fallisce.
E l'impetrar perdono è tutto vano,
Ché a nissuno già mai si fa ristoro,
Anzi se gli fa un Vespro Siciliano.
Non Posso poi contendere con loro
Che sfodrano il Concilio e 'l Viguerio
Che toglie il pane a chi non serve il coro.
E s'io facessi un furto, o un adulterio,
Più facilmente spararei perdono;
Ma questo è solo ingiusto desiderio.
E ch'ho da far nel mal? S'io parangono
Lo stato mio con quei di manco stima
Trovo che Dio mi fa troppo del dono.
Tanto, o misero l'uom quanto si stima,
(Dice colui) non starò già per questo
Di non cantar e scriver prosa e rima.
Ma udite ben, signor, vi fo un protesto,
Che non badiate a quel ch'io scrivo in carta,
Ché a' vostri cenni sarò sempre presto.
Ch'io vi son servo già la fama è sparta,
Son qui a sua posta, né mi cur che suoni
La campana di terza, anco di quarta.
Perché, s'altri s'acquista de' patroni,
Fruttano più con l'aura del favore
Che le stentate distributïoni.
Massime voi (dico per Dio) signore,
Che mai non comportasti ch'alcun servo
Tolto gli fosse il pan del suo sudore.
Io per me il so che la memoria servo
Nel seno, e lo san quei che costì furo
A servirvi, e chi il niega è un uom protervo.
Oh!, dice il Paesan', che troppo curo
Qualche utile che vien da questa chierca;
Ma s'inganna per certo, ch'io vel giuro:
Io ben il dovrei far, ché lo ricerca
Il carico degli anni che io mi trovo,
E sin qui la fortuna m'è noverca.
Tre croci ho su la schiena, e una ne covo
Che a partorir non starà un lustro intero,
E pur un soldo in borsa non mi trovo.
Né mai n'havrò, se non fo come Homero,
Che l'opre sue vendeva a suon di lira
Per con star di danar sempre leggiero.
Qui par che il paesan meco s'adira,
Dicendo: e dove spendi tanta entrata
Che 'l tuo canonicato ogn'anno tira?
Io l' dirò, facciam pur buona derrata
Centocinquanta scudi ho di guadagno,
E in capo a l'anno io devo la corata.
Chi, mi risponderà qui il buon compagno,
Assotiglia la spesa soffre e stenta,
Digiuna per piacer, questo è sparagno.
Oh questo no, e dirò ch'ogniun' senta;
Vengan(o) pur le petecchie e 'l mal francioso
A chi per arricchir miser diventa.
Prodigo non son già, non son goloso,
E 'l conto vi farò per far vedervi
Ch'io non m'avanzo un bagatin' tignoso.
In primis vuo' una fante che mi servi,
Quest'è il dovere, e quivi vuol salario
E un paggio che l'ufficio fa de' servi.
E poi v'è sempre un sopranumerario,
E ogn'un senza pensier mangia e tracanna,
Ché il pane non si chiude nell'armario.
Ho casa a fitto buona, e ogni capanna
(Si sa pur dov'è grosso, e buon pressidio)
Paga un occhio, e 'l terren si vende a spanna.
Il vitto mio è honesto, e non invidio
A nissun cittadin, che per havere
Del buono anch'io farei un'homicidio.
Vuo' su la mensa mia sempre vedere
Vittella, e se si può qualche augel grasso,
Tosto come cominciano apparere.
E talor anco vado passo passo
Spolpando un buon cappone, o pollastrelli
Per ogni gran denar mai non li lasso.
Da magro vuo' de fiumi o de ruscelli
E pesci, o pescarie, che vanno in stampa
E spesso le Morene, o Tarantelli.
Due fuochi voglio, e godo che la vampa
In alto saglia in camera, o in cucina,
Che una massa di legna sempre avampa.
Usano gli Spagnoli ogni mattina
Al sol scaldarsi longo le muraglie;
Ma il VECCHI a questa strada non camina.
Et a' suoi tempi d'altre vittovaglie
Procuro, e viver voglio da par mio,
E lasciamo stentar alle gentaglie.
Di pernici, o fagian non mi cur' io,
Né pavoni e hortolani, ch'io so bene
Che questo si conviene a Marco Pio.
Ogn'anno vuo' che sian le botti piene,
E sopra tutto s'è possibil, voglio
Del vin che tutto l'anno il dolce tiene.
Di tutte queste cose nulla i' coglio,
E conforme al mio grado par più giusto
E onesto se talor vestir mi soglio
Quando un paio di calze e quando un busto;
E s'io voglio vestirmi questo verno,
Mezza l'entrata spendo a conto giusto.
Ho una pelliccia che più non discerno
Se sia volpe, o castron, varo, od agnello:
Contende fra l'antico e fra 'l moderno;
Ma par che si sostenta col duello,
Che di martore sia; poi ch'io la veggio
Martirizzata a colpi di flagello.
Compro ogni giorno libri, e quel ch'è peggio
Mi vuol un Brevïario alla moderna,
Se no' ch'io fo sclamar tutto Correggio.
E dove lascio la pietà paterna?
Qualche aiuto vuol pur fra l'anno almanco
Che spense già degli occhi la lucerna.
Sempre mi trovo poi (dio grazia) al fianco
Forestier' che mi mangiano le coste,
Né d'animo per questo io vengo manco.
Oh fate il conto un poco, o messer oste,
Dico a voi, paesan', s'al tutto basta
Quest'entratella, e s'al dover m'accoste.
Il mal conosco al mover della testa
(Disse il Falloppia) e 'l fisico provvede
La febbre, s'a l'infermo il polso tasta.
Hor per troncar alle mie ciancie il piede
Questa vita qual sia mi godo in pace,
Ché chi vive contento assai possiede.
Mirate il Braida, che sogghigna e tace,
Come che dica quel teston sì sodo:
L'umor del VECCHI col mio si conface.
Così al mio ragionar ficcando il chiodo
Le man vi bacio, e alla signora assai,
Piegando il ciel per così illustre nodo.
Non mi offro più, ché già mi vi donai.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (XXVII)

Post n°905 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXVII

[Di Antonio Cinuzzi]

O d'Helicona dee, che dall'oscuro
Sepolcro e dall'oblìo cieco et eterno

Traete l'uomo e lo serbate in vita,

Date favore al mio disire interno,

Riscaldatelo voi, fatel' sicuro

Al poggiar di quest'alta, erta salita;

Bench'io facessi già di voi partito

Molti anni sono, non vi sdegnate ch'io

Torni, almen questa volta, al vostro albergo,

Poi ch'io le carte vergo

Per onorar quasi un terreno dio

Il gran Cosmo d'Etruria oggi gran Duca,

Il cui chiaro valor lungi risplende

Sopra gl'altri di questa, o d'altra etate.

