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Messaggi del 28/12/2014

Rime inedite del 500 (XXXIX-2)

Post n°933 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

[14 Di Latino Latini]

All'illustrissimo Cardinal Carafa.

A voi, che fate in villa il carnevale
Lontan dal volgo, e sempre ruminate
Qualche sacro concetto, utile e pio,
Non devrà talor forse esser ingrato

Il legger per trastullo onesto e breve
Quel ch'or con questa vi manda Latino,
Servidor vecchio, che tanto a voi deve,
Quanto a niun altro del medesmo grado.

Son ben rozze le cose, e mal condìte
Ma, se non erro, recaran piacere
Per la varia mistura, e forma nuova,

Per la facil maniera, e chiara luce
Col modesto ricordo, e finalmente
Per venir da chi v'ama e riverisce.

[15 Di Latino Latini]

All'illustrissimo Cardinal Sirleto.

Lo star nel letto con dolor di testa
Ben grave spesse volte, e 'l non potere
Usar degli occhi l'opra per vedere
Fan'altro che 'l pensar sol non mi resta.

E perché al vecchio è cosa assai molesta
La vigilia notturna, e 'l non avere
Con che egli ingannar possa il dispiacere
Che sente allor la mente oziosa e desta.

Però per mitigar tal noia io soglio,
Condurmi in verdi prati col pensiero
Carpendo or questo, or quel più vago fiore.

E se ben d'essi frutto non ricoglio,
Che duri vivo appena un giorno intero,
pascomi almen per quel tempo d'odore.

[16 Di Latino Latini]

Quella somma bontà, che senza fine
Di Dio nel ricco grembo si riposa,
Poiché sempre non fassi al mondo ascosa
E per far l'opre eccelse e pellegrine

Sparse il raggio che pria ne le divine
Menti riluce, quinci alma e gioiosa
L'anima rende, e fa ch'ogni altra cosa
Per tal mezzo al ben esser(e) s'avvicine.

Questa il numer produce e l'armonia
Ne' suoni e nei color beltade e grazia,
Nelle forme vaghezza e leggiadria.

Amor fa poi che l'alma unqua non sazia
Questa varia bellezza ama, e desia
E di tal dono il donator ringrazia.

[17 Di Latino Latini]

L'uom che creato al suo fattor simile
Fu prima intiero, e di due lumi nato,
Potea viver felice in tale stato
E vivendo godere eterno Aprile.

Ma perché seguitar volse lo stile
Consiglio, ei stesso fu cagion ch'irato
Giove il divise, e nudo e disarmato
Da sé cacciollo in parte oscura e vile.

Con sì misera vita e oscura sorte
In eterno perian l'umane squadre,
Senza speme giamai di lieta vista.

Amor l'ira placò del sommo padre,
Onde aperte del ciel furon le porte
E l'uomo il mezzo suo cerca e racquista.

[18 Di Latino Latini]

Chi non sa come l'alma oscura e informe
Al suo fattor rivolta
Dell'eterno splendor tosto si accenda,
E come accesa torni un'altra volta
Al sole, onde maggior luce riprenda.
Non sa come amor nasca,
E men come si pasca
E viva, e cresca, e venga al fin perfetto
Spirto immortal sopra l'uman affetto.
S'eterna è la bellezza, eterna l'alma,
Che quell'ama e desìa
Dunque eterno è l'amor di Vener nato,
E se doppio è lo stato
Di questa, doppio amor convien che sia;
L'uno celeste, e invia
La mente alla beltà vera, e sovrana;
L'altro volgare, e segue un'ombra vana.

[19 Di Latino Latini]

Degli appetiti suoi la briglia in mano
Tener de' sempre l'uom saggio e prudente
Col fissar l'occhio al segno, e colla mente
Preveder gli accidenti di lontano.

Chiudendo il passo ad ogni pensier vano,
Col vedersi d'intorno ognor presente
Quell'eterno motor, che vede e sente
Quanto asconde in secreto il cor umano.

Di qui nasce il timor, ch'apre la via
A quella sapienza che non erra,
E quanto val ciascuna cosa estima.

Ben confess'io che sempre raso in terra
Stat'è chi asceso a tanto grado sia,
Senza ottener da Dio tal grazia prima.

[20 Di Latino Latini]

Chiare, fresche e dolci acque, che 'n trent'anni
Di mia più verde età mai non avete
Spenta in me dramma dell'ardente sete
Anzi nodrita ognor con frode e inganni.

Or che 'l benigno mio signore i vanni
Mi dona da volar sopra la rete
Delle false lusinghe con che avete
Procuratomi ognor vergogna e danno,

Fuggo da voi lontan, correndo all'acque
Del vivo, eterno fonte, a cui m'invita
Il buon pastor, ch'a mia salute attende.

Per ber di quelle, dell'agnel che nacque
Al mondo sol per darne eterna vita
Che dalla morte sua deriva e pende.

[21 Di Latino Latini]

Signor, cui negra e lagrimosa vesta
Cuopre gli omeri e 'l petto, e doglia al cuore,
Perché di questa vita uscita è fuore
La bella e cara vostra sposa onesta?

Degno è l'abito vostro, e degna questa
Voglia d'affetto piena e di dolore,
E degno l'alto suo funebre onore,
E la memoria in noi, che di lei resta;

Ma degnissimo è ancor che gli occhi vostri
Si volghino a mirar qual vi prepara
Di ciò che Dio ne sembra ampio ristoro.

E di beltà vedrete, e di tesoro,
E di gran senno adorna alma sì rara,
Che faran noi felici e i tempi nostri.

[22 Di Latino Latini]

Al signor Giovanni Battista Spiriti.

Se io potessi con lettere del carco,
Che vossignoria sopporta in parte
Allegerirla, farei che di carte
E di miei scritti ognun venisse carco.

Ma perché siate del scriver sì parco;
Poiché con questo mezzo e con quest'arte
Il duol che sempre v'ange vi comparte,
Con me che volontier piglio l'incarco;

Deh! se del vostro ben punto vi cale,
Date principio ad onorata impresa
Obbliando il mal e la passata noia.

Ché in questa vita misera e mortale
Ogni grave tormento, et ogni offesa
L'alma virtute cangia in dolce gioja.

[23 Di Latino Latini]

S'Ippocrate e Galeno avesser letto,
O inteso quanto Prospero del Mastro,
Harian senza sciroppo, onzion, o empiastro
Fatto gl'infermi sani uscir del letto.

Né assunto in tal pregio unqua l'Eletto
Reobarbaro sarìa, né Zoroastro
Attribuito harebbe a maligno astro
Morte d'alcun; ma a medico imperfetto.

L'umor che pecca, le postème e i mali
Tutti che spesso dar soglion la morte
Purga pel naso Prosper con grand'arte.

Col nodrir sempre scabbia in quella parte
Gli uomin condotti a loro estrema sorte
Fa sani in fatto e poi quasi immortali.

[24 Di Latino Latini]

Per l'ambizione.

O di vane speranze e d'error carca,
Ornata d'umiltate altiera e finta
Di color mille in aspetto dipinta,
D'ogni inganno fontana e di frode arca.

Quando fia che di te libera e scarca
Da bella gloria, e vero onor sospinta
L'alma mia s'erga e di vergogna tinta
A destra l'onda solchi in fida barca?

Tu che per me, signor, l'eterno padre
Col tuo sangue placasti, e 'l scritto orrendo
Scancellasti di man dell'oste tolto,

Soccorri al servo tuo, che a te piangendo
Chiede mercé per la tua cara madre,
Sì che al ciel torni d'esti lacci sciolto.

[25 Di Latino Latini]

Adi' 20 novembre giorno anniversario della creazion del mio Cardinale.

Già non più verdi fronde, o vaghi fiori
Spargete allegro intorno al santo altare,
Spirti gentil, a cui convien lodare
Oggi largo dator di sacri onori.

Ma in lor vece e d'incenso, e grati odori
E di pregiate spoglie, ornate e rare
Offerite al Signor vittime care
De' vostri umil, devoti, ardenti cuori.

Poi con certa speranza e ferma fede
A viva forza di caldi sospiri
Fate salir al ciel queste parole:

Signor, che l'universo reggi e giri
Per illustrarne d'un più chiaro sole,
Ergi il tuo servo all'alta e sacra sede.

[26 Di Latino Latini]

Per il cardinal Cornaro fatto Legato.

Dall'antica, onorata e nobil pianta
Che già molt'anni dal caldo, e dal gelo
In terra ne difese, et ora in cielo
Si sta fra l'altre e più gradita e santa,

Nascer l'arbor novella, ch'oggi ammanta
L'amata greggia sua, cui tanto zelo
Mostrasti già mentr'il corporeo velo
Ti cinse ch'ella ancor sen' gloria e vanta.

Onde puoi ben la sua populea fronda
Non senza invidia dell'altero Giove
Lasciar per questa, e girtene superbo.

Ché di pregiati frutti essa feconda
di Minerva e di Febo a imprese nuove,
E glorïose inalzerà Viterbo.

 
 
 

Graziolo Bambaglioli

Post n°932 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Graziolo Bambaglioli o Bambagiuoli

Dei nove bolognesi che dettarono versi italiani e prima dell'Alighieri e nel tempo in cui questi sorgeva ad ecclissare i passati ed i presenti poeti, il Bambaglioli fu il più ornato e il meno antico; sicchè l'insigne fiorentino, ove l'avesse conosciuto com'ebbe il Guinicelli, il Gbisilieri, Fabruzzo ed Onesto, avrebbe fatto per avventura le maggiori lodi di lui, anzi le massime: e, se a Guido Guinicelli diede il vanto per aver usato rime d'amor dolci e leggiadre, a Graziolo l'avrebbe consentito per avere scritto di filosofia e di morale in nobili forme e con più nobili concetti.

Questo Bonagrazia o Graziolo di Bambagliolo Bambaglioli, uomo valente nelle cose giudiziarie e ne' poetici numeri, veniva dichiarato notaio dell'anno 1311, ed in sull'entrare del 1324 era del novero degli Anziani in Bologna sua patria; dal che potrebbe inferirsi che avesse già tocchi i quarantanni, se anziani e priori ne' reggimenti a Comune rispondevano ai senatori d'oggidì nei governi costituzionali.

Volgeva l'anno 1325, e il nostro Bambaglioli condusse in moglie Giovanna di Lorenzo Bonacati, che il fece padre di un fdiiciulletto, cui pose nome Giovanni. Dopo questo tempo oltre il titolo di Notaio ebbe pur quello di cancelliere del Comune di Bologna, officio che non assentivasi fuorchè a persone di condizione civile e fornite di buone lettere. E fu per certo esso Graziolo dotto ed erudito nelle lettere latine e volgari, e profondo espositore della morale filosofia, come fanno fede i dettati che d'esso ancora ne rimangono.

Egli fu Guelfo: e siccome la parte sua ebbe la peggio in Bologna nel 1334; così venne sbandito dalla patria con tutti gli altri di sua famiglia dai 10 anni ai 60, e trovasi scritto fra coloro che diedero sigurtà e promessa di starsi a confine. Se morisse in Bologna o fuori, e di qual anno, non è ben noto, sendochè dopo la cacciata dalla patria non si trova più memoria di lui. Da ciò si deduce comunemente ch'egli morisse esule; e siamo certi che del 13'l3 non era più, perchè in questo tempo il figliuol suo dimandava un curatore che lo reggesse.

