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Messaggi del 27/12/2014

Pe' l'anno nôvo

Post n°919 pubblicato il 27 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Pe' l'anno nôvo

E sse ne va a ffinì puro quest'anno.
Si è stato bbono oppuro disgrazziato,
si nu' risponno è mmejo. Ciò ppenzato
e cor lamento nu' sparisce 'r danno

ch'ho sorbettato pe' tutti 'sti mesi.
Resto contento pe' chi ccià fortuna,
pe' cchi ha li piedi in tera o su la luna,
pe' li geniacci e pe' li craniolesi.

A 'st'urtimi, che só' la maggioranza,
l'augurio fò de stà sempre contenti,
puro quanno ciavranno 'r mar de panza.

A chi se crede 'r mejo der bigonzo,
ma ddavero, co' tutti i sentimenti,
je vojo solo dì: "'Mmazza che stronzo!".

Valerio Sampieri
27 dicembre 2014

 
 
 

Ser Bernardo

Post n°918 pubblicato il 27 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Ser Bernardo

In sul 1280 fioriva in Bologna un poeta volgare chiamato Ser Bernardo, che fu probabilmente notaio, come Ser Monaldo da Soffena, Ser Noffo d'Oltrarno e Ser Pace, che furon tutti notai: imperocchè, come asseriscono gli eruditi, se davasi del messere a chi non fosse volgo ma non fosse dottore, serbavasi il sere ai soli pratici dell'arte notaresca, i quali benchè cresciuti agli studi ed alla cultura di cose positive e di prescrizioni di codici, abbandonavansi talvolta ad ispirazioni fantastiche, ad amorosi sfoghi dell'anima, a voli d'italiana poesia, quasi per sollevarsi dal gran peso di quel latino barbarico, che parve imposto precettivamente a' notai di que' tempi.

Credesi dunque che Ser Bernardo fosse notaio; ma non è cognito da qual famiglia avesse origine, essendochè i più accurati cercatori de' casati felsinei non fecer sinora buona prova rovistando a tal effetto negli archivi: laonde non gli diedero altro cognome, da quello infuori della città ov'ebbe tratti i natali.

Ser Bernardo da Bologna fu amico di Guido Cavalcanti, fiorentino celeberrimo; di quel Guido che Benvenuto da Imola appellò il second'occhio della toscana letteratura, della quale Dante era il primo. Ed esso Dante nell'undecimo canto del Purgatorio, anteponendo Guido Cavalcanti a Guido Guinicelli e sè ad amendue, disse a modo di profeta:

Così ha tolto l'uno all'altro Guido
La gloria della lingua; e forse è nato
Chi l'uno e l'altro caccerà di nido.

Se pertanto con un tant'uomo quale si fu il Cavalcanti ebbe amicizia il nostro nolaio Ser Bernardo, convien ritenere che a' suoi giorni fosse in voce di valente; chè il fiorentino non avrebbe coltivata l'amicizia d'un dappoco. Anzi oseremmo dire che fosse tra loro dimestichezza, se l'uno scriveva all'altro un sonetto, dandogli novella d'una forosetta, che parrebbe bolognese, la quale versava in angustie d'animo per la mala salute dell'insigne fiorentino. E non è meraviglia che una giovane felsinea fosse presa di lui, se tutti i dotti e i letterati di que' tempi traevano a studio nella bolognese Università.

Or ecco il sonetto di Ser Bernardo a Guido Cavalcanti.

A quella amorosetta forosella
Passò sì 'l cor la mala tua salute,
Che sfigurò di sue belle parute,
Ond'io le domandai: perchè, Pinella?

Ma di te come udì lieta novella,
Si fece tal che a pena l'ho credute,
E risanò delle mortal ferute
Splendendo come in firmamento stella.

Poi con accento tenero soave
Mi disse: amico, se ti piace, come
Guido di me la conoscenza ave?

Io, come'l vidi, ben ne seppi il nome;
Ei solo tiene del mio cor la chiave,
E l'alme altere ei può far miti e dome.

Del notaio ser Bernardo parlarono il Crescimbeni, il Muratori, l'Orlandi ed il Quadrio. Alcune sue rime si conservavano a penna nel secolo scorso dal chiarissimo bibliografo Pierantonio Serassi da Bergamo; ed altre in un Codice della Biblioteca de' Canonici Lateranensi, a s. Salvatore in Bologna, il quale era così intitolato: Rime antiche di diversi autori, copiate con diligenza da un libro scritto di mano dell'abate M. Loremo Bartolini, avuto in Firenze da M. Bartolini suo nipote di Dicembre 1564. Anche il Canonico Giovan Giacomo Amadei diligentissimo bibliofilo bolognese, possedeva alcune Rime di Ser Bernardo in un Codice antico manoscritto, che con molti libri di quel paziente raccoglitore di patrie memorie, passò ad arricchire la cospicua Biblioteca della celeberrima Università di Bologna.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Rime inedite del 500 (33-36)

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXIII

[Di Lodovico Dolce]

Sperava un tempo di poch'altri al paro

Mercè del Dolce fido mio sostegno
Alzarmi là bench'io ne fossi indegno
Ove i pronti di voi piedi arrivàro;

Ma il fiero mio destin, crudo et avaro
Mi contese il camino e m'ebbe a sdegno
E diventò fuor d'ogni usato segno
Il già fiorito April secco Gennaro.

