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Messaggi del 04/01/2015

Rime inedite del 500 (L-4)

Post n°976 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

L
[6 Muse padovane]
Muse padovane.

(seguito)

Questa è la bella Borromea ch'i ghiacci
Arde co' suoi begli occhi freddi petti
Con le chiome dell'oro in mille lacci;
Tien mille amanti incatenati e stretti,
E benché nel suo ardor ciascun si sfacci,
Né mai rimedio alla sua piaga aspetti,
Ogni alma sol di lei servir s'appaga,
Dolce ardor, dolce nodo, dolce piaga.

Qual nell'aprir de' mattutini ardori
La vaga dea ch'a Febo è scorta e duce
Apparir suole, o rugiadosi fiori
Spargendo inanzi alla novella luce,
Tal dalle grazie cinta e da gli amori
La belle Giulia dotta splende e luce.
Oh felice Titon, Titon beato,
A cui sì bella Aurora siede a lato!
Come i famosi nomi a' morti involi
E serbi (disse Apollo) eterni in vita,
Portando lume al tempo oltr'ambi i poli,
Mentre schivi la via dal volgo trita
Convien che da voi prenda et vostri soli
Numi felice chi tesser gradita
Istoria brama, sì che luogo in terra
Non sia che 'l suo splendor inchiuda e serra
Ultima vien, ma prima di bellezza,
La Pappafava Nicolosa, in cui
Pose natura quanto di vaghezza
In mille anni dovea mostrar fra nui;
Gira i begli occhi, con tanta dolcezza
Che potrebbe d'Amor ne' regni bui
Destar desiri, e alle maniere accorte
Accender Pluto e tutta la sua corte.
Oh! quanto giova d'aver bella madre,
Che di grazia e bellezza i figli formi
Sin' entro all'alvo sempre rende et adre
Madri produsser mostri orrendi, informi
Per lo contrario poi belle e leggiadre
Fecero i parti sempre a sé conformi.
Così, Samaritana, hor v'assomiglia
La non men' grazïosa e bella figlia.
Ordisce Amor nel suo crin d'oro i nodi,
E nelle ciglia tempra le saette,
Nelle guance ha sua sede, e 'n mille modi
Dalle vermiglie labbia e perle schiette
Invesca l'alme, e tesse inganni e frodi.
Dal dolce viso piovon grazie elette,
Dal bianco marmo e dalla bella gola,
Nel sen d'avorio Amor scherzando vola.
In picciol vetro chiuder tutte l'onde,
Annoverar le stelle potrei prima
Che le bellezze a null'altre seconde
Potessi a pien' giamai chiudere 'n rima.
Creder si de' che quel ch'a noi nasconde
Non sia di minor prezzo e minor stima,
E che 'l bel crin, la bocca, gli occhi, 'l viso
Adegui l'altro ascoso paradiso.
A guisa di canoro, bianco cigno
Volando dall'atlante a' lidi Eoi
Con chiaro carme e stil dolce, benigno
Gli invitti semidei, gl'invitti eroi,
Difenderà dal morso empio, maligno
Del tempo edace e dagli artigli suoi
Dell'alber mio cingendosi le chiome
Chi pregia poetando 'l vostro nome.
Cotal dono alla bella Pappafava
Fece mercè della mia chiara fiamma
Chi tolto negro manto oscura e cava
Vesta, ancor cela i raggi onde m'infiamma.
Ella (con nostra pace) riportava
Il primo onor, se Febo la sua fiamma
Veduta avesse, e 'l giallo, è 'l rosso, e 'l verde
Con cui l'oro, i smeraldi e l'ostro perde
Come dolce mia fiamma in ciel la luna
Le stelle di splendor vinse d'assai,
E come quella appresso 'l sol s'imbruna,
Né ardisce dopo lui mostrarsi mai,
Così ogni bella divien fosca e bruna
All'apparir de' vostri ardenti rai,
Ché voi potete 'l ciel torbido e negro
Rasserenar cogli occhi e fare allegro.
Ma che vi giova che nulla s'agguaglia
Al vostro alto valor, vostra beltade,
E che nessuna a tanta gloria saglia,
Se nimica d'Amore di pietade
Di qual pietra più rigida s'intaglia
Avete 'l cor in questa verde etade?
Ahi lasso! io lo so ben che 'l provo e veggio