Scrisse Graziolo un Trattato delle Virtù Morali, diviso in cento Rubriche, il quale contiene sentenze gravi, attinte alle fonti della Filosofia e della Teologia, ed è esposto in istrofe di vario metro: in che venne forse imitato da Francesco Barberilli o da Barberino ne' suoi Documenti d'Amore. Ornò Graziolo il Trattato delle Virtù con acconci Commentari in lingua latina, riboccanti d'erudizione sacra e profana, e lo dedicò a Bertrando del Balzo cognato di Roberto re di Napoli e capitano di guerra dei Fiorentini. Pare che l'opera del Barnbagliuoli, o Bambagiuoli, passasse dalle mani di Bertrando a quelle di Roberto, il quale essendo amatore delle buone lettere, ne fece trar copia, o la trasse egli stesso dall'originale: onde poi l'abbaglio di Federico Ubaldini, che pubblicava quel Trattato come scrittura di re Roberto. Ma il Crescimbeni rivendicò l'onore di quel dettato a Graziolo da Bologna, mettendo innanzi irrefragabili prove, onde risulta che il Bambagliuoli è il vero autore di quello scritto, e che re Roberto amò le lettere e i letterati ma non ebbe fregio di poetica facoltà. I Commentari latini del Cancelliere Graziolo furono tradotti in volgare favella, probabilmente da un toscano, e trovansi e leggonsi a Firenze nella Riccardiana. In un manuscrilto della Barberina di Roma è fatto cenno d'un Codice del Barnbagtioli, ch'esser doveva in Bologna nella Libreria degli Agostiniani di s. Giacomo; il quale però non vi si trova. Bensì nella Laurenziana di Firenze leggonsi manuscritti i metri italiani dell'erudito bolognese, cioè il Trattato delle Virtù Morali; che incomincia con questo verso:

Amor che movi il del con tua virtute,

e finisce con questi altri:

Opra novella, poich'hai dimostrato
I vizi e le virtù d'umana vita,
Consiglia che ciascun anzi l'uscita
Prodeggia bene a suo eterno stato:
Poi venga lode, grazia e riverenza
All'infinita- e superna eccellenza,
La quale in sua pietade
Ti ha spirato per la veritade.

La miglior edizione del Trattato Morale del Bambaglioli, è la moderna pubblicata in Modena nel 1821 con somma accuratezza dal benemerito e laborioso monsignor Celestino Cavedoni, fdologo di multiforme erudizione, archeologo di profondissima dottrina. Da tale edizione pertanto copieremo qui alcune Rubriche, le quali varranno a render prova del maschio e sobrio poetar di Graziolo, e del suo modo sentenzioso.


DELLA MODERNA VILTÀ DEL MONDO.

O Cato, o Scipione, o buon Traiano,
O gran Giustiniano,
Or si conosce il vostro alto valore
Ch'è vostro eterno onore;
Ma i miseri mortai del cieco mondo
Non veggono che al fondo:
Leggier diletto e vii voglia li mena,
Di che conviene usar gravosa pena.

DELLA NOBILTÀ.

Non dà ricchezza antica nobiltade
Né sangue; ma virtù fa Tuoni gentile,
E trae di loco vile
L'uomo, ch'alto si fa per sua bontade.

DELLA CARITÀ DELLA PATRIA.

Le cose basse e di poca potenza
Amor le fa possenti, Amor le esalta.
Quanto il barone ha dignità più alta,
Senza verace amor più basso scende,
Perchè senza unità
Regno diviso mai non si difende:
O nobil Carità,
Sol di ragione amica,
Virtute ed onestà sol ti nutrica.

DELLE PARTI DE' GHIBELLINI E DE' GUELFI

Non s'attien fede nè a Comun nè a Parte,
Chè Guelfo e Ghibellino
Veggio andar pellegrino . .'
E dal Principe suo esser diserto.
Misera Italia! tu l'hai bene esperto;
Chè in te non è latino
Che non strugga il vicino,
Quando per forza e quando per mal'arte.

OPERAZIONI DELLA VERA AMISTÀ

Uomini singolar, città, comuni
E principi e baroni
Amor al ben comun dispone e liga;
Onde cessa la briga
E stanno aperti i cammini e le strade.
Per te, buona Araistade,
Il mondo ha pace e 'l ciel ha venustate.

REGGIMENTO VIRTUOSO DELLA FAMIGLIA.

Tenga il signor famiglia di bontade.
Accorta d'onestade,
E sia ciascuno al suo fine ordinato.
E s'alcun fosse folle o vero ingrato
Nol tardi far lontano,
Perchè ne guasta mille un non ben sano.

EFFETTI DELL'ELOQUENZA.

Del bel parlar s'acquista eccelso onore.
Ed alto frutto nasce
Che con diletto l'uom consola e pasce;
E tant'è dilettoso il suo valere,
Che ciascun tragge al suo dolce piacere.

LA VANITÀ NON ADORNA L'UOMO.

In vanità non è gentil valore,
Nè adorna sella fa caval migliore,
Né fren dorato toglie il suo difetto:
Così non fa valer pomposo aspetto
Uomo che si diletta in forma bella,
Però che ciò che luce non è stella;
E sotto fregi in vestimento vano
Giace il cuor vago da virtù lontano.

VUOLSI ESSERE TEMPERATO.
Non si convien furore
Nè a pover nè a signore.
Lo saggio marinar ad un sol segno
Sa governar suo legno
In tempo oscuro ed in serena luce,
Perchè virtù e ordine il conduce.

TEMPERANZA.

O temperanza, donna dell'onore!
Tu reggi sempre di ragione il freno,
Tu tieni il mezzo ch'è tra 'I più e 'l meno,
Però si trova l'uom con più valore,
Il qual più t'ama; e chi segue il furore
E a disordinato esser s'accosta,
O quanto caro costa!
Ch'ogni nemico di cotal virtude
Con doglia e con sospir sua vita chiude.

SUPERBIA.

O mente folle del superbo altero Ch'al cielo ed alla terra è odioso!
Ciascun superbo si tien valoroso,
Tanto soperchio ama la sua essenza,
Che tien ferma credenza
Di mettersi sicuro ad ogni impresa;
Ond'egli ha spesso morte e grave offesa.

INVIDIA.

O falsa Invidia, inimica di pace,
Trista del ben altrui, che non ti nuoce!
Tu porti dentro quell'ardente face
Clie t'arde il petto, ed altrui metti in croce.

AVARIZIA.

O Avarizia, inimica di Dio,
Tu hai sì strutto il mondo e fatto rio,
Ch'a mal tórre e tener sol hai rispetto.
Ciò mostra 'l tuo effetto;
Chè per cupidità d'esser signore
O d'acquistare onore
Città, castello o terra,
L'un strugge l'altro, d'onde nasce guerra,
La qual danna e diserta ogni valore.

Di simile tempra è l'intero libro del Bambaglioli, il quale seppe giungere con rara abilità l'ornamento del metro alla virtù della filosofia, e render comuni assai precetti, che tornano utili all'umana dignità ed alla vita civile. La lingua di lui è ancor più nobile ed aulica (come la disse l'Alighieri) di quella che venne usata dallo stesso Guinicelli; e ciò ne mostra il gran progresso che fece in Bologna l'italico idioma nel volgere di sessantanni, quanti appunto ne passarono dalla cacciata di Guido a quella di Graziolo, dalle male vicende dei Ghibellini a quelle dei Guelfi. E Guelfo abbiadi detto essere stato il Bambaglioli; anzi soggiungiamo come fra'Guelfi andasse egli segnalato, perocchè sappiamo che i principali della sua Parte con lui conferivano e a lui dedicavano i loro scritti politici. Infatti nell'insigne Libreria Ravignana di Glasse, tra i Testi a penna havvi un Trattato scritto in pergamena da Frate Guido Vernano da Rimini dell'Ordine de' Predicatori, con tra il Libro de Monarchia composto già dall'Alighieri: e un tal Trattato è diretto dall'autore claustrale all'illustre Graziolo da Rologna. Di quest'egregio fece parola ultimamente l'esimio professore Giosuè Carducci, pubblicando nell'edizione diamante del Rarbèra le Rime di Cino da Pistoia e d'altri contemporanei, fra le quali alcune sentenze del Bambagiuoli, mettendolo in bella compagnia con Giotto, Benuccio Salimbeni, Bindo Ronichi e Domenico Cavalca, appartenenti pel carattere e la forma dei loro versi agli gnomici, che sono i poeti del secondo periodo d'una civiltà, e che proseguirono le tradizioni e lo stile di quella poesia, che precedè la scuola toscana del 1282, cioè la classica, la stupenda dell'Alighieri.

E tanto basti dei primi bolognesi che scrissero versi italiani.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Il Dittamondo (3-09)

Post n°931 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO IX

Di lá da l’Ambra, Aurelia ci aspetta: 
Aurelia dico a la cittá d’Arezzo, 
perch’era anticamente cosí detta. 
Ver è che questa mutò nome e vezzo, 
quando la prese Totila, che poi 5 
arar la fece tutta a pezzo a pezzo. 
Le genti, che lá sono, al dí d’ancoi, 
pur ch’abbian di lor vita alcun sostegno, 
non curan di venir dal tu al voi. 
E sí son, per natura, d’uno ingegno 10 
tanto sottil, che in ciò ch’ a far si dánno 
passan de gli altri le piú volte il segno. 
Per biada e per vin buon terreno hanno; 
l’Arno, la Chiassa, le Chiane e ’l Cerfone 
piú presso d’altri fiumi a essa vanno. 15 
Donato dal gran drago è lor campione; 
godon di vagheggiarsi mura e fossi, 
come de la sua coda fa il pavone. 
Solino in prima e io apresso mossi, 
cercando com la gente si governa, 20 
tra quelle strette valli e alti dossi. 
Noi fummo sopra il sasso de la Verna, 
al faggio ove Francesco fu fedito 
dal Serafin, quel dí che piú s’interna. 
Molto è quel monte divoto e romito 25 
ed è sí alto, che ’l piú di Toscana 
mi disegnò un frate col suo dito. 
"Guarda, mi disse, al mare, e vedi piana 
con alti colli la Maremma tutta: 
dilettevole è molto e poco sana. 30 
Lá è Massa, Grosseto e la distrutta 
Civita veglia ed èvi Populonia 
ch’ appena pare, tanto è mal condutta. 
Lá è ancor dove fu Lansedonia; 
lá è la Cava, dove andare a torma 35 
si crede il tristo overo le demonia. 
E questo il manifesta, perché l’orma 
d’ogni animale lá entro si trova 
in su la rena e d’uomini la forma. 
Io dico piú: che qual fa questa prova, 40 
che quelle spenga e pulisca la rena, 
se l’altro dí vi torna, ancor le trova. 
Lo suo signore, nel tempo che Elena 
fu per Paris rubata, si ragiona 
che con i Greci a Troia gente mena. 45 
La è Soana e vedesi Mascona 
ed èvi Castro povero e men dico 
ch’a Bolsena si va da terza a nona. 
Queste cittadi e altre ch’ io non dico 
funno per la Maremma, in verso Roma, 
famose e grandi per lo tempo antico. 
De’ fiumi, che di lá piú vi si noma, 
sono l’Ombrone, la Paglia, la Nera 
e Cecina, che a la marina toma. 
Ma leva gli occhi da questa rivera 55 
e guarda per le ripe d’Apennino, 
se vuoi veder piú la Toscana intera. 
Vedi il Mugello e vedi il Casentino 
a man sinistra, e vedi onde l’Arno esce 
e come va da Arezzo al Fiorentino. 60 
Poi mira in vèr la destra come cresce 
Tever passando da Massa Trabara, 
per l’acque molte che dentro vi mesce. 
E guarda come porta la sua ghiara 
dal Borgo San Sepolcro in vèr Castello, 65 
dove il Pibico entra e la Soara. 
E guarda come è grosso e fatto bello 
presso a Perugia e come a Todi china, 
dove Acqua fredda e il Chiascio va con ello. 
E guarda come per terra Sabina 70 
* poi passa 
per Roma e vanne, a Ostia, a la marina. 
E nota: quanto da levante lassa 
si è fuori di Toscana, onde il Ducato 
in tutto, come vedi, se ne cassa. 75 
Io so bene che quanto t’ho mostrato 
che la vista nol cerne apertamente 
per lo spazio ch’è lungo, dov’io guato. 
Ma quando l’uom, che bene ascolta e sente, 
ode parlar di cosa che non vede, 80 
imagina con gli occhi de la mente". 
E io a lui: "Tanto ben procede 
lo vostro dir, che a me è cosí chiaro 
com’io v’avessi giá su posto il piede. 
Ma ditemi ancora, o frate mio caro, 85 
se di Francesco ci è alcuna cosa 
da notar degna, per questo riparo". 
Menonne allora in una parte ascosa 
del sasso e disse: "Qui orava il Santo 
e vedi l’orme ove i ginocchi posa. 90 
Altro non c’è; ma se brami cotanto 
veder de le sue cose, a Monte Aguto 
vedrai la cappa sua". E tacque a tanto. 
E io: "La cappa e ’l cappuccio ho veduto, 
che spense giá, girandola in sul foco 95 
ch’ardea il castel, senza alcun altro aiuto. 
E vidi lá, che non mi parve gioco, 
di notte accesi infiniti doppieri, 
senza uomo alcun cercar tutto quel loco. 
Questo mise i signori in gran pensieri 100 
di quel castel, ché, per uso, la morte 
sempre un ne vuol, quando appaion que’ ceri". 
E ’l frate a me: "Di cosí grave sorte 
in alcun luogo giá parlare udio; 
ma il creder m’era dubitoso e forte". 105 
Cercato il monte ognor Solino e io 
e veduto la chiesa e gli abituri, 
raccomandammo que’ buon frati a Dio. 
Cosí scendendo que’ valloni oscuri, 
mille anni ci parea d’essere al piano, 110 
sí poco lá ci tenevam sicuri. 
Chiusi, Farneta vidi e Chitignano 
e passammo in piú parti la Rassina, 
un fiumicello assai noioso e strano
e dubitoso a qual suol si trassina. 115
 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXIX-1)

Post n°930 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXIX

[1 Di Latino Latini]

Signor, che colmo d'alte voglie, ardenti
L'animo avete e di virtù sì rare,
Seggio d'onor, di lode altiere e chiare,
Albergo u' son gli umani affetti spenti.

