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Messaggi del 26/12/2014

Rime inedite del 500 (31-32)

Post n°915 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXI

[Di Salomone Usquè]

Di Salomone Usquè hebreo in morte di Carlo Quinto.

Erga il gran figlio al maggior padre augusto

Di gemme ornato il globo della terra
Perché alle imprese sue in pace e in guerra
Le piramidi fien sepolcro angusto,

Ponga sé stesso poi lo Scita ingiusto
Dall'alta mole, e chi la Gallia serra
Pieghi gli omeri e 'l pondo chi l'atterra
Col gelato Germano e l'Indo adusto.

Siano i trofei non forti usberghi o dardi;
Ma scettri e mitre e dell'invitto Alcide
Sopra le mete i lumi atri e funesti.

Cinga un breve poi l'urna e dica questi,
O vïator, che qui rinchiuso guardi
Ha per sepolcro ciò che vinse e vide.


XXXII

[1 Di Orazio Ariosti]

Dialogo nelle nozze del Principe di Stigliano e della signora Isabella Gonzaga figlia del Duca di Sabioneta.

Giunone
Scendi, meco, regina
Del terzo cielo, scendi,
E la tua face accendi
Del foco ch'il più casto amore affina.

Venere
Scendo e ben son presaga,
O moglie del gran Giove,
Che fian le nostre prove
Contra fugace verginella e vaga.

Giunone
Già vinta, più non fugge
Dal mio giogo soave;
Ma sol teme ella e pave
Quel cui pur desïando si distrugge.

Venere
Opra de l'arte mia
Fia d'affidar sua tema.

Giunone
Deh! senza timor sia,
O nel profondo core almen lo prema.

Venere
Cedi, casta Isabella,
Al tuo gradito sposo.

Giunone
Non sia 'l tuo cor ritroso.

Venere
In virtù d'esta mia sacra facella.

Giunone e Venere
Cedi, e di Sitigliano
E Sabbioneta i regi
Per te lor chiari fregi
Uniscan col lor sangue alto e sovrano.
Cedi, né i tuoi sospiri e i mesti sguardi
O 'l tuo pianto ritardi
Quella beata prole
Ch'esser de' al mondo più chiara ch'il sole.


[2 Di Orazio Ariosti]

Dialogo nelle nozze di Carlo Duca Di Savoia e di Catterina figlia del Re di Spagna (1585).

Imeneo
Perché tua tromba tace
Messaggera del tutto?
Perché, Amor, l'arco tuo lento si giace
In tanta occasïon senza alcun frutto?

Amore e Fama
Perché con lieti canti
E con tua chiara face
Tu i nostri offici d'adempir ti vanti?

Imeneo
Non son tai sposi questi
Che loro esser poss'io
Amor, la fama, e delle nozze il dio?

Amore
Tu dunque in modi onesti
Gli aggiungi et io farò poi co' miei strali
Nei mortai petti lor piaghe immortali.

Fama
Et io lasciando che tu canti solo
Carmi di gaudio in mezzo a lieto stuolo,
Portarò i nomi loro
A lo Scitha, a l'Hibero, a l'Indo, al Moro.

Imeneo
Anzi poscia che l'ali
Tutti egualmente abbiamo
Cantando in un gli andiamo
Fin che lor gloria sovra il ciel ne sale.
Fama, Amore, Imeneo
O Carlo, o Caterina, o Dora, o Tago,
Vostri cari legami ognuno intenda
E' vostri nomi apprenda
Essa di celebrarmi ognor più vago
Tutte le cetre a voi siano converse
Di pretïosi inchiostri
E tutti a voi, Parnaso, apra i suoi chiostri.


[3 Di Orazio Ariosti]

Orazio Ariosti

Per sanar del mio cor l'indegna piaga
L'alma ogn'arte, ogni sforzo insieme aduna
E di ciò ch'il ciel porti, o la fortuna
Di far rimedio al suo dolor s'appaga.

Né perché ognor dolce memoria, e vaga
Nequitosa l'alletti et importuna
Quel lume che la scorge, a lei s'imbruna
Né del suo buon voler punte si smaga.

Lume del ciel la scorge, e nobil sdegno
La move, sdegno che i sopiti sensi
Suole eccitar coi generosi gridi.

Ma s'è debol lo spron, fral di sostegno,
La scorta è quella, ond'a beati lidi
Per chi la segue in questo mar pur viensi.

[4 Di Orazio Ariosti]

Del medesimo

Ben vedi con quant'arte, anima trista,
Tenti d'entrar pietà nel nostro seno,
Pietà di lei ch'il suo natìo veleno
Coprendo appar tutta dogliosa in vista.

Voce di pianto e di sospiri mista
Ah non ti mova, ah in te non venga meno
Quel rigor che distrutto in un baleno
Per forza Amor ne' cori imperio acquista.

Degna è di Dio costei ch'odiò noi sempre,
E s'ella ben mostrò gradirne un tempo
Fel per far poi maggior nostro dolore.

Ahi d'un mostro pietosa, al nostro onore,
A te nimica, ohimè! tutto il tuo corpo
Fia che vilmente ornando si distempre.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Onesto degli Onesti

Post n°914 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Onesto degli Onesti

"Ed ecco il quarto di cotanto senno."