Ch'indarno d'hor in hor mercè vi chieggio.
Deh! non vedete voi, se 'l cor s'infigne,
Dolce mia fiamma, o veramente langue;
Non v'accorgete al volto e a chi 'l dipigne
Del color di sé stesso smorto, esangue?
Come, dolce mia pena, bagna e tigne
Amor lo stral dorato nel suo sangue,
Onde note ne son tutte le vene,
Né del miser ancor pietà vi viene.
Deh! volgete 'l pensier, che tanto adugge
Gli amorosi piacer, dalla via torta,
Mirate come 'l tempo vola e fugge
E ciò che è qui di bel seco se n' porta;
Già cotesta beltà ch'or mi distrugge
Vinta dagli anni fia pallida e smorta,
Ch'ogni cosa consuma e guasta il tempo
E 'l pentirsi da sezzo non è a tempo.
Come d'Aprile, allor' ch'i' vaghi augelli
Sciogliono a ragionar d'amor le lingue
Di verdi erbette, frondi e fior novelli
Primavera le piazze orna e distingue,
E come spoglia il verno gli arbuscelli
Delle lor veste, e i fior ne' prati estingue;
Così beltà vi dona la natura
E breve tempo la si toglie e fura.
Però godendo 'l ben fugace e lieve
Cercate farlo incontra 'l tempo eterno,
Questo sol fia se chi v'ama riceve
Ugual mercede al grave ardor suo 'nterno;
Ch'insin d'ond'il sol nasce, u' lui la neve
Vince, per man d'amor la state e 'l verno
Vi terrà viva in queste e quelle rive
Non men che Febo le Castalie dive.
Se qual', poi ch'ebbe scelte, squarciò 'l velo
Con che soleva agli occhi altrui celarse,
E ciò che di mortal' era nel stelo
Delle nove già muse subito arse,
Tutte d'ambrosia l'unse, e un dolce zelo
Gli accese a' cori, e del suo spirto sparse
Scintille ardenti, e 'l suo nume gl'infose
Nelle menti, ond'uscir mirabil' cose.
Subito al verde lauro, che nel prato
Quinci e quindi le braccia stende e spiega
Ciascuna corre, e un ramo n'ha levato
Con che la fronte e 'l crin si cinge e lega,
E ballando e cantando, dolce, ornato,
Soave stil, u' Febo stassi, piega
Il camino, indi tutte 'l circondàro
E seco ver' Parnaso s'enviàro.
Giunt'ove 'l sacro umor con larga vena
Fa rigando l'erbetta e 'l prato molle,
Voi (chiese Apollo con fronte serena)
Il chiaro fonte e bipartito colle
Guardarete e 'l bel lauro, e quanto frena
Il mio nume fìa vostro; indi s'estolle
In ciel; ma pria del santo luogo esclude
L'antiche donne, or fatta inette e rude.
Sante Muse d'Euganea, ch'or' ne' colli
Di Pindo, di Parnaso e d'Elicona
Ite errando or ne' seni dolci e molli
Di Permesso e d'Eurota, ove risuona
L'aer di cigni; hor pe' candidi colli
Spargete i crin bagnati nella buona
Onda Castalia, hor' v'assidete a l'ombra
De l'alber, che 'l valor d'ogni altro adombra.
Hor' sotto ombrose quercie e alti faggi,
Con le grazie tra fior' vermigli e gialli,
Difese dai più caldi, ardenti raggi
Al suon de' chiari, liquidi cristalli,
Senza temer d'altrui ingiurie e oltraggi,
Ite per questi prati e queste valli
Cantando in sì soavi, dolci accenti,
Ch'intorno ad ascoltar traete i venti.
Ispirate al mio dir sì dolce canto
Che la fiamma gentil, che 'l cor m'accese
Co' suoi bei raggi squarci il freddo manto,
Che di scaldarsi 'l cor aspre contese
Face a sé stessa, o gli aggradite intanto
(E mi fia assai) le mie amorose imprese
Che 'n la più bella fiamma arde 'l mio core
Che 'n terra mai fiamma accendesse Amore.

[7 Di Jacopo Perusini]

Di m. Jacopo Perusini da San Genese.

Nimphe leggiadre dell'Euganee rive,
Hor di Pindo, Helicona, e del bel monte
Parnaso fatte, e del Castalio fonte,
Come piacque ad Apol' signore e dive;

A chi sol di voi pensa, parla e scrive
Altieri versi, elette rime e conte,
Cingete l'onorata, altiera fronte
D'edere, mirti, allori e bianche olive.