Talché sopra natura e gli elementi
Vi siete alzato, ond'oggi in voi traspare
Raggio divin, che vi farà adorare
Da spirti più leggiadri ed eccellenti.

Quanti veggio, signor, lodati inchiostri
Per voi destarsi, e 'l bel romano clero
Quanto da voi riceverà splendore.

Ché se fortuna i chiari merti vostri
Vorrà gradir, e s'io predico il vero,
Della chiesa di Dio sarai pastore.

[2 Di Latino Latini]

A messer Vincenzo Divi col disegno per messer Giovanni Battista Spirito.

Se coll'alto valor, col chiaro ingegno
Vostro, signor, con cui l'età novella
Di magnanime imprese è ricca e bella
Rendete e voi d'immortal gloria degno,

Discorrendo di quei lochi il disegno
Ch'agli antichi roman furno castella,
Quando contro di gente empia e rubella
Sfogar' col ferro in man l'ira e lo sdegno,

V'invaghiste sì dentro al bel lavoro
Che con picciola schiera incontra a molti
Difender la fortezza aveste ardire.

Col don date ai feriti alcun ristoro,
Che per non si curar restan sepolti
Spesso anzi al giusto termin del morire.

[3 Di Latino Latini]

Signor, già con leggiadre e forti penne
Solea sì in alto il mio pensier levarsi,
E tanto al bene eterno avvicinarsi
Ch'ogni cosa mortale a schivo tenne.

Poscia che occultamente al cuor mi venne
L'ingorda sete di ch'io già tutto arsi,
Ogn'onesta mia voglia in ria cangiarsi
Sentì, sì che di sen nulla ritenni.

Onde non che più al cielo alzare i vanni,
Ma non pur li potei levar dal fango
U' senza vergognarmi un tempo giacqui.

Or che per te, signor, scorgo i miei danni
Che ti chieggo perdon, che 'l fallir piango
Tornami tal qual tua mercè rinacqui.

[4 Di Latino Latini]

A pie' de' monti, ove or tranquilla pasce
L'eletta da Dio greggia erbette e fiori,
Quella di latte pieno, esse d'odori
Fonte di chiare e salubri acque nasce.
 
A cui fa in alto giro ornate fasce,
Porfido vivo sì ch'uscir di fuori
Di là non puote; intorno olivi, allori,
E palme il sant'umor nudrisce e pasce.
 
Quinci e quindi del fosso in su le sponde
Sta vigil serpe, acciò che dagli oltraggi
D'invide voglie il buon signor difenda.
 
Tempo sia che dai verdi alteri faggi
La greggia sitibonda al pian riscenda
U' el buon pastor l'invita alle sacre onde.
 
[5 Di Latino Latini]

Se per vago, leggiadro e grato aspetto
D'amorosetta donna, o cortesia
Rara ver' me s'aprì unqua la via
A fare accesa per scaldarmi il petto;

Trovò però sì chiuso il calle e stretto
Ch'al cor profondo mio gelato invia
Ch'estinta al tutto et agghiacciata pria
Restò, che giunta al destinato affetto.

Non altrimenti che veggiam noi farsi
Il lumicin in vaso ampio e profondo
Per stretta intrata alcun di porlo affretta;

Che pria spento riman, che entro inviarsi
Possa, così mai non arriva al fondo
del petto mio d'amor calda saetta.
 
[6 Di Latino Latini]

Come nella stagion ch'a giuochi e feste
Col nuovo suo liquor Bacco n'invita,
E che la pianta abbastanza nodrita
Perde col digiunar la bella veste.

Pomo non può nato d'albero alpestre,
Se ben maturo par, senz'altra aìta
D'alquanto tempo e d'arte insieme unita
Cangiar in dolce il sapor duro e agreste.

Così, se dall'inculto aspr'Appennino
Il frutto, ch'or vi mando, è mal maturo
Sicché col succo acerbo il dente annoda,

Maturatel con arte in loco oscuro,
Finché sia tal che 'l gusto se lo goda,
O l'alber trasferite in Aventino.

[7 Di Latino Latini]

Al signor eletto di Cesena quando andò a Siena.

S'a quel desir, ch'in voi sovente accende
Viva ragion, divino alto intelletto
Non fia per nuova voglia unqua ristretto
Il freno, anzi al bel fine ov'egli attende,
 
Vedransi opre sì degne, e sì stupende
Uscir dall'onorato e sacro petto
Che di vostra virtù fia sempre detto
Ove il sol poco, ove molto risplende.
 
Però, signor mio caro, all'alta impresa
Che può farvi fra gli uomini immortale
Et al superno ben larga ampia porta
 
Raccendete di nuovo ognor l'accesa
Voglia, s'a voi di voi medesmo cale,
Ch'altro ben d'esta vita uom non porta.

[8 Di Latino Latini]

Di se stesso a m. Camilla.

Tenesti, Amor, gran tempo in man le chiavi
Del mal'accorto mio tenero cuore,
Quando in sul primo giovenil errore
Parvermi i lacci tuoi dolci e soavi.

Ma poich'in me sospir penosi e gravi
Fra le varie speranze e 'l van timore
Creasti, disleale, empio signore,
Odiai il tuo falso ben, che mi mostravi.
 
Ond'io ringrazio quel motor superno,
Che creò questo e quell'altro emisfero,
Che da' tuoi duri lacci il cuor mi scinse.
 
Errarno ben col tuo cieco governo
I sensi, e l'occhio mai non scorse il vero;
Ma voglia in me ragion giamai non vinse.
 
[9 Di Latino Latini]

Almo pastor, la cui pietà infinita
Ha del comune ben zelo e del mio,
E di tirarne al ciel tanto desìo,
Che perciò prendi e poi lasci la vita,
 
La cara pecorella tua smarrita
Oggi ritrovi e fai, signor, sì ch'io
Riceva il don, che solo vien da Dio,
A cui s'inchina l'alma e chiede aita.
 
Così risorgo, e dentro al cuore sento
Nuovo pensier: quei mi conforta e sprona
A seguir oltre, ond'io m'affretto e scaldo.

Quinci chi può ridir qual sia il contento
Ch'ognor s'accresce all'alma, che poi saldo
Opra tessendo in ciel giusta corona?
 
[10 Di Latino Latini]

Poiché d'alpestre e rapido torrente
In mar tranquillo e ben spalmata barca,
Di ricca merce, e saggio nocchier carca
E col favor d'un placido ponente,

Scorgo che il signor mio felicemente,
Solcando l'onde inanzi agli altri varca,
Mercè del sommo e provido monarca
Ch'abbandonar sua gregge non consente.

Dico fra me: felice e ben nat'alma,
Che del primo pastor l'afflitta nave
Guiderai fuor di perigliosi scogli;

Prendi or' in pace desïata et alma
D'argento l'una e d'or fin l'altra chiave
E con vera pietà ne lega e sciogli.
 
[11 Di Latino Latini]

O città, che del mar reina sei,
Che l'alma Esperia il destro fianco bagna,
E schermo pio, non pur figlia o compagna
Sempre fosti di Pietro ai santi piedi.

Perch'or lo strazio e 'l duol non odi e vedi
Della sposa di Cristo, che si lagna
Non men di te, che di Germania e Spagna
Cui lei preda badando esser concedi?
 
Torna almeno a te stessa, e nell'altrui
Danno, il tuo posto ancor chiaro vedrai
Sol con quest'arti il suo valor s'atterra.
 
Coi gigli d'oro e cogli azzurri omai
Spiega il Leone alato incontra a lui
Che combattendo altrove a te fa guerra.
 
[12 Di Latino Latini]

Signor, ch'omai tre lustri interi avete
Nel santo e ben locato offizio vostro
A tutto il mondo apertamente mostro
Quale in voi senno e carità chiudete;
 
Dico le stelle grazïose e liete
Preste a tanto serbarvi in questo chiostro
Uman quanto a voi basti al terren vostro
Render la desïata sua quïete,
 
E 'l far che l'alma vostra sposa cara
L'empio settentrion chieda perdono
E tributo le dian Turchi, Indi e Persi,
 
Dunque non sian vostri desir diversi
Da quei del ciel, che preparati sono
Quinci a donarvi gloria eterna e rara.

[13 Di Latino Latini]

Siena, è stato capriccio della sorte
Et una come te porro influenza
Il sinistro che par ch'abbia Fiorenza
Le mura tratte giù non delle porte.

E il caso a Chiusci dalle fusa torte
Trionfante chimera in apparenza,
Ch'in verità la neutral prudenza
Miglioramento il tien della sua morte.

O in fatti e in detti legitima schiava,
E in fatti e in detti libertà bastarda,
Non esser così pazza e così brava.
 
Poveraccia da bene, il fine guarda
Che la promessa colla qual si chiama
Il Turco epidanissimo è bugiarda.
 
 
 

Il Dittamondo (3-08)