Io chieggio a' gravi affanni libertate,
E pace, onde dir possa quel ch'intende
L'ascoso mio pensiero, e lo riduca
In chiare note, e a lieto fin' conduca.
Datemi voi lo stile, e dolci e tersi
Sien per voi questi accenti e questi versi.
L'alto re de le stelle, e gran motore,
Che fe' ciò che si vede, e lo mantiene
Senz'altro mezzo e sol co 'l suo volere
A tutto quel di su scende e vîene
Del suo spirito infonde e del suo amore;
Ma dove meno, e dove più sincere
Mostra le forze sue possenti e vere,
Quindi è ch'or' questo, or' quel mortal si scorge
Per fatti egregi sopra il mondo alzarsi,
E grande, e chiaro farsi,
Tanto che maraviglia al mondo porge.
Quindi gl'Ercoli al cielo e gl'alti Augusti
Saliro, ch'ebber luogo in fra le stelle
Mercurio, Marte, Apollo et altri molti,
De' quai da questa vil carne disciolti
Non fia per l'opre lor' tante e sì belle
Chi giamai del liquor di Lethe gusti.
Hor fra quelli onorati, e fra quei giusti
Sarete, Cosmo, voi, poich'in voi sempre
Più largo è Giove ognora in varie tempre.
Ecco in segno di ciò con la corona
Real di grande il degno nome in dono
Oggi vi dà chi tien di Pietro il manto,
Chi presso e lungi fa sentire il suono
Dell'alta sua bontà. Tutto Elicona
Dovrebbe qui voltar le rime e 'l canto.
Egli, che 'l folle e 'l rio del saggio e santo
Scernendo col giudizio suo divino
Dà premio a' buoni, e dà castigo a' rei
Fra gli altri semidei
Ha visto voi, più raro e pellegrino,
Pien di casto pensier, d'alto costume,
Ornato e pronto d'animo e di forza
A la difesa di sua santa sede.
Questa donque e maggiore a voi mercede
Convien, come a chi sempre al ben si sforza,
A ciò che voi fuor d'ogni uman costume
A la cieca età nostra un chiaro lume.
Siate, onde poi ognuno al ben s'appigli
Nel dir, nel fare, a voi si rassomigli.
Tra quanti mai natura e 'l ciel crearo
Uomini glorïosi, uomini illustri,
Che furo a li scrittori ampio soggetto,
Stati son mai in tanti e tanti lustri
Che del nome di grande, e d'altro chiaro
Segno onorati sieno, e ognor nel petto
Dessero a gran' pensieri alto ricetto.
Fra questi pochi, o onor dell'età nostra,
O di valor, di vera gloria tempio,
O di ben fare esempio,
Splendete voi per l'alta virtù vostra.
Quindi è che 'l Pio pastor tanto cortese
Non sol fu a voi di cotal' don; ma ancora
A quei che sono e che giamai saranno
Eredi vostri, e 'l scettro in man terranno.
E ben conviensi, poi che già dimora
Quell'ardente virtù, per cui palese
Fate veder' vostre onorate imprese
Nel vero successor del sangue vostro
Degno d'ogn'alto e ben lodato inchiostro.
A lui 'l governo avete dato in mano
Di città e di provincie, e mari, e porti,
Giovane ancor, ma sopra gl'anni saggio.
Egli discerne le ragioni e i torti
Con vista grave, e con sembiante umano
Del nobil sì, come del vil lignaggio,
Simil'al sol, che luce col suo raggio
In basso e in alto, e in ogni parte scalda.
Quest'orme son de la paterna altezza,
Ove ha la pianta avvezza
Di posar come in base giusta e salda,
Del regnar' questi son gli accorti esempi
I quai maraviglioso il mondo ammira
Con bella invidia, e con soave scorno,
Et a ragion; poscia che quanto intorno
Distende l'ocean le braccia e gira
Non fu mai ne' moderni e antichi tempi
Chi 'l rio più distinguesse dal sincero,
E meglio conoscesse il falso e 'l vero.
La dotta Grecia, che si vanta e gloria
Di tanti savi suoi, che con le leggi
A molte patrie procacciar' salute,
S'avesse hauto voi dentro a' suoi seggi,
Dopo non l'era far d'altri memoria,
Ché di tutti è maggior vostra virtute,
In cui mirando, immantinente mute
Restan le lingue. Or non avete voi
Creato mille leggi, e dato norma
D'onesta vita, e forma
A varie e strane genti, non ch'a noi?
Non piglian Francia e Spagna e Italia tutta
Da voi consiglio, sì com'anco aiuto?
Non porgete voi loro armi e tesoro?
E Roma u' lascio e 'l suo purpureo coro,
Che s'è spesso per voi salvo renduto?
Nel qual' vittrice in la terrena lutta
Splende la stirpe vostra, che condutta
Vedremo un giorno, spero, a tanto pregio
Ch'avrà de' sacri onori il sommo fregio.
Fur' gli avi e padri vostri illustri e degni
D'ogni eccelsa fortuna; ma promesso
Avean tal' dono a voi stelle fatali,
A voi, signore, han tanto ben concesso
Nell'età nostra quei celesti segni
Per far che noi levassem' suso l'ali.
De' pensieri a bell'opre et immortali,
Che l'impara da voi chi ben le stima,
In voi fan le virtù vago drappello,
E com'in questo, e quello.
Una n'appare, o due; onde ben prima
Tornarà l'Arno vostro al proprio fonte
Che manchi il vostro nome, o che s'estingua
Tutti quei che fur' mai pregiati e rari,
O che saranno fien' di voi men' chiari.
Deh! avess'io come il mio voler' la lingua,
E le voci, e le rime ardite e pronte,
Che risonar farei la valle e il monte
Di vostre lodi; ma mia sorte vuole
Ch'io le mormori in semplici parole
Direi di voi fin' dalle fascie come
Dal padre vostro in voce alta chiamato
Ricolto fusto nell'ardite mani,
Né stelle fisse allor, né largo fato
Tenne cura di voi dal pie' alle chiome;
Ma chi 'l ciel regge; onde non pur fe' vani
Col suo poter, ma discacciò lontani
Tutti i perigli ch'a le picciol' membra
Né ferme ancor nuocer potevan forse,
Quando da sì alto scorse
Il corpo vostro, orrore a chi 'l rimembra.
Direi del grato conversare, onesto
Negl'anni giovenili, e dell'ingegno.
Del cuor sdegnoso d'ogni cosa vile,
E che 'l più generoso e più gentile
Non vide il sol, né giunse alcuno al segno
Dove giugneste voi, che sempre desto
Foste ad opre onorate, e pronto, e presto,
Indicij certi di trovare il guado,
Di passare ove or' sete a tanto grado.
Io cantarei che 'l quarto ancor finito
Lustro non era, che lo scettro aveste
De la bella città, che l'arno inonda,