Il rimatore Onesto bolognese fu tenuto comunemente dottor di leggi o di medicina, e della famiglia degli Odofredi. Altri il vollero fratello del celebre Odofredo giurisperito, altri nipote, cioè nato da Alberto figliuolo di lui: delle quali due opinioni nè l'una ne l'altra può sussistere. Egli è vero che Odofredo Denari, autore degli amplissimi Commenti a tutti i libri del Gius civile, (i cui discendenti si chiamarono poscia degli Odofredi) ebbe un fratello nomato Onesto; ma questi non fu dottore per verun modo, e morì assai vecchio in sul 1280, laonde non potè avere corrispondenza di rime con Cino da Pistoia, che a quel tempo doveva essere ancora fanciullo, come pur sappiamo il poeta Onesto averla avuta. Alberto poi di Odofredo, dottor di leggi pur esso e famoso quanto il padre, non ebbe figliuoli di nome Onesto, ma Francesco, Niccolò e Benedetto, i due primi legittimi il terzo naturale, come da innumerevoli memorie e dal suo testamento si raccoglie. Nè scorrendo l'intera genealogia di quel casato, altro Onesto si ritrova tranne solamente il detto fratello del celeberrimo Odofredo; talchè in tuti'altra famiglia il poeta Onesto convien cercare.

Ella è cosa assai più agevole lo stabilire pertanto chi egli non fosse, che il trovare chi veramente fosse. Contuttociò, poichè gli antichi rimatori bolognesi si veggono tutti usciti di riguardevoli parentadi; parrebbe che il nostro poeta fosse Onesto di Bonacossa di Pietro degli Onesti, che appunto era in fiore verso lo scorcio del secolo XIII. e ch'era congiunto di affinità colla nobilissima famiglia de'Tebaldi. Infatti nelle copiose memorie di que' tempi, che si conservano negli Archivi di Bologna, niun altro Onesto si trova scritto salvo il fratello d'Odofredo ed il figliuolo di Bonacossa: e perciò (escluso il primo per le ragioni più sopra esposte) stimiamo di poter dire che l'amico di Gino da Pistoia, il poeta ricordato con onoranza dall'Alighieri e dal Petrarca, fosse Onesto degli Onesti e non Onesto degli Odofredi.

Bonacossa di Pietro di madonna Onesta, è ricordato co' suoi fratelli Pellegrino e Guglielmo, nelle antiche pergamene di quell'archivio che fu già in sant'Agnese, dalle quali si raccoglie che dell'anno 1254 esso Bonacossa era morto, avendo lasciato due figliuoli pupilli, Pietro ed Onesto, sotto la tutela e direzione di Pellegrino, loro zio paterno. Adunque Onesto sarà nato poco prima della metà di quel secolo: il che risponde a pennello a quanto significava il Nannucci nel suo Manuale della letteratura del primo secolo della Lingua italiana, che cioè il bolognese Onesto fosse coetaneo ed amico di Fra Guittone aretino, e di tutti gli altri ch'ebbero grido tra gli anni 1250 e 1300.

Oltre a un testamento ch'egli fece in età giovanile, essendo infermo l'anno 1270, si ha dagli archivi di Bologna ch'egli stipulò parecchi contratti in diversi tempi, l'ultimo de' quali del 24 settembre 1301: nè più oltre si trova memorato in verun luogo. -- L'averne Dante parlato nel volgare Eloquio congiuntamente col Guinicelli, col Ghisilieri e con Fabruzzo, chiamandoli dottori illustri e di piena intelligenza nelle cose volgari, mostrerebbe in questa loro comunanza di pregi e di patria, quella ancora di età. E il Petrarca nel Trionfo d'Amore al Capitolo IV. li unisce pure di nome e di merito là dove dice:

Ecco i duo Guidi, che già furo in prezzo,
Onesto bolognese, e i Siciliani
Che fur già primi, e quivi eran da sezzo.

D'Onesto bolognese parlarono pure con lode il Salvini, il Bembo, il Trissino ed il Gravina, i quali lo annoverarono tra' veri maestri, onde prese suo seggio e stato la nostra lingua. E Benvenuto da Imola afferma ch'egli fu un personaggio ragguardevole ed altrettanto facondo oratore nel nativo linguaggio, quanto facile ed amoroso poeta. Lorenzo de' Medici però dice che le rime di Onesto hanno mestiere della lima. « Il bolognese Onesto e li Siciliani, come primi furono di Dante e di Petrarca, così della loro lima più avrebbono mestiere: avvegnaché né ingegnane volontà ad alcuno di loro si vede esser mancata». E dicendo l'autorevole De' Medici che anche l'Onesti fu primo di Dante e di Petrarca, non di valore ma di tempo, conferma anch'esso l'età precisa in cui fiorì questo poeta; il quale, se fosse stato più antico di quello che fu, non si avrebbero sonetti di lui a Gino e di Cino a lui, e se fosse stato più moderno, giusta l'opinione del Quadri che il pose nel 1330, Dante, che mancò nove anni prima, cioè del 1321, nonne avrebbe fatta ricordanza come d'uomo già trapassato mentr'egli scriveva.

Ma tempo è di troncare la Iroppo lunga digressione, recando piuttosto una Ballata d'Onesto bolognese, primo tentativo di versi italiani decasillabi, ridotti già a buona lezione dall'illustre filologo e letterato conte Giulio Perticari.

La partenza che fo dolorosa
E gravosa - da voi, Bel Diporto (1)
Per mia fide - più d'altra m'ancide.

Sì m'ancide il partir doloroso
Ch'io non oso - son pur a pensare
Al dolor, che convienila portare
Nel mio cuore di vita pauroso;
Per lo stato gravoso - e dolente
Lo qual sente. - Com' dunque faraggio?....
M'ancidraggio - per men disconforto.