Post n°929 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO VIII
Quel tenero pensier, che nel cuor nacque 
partendo dal piacer, ch’ognor disio, 
s’ascose, come a la mia guida piacque. 
Poi, per non perder tempo ed ello e io, 
andando il dimandai se Italia mai 
per altro nome nominar s’udio. 
Ed ello a me: "Se cerchi, troverai, 
occupata da’ Greci, la gran Grecia 
esser nomata ne’ tempi primai. 
Saturno ancora, dopo molte screcia 
fatte con Giove, fuggendo s’ascose 
di qua, dove ’l suo senno assai si precia. 
Costui, essendo re, fra l’altre cose, 
Saturnia la nomò". In questa guisa 
Solino a la dimanda mi rispose. 
Poi sopragiunse: "Figliuol, qui t’avisa 
ch’a pena so provincia, a cui non sia 
cambiato nome, cresciuta o divisa. 
E questo è quel che l’animo disvia, 
quando nuove scritture di ciò leggi 
da quelle de gli antichi e da la mia. 
Or perché chiaro in questa parte veggi, 
sí come le province qui d’Italia 
le piú hanno mutato nome e leggi, 
dico che Scozia si scrisse, giá balia 
di Giano, e, da’ suoi monti, è Rezia prima 
e la seconda s’intendea con Galia. 
E come l’Eridan giú al mar dilima, 
Emilia e Liguria bagna sempre: 
l’una di lá, l’altra di qua si stima. 
Lungo ’l mare Adrian par che s’assempre 
Flaminea, dico, e Picena ancora 
e che ’l giogo Apennin quell’aire tempre. 
E fu Toscana, dove noi siam ora, 
Umbria giá detta, non tutta, ma parte, 35 
per gran diluvio che quivi dimora. 
Quella contrada, dove con sue arte, 
morto il figliuolo, Medea stette e visse, 
Valeria o Marsia è scritta in molte carte. 
Messapia o Peucezia si disse 40 
l’altra, ch’è lungo il mare, ove si crede 
che Silla in mostro giá si convertisse. 
E non solo in Italia si vede 
i nomi rimutati a le province, 
ma sí in piú parti del mondo procede. 45 
Or tu, che dèi notare quindi e quince 
li nomi de’ paesi, tienti a quelli 
c’hanno piú fama per diverse schince: 
dico co’ vecchi e quando co’ novelli". 
E cosí la mia scorta ragionando, 50 
passammo molti borghi e piú castelli. 
Noi eravamo sopra l’Era, quando 
mi fu mostrata un’acqua e per alcuno 
contato, a cui di novitá domando: 
"Usanza è qui tra noi che ciascheduno 55 
che fa cerchi da vegge, ivi gl’immolla 
e che sempre, di diece, ne perde uno. 
E niuno può veder chi questo tolla: 
l’un pensa ch’ è ’l dimonio che l’afferra, 
l’altro ch’ è il lago, che da sé l’ingolla". 60 
Apresso questo, trovammo Volterra 
sopra un gran monte, ch’ è forte e antica 
quanto in Toscana alcun’altra terra. 
Si disse Antonia e, per quel che si dica, 
indi fu Buovo, che per Drusiana 65 
di lá dal mar durò molta fatica. 
Per quella strada, che v’era piú piana, 
noi ci traemmo a la cittá di Siena, 
la quale è posta in parte forte e sana. 
Di leggiadria, di bei costumi è piena, 70 
di vaghe donne e d’uomini cortesi, 
e l’aire è dolce, lucida e serena. 
Questa cittade per alcuno intesi 
che, lasciando ivi molti vecchi Brenno, 
quando i Roman per lui fun morti e presi, 
si abitò prima; e altri è d’altro senno, 
che dice, quando il buon Carlo Martello 
passò di qua, che i vecchi suoi la fenno. 
Io vidi il Campo suo, ch’è molto bello, 
e vidi fonte Branda e Camollia 80 
e l’ospedal, del quale ancor novello. 
Vidi la chiesa di Santa Maria 
con gl’intagli del marmo e, ciò veduto, 
in verso Arezzo fu la nostra via. 
Non è da trapassare e farsi muto 85 
de l’Elsa, che da Colle a Spugna corre, 
ché, senza prova, non l’avrei creduto: 
io dico che vi feci un legno porre 
lungo e sottile; e, in men che fosse un mese, 
grosso era e pietra, quando il venni a tôrre: 90
colonne assai ne fanno nel paese.
 
 
 

Semprebene della Braina

Post n°928 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Semprebene della Braina

Due furono in diverso tempo gli uomini di questo nome. Uno di essi comincia a ritrovarsi negli Atti pubblici del 1225; dottore non ignobile di Legge, del quale parla lo storiografo Sarti nella sua opera dei chiarissimi professori della bolognese Università. Un altro Semprebene si trova menzionato fra i vivi nel 1292: notaio di professione, e figlio d'Ugolino dalla Braina notaio, ch'ebbe un fratello medico di nome Niccolò.

Uno di questi Semprebene fu poeta del secolo XIII. e non ignobile, ma non potrebbe provarsi con assoluta sentenza quale fosse dei due. Parrebbe tuttavia più probabile (come ritiene il detto Sarti) che fosse il notaio Semprebene della Braina; da che sappiamo che i notari di que' tempi applicavan l'animo non rade volte alle belle lettere, come fu di Rolandino Passeggieri, che lasciò latini versi nella sua Summa Notarice. Senza dire di Brunetto Latini, di Francesco da Barberino, di Colluccio Salutati, cancelliere della Repubblica Fiorentina, e d'altri non pochi i quali erano ad un tempo e notai e poeti. E per vero nell'Archivio pubblico di Bologna si trovano molli Atti di Notari, che hanno o in fine o a tergo de' versi e degli squarci di letterari componimenti.

Fiorì Semprebene della Braina nel 1250 e forse alquanto più tardi: e ciò affermasi pure dal Bembo, il quale lasciò scritto:

« Da quel secolo che sopra Dante infino ad esso fu, incominciando, molti rimatori incontanente sursero non solamente di Firenze e di tutta Toscana, ma eziandio altronde, siccome furono Pietro dalle Vigne, messer Onesto e messer Semprebene da Bologna, e messer Guido Guinicelli, bolognese anch'egli, molto lodato da Dante.»

Del rimatore Semprebene, annoverato dal Gravina nella Ragione Poetica tra gl'illustri verseggiatori del primo secolo, e che compose rime per lo più morali, come attesta il Montalbani nel vocabolista bolognese, non si conosce oggidì che una Canzone, la quale cpnservavasi manuscritta nella Chigiana e che il Crescimbeni ne' Commentari all'istoria della Volgare Poesia, dice che è scritta all'uso de' primi tempi, in cui le Canzoni si scrivevano a guisa di prosa, nè si andava da capo se non d'una in altra strofa; sicchè durò gran fatica a trarla dall'antichissimo carattere col quale è scritta, e distinguer l'un verso dall'altro, e darle la sua perfetta forma. Non di meno ben si conosce, al dire di lui, la bontà de' sentimenti che contiene, e la bella maniera colla quale son collocate le rime.

Ed ecco senza più la Canzone del notaio bolognese, non come il Crescimbeni la trasse dal Codice, ma come piuttosto dal Nannucci a miglior lezione fu ridotta.

Come lo giorno quando è dal mattino
Chiaro e sereno egli è bello a vedere,
E gli augelletti fanno lor latino
Cantar sì fino ch'è dolce ad udire;
Se poi a mezzo giorno cangia e muta,
Ritorna in pioggia la dolce veduta
Che da prima mostrava.
Lo pellegrino che securo andava
Per la speranza di quel giorno bello
Diventa fello (1) e pieno di pesanza:
Così m'ha fatto Amore a mia certanza.

Così m'ha fatto amore certamente,
Che allegramente - in prima mi mostroe
Sollazzo e tutto ben dall'avvenente (2);
Alla più gente - lo core cangioe.
Credendomi di trar tutta mia vita
Savio, cortese, di bella partita,
E gir per quella baldo
Che passa lo giacinto e lo smeraldo,
Ed ave tai bellezze ond' i' desìo
E saccio e crio (3) - che follia lo tira
Chi lauda il giorno avanti che sia sira (4).

Assai val meglio buono incominciare,
Che dopo il fare - non val pentimento.
Per voi m'ha messo, bella, Amore in mare;
Fammi tornare - a porto di contento.
Sì voi m'avete tolto remi e vela,
Che travagliasi il cuore, nè medela (5)
Ei spera, donna mia.
Se m' hai levata la tua compagnia
Deh me la rendi, donna, tutta in una.
Non è in fortuna - tuttavia (6) lo Faro,
E presso a notte viene giorno chiaro.

Più bello sembra il mare, e più sollazza
Quand'è in bonazza - che quando è turbato.
Il vostro aspetto, che 'I mio core allaccia
Par che a voi piaccia - tener corrucciato:
Ma non è donna che sia tanto bella,
Che s'ella - mostra vista torva o fella (7)
Alfine non disdica.
Però vi prego, dolce mia nemica,
Da voi sì muova mercede e pietanza,
Sì che d'erranza - mi traggiate, o donna,
Che di mia vita voi siete colonna.

Note:

(1) Provenzale fel, triste.
(2) DM'avvenente, provenzale, cioè dalla mia bella.
(3) E so e credo.
(4) Sira, sera, siciliano e bolognese di diatetto vivo.
(5) Latinismo, medicina.
(6) Sempre; in provenzale tota via.
(7) Triste, come al penultimo verso della prima strofa.

Riportata la Canzone del notaio poeta, con quelle note che stimammo indispensabili, ci asteniamo da qualunque altra osservazione, parendoci che chiunque non sia digiuno dello stile é de' modi dei rimatori italiani del primo secolo, valga ad intendere tutta intera la Canzone medesima, la quale è sì ben condotta, che poche altre di quel tempo l'agguagliano; e splende poi di modi sì nobili e leggiadri, che niuno oserebbe tacciar di rozzo e di barbaro quest'ingenuo poeta.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXVIII-2)

Post n°927 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXVIII

[2 Di Ferrante Gonzaga]

Strambotti cantati a don Ferrante.

Dio ti salvi e mantenga a le sue spese
Ch'a le nostre ci è poco di rinvito;
Ché gli è disfatto già tutto el paese
E savio è el contadin che se n'è ito;
Aspecta una semana, aspecta un mese,
Farassi accordo, e non ci vien' novelle
Noi siam disfacti e non haviam cavelle
Io so' venuto per imbasciadore
De' contadini e d'ogni male stante,
Vorrei parlare un poco a quel signore
Ton Ferraio, Ton Ferrotto, o Ton Ferrante;
Raccomandarli un poco el nostro onore
Che sta sotto a le donne tutte quante,
La roba no, che come l'è imbruscata
Dicon che giustamente è guadagnata.