E come la giustizia in man prendeste,
Prima il governo, e cominciaste ardito
Aver per lei al navigar seconda
Quell'aura, ch'or' vie più che mai v'abbonda,
E se, come sovente fa fortuna,
Che con virtù mal' volontier s'accorda,
Cieca ai buon' sempre e sorda
Gravi ingiurie v'ha fatto, e non pur' una,
L'alta vostra virtù, che fin' al cielo
Alzar vi vuol tutte l'ha rese vane,
E resolute in fumo, in nebbia, in polve,
E seguirei com'ora il crine avvolve
A la man vostra per seguir' lontane
Le vostre imprese con ardente zelo
Fin' al caldo maggiore, e al maggior' gelo.
Or se in voi con virtù fortuna è insieme,
Convien che 'l mondo v'ami e di voi trieme.
Signor, io lodarei l'ordini e i modi
Ch'avete dato, e con divin giudizio
Per fare altrui ragione al vostro tempo,
Per lo cui mezzo d'ogni inganno e vizio
Altri si tolga, si ritenga, e snodi,
Che fien' laudati infin che sarà 'l tempo
Raccontarci com'anco in breve tempo
Ridotto avete ad ogni piccol cenno
Via più bella milizia, e d'ogni sorte,
Nobile, saggia, e forte,
Che quei di maggior stato unqua non fenno,
La qual' non loda pure il re de' fiumi,
Che sì superbamente come al mare,
E quel già sì possente antico Tebro;
Ma Eufrate ancora e Tana, et Histro et Hebro,
E vostre forze omai son note e chiare,
Vivi del vostro onore altieri lumi,
A colui che i Cristiani e i lor costumi
Cotanto offende, e per voi resta indietro
Che non soggioga Italia, e Roma, e Pietro.
Contra questo tiranno, che la santa
Nostra legge disprezza, e che sol vive
Di rapine, superbo et orgoglioso,
Fondato avete in su le belle rive
Dell'arno e posto l'onorata pianta
Del tempio al santo martir glorïoso
Della chiesa di Dio, già in terra sposo,
La cui religïon di croce rossa
Porta per voi alla e verace insegna,
Che di lei solo è degna.
Quella virtù che far vermiglio possa
Del suo sangue per Cristo il mare e i liti,
E mille suoi forti guerrier già indietro
Respingon le rie genti, e ne fan preda;
Onde convien' ch'egli si roda e ceda,
Lassando d'ogni parte il mar quïeto.
Questi signor con voi si stanno uniti,
Ch'un vostro cenno che li chiami e inviti
Faran veder che l'Otomanno volta
Le spalle, e sua virtù resta sepolta.
Ma non potrei già dir con mille penne
Quanta industria, quant'arte e quanta cura
Ne' superbi edifitii ognor si veggia
Onde vostra memoria oblio non cura
Quel grande Augusto, che l'imperio tenne
Anni cinquantasei ne la sua reggia,
Con tanta gloria appena vi pareggia.
Ordinar veggio alti disegni et opre
Ovunque io miro, ovunque il passo muovo,
Per cui più ognor di nuovo
L'alto vostro saper maggior si scuopre.
In opra vostra son ben mille Apelli,
Mille Lisippi, e mille Fidii e mille
Inventor d'arti nobili e famose.
Questi le più segrete e più nascose
Opre degne ch'il cielo all'uom instille
Fanno palesi, questi con pennelli
Rendon viva, e con punte di scarpelli
L'imagin vostra, e li scrittor' l'interna
Virtù, ch'assai più val, faranno eterna.
D'imagini ornan' molti l'ampia sala,
Camere e loggie, e di mirabil fregi
Sì ben che nulla al ver' più s'assomiglia.
Miransi in maestate i volti egregi
De' vostri antichi, e come in alto sale
De' Medici la nobile famiglia
Ch'Italia e 'l mondo empie di maraviglia.
Fra l'altri illustri ivi si vede il vecchio
Cosmo, dal popul richiamato e accolto
Con dolce e lieto volto,
Far de la sua bontà lucente specchio
Ancora agli empi e fieri suoi nimici,
Onde Arno poi ne la grat'urna scrisse;
(Bel don), ch'ei fu de la sua patria padre.
Fur' infinite l'opre sue leggiadre,
E saggio sempre in ciò che fece e disse,
Ebbe, siccome voi, possenti amici
E fur' chiamati i giorni suoi felici,
A Dio pe' tempi infin' là dove atroce
Morte sostenne il Signor nostro in croce.
Quel gran saggio Lorenzo, e tanto fido
A la sua patria che d'andare elesse
Del re nimico in forza per salvarla,
Quivi com' uom' si vede a cui porgesse
E lode e premio da ciascun suo lido
Italia tutta, poi ch'in consigliarla
Si mostrò padre; onde ogni storia parla,
Splendonvi ancor per vie più alte insegne
E Clemente e Leon', con mitre e chiavi,
E con modi alti e gravi
La via del ciel par che ciascun' insegne;
Ma qual fulmine appar, qual vivo fuoco,
Qual nuovo Achille, anzi qual vero Marte
Il gran genitor vostro, altiero, invitto,
Cui cedon tutti quei di cui fu scritto,
Tanto alto in greche, od in romane carte.
Ahi! morte rea, che se tardavi un poco
Non era Italia e Roma preda e gioco
Del barbarico stuolo, e non sentiva
Tante percosse questa tosca riva.
La tosca riva, che per voi le piaghe
Sue antiche ha poi saldate, oggi quieta
Vi rende e dona eterne grate e lode,
Né pur ella è per voi gioconda e lieta;
Ma tutte l'altre rive amene e vaghe,
Che l'uno e l'altro mar vagheggia e gode,
Sentito il gran romor ch'intorno s'ode
Ovunque andate: ecco, ognun lieto grida,
Ecco il gran Duca di Toscana, et ecco
Parla e risponde ecco;
Ma in voce tal che par che canti e rida.
Austria gioisce, e si rallegra Spagna,
Francia fa festa, con le cui corone,
Col cui sangue real congionto siete.
Or' ogn'altro pensier tuffate in Lethe,
Che sol di gioia ognor non vi ragiona,
Dentro al petto nissun v'odia, o si lagna
Di voi, se dal ver (dir) non si scompagna,
Sepolta è omai l'invidia e ognuno a gara
V'ama, v'ammira e ad onorarvi impara
Chiunque alberga dal mar' Indo al Mauro,
E dall'onde più fredde a le più calde
Viene a rendervi onor, viene a lodarve;
Né son' queste, signor, fint'ombre, o larve;
Ma vere glorie vostre, intere e salde,
Degne d'esser accolte in bel tesauro
Degne di qual più sia pregiato lauro;
Onde non pur Gran Duca; ma vi chiama
Gran Re già il mondo, e tal' v'aspetta e brama.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 
 