Ond'io ringrazio voi, spirto gentile,
Che 'n sì cortesi e sì vivaci modi
Desïate di far quel ch'io vorrei.

Gran peso render d'uom' basso et umile
Pregiato, altero e fuor' d'inganni e frodi

Portarlo a forza su nel ciel fra' dei.

XXXIV

[Di Gabriele Zerbo]

Del Zerbo risposta.

E io men' vo per queste erbose sponde,

Ove la Brenta men turbata freme,
Vuoto d'ogni martir, colmo di speme,
Filli cantando e le sue treccie bionde.

E mentre voci spargo alte e gioconde
Allorché duol non è che 'l mio ben sceme
Veggio del mio cantar gioir' insieme
Con Amor' Imeneo, con l'aura l'onde.

Ma più se ne mostra ella altera e bella
Che dolcemente mi risponde e ride,
Nulla curando di Dameta il suono.

Cotal m'ispira mia benigna stella
Tal'è ver' me d'amor la grazia e 'l dono

Ch'uom' più beato il ciel già mai non vide.


XXXV

[Ottaviano Brigidi]

Octaviano Brigidi

Io cantarei d'amor sì nuovamente

Ch'al duro fianco il dì mille sospiri
Trarrei per forza, e mille alti desiri
Raccenderei nella gelata mente.

El bel viso cangiar vedrìa sovente
E bagnar gli occhi e più piatosi giri
Far, come suol, chi de l'altrui martiri
E del suo error quando non val si pente.

E le rose vermiglie in fra la neve
Muover talora e discoprir l'avorio
Che fa di marmo chi d'appresso il guarda.

E tutto quel, perché nel viver breve
Non rincresco a me stesso, anzi mi glorio

D'esser serbato alla stagion più tarda.


XXXVI

[1 Di Rodolfo Arlotti]

Di Ridolfo Arlotto

Ben lieve fu de la mia fede il pegno,

Onde meco a ragion forse t'adiri,
S'a le cose quà giù gli occhi mai giri,
Anima bella, dal celeste regno.

Lasso! io 'l veggo, e 'l confesso: era pur degno,
Come viva a la speme et ai desiri,
Così morta a le lagrime, ai sospiri
Fusse tanta bellezza eterno segno.

Ma che far posso? Ahi! che mi sforza un sole
E cocenti via più che fuoco, o fiamma
Mi manda al cor gli sguardi, o le parole.

Ed io, cui dianzi ardesti a dramma, a dramma,
Restai come carbone estinto suole,
Che dopo sempre di leggier s'infiamma.

[2 Di Rodolfo Arlotti]

Di Ridolfo Arlotto. Al signor Hercole Varano.

Ecco, il crin cinto di celesti rai,
Sorge sereno il tuo bel sole amato;
Dolce amor spira, ond'il tuo mar placato
T'aspetta, e tu pur lento ancora stai.

Apri, Varan, le vele e il lito homai
Lascia, ché 'l cielo, e 'l tuo cortese fato
Ti cercan spoglie; ché del vello aurato
La bellezza e 'l valor vincon' assai.

E se rie stelle, al nobil corso infeste
Sparger denno anco in preda a l'onde e ai venti
De la tua speme l'alte merci oneste,

Fortunato Arïon, di che paventi?
Che delfin mille e mille ninfe preste

Al tuo scampo trar puoi coi dotti accenti.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Il Dittamondo (3-05)

Post n°916 pubblicato il 27 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO V