La lettera è di poi, che tutti quanti
Al prete ferno far quei contadini
Non so se di credentia, o di contanti.
Contanti no, perché non han quattrini,
Che li hanno dati tutti a' vostri fanti,
Acciocché a fatto e fin non si assassini,
E perché niuna cosa ci han lasciata
Vi arreco solo un poco d'insalata.
Fatemi poi serbare i miei panieri;
Ma hor che viene l'erba tutta via
Ve ne darem più, credo, volentieri,
Senza denari, in pretta cortesia,
Se già per forza non mi fa mestieri
Pascere l'erba per malinconia;
Ché sono persi tutti i nostri buoi,
In cambio loro andremo a pascer noi.
Notola non mi derno in nissun modo;
Ma una n'ò fatto io co le mie mani,
Eccola qui d'un legno buono e sodo,
Col buco e coll'auto da cristiani.
Suggiel non hebbi per paur' del frodo;
Ma suggelli non mancano a' villani,
Eccone uno un po' trassomigliato,
Che 'l fumo de le brache lo ha imbrattato.
S'i' non sapessi dir né più, né meno
Prego per discrition che m'intendiate,
Perché non ho studiato, e non ho pieno
El capo d'altro che di pappolate:
Le mie parole quel che le si sieno
A male in corpo non ve le pigliate;
Pigliate sol la buona fantasia
Chi non la piglia el mal che dio li dia.
Misser Ferrante, siate el ben trovato,
Ch'alfine avete viso d'uom da bene,
Dio salvi voi e 'l vostro baccinato,
Che di casa Zoncaga nascie o viene;
Da poi che dio vi ha tanto inalzato
Che fra le man vi moggia ogni suo bene,
Sievi raccomandato a fatto e fine,
E contadini, e le lor contadine.
Sievi raccomandati e povarelli,
Che non han sal, né olio, vin, né grano,
Non han calze, camicie, né mantelli,
Ch'a questa volta sono tutti a un piano,
Qualcuno hebreo in mano n'ha granelli,
Che li Spagnuoli tiransi con mano,
Che lusenge di moglie non li vale
A far che si rincrechi l'animale.
E povari vi sien raccomandati,
Ché le lor' mogli stanno in orationi;
Non più tormenti, ché son tormentati,,
Faccin che a far figlioli rimangan buoni.
Deh non più stratii, e se pur son stratiati,
Salvin le brache con le lor ragioni,
Ché chi el capo non ha troppo leggieri
Più che la vita ha car la coda e i geri.
Vi raccomando e povar contadini,
Che n'andarebber tutti a l'ospedale;
Ma l'ospedal non ha né pan, né vini,
Ch'ogni cosa n'è ita a ita n'è male,
Non havian pane, e non havian quattrini,
Morian di fame el dì di carnasciale,
(E) senza che niun di noi niun mal vi faccia
Come a li lepri ch'è dato la caccia.
Poiché la guerra ancor non è bandita,
E dite che per nostro ben ci state,
Persa la robba, salvisi la vita,
E lavorar le terre ci lasciate.
El contadin che el verno non s'aita,
Non ricoglie né 'l verno, né la state;
Ma se a le vigne star ci lascierete
Vi darem ber, se un dì ci passerete.
Ecci certi paesi rovinati
Ch'altro non ci è rimasto che letame,
E' povar contadin ci son restati
Per lavorare e muoionsi di fame;
Son presi per far taglia da' soldati,
E non hanno altra taglia che 'l forame,
Et doggeva servirli per patente
Essar restati a secco senza niente.
E el mio communo ancor vi raccomando
Che a fatto e fin non si distrugga e spenga,
Che vi si possi star lavorachiando,
E per preda, o prigion non vi si venga;
Ché ogni cosa è ita a strilla e bando,
Che 'l Castelnuovo de la Belardenga;
Ma v'è certi stiattoni e certe dame
Da farvi l'appettito senza fame.
E in quel comun vi raccomando poi
Imprima prima me, se gli è dovere
Che vi possi tornar le donne e buoi,
E vòne lavorar più d'un podere,
Che si(a) visto sicur da li Spagnuoli
Tre figliuoli a un corpo voglio avere;
Ma ch'i priori non si cura e s'oda,
Se rompe el capo, non rompa la coda.
Vi raccomando ancora el mio padrone,
Che 'l suo poder m'à dato a lavorare,
Che m'à fatto anzi tanta exclamatione
Ch'i' volo a voi un po' raccomandare.
E perché gli è un certo burbarone
Non potrò far di non lo biasimare;
Non mi mira mai dritto lo sciaura',
Perché gli è guercio e strambo di natura.
Se quelle salvaguardie che voi fate
Le salvassi per noi e non per voi,
La salvaguardia prego mi facciate
Per me, per porci le pecore e buoi.
E 'nfin vi prego che ci liberiate
Da la paura di vostri Spagnuoli,
Che ci chiaman signor per cortesia,
E poi voglion per lor la signoria.
E non mi doglio di Spagnuoli solo,
Che parlan per signor e per germano,
Ché ci è qualcun che dice: io so' Spagnuolo
Enbrusca a la Spagnuola et è Taliano,
Non è sicuro il babbo dal figliuolo
Tanto s'è 'nbastardito ogni cristiano,
Et se vale a far sempre a questa forgia
Tutti diventarem popon da Chioggia.
O potta, non vo' dir del cacamoro,
Se gli ànno diferentia e cittadini
E non sanno accordarsi infra di loro,
O ànnola patir e contadini?
Noi siam tutti contenti che costoro
Governin drento e fuor' grandi e piccini.
Noi a zappar le vigne e campi esodi,
E poi chi può godersi più si godi.
Ma scambio del goder, noi tribuliamo
Come cani assassini e rinnegati,
Da dritto e da rovescio ci logriamo,
Tanto tra le due acque siamo stati.
Hor'è fatto l'accordo, hor ce n'andiamo
Fra fame, sete e freddo tribulati;
Chi perde e buoi, chi l'asino e 'l mulo,
Talché per povertà mostriamo el culo.
Se non si accordan questi cittadini,
Che non vedete se voglion lassare,
Altro e tanto il governo a' contadini,
Et ensegnaregli forse a governare.
Certi ve n'è di noi tanto assassini,
Che, se potesse, li farei arare,
Che per cavarsi l'anno le sue voglie
Al primo tratto c'impregnan la moglie.
Ho decto, decto, e non ho facto niente.
E farò qualche cosa, se volete;
Fate, o non fate voi vostra patente,
Ché voi solo aiutar sì mi potete.
Spesso l'amico è meglio che 'l parente,
E potrei farvi quel che non credete;
Ché, se non altro, e polli portarei
Con fedeltà che non li mangiarei,
Che dome fuora, se vi affadigasse,
Chi potesse menare a casa i buoi,
Et hor che non v'è nulla lavorasse
Senza sospecto haver de li Spagnuoli,
Che sareste cagion, se voi m'aitasse,
Che non morrien di fame i miei figliuoli,
Et evvi una stationa di lesei
Da mettere a cavallo i fatti a piei.
Arèi da dire un anno de' miei guai;
Ma non vorrei tediar; né dispiacere:
Veggo che ci è faccenda pur assai
Ch'è d'importanza più che 'l mio podere,
Boccon di pane a casa non lassai
E bisogna tornare provedere
Che moglima im procaccio n'andarebbe
E più fave che pan procacciarebbe.
E chi sarebbe ancor che per parere
Che qualche imbasciador vi fusse accepto
Farli, si vel chiedesse, un bel piacere
Come i' vi chieggo questo che ha l'effetto
Di poter lavorare el mio podere,
E non haver de li Spagnuoli sospetto,
Che fa el sospetto ai vostri Spagnuoi
Venir lo serzo agli uomini e a' buoi.
La ne va rapazoni a la sicura,
O dice che va 'l pane a procacciare;
Ma non haver de li Spagnuoli paura.
D'altro che pan mi ci fa dubitare,
Io so che la n'è ghiotta per natura
E sì si va de la stiza a cavare;
Ma so dir certo, se l'affrontaranno,
Se fusser cento, non la stracharanno.
Hor s'i' non ho saputo raccontare
Quel che mi è stato imposto e comandato,
Prego che mi deggiate perdonare,
Ch'io non ho letara e non ho studiato;
So' contadino, avezzo a lavorare,
Entendomi d'un giogo e d'un arato,
E s'i' mi trovo co' le donne a solo
M'intendo d'integliar qualche figliuolo.
Una cosa vo' dir, se m'ascoltate,
Con questo che la vaglia a perdonare;
Dico che 'l vostro nome vi mutiate
Se vi doveste un dì ribattezzare;
Però che Ton Ferrante vi chiamate
Come se fuste un uomo da ferrare.
Sete signor co' paggi e co' lo scalco
E il nome avete poi di maniscalco.
Perché voi mi parete dabbenaccio,
Signor mio caro, i' non mi so partire;
Ma per paura di non darvi impaccio
Fatevi adio, in fin me ne voglio ire;
Ma vi prometto, s'i' pesco, o s'i' caccio,
S'i' piglio apostor, qui ci vo' venire.
Hora vi lascio in questa conclusione,
Dio ci dia pane e pace di Marcone.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXVIII-1)

Post n°926 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXVIII

[1 Di Ferrante Gonzaga]

Aretia

Era nella stagione

Che impallidir le chiome
Si veggon de le piante e gli augelletti,
Che van fuggendo il gelo
Passar di là dal mare
A più temprato cielo:
Già dell'agricoltor le mani avare
Tolte aveano alle viti
Il lor dolce tesoro
Che parea in vista o di Piropo, o d'oro
Pria che Venere bella
In oriente splendea
Risorto era Tirinto,
E la sua viva fiamma
A l'ombra della notte umida e bruna
Sfogava con le stelle e con la luna
E per quei campi errando
Soletto alfin pervenne
All'albergo d'Aretia, alloraquando
Parea del dì nascente
Gravido l'orïente,
Et ella innanzi al sole
Veggendolo apparira
Pensoso con le luci al cielo affisse,
A lui rivolta disse:
Aretia
Ben m'aveggio, Tirinto,
Qual cagion qui t'ha spinto;
Non son retti da te questi tuoi passi,
Ch'i tuoi vari pensieri
Come vanno il tuo amor volgendo teco,
Così t'aggiran seco
Per distorti sentieri;
Ma sia pur stata elezïone, o sorte
Vieni sotto quest'elce in grembo a l'erba,
E meco ragionando del tuo stato
L'interna pena sfoga, e disacerba,
E l'affatto petto in un restaura
A lo spirar soave
Di questa matutina e placid'aura.
Tirinto
Io vengo, e qui m'assido;
Così avesser riposo i miei pensieri
Com'hanno queste membra
Che dall'ora ch'io vidi
Il viso di colei
Ch'ha tutti in sé raccolti i desir miei,
(Con sospir mi rimembra)
Non ondeggia sì il mare
Dove dicon che Atlante
Bagna li orridi pie' nell'onde amare,
Come fa la mia mente
Ora lieta, or dolente.
Aretia
Dimmi, t'è dato mai
Di scovrirle i tuoi guai
Con la tua propria bocca, o con l'altrui?
O pur solo con gli occhi
Messaggeri del core
Le mostri il tuo dolore?
Tirinto
Hier' mi fu in sorte dato
Giorno per me beato,
Io la vidi e l'udii
Parlando sospirare,
E de' suoi lumi ardenti il vivo sole
Accese in me l'ardore,
E l'aura de le sue dolci parole
E 'l vento de' sospiri
Spiraron nell'incendio e 'l fer' maggiore,
Né 'l fuoco scemerà ch'ora in me dura
O variar d'etate, o di ventura.
Aretia
Poiché già sì d'apresso ella ti mira,
E tu la miri et odi,
Godi, Tirinto, ardendo,
E de' pensieri acqueta le tempeste,
Che qual terrena rosa,
Alla rugiada a l'ora
De la nascente aurora
Non apre vergognosa
Il suo vermiglio ed odorato seno;
Ma poi che più vicino il caldo sente
Del gran pianeta ardente
Apre languendo le purpuree spoglie
E 'l bel raggio del sole in grembo accoglie.
Così la verginella
Ai pianti ed ai sospiri
Di novello amator che lunga miri
Chiude il ritroso petto,
Ma poi che s'avvicina il vivo ardore
D'un amoroso aspetto
Languendo apre la via per gli occhi al core
E nel virgineo sen riceve amore.
Ma come t'udì Clori
Quando le apristi le tue pene ascose?
E come ti rispose?
Tirinto
Ella, cortese in vista, e vergognosa
Di purpurei color tinto il bel volto
Talor il dolce sguardo in me volgea
E poi gli occhi chinava;
Ma quando chiuse a la mia voce il passo,
L'affetto che voleva
Tutto in un tempo uscire in me gli affisse
E sospirando disse:
Tirinto, t'amo, ed amerò mai sempre
Quanto più cosa al mondo amar conviensi:
Però de la mia fe' vivi contento,
Se pur ti poss'io dar gioia e tormento.
Aretia
Vero è quel che si dice
Ch'infinita è la voglia degli amanti,
Tu mostri essere dolente e sei felice.
Tirinto
A tai parole sì cortesi e care
D'amorosa baldanza il cor ripieno,
Mossi per gira a lei,
Né però m'appressai, ch'in un baleno
Vidi nubi di sdegno il bel sereno
Del volto aver coperto, e vidi uscire
Da' begli occhi lucenti
Folgori d'ira ardenti;
Indi fe' segno di partirsi allora
In atto supplichevole e tremante:
Non sol, dissi, tu puoi, anima fiera,
Levare a questi miei languidi lumi
Il lor più caro obietto;
Ma questo afflitto cor trarmi dal petto.
Non farai già, mentre avrò spirto e core,
Idolo mio crudel, ch'io non t'adore.
Deh! torna a me, deh! torna; e qui mancommi
Lo spirito e la voce e del mio aspetto
Gli atti languidi e mesti, indi le fero
A temprare il mio duol pietoso invito.
Allora ella si volse,
E serenossi in vista,
E i bei pietosi lumi in me converse.
Ben vidi in quel momento
Il bel d'ogni altro bello in me rivolto
Sì bella è la pietà nel tuo bel volto.
Aretia
Caro, e soave sdegno
Che sol mostrossi ne' begli occhi armato
Per esser poi da la pietà fuggito.
Tirinto
Fu forza alfin partire,
E vidi il mio bel viso
Asperso già di rose,
Smarrirsi in un pallor leggiadro e misto
Di vïole amorose,
E di bianchi ligustri;
Onde non fia già mai ch'io non ritegna
Ne la memoria impresso e l'atto e 'l loco.
Aretia
Quest'è segno maggiore
Di vero ardente affetto;
Sparsi di tal colore
Vanno i servi d'amore,
Godi dunque, Tirinto, e vivi lieto,
Che qual giovane pianta
Si fa più bella al sole
Quando meno arder suole;
Ma se fin dentro sente
Il vivo raggio ardente
Dimostran fuor le scolorìte spoglie
L'interno ardor che la radice accoglie.
Così la verginella
Amando si fa bella,
Quando amor la lusinga e non l'offende;
Ma se 'l suo vivo ardore
Le penetra nel core,
Dimostra la sembianza impallidita
Ch'ardente è la radice de la vita.
Tirinto
Se sperar del mio amor tanto mi lice,
Incendio mio felice,
Non sarà sasso che non arda meco,
Né fia caverna, o speco
Che con me non risuoni il caro nome
Il suo bel volto e le dorate chiome;
Né sarà selva, che con le fresch'ombre
Non m'inviti a sfogar l'alma mia fiamma,
Né sarà pianta che non mostri espresso
El mio gioir nella sua scorza espresso;
Né sarà augello in questi verdi rami
Che non sembri con me cantando dire:
Clori, non fia che non t'adori e t'ami;
O soave languire,
Felice me, s'io vivo in questo stato,
Beata lei ch'altrui può far beato!
Aretia
Or m'ascolta, Tirinto,
Poiché la bella Clori
Onor di queste selve,
Fiamma di mille cori,
Ad ogni altro pastor ritrosa e dura,
A te sol dona il core, agli altri il fura,
Donale la tua fede,
E degna la mercede
Sarà dell'alto don che si fece ella,
Se sì fido sarai com'essa è bella.
Tirinto
Come, Aretia, potrai non esser fido?
Troppo fu dolce la catena d'oro
Con che a la tua beltade Amor m'avvinse.
Troppo il bel nodo strinse
Ch'unito è sì col nodo della vita
Che scioglier non si può se non per morte.
Troppo aperte del cor furon le porte;
Quando la bella imago
A lui pervenne in prima,
Ed or non è sì vago
Ch'ad ogni altra le serra:
Onde non sarà mai bellezza in terra
Che in sé rivolga, o renda meno ardente
Il bel desio dell'invaghita mente.
Aretia
Ma se talor la tua leggiadra ninfa
Veggendoti da molti esser amato
Di pallido timor tingesse il volto,
Temendo che d'altrui non le sii tolto,
Lascia pur ch'ella tema, e ch'altri t'ami;
Ché l' gielo del timore il foco affina
Negli amorosi petti;
Ma non esser cagion della tua tema
E sembra nel sembiante
Cortese a tutti e di lei solamente;
Né far giammai de la sua fede prova;
Poiché nulla ti giova
Se bene a te paresse,
Come credo che sia,
Più salda che colonna;
Mai non si dee tentar la fe' di donna.
Alfin d'esser rammenta
Timido di parole
Seco e d'affetti audace,
E sappi che non fu mai senza guerra
Il dolce fin d'una amorosa pace.
Ma ecco colà veggio
Venir in vista lieti e vergognosi
Calisa e 'l suo Rutillo, amanti e sposi.
Felice coppia, a cui concesse amore
Refrigerio soave
Del loro onesto ardore.
Tirinto
Adrio di là se n' viene
Forse da me per sfogar meco parte
Delle sue dolci ed amorose pene.
Aretia
Dunque vanne, Tirinto, e lui consola;
Poiché sei consolato,
E lieto vivi, e godi
Delle tue fiamme e ne' tuoi cari nodi.
Tirinto
Le grazie ch'io dovrei,
Aretia, non ti rendo,
Ben te le renderei
Se parlassen per me gli affetti miei.
Rimanti dunque, ed importuna guerra
Di noiosi pensieri
Non turbi mai la tua tranquilla pace.
Destro a te giri il cielo,
Ti dia frutti la guerra,
Né pioggia accolta in gielo
Già mai t'abbatta i campi,
Né mai folgori, o lampi
Cadano giù della gran madre in grembo.
Ti sia l'aer sereno, e largo nembo
Di dolcissima manna e di rugiada
Piova in questa felice alma contrada.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-07)