S'io mi dico di dar morte fera
Strana gioia non paiavi udire;
Ahi null'uomo ode il mio languire,
La mia pena dogliosa e crudera,
Che dispera - lo core nell'alma!
Tauta salma (2) - ha di pena e abbondanza,
Poi (3) pietanza - a mercè fece torto.

Torto fece, e fallì ver me lasso,
Ch'io trapasso - ogni amante e leale.
Ciascun giorno più cresce, più sale
L'amor fino ch'io porto nel casso,
E non lasso - per nulla increscenza;
Chè 'n soffrenza - conviene che sia
Chi disìa - l'amoroso conforto.

Poi pietanza in altrui si disciovra,
E s'adovra - in altrui fuor che in meve. -
Pianto mio vanne a quella che deve
Rimembrarsi di mia vita povra;
Di' che scovra - ver me suo volere. -
Se piacere - ha ch'io senta la morte,
A me forte - gradisce esser morto.

Note:
(1) Modo provenzale onde il poeta appella la sua donna, e che gli arcadi poi trasformarono in beli' iiol mio.
(2) Gravezza.
(3) Poi che.

L'Alighieri nel Volgare Eloquio, cita una canzone d'Onesto che più non abbiamo, e che incominciava:

Più non attendo il tuo soccorso, Amore;

ed il Trissino nella Poetica ne cita un'altra, che ancor essa è perduta, e della quale reca i versi seguenti:

Amor m'incende d'amoroso foco
Per voi, donna gentile,
Onde lo cor si strugge a poco a poco,
E da me fugge e'n voi cerca aver loco.

Se queste Canzoni del bolognese rimatore sono perite, nol sono altre due che trovansi alle stampe, con undici sonetti, quantunque in ogni parte scorrettissimi: e perciò noi ci staremo contenti a quella Ballata di buona lezione che abbiamo già riportata.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Il Dittamondo (3-04)

Post n°913 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO IV

Giunti in Melan cosí, volsi vedere 
a Santo Ambruogio, dove s’incorona 
qual de la Magna è re, se n’ha il podere. 
Ercules vidi, del qual si ragiona 
che fin ch’el giacerá come fa ora, 5 
lo ’mperio non potrá sforzar persona. 
Poi fui in San Lorenzo piú d’un’ora, 
vago di quel lavoro grande e bello, 
per ch’esser mi parea in Roma allora. 
E veder volsi ancora il degno avello, 10 
nel qual Protasio e Gervasio ciascuno 
fenno d’Ambruogio come di fratello. 
E fui ancora dove insieme funo 
Ambruogio e Agustino, in loco antico, 
per disputar di Quel ch’ è trino e uno. 15 
Poi, come l’uom dimanda alcun amico, 
se ’l truova, quando giunge in una terra, 
fec’io un mio al modo che qui dico.
"Dimmi, diss’io, per cui s’apre e serra 
questa cittá, che vive sí felice 
con fede, con giustizia e senza guerra". 
Ed ello a me: "Se ciò che se ne dice 
de’ suoi antichi e come funno stratti 
d’alta, gentile e nobile radice, 
dir ti dovessi, io te vedrei ne gli atti 25 
maravigliare, come Edipus fece 
quando Iocasta li scoprí i suoi fatti. 
Ma qui discenderò da cento a diece, 
per parlar breve, e conterotti a punto 
di quel ch’io vidi e che piú dir mi lece. 30 
Non è il centesimo anno ancora giunto, 
ma presso v’è, che quello de la Torre 
cacciò il Visconte con ogni congiunto. 
E se saputo avesse modo porre 
a regnar bene co’ suoi cittadini, 35 
mal li si potea poi la cittá tôrre. 
Morto Tebaldo fuori a le confini, 
Maffeo ne fece sí alta vendetta, 
qual sanno i diece, i guelfi e i ghibellini. 
Qui cadde il Torresan con la sua setta; 40 
onde Maffeo, per l’Arcivescovo Otto, 
prese il dominio con senno e con fretta. 
Un’altra volta ancor tornò di sotto 
dico il Visconte, per invidia propia, 
la quale a molti ha giá il capo rotto. 45 
Or qui, per darti ben del mio dir copia, 
s’allor non fosse quel di Luzinborgo 
cercar poteano l’India e l’Etiopia. 
Tornati qui, al tempo ch’io ti porgo, 
preson la signoria per que’ bei modi, 50 
che si vuole a tener cittade o borgo. 
Ben penso che tu leggi spesso e odi 
di que’ cinque figliuoi ch’ebbe Priamo 
e che le lor virtú nel core annodi.
E penso ancor che giú di ramo in ramo 55 
tu hai veduto in fine a Matatia 
il Genesi, che comincia da Adamo. 
Costui ancor cinque figliuoli cria, 
che fun poi tali e di tanta possanza, 
ch’assai multiplicaro in signoria. 60 
Cosí Maffeo fu d’una sembianza 
co’ due ed ebbe sí cinque figliuoli, 
che fun co’ diece d’una somiglianza. 
Chi ti potrebbe dir con quanti stuoli 
e con che nuova gente per piú anni 65 
combattero, vincendo insieme e soli? 
Galeazzo fu l’un, l’altro Giovanni, 
Luchino, Marco, Stefano e ciascuno 
per gran valor sofferse gravi affanni. 
Tutti questi son morti, fuor che uno, 70 
cioè Giovanni, e costui ci conduce 
sí ben, ch’al mondo non so par niuno. 
E non pur sol del temporale è duce, 
ma questa nostra chericia dispone 
come vero pastore e vera luce. 75 
Or t’ho risposto a la tua intenzione; 
ma son sí ora dal voler sospinto, 
ch’oltre vo’ seguitar col mio sermone. 
Dico del primo, del terzo e del quinto 
rimasen giovanetti e ciascun tale 80 
qual par Sansone o Ansalon dipinto. 
Piange il guelfo la vergogna e ’l male 
ch’ad Altopascio e sopra la Scoltenna 
li fe’ giá l’un sentir grave e mortale. 
Parlasi ancora e scrive con la penna 85 
del pregio e del valore, che acquistaro 
li due in Francia, tra Rodano e Senna". 
Qui si taceo e io, che aperto e chiaro 
compreso avea il suo largo dire, 
tutto il notai ove m’era piú caro. 90 
Ma perché disiava ancor d’udire, 
de’ cinque il domandai, acceso e vago, 
che piú m’aprisse il valore e l’ardire. 
Rispuose: "A Bassignana, u’ fen giá lago 
del sangue de’ nemici, ne domanda, 95 
a Vavari, a Moncia, a Parabiago 
e qui ne’ borghi; poi, da l’altra banda, 
a Genova, a Tortona e ’n su la Scriva, 
se contentar ti vuoi di tal vivanda". 
E io, che volentier parlare udiva 100 
le cose antiche, il dimandai ancora 
Melan chi fe’ e ’l nome onde deriva. 
"Colui la fe’ che disfè Roma, allora 
che solo il Campidoglio si difese, 
come per Livio è manifesto ognora. 105 
Per una porca, che in questo paese 
apparve, questa terra edificando, 
mezza con lana, questo nome prese". 
Udito ch’ebbi il perché e il quando, 
li dissi: "Amico mio, sempre son tuo. 110 
Píú star non posso; a Dio t’accomando".
Ed ello a me proferse sé e ’l suo.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXX)