Poi ci partimmo da Melan, quel giorno 
in vèr Pavia prendemmo la strada, 
notando ognor le novitá d’intorno. 
Esperti eravam noi de la contrada, 
dove Adda fa il suo lago, e stati a Commo, 5 
che qual va lá sotterra par che vada; 
e cercato per tutto su dal sommo 
de lo Lago maggior, che fa ’l Tesino, 
io dico da Margotto in fine a Sommo; 
ed a Castino udito, in quel cammino, 10 
de’ fiorin che Riccieri, ch’è un demonio, 
prestò sopra Giovanni a Conichino. 
Io tenea prima li scongiuri a sonio, 
ma non da poi ch’udio da’ piú contare 
come Riccier Giovanni giunse al conio. 15 
E questo ancor mi fece ricordare 
che visto fu ne l’oste del buon Carlo 
uno esser preso e portato per l’a’re: 
per che ’l ghiottone, di cui ora parlo, 
promise al suo cugino in su la morte 20 
vendere il suo e a’ poveri darlo. 
Oh quanto l’uom dee prima pensar forte 
che altrui imprometta e, se pur impromette, 
non mai serrare a le ’mpromesse porte! 
Da man sinistra a dietro ci ristette 25 
quella contrada, la qual s’incomincia 
dove il Tesino giú dentro Po mette. 
E noi ancora per quella provincia 
eravam iti e cercato ogni foro 
e ’l Tar passato, ove piú grosso schincia; 30 
similemente stati fra coloro 
che ’n su la Parma con gran reverenza 
alcuna volta festeggiano il Toro, 
e sopra ’l Crosto; e, passati l’Enza, 
vedemmo la cittá u’ Prosper giace, 35 
che fu al mondo un lume di scienza. 
E fummo dove il Leone ora tace, 
che soleva a Melan mostrar la branca, 
come dicesse "posa e sta in pace"; 
e ’n quella a cui la Secchia bagna l’anca 40 
e ’l Panaro, ove alcun quel corpo crede 
che col suo stil cacciò l’anima franca. 
In tra Savena e Ren cittá si vede 
sí vaga e piena di tutti i diletti, 
che a caval vi va tal che torna a piede. 45 
Quivi son donne con leggiadri aspetti, 
e ’l nome de la terra segue il fatto; 
buon v’è lo Studio e sottil gl’intelletti. 
Così per tutto questo lungo tratto 
cercando era ito insieme con Solino 
le novitá di quelle genti e l’atto. 
Ma qui ritorno al nostro cammino, 
come quel giorno giungemmo in Pavia, 
dove giace Boezio e Agustino. 
Poi in vèr Piemonte prendemmo la via, 55 
cercando s’io trovassi in alcun seno 
filo da tesser ne la tela mia. 
Giunti a Mortara, quivi udimmo a pieno 
che per i molti morti il nome prese, 
quando li due compagni vennon meno. 60 
E cosí, ricercando quel paese, 
passammo il Sesia, Novara e Vercelli, 
che Pico in prima a fabbricare intese. 
Tutto ’l paese è in piano e monticelli, 
come suona il suo nome, e pieno ancora 65 
di pan, di vin, di fiumi grandi e belli. 
La Dora, Astura, l’Agogna e la Mora 
passammo e ricercammo Monferrato, 
dove un marchese largo e pro dimora. 
Saluzzo, Canavese e Principato 70 
trovammo e sí vedemmo Alba e Asti, 
che ’l Tanar bagna e tocca da l’un lato. 
E benché i muri siano vecchi e guasti 
d’Acqui, non è però da farne sceda 
per Pico, che la fe’ ne’ tempi casti, 75 
e per li bagni, onde si correda, 
sani e buoni, benché ora poco 
par che ne caglia al Signor che n’è reda. 
Or per veder Italia in ciascun loco, 
attraversammo i monti a Ventimiglia, 80 
che vede la Provenza, se fa foco. 
Genova stende lo suo braccio e piglia
in vèr ponente tutta quella terra 
e Monaco e San Romolo e Oniglia. 
Io ero stato al tempo de la guerra 85 
de lo doge da Murta per que’ valli, 
sí ch’io sapea ’l cammin di serra in serra. 
"Guarda, disse Solin, che tu non falli, 
ch’io so la via del mar, ch’è tutta bona, 
e lasciamo l’andar per questi calli". 90 
E io a lui: "Da Porto ad Andona 
la strada so, ma convien ch’uom si spoltri, 
e come va da Finale a Saona, 
da Albingano, da Noli e da Voltri 
in fine a Genova". E Solino rise; 95 
poi disse: "Va, ché del cammin qui m’oltri". 
Per que’ valloni e per quelle ricise 
andammo, in fin che fummo dove Giano, 
dico l’antico, prima pietra mise. 
Questa cittá è tutta in poggio e in piano, 100 
racchiusa tra Bisagno e Poncevere, 
con bei palagi e ’l sito dolce e sano. 
E se vi fosse cosí Po o Tevere, 
non si potrebbe dire il lor piacere; 
sobrii sono nel mangiare e nel bevere. 105 
Io fui in San Lorenzo, per vedere 
la testa del Battista e la scodella, 
ch’ è di smeraldo e vale un grande avere. 
E vidi un’altra novitá in quella 
cittá, che dura da la state al verno, 110 
che strana pare, quando si novella: 
io dico che i demoni de lo ’nferno 
non son sí neri, come stan dipinte 
le donne qui, ché piú non ne discerno
che gli occhi e i denti, sí son forte tinte. 115

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
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