Post n°925 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO VII
Cosí cercando per quella pianura, 
trovammo Prato che ’l Bisenzo bagna, 
dove si mostra la santa cintura. 
Passati la Marina, una montagna 
Solino m’additò, dicendo: "Vienne; 5 
non vo’ che per l’andare il dir rimagna". 
E cominciò: "Dopo il diluvio, venne 
Atalante con la sua sposa Eletra 
d’Asia, dico, e quel bel monte tenne. 
Costui fu il primo che fondasse pietra 10 
in Italia, per fermar cittadi, 
come pare in alcuna storia vetra. 
E ciò confessa il nome, se ben badi: 
Fiesola la nomò, però che sola 
prima si vide per queste contradi. 15 
Tre figliuoli ebbe (e nota la parola) 
Italo, Dardano e Sicano poi, 
de’ quali al mondo ancor gran fama vola. 
Italo a Italia, dove siamo noi, 
lo nome diede e tanto poi si spazia, 20 
ch’ un luogo fece, dove è Roma ancoi. 
Dardano, apresso, si trasse in Dalmazia 
e quivi per un tempo seggio fece; 
ma pur al fine del luogo si sazia. 
Abbandonato quelle genti grece, 25 
ne le parti di Frigia si ridusse, 
lungo quel mar, fra genti grosse e biece. 
Con que’ compagni, che seco condusse, 
fermò una cittá, la qual Dardania 
volse che detta dal suo nome fusse. 30 
In quella parte, dov’è or Catania, 
passò Sicano e del suo nome 
l’isola poi si nominò Sicania. 
Qui passo a dirti di quel monte, come 
fu ricco di buon bagni e bei ricetti, 35 
di gran condotti e d’uno e d’altro pome". 
Cosí parlando tra que’ bei tragetti, 
giungemmo a la cittá che porta il fiore, 
degna di ciò per li molti diletti. 
Qui provai io com’è grande l’amore 40 
de la patria, però che di vederla 
saziar non ne potea gli occhi né il core. 
A ragionar di questa cara perla 
il principio, non è dubbio che Roma 
l’abitò prima e le fe’ mura e merla. 
E per alquanti allor prima si noma 
piccola Roma; ma ’l nome non tenne, 
ché a ciò non era ancor la gente doma. 
Cesare, vinta Fiesole, lá venne 
e del suo nome nominar la volse; 50 
ma per li senator non si sostenne. 
Poi per Fiorin, che la morte vi colse 
da’ Fiesolani, li fu detto Fioria 
e questo ancora, in parte, li si tolse. 
Al fine gli abitanti, per memoria 55 
ch’ ell’ era posta in un prato di fiori, 
li denno il nome bello onde si gloria. 
Grande era e degna giá di tutti onori, 
quando Totila crudo, a tradimento, 
tutta l’arse e disfè dentro e di fuori. 60 
Apresso questo gran distruggimento, 
per lo buon Carlo Magno fu rifatta 
e tratto Marte d’Arno e posto al vento. 
Vero è che sempre stette in gran baratta 
in fin che Fiesol poteo batter polsi; 65 
ma poscia crebbe, come fu disfatta. 
E se del tutto allor si fossen spolsi, 
e non raccolto l’un con l’altro sangue, 
forse tal canterebbe, ch’ora dolsi: 
ché non è modo a racchiudere un angue 70 
e l’uomo insieme, ché son sí contrari, 
ch’al fin convien che l’uno e l’altro langue. 
Io vidi molti luoghi ricchi e cari; 
ma sopra tutto mi piacque il Battista, 
che d’intaglio di marmo non so il pari. 75 
E se compiuto fosse a lista a lista 
il campanil, come l’ordine è presa, 
ogni altro vincerebbe la sua vista. 
L’Arno, la Sieve, il Mugnone e la Pesa 
fregiano il suo contado con piú fiumi, 80 
che sono a la cittade gran difesa. 
Di belle donne e con vaghi costumi, 
d'uomini accorti a saper dire e fare 
natura par che per tutto v’allumi. 
L’acque ha chiare e purifica l’a’re, 85 
odorifere piante e ’l ciel disposto 
a viver sani e molto ingenerare. 
E senza dubbio quel ch’io t’ho proposto 
che Fiesol dificò, conobbe il loco 
com’era per li cieli ben composto. 90 
Istato lá piú dí, che a me fu poco, 
noi ci partimmo e prendemmo il cammino, 
che ci affrettava per neve e per foco. 
Io andava col capo basso e chino, 
con piccol passo e co’ pensier sospensi, 95 
quando mi dimandò "Che hai?" Solino. 
Allor l’acceso imaginare spensi 
e dissi: "A la cittá, che dietro lasso, 
avea il cuore con tutti i miei sensi": 
ché io piangea fra me e dicea: lasso!, 100 
ritornerò giá mai a rivedere 
questo caro piacer, che ora lasso? 
"Ad altro ti convien lo core avere, 
rispuose a me, però che ’l tempo è breve, 
a cercar tanto quanto vuoi vedere". 105 
Cosí parlando, passammo la Greve; 
e io, per la parola un poco acerba, 
vinsi il pensiero e fecimi piú leve.
E cosí fan talor buone proverba.
 
 
 

Ranieri Samaritani

Post n°924 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Ranieri Samaritani

Nei giorni del Barbarossa, della Lega Lombarda e della Pace di Costanza, Matteo di Rodolfo insieme con Rolando Guarini fu ambasciatore per la città di Bologna al Congresso della Pace suddetta, l'anno 1183. Esso Matteo ebbe un' unica figliuola di nome Samaritana, la quale passata a nozze con Ser Uguccione da Montefiore, procreò un figlioletto di nome Matteo, che in memoria della madre assunse il cognome di Samaritani, e fu avolo di quel Ranieri, onde brevemente veniamo a dire. Questo Ranieri si segnalò sopra molti, tanto in istato laico quanto in condizione religiosa fra i Minori di s. Francesco; e fu lodato così per merito letterario come per offici luminosi. Nacque egli di Lambertino Samaritani; e nel 1267 era Podestà di Cento e della Pieve, siccome risulta da memoria nel pubblico archivio bolognese. E che reggesse con senno ed abilità quelle terre emule e finitime, lo prova l'onore che gli toccò l'anno appresso d'esser chiamato al reggimento di Ravenna, città antichissima e ragguardevole tra le primarie dell'Emilia.

Ranieri aveva sposata un'esimia donzella di nome Giovanna, figliuola d'un conte da Pànico, ricco e potente signorotto. É Pànico un castello, oggidì rovinoso, che siede in poggio alla destra del picciol Reno, in vista della strada che mena da Bologna a Purretla ed al toscano Apennino, e lungi da Bologna poco più di dodici miglia. Quel signorotto (pur esso di nome Ranieri) dimesso l'orgoglio di feudatario, e fatto più mite pei tempi che correvano, non isdegnò d'accasar la figliuola col nostro Ranieri, che non fu signore di castella, né vantò diritto di vita e di-morte sul gregge de' servi malcapitati, ma fu cittadino laborioso e magistrato equo ed integerrimo. Però se il nostro Samaritani condusse in moglie Giovanna da Pànico, è giuocoforza ritenere che l'assennato bolognese fosse di ricca ed eletta famiglia: le quali prerogative quando pur non apparissero da sì cospicuo legame di parentado, si arguirebbero per l'alto incarico sostenuto dal suo antenato Matteo di Rodolfo: imperocchè una città come Bologna non avrebbe mandato ambasciatore al prepotente enobarbo un popolano o un mercadante, in tanta dovizia d'egregi uomini ed eloquenti, quanti ne vantava nell'ordine de'nobili e in quello de'dotti professori. Abbiamo detto che il nostro Ranieri si segnalò sopra molti tanto in istato laico quanto in condizione religiosa: e ciò sappiamo dai cronisti bolognesi e dagli archivi de' Minori di san Francesco, dove rilevasi che amendue i consorti, di comune consentimento e con reciproca letizia, ripararono ai monasteri dell'estatico d' Assisi nel 1285 . Aveva allora il Samaritani poco meno di sessant' anni, se già da quattro lustri era in voce di dotto e savio, anzi di abile e cospicuo nel reggimento de' popoli. Nè altrimenti poteva essere, se l'abbiam visto Podestà di Cento e della Pieve nel 1267.

Appena intanto fu ricevuto nella famiglia francescana, come uomo d'esperto ingegno, e destro e pronto negli affari, venne adoprato da'suoi monaci in rilevanti negozi. Nè solo i Monaci ma la Città giovavasi del bell'ingegno, del pronto eloquio e della solerzia di lui. Infatti sappiamo che ai 6 di marzo del 1288, il Pretore di Bologna, il Capitano della milizia, col Magistrato degli Otto e coi quattro Anziani eletti sopra la guerra mandarono ambasciatori al Pontefice, tra i quali due sapienti di Credenza e il detto frate Ranieri, acciocchè di concordia coi Fiorentini conducessero alcuni negozi; perchè trattandosi allora la pace col Marchese Azzo da Este, erasi a tal fine fatto compromesso nel Pontefice Onorio IV, il quale poi mancava nell'anno stesso, e lasciava il seggio al quarto Niccolò.