Post n°912 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXX

[1 Di Carlo Coccapani]

Di don Carlo Coccapani

Fatto è 'l mio petto un Mongibello ardente

L'un e l'altr'occhio un novell'istro, un Xanto
L'alma d'aspri sospir selv'atra e quanto
Si sfronda più, più germogliar si sente.

Ne 'l foco immenso è d'essiccar possente
L'amaro umor de l'angoscioso pianto,
Né le lagrime puon tanto, né quanto
Dar refrigerio al fiero ardor cocente.
                   
Ma quanto cresce l'un, tanto sormonta
L'altro contrario e 'n un soggetto istesso
Estremo caldo e freddo estremo alloggia.
                   
E 'n un sol punto e quelli e questi poggia
Tal che avvampa gelata e gela spesso
L'alma avvampata al suo martir sì pronta.

[2 Di Carlo Coccapani]

Del medesimo

Qual puro ardor, che da fatali giri
Di due stelle serene in me discese
Sì soave alcun tempo il cor m'accese
Che ne' pianti giova e ne' sospiri.
                   
Come minacci Amore come s'adiri,
Quali sien le vendette e quai l'offese
Per prova seppi, né più mai s'intese
Che beassero altrui pene e martiri.
                   
Hor ch'empia gelosia s'usurpa il loco
Ove sedeva Amor solo in disparte
E con le dolci fiamme il ghiaccio mesce.
                   
M'è l'incendio noioso e 'l dolor cresce
Sì, ch'io ne pero (ahi lasso!) e con qual'arte
Se temprato è dal giel, più m'arde il foco!

[3 Di Carlo Coccapani]

Del medesimo

Donna, per cui trionfa Amore e regna,
Merti tu ben che 'l capo a te circonde
Nobil corona; ma qual fia la fronde,
O qual fia allor cui tanto onor convegna?
                   
A gran ragion da te si schiva e sdegna
Fregio men bel che si ricerchi altronde
Poiché sol l'or de le tue treccie bionde
Può far corona che di te sia degna.
                   
Questi s'avvolge in cotai forme e tesse
Che la fenice omai sola non fia
Che di diadema natural si vanti.
                   
Così, o nuova fenice, a te piacesse
Scoprire il sen; come vedrian gli amanti
Che gli è monil la tua beltà natìa.

[4 Di Carlo Coccapani]

Del medesimo

Luci, sovr'ogni luce adorne e liete,
Poiché voi stesse di mirar m'è tolto
E gioir di quel ben ch'è 'n voi raccolto
E di quei pregi onde sì ricche siete,
                   
Con sì nov'arte almen deh! non tenete
Vostro splendore a me chiuso et involto
Qualor con gli occhi e col pensier son volto
Là 've a' raggi d'amor lucenti ardete.
                   
Forse invidiate voi che sì felice
In fruir vostra vista altri divegna
Se pur fruirne in parte a voi non lice.
                   
Deh! che s'un dì mi foste a pien concessi
Farei in virtù vostra opra sì degna
Che mirar vi potreste ivi entro espressi.

[5 Di Carlo Coccapani]

Del medesimo

Facelle son, d'immortal luce ardenti
Gli occhi che volgi in sì soavi giri
E fiamma è l'aura che tu movi e spiri
A formar chiari, angelici concenti.
                   
E fuoco son le lagrime cadenti
Che talor versi e foco i tuoi sospiri.
E quanti tu col dolce sguardo miri,
E quanti rendi al dolce suono intenti.
                   
Io solo ai vivi raggi et a le note
Onde avvampa ciascun, nulla mi scaldo
Né trova onde nutrirsi in me l'ardore.
                   
Né già son'io gelido marmo e saldo;
Ma consumato in altro incendio il core,
Or che cenere è tutto arder non puote.

[6 Di Carlo Coccapani]

Del medesimo

Poi ch'Apollo m'è scarso, e che non spira
Più ne la lingua mia l'usata aìta,
Che se pur move a l'altrui lodi ardita,
Erra lungi dal segno ov'ella aspira.
                   