 

Guido Ghisilieri

Post n°903 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Guido Ghisilieri

Troppo lungo riuscirebbe il riferire le parole d' elogio che scrissero di Guido Ghisilieri i raccoglitori delle notizie biografiche circa gli esordi di nostra lingua. Ne parlò infatti Leandro Alberti nella descrizione dell'Italia, cui fece eco il Jacobilli da Foligno: ne ragionò Pellegrino Orlandi ne' suoi appunti sugli scrittori bolognesi, lo Zoppio nella Poetica sopra Dante, il Crescimbeni nella storia della Volgar Poesia; ed il Bembo, e il Montalbani, e il Gobbi ed altri ancora, che salutarono il Ghisilieri fra i padri e maestri più benemeriti dell'italiana favella. Di questi dunque non riferiremo le parole; tanto più che alcun di essi incorse talvolta in errori, o per difetto di notizie o per troppo facile credenza: ma ci staremo invece col diligente e laborioso Fantuzzi, che tiene il primato degnamente fra quanti diedero contezza degli scrittori bolognesi.

Da tipizzino di Lorenzo e da Naviglia de' Fantuzzi nacque il nostro Guido circa l'anno 1244 e non prima, perocché del 1268, avendo già perduto il padre, occorrevagli l'autorità d'un curatore per la validità de' suoi contratti: il che più non accadeva nell'anno appresso, essendo uscito di minorità: e ciò avveniva in que' tempi all'età di 25 anni.

Avea frattanto menato in moglie Gisla o Ghisilla d'Arimondo dei Romanzi, che il fece padre d'una fanciulla di nome Riguliosa, la quale andò poi a marito con Ugolino dei Torelli. Nel 1273, il 28 d'agosto, essendo Guido gravemente infermo, fece testamento, e lasciò una somma al suo Paroco dei Santi Fabiano e Sebastiano a favore de' poveri: d' onde apparisce che già fin d'allora i Ghisilieri avevano le case loro in via Pietrafitta, d'onde poi cacciati vennero a furor di popolo nel 1445, quando, per ira di parte ed ambizione di signorìa, ebbero ucciso a tradimento Annibale I. Bentivoglio che tenea il primato in Bologna. Della quale scelleraggine essi ed i Ganetoli raccolsero il mal frutto coll'esilio, e perdettero per confiscazione le loro terre, e, per sempre, le orgogliose loro stanze, ridotte dall'irata moltitudine in un monte di rovine. Allora fu che una parte de' Ghisilieri riparò nell'ospitale Piemonte, dove poi ebbe la culla quell'illustre che fu il Pontefice Pio V. II. qual Pontefice intercedette dal Senato bolognese il ritorno in patria de' suoi congiunti, ed ottenne che fosse riaperta quella porta maledetta di sant'Isaia, d'onde uscirono centovent' anni prima gli assassini del Bentivoglio fuggendo di Bologna: anzi, in segno di grato animo, riedificolla tutta nuova a spese proprie, e gli fu dato di poterla chiamar Porta Pia dal nome suo.

Ma troncando la digressione a cui ci ha spinto la memoria de' Ghisilieri turbolenti, noteremo che il nostro Guido non soccombette a quella grave malattia che l' ebbe tratto in fin di morte; rilevandosi dagli archivi de' notai, sotto l'anno 1277, come fosse presente ad alcuni testamenti e codicilli, qual testimonio, un Frate Guido Ghisilieri dell'Ordine dei Minori, il quale, giusta le indagini scrupolose dell'erudito letterato e sagace critico dottor Gaetano Monti, era il poeta bolognese di cui finora abbiam tenuto discorso. Ei pare che, rimasto vedovo di Gisla ed allogata la figliuola, vestisse l'abito regolare de' Minori, e chiudesse la vita in quel Convento de' Francescani, dove per certo avea riparato il fratel suo Bartolommeo che vi morì in sull'entrare del quartodecimo secolo. E sembra che Guido l'avesse preceduto nel sepolcro, poichè nell'anno 1299 la madre di lui, dettando un legato a favore dell'Ordine Serafico, si dichiara genitrice del solo frate Bartolommeo e non di Guido, il quale era ito a cantar versi laddove s'innalza al sommo Amore un'armonia sempiterna.