Essendo quindi ritornato da Roma il rispettabile Conventuale, presentò le lettere e gli apostolici Decreti, pei quali era disposto: che i Bolognesi consegnassero la custodia del Castello di Piumazzo ad esso Frate Ranieri in nome del Papa, il qual Frate così lo tenesse finchè il Pontefice mandasse un altro che a nome suo ne fosse guardiano, pur sempre a carico dei Bolognesi: che Azzo e Francesco da Este consegnassero dal canto loro alla custodia di Fra Gerardo da Barbiano dell'ordine dei Predicatori, in nome del Papa, il Castello di Spilamberto, a carico degli Estensi medesimi.

Dopo questo fatto, non è memoria di Ranieri se non del 1302, nel quale anno il famoso Bonifazio VIII, gli scriveva una lettera, della quale si conserva copia nella Biblioteca dell'Ateneo bolognese, mercè la munificenza del gran Pontefice Benedetto XIV. che fece raccogliere dall'Archivio Vaticano quanto di Lettere, Brevi e Bolle riferisse a Bologna, cui ne mandava lieto dono come amoroso figliuolo a tenera madre.

Di qual anno, e dove morisse il Samaritani sarà forse indarno la ricerca, poichè i cronisti di quell'età non ne fanno parola: soltanto sappiamo che del 1 316 non era più, poiché in quest'anno furono venduti i suoi libri a benefizio del Monastero. - Ecco quel tanto che si conosce della vita domestica e pubblica del nostro Ranieri, il quale se fu lodato di abilità e di prudenza nella pratica degli affari, fu puranche in estimazione come cultore delle buone lettere e dell' italiana poesia. Soltanto ne duole che quello che di lui asseriscono il Crescimbeui ed il Bargiacchi, cioè che Fra Ranieri non tenne un ultimo posto tra i rimatori del secolo decimoterzo, non possa provarsi col suggello de'fatti; perocchè se v'ha poesie di quei tempi sformate dall'ignoranza o dall'incuria de'copisti, e'sono quelle certamente del bolognese Samaritani, che, per tal pecca degli amanuensi, fu detto dal Redi, rimatore de' rozzi e remoli tempi: ed esso Redi pubblicò anzi una Frottola di Fra Ranieri, tanto deforme e misteriosa, che alcuni critici non dubitarono asserire che quella era un bizzarro accozzamento di parole senza verun significato; ed altri (fra' quali il Perticar!) la tennero in conto di laida e pazza scrittura, simile al famoso Pataffio di Brunetto Latini. Ma siffatte congetture e sentenze sono a ritenersi false ed ingiuste: imperocchè uu balzano cervello che partorisse sconce frottole e matte scritture, non avrebbe potuto levarsi in onore nè fra i laici nè fra i monaci, siccome avvenne di lui; nè un letterato ridicolo poteva salire a dignità d'ambasciadore della patria presso il Pontefice, nè venir eletto alla custodia d'un paese in nome del Papa e per la patria.

Pare dunque più probabile che le poesie di Ranieri fossero mal copiate ne' Codici e malissimo lette. Infatti chi può capire che cosa significhi la seguente Frottola a messer Paolo di Castello, la quale fu pubblicata, come s'è detto, dal Redi (nelle annotazioni al suo Bacco in Toscana) traendola da un antico testo a penna da essolui posseduto?

Ed eccola:

Come in Samaria nato fuor di fé,
Ferme lo nome sovra quello cagio;
Così, come ver voi son dritto in fé,
Messer Polo però del senno cagio.
Suono vi mando, e in vero Iddio fé',
E chi rincontra lui vàntine cagio.
Lùdite volte mante ad anime camante
Probate son parole: dicio che fo parole.

E certamente non se ne cava costrutto: il perchè rifuggendo da tali imbratti, che inducon noia e sazietà, passeremo piuttosto a dire d'un altro bolognese, le cui rime volgari corsero miglior ventura, venendo a mano di sufficienti copisti e di pazienti e perspicaci editori.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine

 
 
 

Indice 2 di Rime inedite del 500

Post n°923 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del Cinquecento (Romagnoli, Dall'Acqua, Bologna 1918) è reperibile, in versione testuale, sul sito Biblioteca italiana.
Il volume contiene 293 componimenti. I poeti più rappresentati sono (tra parentesi il numero di poesie):

Latino Latini (39)
Francesco Maria Molza (32)
Luigi Alamanni (21)
Borso Arienti (15)
Tarquinia Molza (12)
Cesare Caporali (12)
Claudio Tolomei (12)
Cesare Cremonini (11)
Torquato Tasso (10)

I post (capitoli 37-50):

Pier Giovanni Silvestri
Ferrante Gonzaga (XXXVIII-1) (XXXVIII-2)
Latino Latini (XXXIX-1) (XXXIX-2) (XXXIX-3)
Nino Nini
Geremia Guglielmi
Cesare Malvicini
Annibale Di Osma
Scipion Da Castro

Annibale Pocaterra
Luigi Putti
Alessandro Guarini
Anonimo (42) (43-44) (45) (46-49)
Muse Padovane (L-1) (L-2) (L-3)
Muse Padovane (L-4)
Jacopo Perusini (L-4)


Per l'indice dei primi 36 capitoli, si veda questo post:

Francesco Maria Molza: (01-05) (06-10) (11-15) (16-24) (25-32)
Giovanni Falloppia
Anonimo
Tarquinia Molza (post 1) (post 2)
Luigi Alamanni
Pietro Bembo
Torquato Tasso
Battista Guarini
Ettore Cavalletto
Alessandro Bovio
Antonio Minturno
Angelo Di Costanzo
Mario Bandini
Veronica Gambara
Tommaso Castellani
Borso Arienti
Cesare Caporali (XI-1) (XI-2)
Nicolò Amanio
Cesare Cremonini
Diomede Borghesi (XIV-1) (XIV-2) (XIV-3)
Giovanni Andrea Gesualdo
Francesco Panigarola
Antonio Montecatini
Giambattista Guarini
Giovan Francesco Bruni
Giovanni Guidiccioni
Domenico Veniero
Giovanni Muzzarelli
Andrea Navagero
Carlo Montecuccoli
Pietro Barignano
Giovanni Mahona
Antonio Cinuzzi
Orazio Vecchi
Claudio Tolomei
Carlo Coccapani
Salomone Usquè
Orazio Ariosti
Lodovico Dolce
Gabriele Zerbo
Ottaviano Brigidi
Rodolfo Arlotti

 
 
 

Giovanna Bianchetti

Post n°922 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Giovanna Bianchetti

Antica e nobilissima è la famiglia de' Bianchetti in Bologna, la quale in ogni secolo ha dato alla religione, al governo, alla milizia, alle più elette dottrine ragguardevoli uomini, ed ultimamente quell'onorando conte Cesare, che fu Presidente dell'Accademia di Belle Arti, che dovette esular dalla patria nei mal riusciti rivolgimenti del 1831, che poi vi fece ritorno io migliori tempi, e che teneva le redini del reggimento pubblico quando Welden e i suoi armati tentavano un colpo di mano sopra Bologna, e quando questa con eroico sforzo li ributtò dalle alture della Montagnola e da tutte le porte che avevano occupato, cacciando lungi quella masnada teutonica l'otto d'agosto del 1848.

Di tale stirpe ragguardevole fu pur Giovanna, illustre donna, chiamata dal Fontana nella Biblioteca Legale, celeberrima in utroque jure canonico et civili: asserzione ch'egli trasse dal Dolfi, autore della cronologia delle famiglie nobili bolognesi. E il Dolfi ed il Fontana aggiungono che Giovanna Bianchetti seppe inoltre alcune lingue antiche e moderne; senza dire dell'italiana, nella quale scrisse non poche rime, che trovatisi pubblicate nel Rosario delle stampe di tutti i poeti, e nella Raccolta dei Componimenti poetici delle più illustri Rimatrici, fatta nel secolo scorso da quell'esimia letterata che fu la Contessa Luisa Bergalli, prima moglie di Gaspare Gozzi, fiore d'ingegno e scrittore venusto di versi e di prose in italiana favella.

Di questa Giovanna fece le lodi Leandro Alberti nella sua Descrizione d'Italia; di lei parlò con encomio Marcello Alberti nell'Istoria delle donne scienziate, ove, con errore manifesto, la chiama Giovanna Biuketi; senza dire del Bumaldi nella Biblioteca, del Marini, dell' Orlandi, del Quadrio e del Mazzucchelli.

Or ecco un saggio del poetare di quest'esimia bolognese.

Creder si dee che a chi maggior dolore
Diede il Signor quando partì di vita,
A colei, ritornando, desse aita
Prima che ad altri col suo vivo ardore.

Sicchè stando Maria con umil core
Del supremo suo Sol la nova uscita
Attendendo, sentissi la sbandita
Lena tornare, e scorse almo splendore;

Chè ratto e lieto il Messaggier del giglio
Le sopravvenne, a dir col volto chino:
Rallegrati, del ciel degna Regina;

Rallegrati, perchè l'alto e divino
Tuo figliuol, già varcato ogni periglio.
Col corpo unita ha l'alma pellegrina.

Questo sonetto, più spigliato di quelli di Fabruzzo e di Ser Bernardo, e scritto in frasi che han gittata la scoria dell'antica scabrosità, moverà sospetto negli esperti di filologia che la felsinea poetessa fosse meno antica di Ciullo d'Alcamo e di Pier dalle Vigne. E infatti leggiamo nella Cronaca bolognese di Bartolommeo della Pugliola, contemporaneo della Bianchetti, sotto l'anno 1334 questa notizia:

«All'entrata del mese di Novembre messer Carlo figliuolo della Maestà del Re Giovanni di Boemia, eletto imperadore venne a Padova. Di lì si partì, e venne a Mantova, che si teneva per que' da Gonzaga, e con poca gente. Quei che vennero furono quasi tutti Baroni di sue contrade. Con lui era la Reina sua donna, e figliuola della Maestà del Re di Polonia. Con lei era in compagnia una venerabile Donna bolognese, che sapeva ben parlare per lettere, e sapeva bene il Tedesco, il Boemo e l'Italiano. Aveva nome Madonna Giovanna, figliuola che fu di Matteo dei Bianchetti di strada s. Donato, ed era vedova, e fu moglie di Messer Buonsignore de' Buonsignori da Bologna Dottore di Legge.»

Tale notizia d'uno scrittore diligente ed erudito, ci fa aperto che Giovanna Bianchetti viveva ancora nel 1334, e ch'era venerabile, cioè di grave età; il perchè, mentr'essa può aver posto fra i rimatori del secolo decimoterzo, ci appare manifesto com'ella dovesse fiorire nella seconda metà, anzi nell'estremo del medesimo: e di qui la ragione di quei pregi di poesia che sono proprii del beato trecento, e i quali mancano per debolezza puerile, al secolo antecedente, e sovrabbondano talora, per soverchio d'arte e di rigoglio, ne' secoli di poi.

"I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XXXVII)

Post n°921 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XXXVII

[Di Pier Giovanni Silvestri]

A lo Spaventato Intronato.

Quanto più veggio e provo a la giornata,
Spaventato, e più guardo e pongo mente
A questa mia grandezza smisurata,
Più mi par disonesta e impertinente,
E ch'ella sia vergogna e vitupero
Di me e di qualch'altro mio parente.