Volgete solo al Negosante i rai
De' bei vostri occhi, et a lui sol rendete
Sì che 'l gran merto agguagli alta mercede.

E acciò suo chiaro stil non manchi mai,
Col vostro almo liquor grate spegnete
L'ardor che 'n le sue asciutte labbia siede.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (L-3)

Post n°975 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

L
[6 Muse padovane]
Muse padovane.

(seguito)

Ben foran nostre queste immortal' palme
D'aver la cura del mio sacro fonte,
Nimphe Fanestri, se le gravi salme
Di discordie civil' salire il monte
Non vi vietasser; deh! volgete l'alme
A pace homai, gli sdegni fieri e l'onte
Sommergete in eterno, pigro oblìo;
Né vi vegna destarli mai disìo.

Così diceva Apollo, e nel bel viso
Or di questa, or di quella gli occhi gira;
Loda le voci e 'l canto, et egli avviso
Che assai minor beltà nel ciel si mira
E da sé stesso è cotanto diviso
Che non sa quali elegge, et or sospira;
Gran pezzo ste' sospeso, et alla fine
Queste nove ne scelse alme e divine.
Quella che dall'età tenera, acerba
Ogni cosa mondana a disdegno ebbe,
E come in giardin cresce ben culta erba,
Così seco il valor, la virtù crebbe,
Dinanzi all'altre sì bella e superba
Ne vien, ch'in dubbio lascia a cui più debbe,
Onesta, saggia Margharita Urbina,
Al cui valor la terra e 'l ciel s'inchina.
Voi (disse Apollo) ne' celesti chiostri
Poggierete, e le stelle vaghe, erranti
E le fisse a' mortali dotti inchiostri
Mostrarete, e qual presso, e qual distanti
Sian' dal terrestre globo, e qual' fur mostri,
Quali uomini, e perché si para avanti
E 'n qual tempo la terra alla mia suora
E fa ch'ella nel viso si scolora
Isabetta Dottora costei segue,
Ai cui begli occhi, al parlar dolce, accorto,
Senza sperar giammai pace, né tregue,
Senza segno veder mai di conforto
Convien ch'ardendo, amando si dilegue,
E resti ogni amador pallido e smorto.
Ah! ingiusto Amor, come soffri che chiuda
Un corpo così bello alma sì cruda?
Vostra la grazia fia, vostro fia il dono
(Le disse 'l regnator di Delo e Cinto)
Di mostrar con qual voce, con qual tuono,
Con qual gesto di dolce grazia tinto
Un cor selvaggio, un animo non buono
Di piacevol catena resti avvinto,
E come col parlar saggio e divino
S'adegui il greco e l'orator d'Arpino.
Ecco chi al ciel fuor' di donnesca foggia,
Battendo le veloci impigre penne
Del sacro ingegno, poetando poggia
Tal ch'envidia non porta a Mitilenne
Il bel Timavo, anzi quanto s'appoggia
A stil più grave chi più tarda venne,
Tanto questi la vince per la dotta,
Casta, bella, gentil, saggia Alvarotta.
Voi sola converrà ch'onori e pregi
(Le disse il dio) chi di coturno brama
Vestire i piedi, e per le scene i regi
Gesti tragichi, alzando eterna fama
Acquistar e di chiari immortal' fregi
Ornar la fronte, a che 'l ciel radi chiama,
E riportando vincitore il capro
Fuggir morendo da Letheo lavacro.
Voi pel contrario di faceti motti,
Di detti acuti e di cecropio sale,
Come tesser' si deno i tersi e dotti
Poemi mostrarete a cui ne cale,
E come tra le risa habbino i rotti
Singulti e pianti luogo, e come esale
La fortuna ogni amaro e alfin le piace
Ch'ogni cosa ritorni in dolce pace.
Questo alla bella Trabacchina è detto,
Trabacchina gentil, che ne' bei lumi,
Nel bel viso, nel bel candido petto
Quanta ad altrui giamai cortesi numi
Infusero beltà, senno, intelletto
Ha raccolto, onde fa che si consumi
E dolcemente si distrugga et arda
Chiunque il petto, gli occhi, il viso guarda.
Ecco venir lungo 'l bel prato erboso
Ginevra de' Roberti mira e scorgi
Che da' begli occhi dal viso amoroso
Tanto piacer, tanta dolcezza porge,
Ch'un aspe, un orso, un tigre far pietoso
Porrìa, qualor ciascun più irato sorge.
Qual maraviglia è dunque ch'uom' s'accenda
Al primo sguardo e prigion gli si renda?
A cui vostre seranno proprie e sole
Le grazie di mostrar con quali tempre
Si 'sprimano col suono le parole
Sì chiare e dolci ch'altre se ne stempre;
Muovansi i passi, i giri e le parole,
Or preste, or tarde, or alte, or basse, e sempre
Ordiscan nuovi gesti e nuovi modi
A l'altrui libertade inganni e frodi.
A chi vien dopo quante miglia e passi
Sian per insino alli celesti regni
Mesurando da questi infimi e bassi
Per noi convien che si dimostri e 'nsegni,
E qualmente con numeri e compassi,
Triangoli rotondi ed altri segni,
E con forme quadrate et altre effigi
D'Archimede si segnano i vestigi.
Così disse alla bella Leoncina
Il sacro nume, ed ella si ristrinse
In sé stessa, e nell'una e l'altra brina
Del color delle rose si dipinse,
Rose ch'ancor nella nativa spina
Soverchia pioggia e grave ardor non vinse,
A guisa di piropo fiammeggiaro
I begli occhi e mille anime infiammaro.
Indi, volto a chi segue, in un sì grave
E sì dolce armonia da voi s'impetre
Che quel cui fu 'l delfin secura nave,
E di Lino e d'Orfeo vinca le cetre,
Vinca quello, al cui suon dolce, soave,
Tebe di mura misero le pietre
Ogni altra vinca e destini ogni core
Dolci affetti e pensier dolci d'amore.