Tempra al canto, Guerin, la nobil lira,
E sia intorno al sonar Leonora udita,
Che per chiaro soggetto or te l'addita
Febo, che in lei sua luce espressa mira.
                   
Dì com'è casta, e saggia, e loda e scegli
Pari al suo merto e al bel nome intanto
Qual eco al replicar la fama impari.
                   
Forse sì come augel, che gli astri svegli
A salutare il sol, desti al tuo canto
Mille cigni udirai famosi e chiari.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-03)

Post n°911 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO III

Poi che ’n Trevigi fummo stati alquanto, 
in vèr Basciano prendemmo la strada, 
lassando Feltro e Civita da canto. 
Io ero stato giá per la contrada, 
e visto Cenna, Concordia e Bellona, 5 
con ogni fiume che di lá si guada. 
E però dissi a la scorta mia bona: 
"Non ci bisogna andar per quella via; 
andiam di qua, ché piú dritto ci sprona". 
Vidi Romano, onde la tirannia 10 
discese giá, secondo ch’io intesi, 
e rinnovò per tutta Lombardia. 
Passato Cittadella, la via presi 
diritto a la cittá che ’l Carro regge 
e che l’ha retta piú anni e piú mesi. 15 
Con gran giustizia, con ragione e legge 
la tien Francesco e molto si tien bona 
ch’Abano e Montericco la vaghegge. 
Colui, che quivi prima si ragiona 
che l’abitasse, si fu Antenore 20 
e ’l corpo suo per certo il testimona. 
Quivi vid’io de’ gran destrieri il fiore 
e quivi udio che Tito Livio nacque, 
che de’ fatti roman fu vero autore. 
Solin ne rise e io, tanto mi piacque 25 
veder nel dí del sol por l’oste a Bacco 
con gran campane a cerchio e schifar l’acque: 
qual era scimia o leo, qual porco istracco:
per che d’Ovidio mi sovenne, come 
trasforma l’uomo in cervo e quando in bracco. 30 
Da Pado o dal padule prese il nome, 
che presso n’è assai, questa cittade: 
Brenta la cerchia e chiude come un pome. 
Noi ci partimmo di quelle contrade 
per Cimbria veder, che ’l Bacchiglione 35 
bagna d’intorno e per mezzo le strade. 
La maggior novitá, che lá si pone, 
si è vedere il covol di Chiostoggia, 
lá dove il vin si conserva e ripone. 
Quivi son donne d’ogni vaga foggia; 40 
quivi sta Venus, che le punge e venera; 
quivi son prati, fonti e verdi poggia. 
In quella parte lo paron s’ingenera, 
la cui carne è di cotale natura, 
che qual par bo e qual fagian, sí è tenera. 45 
Le penne sue han di paon figura; 
combatte per amore e come ’l cieco 
prender si lascia, tanto a esso ha cura. 
Similemente a la mente ti reco 
che lá trovai l’uccello francolino 50 
e provai quant’è buono a viver seco. 
Dal Cane, ingenerato dal Mastino, 
questa cittá si guida e si governa, 
secondo ch’io intesi nel cammino. 
Indi passammo a la cittá di Berna 55 
a cui Brenno diè ’l nome; molto è grande; 
e qui fa ’l Can la state e qui s’inverna. 
Giú di vèr Trento l’Adige si spande, 
che vien per la cittá bello a vedere 
e Campo marzio abbraccia e le sue lande. 60 
Nuovo mi fu, di ch’io presi piacere, 
trovar, nel sol del Cancro, in su le some 
vendere il ghiaccio a chi ne volse avere. 
Vidi l’Arena, ch’è in forma come 
a Roma il Culiseo, benché quivi 
Diatrico ne porta fama e nome. 
Vidi Peschiera e ’l suo bel lago e i rivi, 
che sopra ogni altro d’Italia si loda 
per lo bel sito e i carpion che son ivi. 
Lettor, com’io lo scrivo e tu l’annoda: 70 
la Marca di Trevigi il nome lassa 
lá dove Alpone bagna le sue proda. 
E nota che in Liguria qui si passa 
ne’ Campi lapidari, ove li dii 
superbia de’ Giganti giá fen cassa. 75 
Noi fummo a la cittá che, se tu spii, 
Manto n’ha il pregio e Vergilio l’onora, 
chiusa dal Po, dal Mencio e da piú rii. 
Quivi il corpo di Longino dimora 
in Santo Andrea e con gran riverenza 80 
si fa la festa sua e vi si adora. 
L’onore, la grandezza e la potenza 
de la cittade tien quel da Gonzaga: 
tre fratei sono ed una coscienza. 
Molto è la terra grande, bella e vaga, 85 
e ’l porto suo, in tempo di pace, 
l’entrata ha buona di quel che si paga. 
Per quel cammin, che piú dritto si face, 
passato il Chiese, ci traemmo a Brescia, 
ch’a piè del monte quasi tutta giace. 90 
Arditi sono e come vuol riescia; 
dicon che portano in Gada la fede, 
poi par ch’ogni signore a lor rincrescia. 
Lo suo principio, per quel che si crede, 
sí come di Verona, ancor fu Brenno 95 
e ’l nome ch’ella ha or cotal li diede. 
Passati il Serio, la Lama e il Brenno, 
trovammo il Bergamasco in su la costa, 
che grosso parla ed è sottil del senno. 
La lor cittá, però ch’è si ben posta 100 
in forte poggio, porta pregio e fama 
ch’alcuna volta da Melan s’arrosta. 
Cosí venuti noi sopra una lama, 
divenni tale, quando vidi l’Oglio, 
qual par colui ch’a sé la morte chiama. 105 
O Federico mio, qui dir non voglio 
quanto le ripe e ’l fondo maledissi 
e quanta fu l’angoscia e ’l mio cordoglio. 
Apresso i passi in quella terra fissi, 
che sdegna in fine a morte ogni lebbroso: 110 
Bascian n’ha il nome e io cosí lo scrissi. 
Indi partimmo senza piú riposo; 
Lambro passammo per trovar Melano; 
ma non ci fu, per lo cammino, ascoso 
veder Cassano, Moncia e Marignano. 115

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXIX)

Post n°910 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXIX

[1 Di Claudio Tolomei]

Di m. Claudio Tolomei. Della comunione.