Visse dunque il Ghisilieri poco più di cinquantanni, lasciando senza dubbio lodatissimi versi, se (per tacere di Dante) quell'illustre poeta che fu il Petrarca, l'ebbe in gran pregio, insiem con Onesto e coll'insigne Guinicelli. Il Gravina, il Redi, il Fontanini e il Crescimbeni si diffusero in larghi encomi del nostro rimatore: e il Gorbinelli (come Pier Jacopo Martelli asserisce) attribuì al Guinicelli alcune eleganti rime dell' altro Guido.

Noi però, senza discutere se le rime stampate dal Gorbinelli fossero piuttosto dell'uno che dell'altro bolognese, daremo qui un sonetto assai raro, che Guido Ghisilieri indirizzava all'esimio verseggiatore Bonaggiunta Urbiciani da Lucca.

Uomo che è saggio, non corre leggiero,
Ma guarda e pensa come vuol misura:
Poichè ha pensato ritien suo pensiero
Insino a tanto che il ver l'assicura.

Uom non ne deve andar mai troppo altero,
Ma dee guardar suo fato e sua natura:
Folle chi crede veder sol lo vero,
Se non pensa che altrui vi ponga cura.

Volati per l'aria augelli in strane guise,
Ed hanno lor diversi operamenti,
Nè tutti d'un volar nè d'un ardire.

Dio, natura e lo mondo in grado mise,
E fé' dispari senni e intendimenti;...
Perciò il primo pensier niun deve dire.

Certamente nè questi versi nè quelli del Guinicelli son tutto oro, ma sentono però di tal bontà di concetto e di forma, che tuttavia debbono aversi in gran pregio, perchè dimostrano che la nuova favella d'Italia era già vigorosa in Bologna, mentre in altre plaghe della Penisola o non era ancor nata, o giacevasi in culla, o cominciava allora allora a muovere il passo vacillante ed incerto.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Guido Guinicelli

Guido Guinicelli

Quest'insigne Bolognese, che l'autorevole Nannucci non si peritò di chiamar padre dell'italica letteratura, fu il massimo fra i poeti che prima di Dante scrissero in lingua volgare. Oscure e vaghe son le notizie della sua vita: però sappiamo ch'ei fu nipote d'un tal Magnano che apparteneva al Consiglio di Credenza l'anno 1234, ed era figliuolo di Guinicello, che aveva parte negli affari della città, come recano gli atti pubblici del 1246 e del 1257. Esso Guinicello fu dell'ordine dei nobili, giudice e giurisperito, ma non dottore di leggi. Andò Podestà a Narni per tutto l'anno 1266, e viveva ancora nel 1275, ma vecchio e mentecatto: per la qual cosa il nostro Guido co' fratelli Giacomo ed Uberto, attesa l'incapacità del padre, eseguivano a questo tempo ogni pubblico contratto dove il chiedesse la condizione de' loro negozi di famiglia.

Benvenuto da Imola, nel suo Commento alla Divina Commedia, asserisce che la famiglia dei Guinicelli era uscita da quella de' Principi, devota alla parte imperiale: e in lui, antico e diligente, hassi a porre credenza. Il medesimo Benvenuto appella Guido del titolo di Miles, che sonava allora cavaliere; e lo dice ancora Judex, cioè giurisperito. Non fu però dottor di leggi, quantunque Dante dica di lui e degli altri insigni Bolognesi di que' tempi, essere stati dottori illustri e di piena intelligenza di cose volgari: e ciò ne mostra come la parola dottore s'abbia a intendere maestro o professore che dir vogliamo.

Fu Guido di Guinicello legato in matrimonio a Beatrice dell'illustre gente della Fratta, che in principio di quel secolo avea dato un Vescovo alla città. - L'anno 1274 riuscì assai travaglioso alla famiglia del nostro poeta, per la cacciata della parte de' Lambertazzi, ch'era quella ch'essi seguivano. Del decrepito Guinicello, che ancor vivea, non fu tenuto conto, perchè già, come s'è detto, era privo di senno. Uberto, il minore de' figli, come fellone e ribelle (secondo il linguaggio di quei giorni) ebbe il bando in solenne forma, con la confiscazione de' beni. Guido e Giacomo vennero soltanto mandati a confine fuori del contado bolognese; ma non è cognito in quale stato e in quale luogo riparassero.

Guido non visse troppo lungo tempo nel suo esilio, e morì di fresca età nel 1276. In questo anno addì 13 novembre, la vedova Beatrice assumeva la tutela dell'unico figlio che di lui restava, nominato esso pure Guido, fanciullo allora di poca età, trovandosi ch'era ancor pupillo nell'anno 1287.

Ma per tacere de' congiunti di Guido e far ritorno a lui solo, diremo con Benvenuto da Imola (che insegnava umane lettere in Bologna l'anno 1370), essere stato il bolognese poeta uomo saggio e facondo, d'ingegno ardente e di focosa lussuria; il perchè Dante finge trovarlo nel Purgatorio fra coloro che vi lavavano le loro sozzure. Il paziente , parlandogli da prima senza scoprirsi, gli dice per quali peccati egli ed altri si stessero ivi penando; quindi se gli dà a conoscere, e l'Alighieri si rallegra al sommo d'averlo incontrato, e lo saluta per padre suo e degli altri migliori che mai avessero usato dolci e leggiadre rime d'amore: di che il Bolognese fu meravigliato e confortato, poichè l'illustre pellegrino e colla parola e collo sguardo mostrava d'averlo sì caro.