(continua)

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Colonna Infame 08

Post n°974 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

Note

(1) Ut mos vulgo, quamvis falsis, reum subdere. Tacit. Ann. I, 39.
(2) Verri, Osservazioni sulla tortura, § VI.
(3) Statuta criminalia; Rubrica generalis de forma citationis in criminalibus; De tormentis, seu quaestionibus.
(4) Cod. Lib. IX; Tit. XLI, De quaestionibus, 1, 8.
(5) Verri, Osservazioni sulla tortura, § XIII.
(6) La pratica criminale dell'Inghilterra, non cercando la prova del delitto o dell'innocenza nell'interrogatorio del reo, escluse indirettamente, ma necessariamente, quel mezzo fallace e crudele d'aver la sua confessione. Francesco Casoni (De tormentis, cap. I, 3) e Antonio Gomez (Variarum resolutionum etc., tom. 3, cap. 13, de tortura reorum, n. 4) attestano che, almeno al loro tempo, la tortura non era in uso nel regno d'Aragona. Giovanni Loccenio (Synopsis juris Sueco-gothici), citato da Ottone Tabor (Tractat. de tortura, et indiciis delictorum, cap. 2, 18) attesta il medesimo della Svezia; né so se alcun altro paese d'Europa sia andato immune da quel vergognoso flagello, o se ne sia liberato prima del secolo scorso.
(7) Verri, Oss. § VIII. - Farin. Praxis et Theor. criminalis, Quæst. XXXVIII, 56.
(8) Fran. a Bruno, De indiciis et tortura; part. II, quæst. II, 7.
(9) Guid. de Suza, De Tormentis, 1. - Cod. IX, tit. 4, De custodia reorum; 1. 2.
(10) Baldi, ad lib. IX Cod. tit XIV, De emendatione servorum, 3.
(11) Par. de Puteo, De syndicatu; in verbo: Crudelitas officialis, 5.
(12) J. Clari, Sententiarum receptarum, Lib. V, § fin. Quæst. LXIV, 36.
(13) Gomez, Variar. resol. t. 3, c. 13, De tortura reorum, 5.
(14) Oss. § XIII.
(15) Hipp. de Marsiliis, ad Tit. Dig. de quæstionibus; leg. In criminibus, 29.
(16) Praxis, etc. Quæst. XXXVIII, 54.
(17) Pratica causarum criminalium; in verbo: Expedita; 86.
(18) Quæst. XXXVIII, 38.
(19) Oss. § VIII.
(20) Sent. rec. lib. V, quæst, LXIV, 12. Venet. 1640; ex typ. Baretiana, pag. 537.
(21) Ven. apud Hier. Polum, 1580, f. 172 - Ibid. apud P. Ugolinum, 1595. f. 180.
(22) Verri, loc. cit. - Clar. loc. cit. 13.
(23) Ibid., Quæst. XXXI, 9.
(24) Bartol. ad Dig. lib. XLVIII, tit. XVIII, 1. 22.
(25) Et generaliter omne quod non determinatur a iure, relinquitur arbitrio iudicantis. De tormentis, 30.
(26) Et ideo lex super indiciis gravat coscientias iudicum. De Syndicatu, in verbo: Mandavit, 18.
(27) Ægid Bossii, Tractatus varii; tit. de indiciis ante torturam, 32.
(28) Ibid. Quæst. XXXVII, 193 ad 200.
(29) Francisci Casoni, Tractatus de tormentis; cap. I, 10.
(30) Oss. § VIII.
(31) Ibid.
(32) Paridis de Puteo, De syndicatu, in verbo: Et advertendum est; Judex debet esse subtilis in investiganda maleficii veritate.
(33) Ad Clar. Sentent. recept. Quæst. LXIV, 24, add. 80, 81.
(34) Istoria civile, etc., lib. 28, cap. ult.
(35) Praxis et Theoricæ criminalis, Quæst. LII, 11, 13, 14.
(36) Ibid. Quæst. XXXVII, 2, 3, 4.