Chi con caldo volere ha ferma fede

Un'età viverà sempre infinita,
Io son quel vivo pan, per cui si vede
Morir' la morte e ravvivar la vita,
Son quel celeste pan, che a chi mi crede
Contra a' colpi di morte porgo aita,
E chi ne mangia, o poco mangi o assai
Tant'è cibo divin che non muor mai.
I vostri antichi padri nel deserto
Mangiarono la manna, e morti sono;
Chi gusta questo pan, gusterà certo
Immortal vita per immortal' dono,
Che la grazia celeste avanza il merto
Sì larga piove sopra il giusto e 'l buono;
Il pan ch'io vi darò pan vivo fia
Dando pel mondo a voi la carne mia.
Se voi non mangiarete del figliuolo
Dell'uom la carne, non fia vita in voi;
Se non berrete il sangue suo, che solo
Vi può dar vita, non vivrete poi.
Chi mangia la mia carne s'alza a volo,
E 'n vita eterna vive gli anni suoi,
Ché perché morto al mondo, al ciel non mora
In vita il ridurrò nell'ultim'ora.
Questa mia viva carne è un cibo vero,
Un bene vero è questo sangue mio,
Chi l'uno e l'altro gusta, gusta intero
Il cibo e 'l poto dell'eterno Iddio.
Celeste ambrosia e nettare sincero,
Ond'egli in me si vive, e 'n lui vivo io,
Che mentre egli di me si gode e pasce,
Io vivo in lui, et egli in me rinasce.
Il Padre mio di ciel mandommi in terra,
Onde io, che vivo hor qui, vivo per lui:
Chi la mia carne entro al suo petto serra
Vive per me che nel suo petto fui,
Questo è quel pan che 'l ciel largo diserra,
Che morte toglie e vita porge altrui,
Pan ch'empie l'alma con sì dolci tempre
Ch'ella ne vive, e ne vivrà mai sempre.

[2 Di Claudio Tolomei]

Del medesimo, della Sammaritana.

Chi con sete mortal berrà quest'acque
Di ber altr'acque havrà poi nuova sete;
Ma chi queste lassando berrà l'acque
Ch'io gli vo' dar; non sentirà più sete.
L'acque ch'io gli vo' dar si farann'acque
D'un fonte a lui ch'estingueran la sete
Ch'uscendo quindi saliranno in vita
Dove morte non è; ma sempre è vita.

[3 Di Claudio Tolomei]

Sonetti sull'assedio Di Siena (1564).

Al christianissimo re Henrico II. L'amor della mia cara patria m'ha sospinto, oltre alle altre operationi, a por in certe rime la sua afflictione, et a cercarne il remedio, il qual, dopo Dio, è posto nella pietosa et potente vostra mano. Degnatevi, vi prego, o Sire, sì come in prosa m'havete spesse volte udito benignamente, così hora legger queste rime volontieri; né leggerle solamente, ma operar anchora quanto in quelle si considera et si priega; ché certo voi non potete far né la più pietosa opera in questi tempi, né la più honorata, né che sia universalmente per piacere più a tutti i buoni d'Italia, che l'aiutar vivamente la vostra devota et affannata città di Siena, la qual humilmente alla bontà et valor vostro si raccomanda.

1

A Maria Vergine.

Cento lampi a maggior tuoi santi altari,
Vergine bella splendevano intorno
Che d'atra notte faran' lieto giorno
Lucendo ognor con cento stelle a pari.

Quivi le lodi tue con versi rari
Cento donzelle canteranno a torno,
Et di lumi et di canti il tempio adorno
Doni si porgeran' pregiati e cari,

Spargerassi a l'altar soave odore;
Ma più che d'altro sacrificio fia
Di volontà divota e puro core.

Tu Siena tua città sciogli, Maria,
Dal nodo ch'or la stringe, onde maggiore
La sua pietate e la tua gloria sia.

2

Al Duca Di Ferrara.

Deh! perché tu, signor, ch'un vivo lume
Tra' più lucenti dell'italia sei
Non volgi prima gl'occhi a' dolor miei,
Che questa cruda fiera mi consume?

Fu pur degl'avi tuoi santo costume
I buoni sollevar', punir' i rei;
Tu più degl'altri or poi ben farlo et dei,
Ch'al volto tuo cresciuto à Dio le piume.

Ben fia di somma laude e sommo onore
Et opra degna di perpetui inchiostri,
A cui consacri il mondo altari et tempio,

Trarmi da unghie rie col tuo valore,
Così giovando altrui con bello esempio
Ad Hercole convien domar' i mostri.

3

Al medesimo.

Non tardar più, famoso Hercole invitto,
A dar rimedio al grave languir mio,
Che, se ben guardi, vedrai pur' com'io
Pronto ho lo spirto sì, ma 'l corpo afflitto.