Fu poca discrezione, a dire il vero,
Di mio padre, mia madre, o di natura,
O se d'altro istrumento fu mestiero,
E si versoron tutti oltra misura
A cavar sì di sesto e proporzione,
Com'hanno fatto, una lor creatura,
Però, s'io me ne doglio, io ho ragione,
Poi ch'io mi trovo, per lor grazia, tale
Ch'io non posso capir fra le persone.
Beato voi, che nasceste cotale
Da ficcarvi per tutto, e con ognuno
E sete a mille vostri pari uguale.
Anch'io fui già dei vostri, e da ciascuno
Ero veduto bene, anzi braccato;
Potete farne fede voi per uno.
Hoggi da molti a pena son musato
E da molti per scherno, o meraviglia
Come cosa trasforme riguardato.
E nel guardarmi in alto alzon' le ciglia
Molti, che basterebbe a mio parere
S'io fussi alto, o lontan, quattro o sei miglia.
Voglion' hor questo, hor quell'altro sapere
Cose che per la noia e per l'affanno
Non ci posso risponder, né tacere.
Domanda un (verbi gratia): quanto panno
Più di lui metto a far calze e mantello
E quel che questo importa in capo a l'anno.
L'altro cercando mi rompe il cervello
Quanti de la mia stirpe ha conosciuto,
E se più m'assomiglio a questo, o a quello.
E tal, che mille volte m'ha veduto,
Che s'io ne sto lontan sol per un mese
Vuole, a dispetto mio, ch'io sia cresciuto.
Ognun fa dall'arguto alle mie spese,
E mi trafigge con qualche bel detto,
E se ne ride poi, tanto è scortese.
Mi richieggono in fin, s'io son nel letto,
Non essend' ei capace ov'io raggiri
Tutto quel che m'avanza, o dove io 'l metto.
Non val poi ch'io sbadigli, o ch'io sospiri,
Che, se non hanno in man la cosa chiara
Indarno è ch'io stia queto, o ch'io m'adiri.
Che bordello è talor! Che quasi a gara
Alcun mi sta d'attorno e mi ringrazia
Ch'io gli serva per ombra o per ripara.
Altri n'è che più accorto, e con più grazia
Non vorrebbe, mi dice, essermi a canto
Per assai s'io cadesse per disgrazia:
Però si scosta, e mi procura intanto
Dal capo ai piedi, e vuol sapere aponto
S'io sono a peso, o pur a canna un tanto.
Di queste e simil cose ch'io non conto
Che mi fan venir meno, anzi morire
Mi bisogna tenere e render conto
Parvi poca faccenda avere a dire
A piazza e con ciascun dei fatti miei
Il passato, il presente e l'avvenire.
Li dirò 'l ver, qualche volta io vorrei
Poterci far quistion con onor mio,
Ch'io ne farei tal giorno quattro o sei.
Dove per non parer scempio, o restìo
E di far troppo il savio e 'l continente
Se ben ridon' di me, ne rido anch'io.
E da rider di questo è veramente
Ch'appresso a quel ch'io ne potrei contare
Tutto quel ch'io n'ho detto è poco o niente.
Han per grazia i par' miei particolare
Che gli altri uomin' piccini, o comunali
Non vorrebber mai seco aver da fare,
Perché vedendo sì sconci animali
Fan subito pensier d'aver trovati
Costum' e modi alla statura uguali.
Però gli han per disutili e mal' nati
E come son del corpo ognun li stima
Lunghi nell'altre cose e trascurati.
E che vicino a caso e non sia prima
Oggi ch'a pena si ricordin d'ieri
Di doman non bisogna fare stima.
Che in tutti gli esercizi è lor mestieri
Sien agiati, sozopra, e disadatti
Fin' a quel ch'ognun fa sì volentieri.
Confesson ben che sarebber molt'atti
A servir per iscala, o per uncino,
O per altri strumenti così fatti.
Dicon fin che persona han da facchino.
Anzi costumi, poi che così spesso
Usati son d'andare a capo chino.
Aggiungon altre cose a queste apresso
Che, se dicono il vero, io posso or' ora
A posta mia gittarmi entro 'n un cesso
È tra gli altri un difetto che m'accora
Per un testo che prova essere il giusto
Che gli habbin tutti un poco senno ancora.
Perché troppo crescendo e gamba e busto
La natura, che sente essere offesa,
Fa che ne perde l'intelletto, il gusto.
Or questo sì che più ch'altro mi pesa:
Che gli abbia più di tutte l'altre cose
Che gli dan tutto 'l dì disagio e spesa.
E del miglior di che Dio ne compose
Sien' da lui stati in buona parte privi
Quando negli altri abastanza ne pose.
Io non posso pensare onde derivi
Se non perch'egli sia lor poco amico
E gli dispiaccia a pena che siam' vivi.
Par che riserbi ancor' lo sdegno antico
Ch'egli ebbe contra quei primi giganti
Che l'andaro assalir come nemico.
Però gli ha in odio, e porge a tutti quanti
Questi ch'io dico et altri impedimenti,
Acciò non sien mai più tanto arroganti.
Trovo che tutti gli altri mancamenti
Di persona, di robba e di cervello
Qualche remedio han trovato le genti,
E quel ch'è troppo, o poco, o brutto, o fello
Per ispazio di tempo, ingegno et arte
Fan parer più e meno, e buono, e bello.
Ogni mal' fatta, ogni storpiata parte
Si ritorna, si copre, e si rassetta
Se non in tutto, pure almeno in parte.
Sol questa mia disgrazia maledetta,
Come più sconcia ancor dell'altre tutte
Medicina non pate, né ricetta.
Però dispiacque già fino a Margutte,
Nel qual, come sapete, fu congiunto
Infinite tristitie, e le più brutte.
Trascorse in tutte e non le curò punto
Nel crescer solo ebbe ritenitiva
E si pentì quand'al mezzo fu giunto.
S'anch'io trovato avessi questa stiva,
Voi vi potete imaginar che questo
Che m'intervene non m'interveniva.
E se 'l dicesse il mondo: egli era onesto,
Se si providde a tant'altre sciagure
Ch'a quest'ancor si ritrovassi sesto.
E mettiam caso, e si poteva pure
Aggiustar membra et ossa di sua mano
Come si fanno i pesi e le misure,
O com'han privilegio el vino e 'l grano
Di cambiare alle volte stanza e vaso
Tramutar' uno in un altro cristiano.
Dico cristian, ma non lo dico a caso;
Fussi pur Turco, o Saracino almeno
Ch'io per un n'avrei fatto poco caso.
Pur ch'io fussi a misura un palmo meno,
Che questo è che m'importa per adesso
E basterebbe a consolarmi a pieno.
Odo pur d'altri, a chi fu già concesso
(Che si concedesse or volesse Dio)
Di mutar ben due volte e forma e sesso.
Quante donne son' oggi, e conosch'io
Che del suo volentier farìen baratto
A chi per grazia avrei di darle il mio.
Dite or voi ch'io trasandi e ch'io sia matto
Ch'anch'io dir voglio, e in carta ve lo spiego,
Che di me, fare' oggi ogni contratto.
E renunzio me stesso, io non vel nego,
E mi porto odio così capitale
Che manca poco più ch'io non m'aniego.
E altro impaccio questo et altro male
Che mettersi e cavare or dentro, or fuore,
Un par di calze che ti faccin male.
Altro che trar di capo a tutte l'ore
Una berretta, o aver nome Giovanni,
Di che fece alcun già tanto romore.
Io non so ritrovar quei loro affanni
E pur anch'io portato ho brache ognora
E berretta e quel nome già tant'anni.
Ben per averne due credo talora
Che fu buona cagion ch'io crebbi poi
Doppio così della persona ancora.
Però consiglio alle mie spese voi
E ciascun che figliuoli aver disegna
Che con un nome sol battezzi i suoi;
Perché messer Domenico si sdegna
Con chi vuoi più che non se li perviene;
E come ha fatto me, li nota e segna.
Or s'io v'ho detto più che non conviene,
Ditemi voi ch'io sia poco discreto
E troppo lungo ancor che mi si viene.
Purché quel ch'io v'ho detto stia segreto,
Perché il mio primo e principale intento
Fu, s'io ciarlavo, almen voi stesse cheto.
E mentre io mi dispero e mi lamento,
Rallegratevi voi, che sete privo
Di tutto quel ch'io provo ognora e sento,
E sentirò perfin ch'io sarò vivo.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-06)

Post n°920 pubblicato il 28 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamonado
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO VI

Nobile e grande è la cittá di Genova 
e piú sarebbe ancora, se non fosse 
che ciascun dí per sua discordia menova. 
Per la rivera a levante si mosse 
la guida mia e io apresso a lui, 
lasciando Bobio a dietro e le sue fosse. 
Io vidi, presso al luogo dove fui, 
i monti dove Trebbia e Taro nasce, 
secondo che ’nformato fui d’altrui. 
E vidi uscir la Magra de le fasce 
del giogo d’Apennin ruvido e torbo, 
che de l’acque di Luni par si pasce. 
"Non vo’, disse Solin, che qui passi orbo: 
da questo fiume Toscana incomincia, 
che cade in mare al monte del Corbo. 
E vo’ che sappi che questa provincia 
da venticinque vescovati serra: 
terren non so del tanto che la vincia. 
Dal mezzogiorno la cinge e afferra 
lo mar Mediterano; poi Apennino 
di vèr settentrion chiude la terra. 
E da levante com va pellegrino 
Tevere in mar, che surge in Falterona, 
compie Toscana tutto il suo cammino. 
Lo giro suo, per quel che si ragiona, 
è misurato settecento miglia 
e Roma è quell’onor che la incorona". 
Così parlando come il tempo piglia, 
vedemmo quel paese a oncia a oncia, 
Verde, la Vara, Vernaccia e Corniglia. 
Lussuria senza legge, matta e sconcia, 
vergogna e danno di colui che t’usa, 
degno di vitupero e di rimproncia, 
noi fummo a Luni, ove ciascun t’accusa 
che per la tua cagion propiamente 35 
fu ne la fine disfatta e confusa. 
E vedemmo Carrara, ove la gente 
trova il candido marmo in tanta copia, 
ch’assai n’arebbe tutto l’Oriente; 
e ’l monte ancora e la spilonca propia 40 
lá dove stava lo ’ndovino Aronta, 
ch’a Roma fu quand’ella cadde inopia. 
E poi passammo ove si mostra e conta 
il Salto de la Cervia e par la forma 
nel sasso e come per lo monte monta. 45 
Cosí, ponendo il piede dove l’orma 
facea il mio consiglio, passai il Frigido 
con altri fiumi, ch’io non pongo in norma. 
Mugghiava il mar, ch’era ventoso e rigido, 
e l’aire con gran tuoni, per che noi 50 
fuggivam piú che ’l passo quello strigido. 
E passato Mutron, giungemmo poi 
a la bella cittá, c’ha per insegna 
l’arme romana, sí che par de’ suoi. 
Del nome suo, donde ch’e’ si vegna, 55 
è quistion: ché alcun dice da Piso, 
ch’ al tempo de’ Troiani quivi regna; 
e altri creder vuol che li fu miso, 
ché Roma, al tempo antico, ne facea 
porto a pesare il censo suo tramiso. 60 
Ed è chi conta che fu detta Alfea 
prima d’assai; ma Solin mi disse 
che Pisa nome da Pelope avea. 
Visto sopr’Arno il duomo, non s’affisse, 
ma disse: "Vienne, ché lo star soperchio 65 
e perder tempo è fallo a chi l’udisse. 
Andando, noi vedemmo in piccol cerchio 
torreggiar Lucca a guisa d’un boschetto 
e donnearsi con Prato e con Serchio. 
Gentile è tutta e ben tratta a diletto 70 
e piú sarebbe, se non fosse il pianto 
che quarant’anni e piú le ha stretto il petto. 
Io vidi Santa Zita e ’l Volto Santo 
e udii come al prego di Frediano 
il Serchio s’era volto da l’un canto. 
Io fui in su la Ghiaia, ove ’l Pisano 
sconfisse il Fiorentin, quando fu preso 
Giovanni de’ Visconti capitano. 
Questa cittá, di ch’io parlo testeso, 
Aringa o Fredia nominar si crede 80 
al tempo, dico, che per vecchio è meso. 
Ma perché illuminata da la fede 
fu prima ch’altra cittá di Toscana, 
cambiò il suo nome e Luce li si diede. 
E Sesto, Massaciucco e Garfagnana, 85 
la Lima vidi e, andando a Pistoia, 
la Nievole, la Pescia e la Gusciana. 
Dubbio non è, ch’ è scritto in molte cuoia, 
che per la gran battaglia, che fu quando 
Catellina perdeo grandezza e gioia, 90 
che assai fediti e molti ch’avean bando 
nobili assai de la cittá di Roma 
si raunâr, l’un l’altro perdonando. 
E come gente ch’era stracca e doma 
si puoser quivi, e per la pistolenza 95 
Pistoia questa cittá allor si noma.
Indi partimmo per veder Fiorenza.
 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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