(37) P. Follerii, Pract. Crim., Cap. Quod suffocavit, 52.
(38) Quando crimen est gravius, tanto præsumptiones debent esse vehementiores; quia ubi majus periculum, ibi cautius est agendum. - Abbatis Panormitani, Commentaria in libros decretalium, De Præsumptionibus, Cap. XIV, 3.
(39) Clar. Sent. Rec. lib. V, § 1, 9.
(40) Hipp. Riminaldi, Consilia; LXXXVIII, 53. - Farin. Quæst. XXXVII, 79.
(41) Clar. Ib. lib. V, § fin. Quæst. LXIV, 9.
(42) Reus evidentioribus argumentis oppressus, repeti in quæstionem potest. Dig. lib. XLVIII, tit. 18, 1. 18.
(43) Numquid potest repeti quæstio? Videtur quod sic; ut Dig. eo. 1. Repeti. Sed vos dicatis quod non potest repeti sine novi indiciis. Odofredi, ad Cod. lib. IX, tit. 41, 1. 18.
(44) Cyni Pistoriensis, super Cod. lib. IX, tit. 41, l. de tormetis, 8.
(45) Bart. ad Dig. loc. cit.
(46) V. Farinac. Quæst. XXXVIII, 72, et seq.
(47) Oss. § III.
(48) Tractat. var.; tit. De tortura, 44.
(49) V. Farinacci, Quæst. LXXXI, 277.
(50) Constitutiones dominii mediolanensis; De Senatoribus.
(51) Op. cit. tit. De confessis per torturam, 11.
(52) De peste, etc. pag. 84.
(53) Oss. § IV.
(54) Quaest. XLIII, 192. V. Summarium.
(55) Tractat. var., tit. De oppositionibus contra testes; 21.
(56) Et si qui consanguinei erant, pag. 87.
(57) Oss. § IV
(58) Dig. Lib. XXII, tit. V, De testibus; 1. 21, 2.
(59) V. Farinacci, Quæst. XLIII, 134, 135.
(60) Op. cit. Quæst. XXI, 13.
(61) Op. cit. tit. De indiciis et considerationibus ante torturam; 152.
(62) Arrotini di forbici per tagliar l'oro filato. L'esserci una professione a parte per quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la principale.
(63) Antica interiezion milanese, corrispondente al toscano madiè, «particella usata dagli antichi, alla provenzale», dice la Crusca. Significava in origine mio Dio; ed era una delle tante formole di giuramento, entrate per abuso nel discorso ordinario. Ma in questo caso quel Nome non sarebbe stato nominato in vano.
(64) Quæst. XLIII, 172-174.
(65) Farinacci, Quæst. XLIII; 185, 186.
(66) Plutarco, Vita d'Alessandro; traduzione del Pompei.
(67) Q. Curtii, VI, 11.
(68) Farinacci, Quæst. L, 31; LXXXI, 40; LII, 150, 152.
(69) Res est (quæstio) fragilis et periculosa, et quæ veritatem fallat. Nam plerique, patientia sive duritia tormentorum, ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit, alii tanta sunt impatientia, ut quovis mentiri quam pati tormenta velint. Dig., Lib. XLVIII, tit. XVIII, 1. I, 23.
(70) Nel rescritto citato sopra, alla pagina 766.
(71) Farinacci, Quæst. XXXVII, 110.
(72) Oss. § IV.
(73) quorum capita... fingenti inter dolores gemitusque occurrere. Liv. XXIV, 5.
(74) Oss. § V, in fine.
(75) Caro, trad. dell'Eneide, lib. VII.
(76) Pag. 107, 108.
(77) Nani, Historia veneta; parte I, lib. VIII, Venezia, Lovisa, 1720, pag. 473.
(78) Lib. I, cap X.
(79) Istoria civile, etc. Introduzione.
(80) Istoria civile, lib. XXXVI, cap 2.