Non basta il buon voler, anci è ben dritto
Aggiunger le belle opre al bel desìo
Fia caro al mondo e insieme caro a Dio
Che 'l fiero vincitor per te sia vitto.

Vedi che pur me sbate, et percuote;
Ma d'intorno i vicini, et te minaccia
Con affamati denti et mente prava.

Ma tua virtù salvar tutti noi puote,
Muovi il valor de le robuste braccia,
Che fa dormendo hor la tua forte clava?

4

Siena in figura di lupa a' Romani.

Ahi! cari miei figliuoli, hor voi non cale
Che a' vostri primi padri io vita porsi,
Et col mio proprio latte quei soccorsi
Ai denti esposti d'ogni aspro animale?

Lassa me! Che mi giova, o che mi vale,
Se voi che siete dal lor sangue scorsi
Non mi guardate da' rabbiosi morsi
De l'empia fera, ch'or m'urta et m'assale?

Per me prima saliste al grande impero,
A cui non fu giamai nel mondo pari,
O ne l'antica, o ne l'etate nostra.

Per me mostraste il vivo valor vero,
Et la viva pietà, miei figli cari,
Rendete il latte a la nutrice vostra.

5

A' signori d'Italia.

Ai sacri gigli, et pien' d'alta virtute
Unitevi voi, buone, amiche piante
Nel giardin' nata de' l'Italia, et sante
Gratie spargete per la mia salute.

Sgombrate dal mio corpo l'aspre, acute
Febbri, et l'iniquo umor ch'intorno errante
A me vostra gentil' et bella amante
Rendete hor nuova vita et gioventute.

Ben lo faranno i bei fioriti gigli;
Ma col vostro valor congiunti insieme
Giran' più tosto in ogni polso et vena.

Fia gran letitia a' miei pietosi figli,
Honor'a voi l'aver ne l'ore estreme
Con la vostra virtù salvata Siena.

6

Siena a' cittadini morti per diffenderla.

Anime, ch'or' vivete in ciel beate
Et pria che giste in quell'aer sereno
Fuste in terra quà giù dentro il mio seno,
Voi immortali, a mortal vel' legate.

Oh! quanto dee gradir l'alta bontate,
Che per salvar vostro natio terreno
Di me stimaste il proprio corpo meno,
Tanto amor ebbe in voi loco et pietate.

Hor sete in vera patria appresso a Dio,
Ove però avversario hormai non puote
Far di lui voi, né di voi quella priva.

Pregate lui che ascolti il pregar mio,
Et percuota il crudel che me percuote,
Ond'ei smarito resti, io bella et viva.

7

A Siena.

Per discioglier da te nodo sì fiero
Tre sacri nodi pria far si conviene,
L'un ch'unisca te stessa d'una spene
D'un amor, d'una fede et d'un pensiero.

L'altro leghi il tuo cor saldo e sincero
Al grande Henrico, ch'or t'alza et sostiene,
In lui la tua salute, e 'l fermo bene
Quà giuso è posto lo sperar tuo vero.

Il terzo ti congiunga amica a Dio,
Di bontate et di gratie fonte pura,
Che sparge sovra i buon' con varii modi.

Né temer poi ch'el tuo nemico rio
Vittoria habbia di te, fatta sicura
Di questi tre celesti et santi nodi.

8

A' nemici di Siena.

Ne l'aspre conche de l'oscuro inferno
Onde usciste qua su, fetidi mostri
Rabbiosi entrate, in quelli amari chiostri
Sfogate il gran velen ch'avete intorno.

Degni non sete voi d'aer superno;
Ma d'infernal, conforme ai pensier vostri,
Degni che Dio sua giusta via vi mostri
Ne la fiamma immortal del cieco averno.

Mordete a voi le scellerate labbia,
Non fate strazio d'anime innocenti
Per saziar l'infinita ingorda rabbia.

Contra voi stessi armate i fieri denti,
L'uno l'altro rodendo, onde vita habbia
E gloria il buono, e non morte e tormenti.

9

A Siena.

Cinto il bel crin di trionfale alloro,
Di gemme ornata e di fin' ostro andrai;
Poi che i fieri nemici vinti avrai

Con la viva virtù de' gigli d'oro.

Intorno a te di vaghe ninfe un coro
Lieto danzando in cerchio gir vedrai,
Quivi le lodi tue cantar udrai
L'Indo, lo Scita, l'Ethiope, e 'l Moro.

Scaccia tu queste pompe et tutta pura
Riverente entrarai nel sacro tempio,
Ove s'honora il nome di Maria.

Ringrazia lei, per lei fatta sicura
Ch'ella è tuo vero schermo ad ogni scempio
Come fu prima sempre, et sempre fia.

10

Alla medesma.

Oh! di che bella gloria degna sei,
Afflitta ben; ma ben lodata Siena,
Di fede e libertà verace piena,
D'amor a' buoni e di ferm' odio a' rei.

Che se gisser' tant'alto i versi miei
Quanto d'alzarti bel desìo mi mena,
Non fu latina mai, né greca vena
Ch'andasse là dove in tue lode andrei,

Ma poi che 'l rozzo mio, debole stile
Parte non segna de' tuoi chiarimenti,
Farò silenzio alla mia bassa rima.

Et co' buoni godrò lieta vederti
Ne l'oppressa fortuna, et stato umile,
Di virtute et d'onor poggiar in cima.

11

Al re christianissimo Henrico II.

Siena, ma non pur Siena, anci Toscana,
Anci pur tutta Italia apre le braccia
Et le piaghe de' piedi et della faccia,
Et del ventre vi mostra aperte e spiana.