E caro l'aveva senza dubbio, se col nome di nobile l'appellò nel Convito, con quello di massimo nel libro della volgare favella. Né Guido era indegno di queste lodi, poichè egli si sollevò sopra tutti gli altri poeti del tempo suo; e di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso, lucido, soave ed ornato lo appella Lorenzo de' Medici. Ed avvegnachè Guido cantasse solo d'amore, secondo il costume più generale di que' tempi, non cantava però secondo la maniera degli idioti, ma con alte e morali sentenze al modo de' Platonici: laonde Bonaggiunta Urbiciani da Lucca con essolui rallegravasi perchè avesse mutata la maniera dei piacevoli detti d'amore, e la forma e l'essere, sì che aveva con quell'arte avanzato ogni altro poeta.

Ma poichè a metter fede delle cose e ad indurre persuasione valgono gli esempi assai più che le parole, qui porgeremo un breve saggio del poetare di Guido, preferendo alle altre Canzoni questa, che il Monti ebbe a chiamare sublime.

Al cor gentil ripara sempre Amore,
Siccome augello in selva alla verdura;
Nè fece Amore anzi che gentil core,
Nè gentil core, anzi che Amor, Natura;
Che, appena spunta il Sole
Sì tosto appare lo splendor lucente,
Nè fu davanti al Sole:
E prende Amore in gentilezza loco
Così propriamente
Come il calore in chiarità di foco.

Foco d'Amore in gentil cor s'apprende
Come virtute in pietra preziosa;
Chè dalla stella valor non discende
Anzi che il Sol la faccia gentil cosa.
Poi che n'ha tratto fuore
Per sua forza lo Sol ciò ch'è a lei vile,
E la stella ha valore;
Così lo cor, ch'è fatto da natura
Schietto, puro e gentile,
Donna, a guisa di stella, lo innamora.

Amor per tal ragion sta in cor gentile,
Per qual lo foco in cima del doppiero:
Splende allo suo diletto chiar, sottile,
Nègli starla altrimenti; tant'è fiero!
Così prava natura
Rincontra Amor, come fa l'acqua il foco
Caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende riviera [Nota: Stanza, magione]
Per suo consimil loco,
Corri' diamante del ferro in la miniera.

Fere Io Sole il fango tutto'l giorno;
Vile riman, né il Sol perde calore.
Dice uom altier: gentil per schiatta torno;
Ei sembra il fango, e 'l Sol gentil valore.
Chè non dee dar uom fé
Che gentilezza sia fuor di coraggio [Nota: Fuor del cuore, o dell'anima]
In dignità di re,
Se da virtute non ha gentil core;
Com'acqua ei porta raggio,
E il Ciel ritien la stella e lo splendore.

Splende in la intelligenza dello cielo
Dio creator più che a' nostr'occhi il Sole.
Ella intende 'l fattor suo oltra'l velo,
E il cielo, a lui volendo obbedir, cole
E consegue al primiero
Del giusto Dio beato compimento.
Così dar dovria 'l vero
La bella donna, che negli occhi splende,
Del suo gentil talento
A chi amar da lei non disapprende.

Donna (Dio mi dirà) che presumisti?
(Sendo l'anima mia a lui davanle):
Lo ciel passasti e fino a me venisti,
E desti in vano amor me per sembiante.
A me convien la laude,
E alla reina del reame degno,
Per cui cessa ogni fraude.
Dir gli potrò: tenea d'angiol sembianza
Che fosse del tuo regno:
Non mi sia fallo s'io le posi amanza. [Nota: Amore]

E tanto basti per far fede del casto ed elegante poetare di Guido, dal quale l'Alighieri derivò concetti affettuosi, e frasi leggiadre, e talora interi versi. Il perchè non è meraviglia se più volte nelle opere sue lo adornò di lodi non comuni, siccome quegli che preso alle bellezze di sì gran maestro, non isdegnò di farsegli discepolo, e d'esaltarne il valor letterario, degno dell'altrui imitazione.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Il Dittamondo 3, indice

Post n°901 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Libro 3

Cap. 01   Cap. 02   Cap. 03   Cap. 04   Cap. 05   Cap. 06 
Cap. 07   Cap. 08   Cap. 09   Cap. 10   Cap. 11   Cap. 12 
Cap. 13   Cap. 14   Cap. 15   Cap. 16   Cap. 17   Cap. 18 
Cap. 19   Cap. 20   Cap. 21   Cap. 22   Cap. 23

 
 
 

Il Dittamondo (3-01)

Post n°900 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO I

Omai è tempo ch’io drizzi lo stile
a trattar de’ paesi, ch’io cercai,
ciascuna novitá o cara o vile. 