Ella d'orribil' unghia e d'inumana
Sente d'un fier' augel, ch'ora le straccia
E un membro ne percuote un ne minaccia.
Né di lei lascia in terra parte sana.

Voi, cui somma bontà con gratia eguale
Concesso ha Dio per sua gloria maggiore,
Porgete all'affannata Italia aita.

Contra morte vi fia vita immortale.
Traendola dagli aspri artigli fuore
A' crudi mostri morte, a lei dar vita.

12

A Siena.

Ripon' le tue speranze in dio verace,
Nobil città, ch'or' tanto afflitta sei,
Ch'egli accogliendo i buon', scacciando i rei
Darà pietoso a te vittoria e pace.

La tua giustizia in ciel più ch'altra piace;
Né il tuo fiero avversario ha parte in lei,
Anci la squarcia ognor dal crin a' piei
Con fieri artigli sì l'odia e gli spiace.

Onde Henrico per te la spada cinge,
Che da Dio spinto et da giustizia ancora
Muove la franca man con bel desìo.

Ben sarai tosto d'ogni tuo mal fuora;
Poi che per sciorti il laccio che ti stringe
Henrico hai teco, et la ragion, et Dio.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Tasso madrigali 46-50

Post n°909 pubblicato il 26 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici
Firenze, Tipografia di M. Ricci, Via Sant' Antonino, 9, 1871.

46

Quasi un bel Sol vid' io fra tante stelle 
Celeste unica Donna, 
Che cinta come il Sol d' aurata gonna 
Splendea fra l'altre belle
Mille dolci fiammelle 
Da far beato ardendo un gentil core 
Lieto accendea ne' suoi begl' occhi Amore. 


47

Alba di luce sovra il Sole adorna, 
Flora gentil. 
Oh! senza il tuo splendore 
In tenebroso horrore 
Volge il desio dov' il tuo lume aggiorna. 
Serena Alba, ritorna. 
Flora ti prega e brama e tu pur sai 
Figlia di lei più degna altra non hai. 


48

Alba, non più nel Mar cruccioso, infido, 
Nel Mar non più dimora, 
La bella e senza te dogliosa Flora 
Ti chiama al sempre tuo fiorito nido; 
Fuggi l'instabil lido, 
Rimembrati che l'Alba ogni dì suole 
Dal Mar fuggendo ritornar col Sole. 


49

Non sì candida mai 
In sul mattin, quand'è più'l Ciel sereno, 
Dall'ondeggiante seno 
Trasse fuor l'Alba i suoi lucenti rai, 
Che più lucida assai 
Non sia la Bianca Aurora 
Dal mar venendo anch'ella 
Per far più bella la mia bella Flora. 


50

L'Alba non più n'aggiorna, 
Non è più l'Alba al Sol fidata scorta, 
Ma più bell'ALBA un più bel giorno apporta 
E di più bel sereno il Cielo adorna; 
Torna il prim' oro: torna. 
All'apparir di quest'ALBA gentile, 
Un bel tranquillo, un dolce eterno aprile.


Annotazioni ai Cinquanta madrigali inediti.

XLVII. 
Col titolo: Quando S. A. era a Livorno. Si ha da lei stessa, che vi era li 16 febbraio 1584 scrivendo al Cardinale suo cognato. 

XLVIII. 

2. Nel Mar non più dimora. Era pei bagni che soggiornava colà la Bianca, seguendo più per necessità Tuso di principi, che U bisogno della sua salute, dovendosi ai Medici rarapliaraento e miglioramento di Livorno. Dal Ms. 2242 Riccardiano levo questo epigramma, che non so se fu mal pubblicato.
Oppidulum fuerat, nuUo celebrante, Lióurnum:
Nunc amplia totum splendei ubique viis.
Ducta cui fossa est, patriam conchyUa certam
Quam tenenti Medicum forte quod extet opus I 
Barbara quid jactat Xerses miracula? portum
Is caediy hi mensis fércula ferre jubent.

XLIX.

3. Ondeggiante seno, il mare. Nella chiusa del Madrigale precedente:
Rimembrati che VAlba ogni di suole 
Dal mar fuggendo ritornar col sole. 

8. Per far più bella, ec. Chi abita una città e massimamente chi più vi spende la fa più bella e viva. Il popolo corrotto, che sempre ha cercato sollievi ed allettamenti, dolorò in Firenze i tempi d'assenza della corte. E la mancanza della signora Bianca doveva dolere assai a tutto il popolo non che al patriziato, per veder priva la città di que' passatempi e di quelle splendide munificenze che dalla sua corte erano date di frequente. L'autore dice la mia bella Flora; bella, essendo proverbiale Firenze la bella; mia, per una certa speranza che il Tasso aiutato dalla Bianca teneva, di poterci venir qua presso la corte o di mandarci suo nipote, avendone supplicato egli in tante lettere que' principi.

L.

1. Più bell'Alba un più bel giorno apporta, proverbio campagnuolo toscano, che al Nenci, pittore concettosissimo, suscitò la vena per un mirabile dipinto da collocarsi accanto all'immortale Aurora del Reni. In uno de'quattro affreschi delJ'elegaute villa del Pavone, ora del nobile sig. Giulio Bianchi Bandinelli Paparoni presso porta Romana di Siena, volendo servire a rappresentare l'aria, il Nenci immaginò appunto l'Alba fidata scorta al Sole e talmente bella, che il Sole che le vien dietro a gran velocità co'cavalli non è che un brillante accessorio. Cosi poesia e pittura si mostrano d'accordo. 
7. Etemo april s'avverti già nel Madrigale Novella Alba celeste ec. 

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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