Solino in prima e io apresso entrai 
per quella fabbricata e lunga strada 5 
che fa parlare di Vergilio assai. 
Di dietro ci lasciammo la contrada, 
dove Saturno ammaestrò a noi 
piantar la vigna e seminar la biada. 
Vidi dove Catillo visse, poi 10 
che lasciò Tebe, e ne la cittá fui 
che a la balia d’Enea dá fama ancoi. 
Vidi Vesuvio, che dá lume altrui, 
e vidi i bagni antichi, buoni e sani, 
dove annegò Baia e gli ostier sui. 15 
Soavi colli e piacevoli piani 
noi passammo e trovammo molte selvi 
di pomi ranci e d’altri frutti strani. 
E, sempre andando, spiavamo se ’l vi 
fosse pur da notare cosa alcuna 20 
d’uccelli, di serpenti e d’altre belvi. 
Vidi quel monte, ove stette digiuna 
Circes piú volte a far suoi incantamenti 
al lume de le stelle e de la luna. 
E vidi quelli, onde parlan le genti, 25 
che la sorore visitando andava, 
l’erbe cogliendo a far soavi unguenti. 
Passai la Mora, che ’l paese lava, 
la Verde, e non ci fu la terra ascosa 
dove Medea, morto il figliuolo, stava. 30 
Pur dietro a la mia guida, che non posa, 
andai tanto, che ad Aversa giunsi, 
dove trovai la gente dolorosa. 
E poi che con alcun lá mi congiunsi 
e seppi la cagion del disconforto, 35 
forte nel cuor per la pietá compunsi. 
Detto mi fu che un giovinetto accorto, 
bello e gentil, ch’aspettava il reame, 
a tradimento v’era stato morto. 
Non credo che mai fosse in gente brame 40 
aguzza per disdegno, come quella 
mostrava a la vendetta d’aver fame. 
La gran cittade lacrimosa e bella, 
la qual fu detta giá Partenopea, 
sconsolata piangea per la novella. 45 
Quivi l’infamia di Caserta rea 
e de li Infragnipani e de la Cerra 
per questa crudeltá morta parea. 
Io fui nel castel, che, se non erra, 
la gente quivi un uovo ci mostraro, 50 
ch’esso rompendo, il muro andrebbe a terra. 
Tanto è il paese piacevole e caro 
di belle donne e d’altra leggiadria, 
che piú che non dovea vi fei riparo. 
Apresso questo, prendemmo la via 55 
cercando Puglia e Terra di lavoro, 
le novitá notando, ch’io udia. 
In Arpi e in Benevento fei dimoro 
per riverenza a Diomedes, il quale 
porta ancor fama del principio loro. 60 
Apuglia è detta, ché ’l caldo v’è tale, 
che la terra vi perde alcuna volta 
la sua vertú e fruttifica male. 
E come quel che va e sempre ascolta, 
seguitava, orecchiando, il mio disio, 65 
che prese in vèr Salerno la sua volta. 
Siler, Vulturno e uno e altro rio 
passammo e vidi novitá, ch’a dire 
lascio, per non far lungo il parlar mio. 
Apresso questo, ci mettemmo a ire 
quasi tra il levante e ’l mezzogiorno, 
ognora dimandando per udire. 
Cosí volgemmo a la punta del corno 
che guarda la Cicilia, dov’è Reggio, 
cercando la Calavra poi d’intorno. 75 
Vidi Tietta, dove giá fu il seggio 
de la madre d’Achilles e di questo 
per testimon quei del paese cheggio. 
Vidi lá dove ancora è manifesto 
che le cicale diventaron mute, 80 
perché Ercules dal suon non fosse desto. 
Vidi la boa con le sanne acute, 
che la bufola allatta e di tai fiere 
non son di qua fra noi altre vedute. 
Passato avea dove fun le schiere 85 
ardite d’Annibal di sopra Canni, 
quando cadde di Roma il gran podere. 
Ma non cercammo senza molti affanni 
Isquillaci e Taranto e Brandizio, 
perché v’èn malandrin da tutti inganni. 90 
In quella parte ci fu dato indizio 
che Bari v’era presso, ond’io divoto 
di Nicolao visitai l’ospizio. 
Similemente, quando ci fu noto 
monte Galganeo, lá dov’è Sant’Agnolo, 95 
in fino a lui non mi parve ire in vôto. 
Con lo studio che fa la tela il ragnolo, 
ci studiavam per quel cammino alpestro 
e passavam or questo or quel rigagnolo. 
Noi andavam, tra ponente e maestro, 100 
lungo ’l mare Adriano, in verso il Tronto, 
lasciando Abruzzo e ’l suo cammin silvestro. 
Entrati ne la Marca, com’io conto, 
io vidi Scariotto, onde fu Giuda, 
secondo il dir d’alcun, di cui fui conto. 105
La fama qui non vo’ rimanga nuda 
del monte di Pilato, dov’è il lago 
che si guarda la state a muda a muda, 
però che qual s’intende in Simon mago 
per sagrare il suo libro lá su monta, 110 
ond’è tempesta poi con grande smago, 
secondo che per quei di lá si conta.
 
 
 

Tasso madrigali 36-40

Post n°899 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

36

Ecco l'Alba ecco il Sole, 
Inchinatevi pur novelle erbette, 
E voi destate, aurette, 
Col dolce mormorar gigli e viole; 
Sì bel mattin spuntar giammai non suole. 
Dal Sol mai tanta luce non si sparse; 
Ma qual in terra apparse Alba novella 
Che fa nel Ciel sembrar l'altra men bella? 


37

All'apparir di nova Alba celeste 
L'altra si discolora: 
Mirate il bel sereno ella ne indora! 
L'altra nel Ciel di tenebre si veste. 
S'acquetan le tempeste 
Ov'ella il Sol de' suoi begli occhi gira, 
L'altra d'invidia tinta ne sospira. 


38

Se più che'n Cielo il Sole 
Quaggiù l'Alba riluce. 
Dal Sol com'ella suole 
La luna haver non vuole homai più luce, 
Che senno esser non crede, 
S'a quel che splende più, splendor non chiede. 


39

Se più che 'n Cielo il Sole 
Quaggiù l'ALBA risplende, 
L'Alba s'al ben oprar gli animi accende, 
Se la Bianc'Alba in terra è nuovo Sole, 
Dalla Bianc'Alba vuole, 
E non dal Sol, la Luna ombrosa e mesta 
Che la Bianc'Alba di splendor la vesta. 


40

Dall' Alba e non dal Sole, 
Anzi dal Sol l'oscura Luna mia 
Suo lume haver desia. 
Dal Sol ch' innanzi l'Alba, 
Anzi coll'Alba apparir suole;
Dal Sol dall'ALBA il vuole.



Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti.

XXXVI. 

1. Ecco falba, ecco il dì che in se ritorna, ec. Principio d*un sonetto del Tasso 
per l'incoronazione del papa Aldobrandini, Clemente VIII.
3. Ricorda quel Sonetto deir Autore Aura ch'or quinci scherzi or quindi voli, ec .
4. Come a'gigli sarian miste viole, ec. Gerusalemme St. 69, Canto XII. 

XXXVIII. 

6. Il Tasso nella Gerusalemme St. 30, Canto II: 

Ho petto anch'io che ad una morte crede 
Di bastar solo e compagnia non chiede. 

XXXIX. 

3. sospira al pensiero in chiusa del Madrigale XXXI: 
Un raggio eterno di virtù risplende. 
Che l'alme illustri all'alte imprese accende. 

XL. 

2. Potrebbe interpretarsi il Tasso stesso, che supplicando la granduchessa chiedeva però il favore del di lei marito. La luna non avendo luce che per il sole, fidava il poeta, che dal principe assistito, avrebbe aiutata in valevole guisa la sua fortuna se non la sua ambizione; e mancante di quell'appoggio si considerava come nulla.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXVI)

Post n°898 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXVI

[1 Di Giovanni Mahona]

Di m. Giovanni Mahona pisano

Se d'oro, o gemme, ornate le mie sponde,

Viator, non vedi, ben puoi onorarmi,
Ché sotto orrida terra e inculti marmi
Un ricco e bel tesor spesso s'asconde.

Francesco Accolto è qui, cui sì seconde
Fur le grazie del ciel, che degno parmi
Di farse udir con più soavi carmi
Che mai s'udisse cosa degna altronde.

Qua giù mostrasse appena; perché come
Loco degno di sé non vide in terra:
Tornosse in ciel là d'onde prima venne.

Piange hor il mondo, che non ch'altro il nome
Non seppe, et hor invan cercando l'erra,
Ché nol conobbe mentre seco il tenne.

[2 Di Giovanni Mahona]

Ne la stagion ch'ogni albero si spoglia
De la bella sua verde antica veste
Non penetrato ancor l'orrenda peste,
De' regii tetti havea l'altera soglia,

Quando non sazia ancor sua ingorda voglia
Del sangue afflitto de le ignote teste,
Disse: homai tempo è che mie cagne infeste
A più onorata e ricca preda scioglia.

E rimirando infra la turba scelse
Francesco Accolto, o nobile olocausto,
Che di vittima tal primiero felse.

Piangi tu, Roma, che di tante excelse
A' sacri tempii tuoi quel giorno infausto
Future spoglie la speranza svelse.

[3 Di Giovanni Mahona]

Francesco Accolto qui sepulto sono,
Già fulminato da celeste telo
Due volte, prima in fuoco, poscia in gelo
Tacito in questo, in quel con grave suono.

Ma questo morte, e quel mi die' perdono;
Così distratto il mio corporeo velo
Fu ne' verdi anni e meritai dal cielo
Di sempre lieta e immortal vita dono.

Non che mi spiaccia che di qui partita
Sia l'alma e giunta a più securo porto,
Per corre il frutto di mia onesta vita;

Ma uno stimolo sol meco ne porto
Ch'a mostrar mia virtù nel cor unita
Com'io sempre bramai, fu il tempo corto.

[4 Di Giovanni Mahona]

Dignissim'ombra, che d'intorno aggiri
Questa felice è glorïosa tomba,
Qui chiama hor quella candida colomba
Ch'al ciel volò con sì soavi giri.

Per ch'oda il suon di tanti alti sospiri,
Di cui quest'aere sì dolce rimbomba,
E senta hor questa, hor quella altera tromba
Sparger le lodi de' suoi bei desiri;

Si dirà bene ancor ch'assai men gisse,
Ch'a mezzo il corso che finir volea
Sol per lasciar di sé qui chiari esempii.

Che punto men del debito non visse
Se più vivendo acquisto non potea
Far di più ricchi e più famosi tempii.

[5 Di Giovanni Mahona]

Altera tomba, hor di pompose spoglie
Il cielo e tu superbi ornate il volto,
Poi che del caro mio signor Accolto
Tu 'l corpo tieni, et ei lo spirto accoglie.

Portate al tempio hor d'adempìte voglie
Il don promesso in ricchi drappi involto;
Io del mio cor, che seco mi fu tolto,
Lagrime porterò, sospiri e doglie.

Godete hor lieti, voi ch'io voglio in pene
Finir mia vita, che finir disio
Anzi di viver pur sempre mi piace,

Per pianger sempre il mio perduto bene
E per cantar, se degno ne son io,
Sue belle lodi, e nostra eterna pace.

[6 Di Giovanni Mahona]

Spirto gentil, ch'in sì tranquillo porto
Dopo grave fortuna lieto entrasti,
Perché il tuo servo, che qui sol lasciasti,
Di menar teco non ti fusti accorto?

Se quella fe' ch'io ti portai, e porto
In vita e 'n morte senza fin trovasti
E trovi ancor; veder puoi quanto errasti
Ch'io pur bramai teco esser vivo e morto.

Ma se pur qui vuoi tenermi anco, a questa
Man' che per sé medesma non arriva
Di tue alte lodi al segno, vigor presta.

Che s'io non ho di che sol pianga, o scriva,
Altro da far quà giù più non mi resta
Per cui sia degno senza te ch'io viva.

[7 Di Giovanni Mahona]

S'io pur potessi col mio basso ingegno
Far testimonio in versi allegri, o mesti
Del bel disìo che sempre in cor avesti
Non d'aquistar già sovra gli altri il regno;

Ma sol di fare a' buoni alto sostegno,
Exempio a' rei de' tuoi bei studii onesti,
I' direi ben con ragion: vuoi ch'io resti
Vivo di viver dopo te non degno?

Ma se in ciò vano ogni mio sforzo vede,
Signor, la tua pietà, n'altro so io
Onde aggradir ti possa ancor mia fede.

Prego ch'adempi il giusto mio desio,
O in ciel seco mi chiami a la mercede,
O qui trovi materia al servir mio.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Natale de pace

Post n°897 pubblicato il 25 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Natale de pace

Er fatto che a Nnatale só' ppiù bbone,
me pare più 'na cosa che sse dice;
pe' ccrede ciò da spreme la cervice
só' ssempre carognette le perzone.

Ma, si tte fà ppiacere, famo finta
ch'è ppropio propio come la ricconti,
dai!, forza, famo 'n po' li finti tonti,
stennemola de rosa 'sta tua tinta.

Più bbono d'antri ggiorni nu' mme sento,
puro perché nun ce trovo 'r bisogno,
pe' cquanto me ce sforzo de stà attento.

Ma puro si esse bbono nu' mme piace,
chiudemo l'occhi e famose 'sto sogno:
pe' ttutti 'sto Natale sia de Pace.

Valerio Sampieri
24 dicembre 2014

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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