(81) Il Fabroni (Vitæ Italorum, etc., Petrus Jannonius) cita come scrittori dai quali il Giannone «ha preso i passi interi, invece di ricorrere ai documenti originali, e senza confessarlo schiettamente, il Costanzo, il Summonte, il Parrino, e principalmente il Bufferio». Ma par difficile che da quest'ultimo (che non abbiam potuto trovare chi sia) prenda più che dal Costanzo, del quale, se «al principio risponde il fine e il mezzo», deve aver intarsiata mezza, a dir poco, la storia nella sua; e più che dal Parrino, del quale dovremo dir qualcosa or ora.
(82) Giannone, Ist. Civ. lib. XXXVI, cap. V, e il primo capoverso del VI. - Nani, Hist. Ven. parte I, lib. XI, pag 651- 661 dell'edizione citata.
(83) Giannone, lib. XXXVII, cap. II, III e IV. - Nani, parte II, lib IV, pag. 146-157.
(84) Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del regno di Napoli, etc. Napoli, 1692, tom. 2°; Duca d'Arcos. Il testo del Nani corre, con pochissimi e minuti cambiamenti, come abbiam detto, per sette capoversi del Giannone, l'ultimo de' quali termina con le parole: «si richiedevano, e per supplire altrove, e per difendere il regno, grandissime provvisioni». E lì entra il Parrino con le parole: «Il viceré duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del danaro», e via via, paucis mutatis, al solito, per due capoversi, e per mezzo circa il seguente. Dopo, ritorna il Nani e va avanti, prima solo, per un bel pezzo, poi alternato, e, per dir così, a scacchi, col Parrino. E c'è fino de' periodi, messi insieme bene o male, ma con pezzi dell'uno e dell'altro. Eccone un esempio: «Così in un momento s'estinse quell'incendio che minacciava l'eccidio al regno; e ciò che apporto maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi, che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantinente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici, o d'inimici (Parrino, tom. II, pag. 425): fuorché alcuni pochi, i quali guidati dalla mala coscienza, si sottrassero colla fuga, tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente (Nani, parte II, lib. IV, pag 157 dell'ediz. cit.)». Giannone, lib. XXXVII, cap IV, secondo capoverso.
(85) V. Giannone, lib. XXXVI, cap VI, e ultimo; tutto il lib. XXXVII, che ha sette capitoli; e il preambolo del lib. seg. - Nani, parte I, lib XII, pag. 738; parte II, lib. III; IV; VIII - Parrino, t. II, pag. 296 e seg., t. III, pag I e seg.
(86) Siecle de Louis XIV; chap. XVII, Paix de Ryswick, not. c.
(87) Giannone, lib. XXXIX, cap. ultimo, pag. 461 e 463 del t. IV, Napoli, Niccolò Naso, 1723. - Parrino, t. III, pag. 553 e 567.
(88) Fu poi citato spesso appiè di pagina in qualche edizione fatta dopo la morte del Giannone; ma il lettore che non ne sa altro, deve immaginarsi che sia citato come testimonio de' fatti, non come autore del testo.
(89) Sarpi, Discorso dell'origine, etc. dell'Uffizio dell'inquisizione; Opere varie, Helmstat (Venezia) t. I, pag 340. - Giannone, Ist. Civ. lib. XV, cap. ultimo.
(90) PROCUL. HINC. PROCUL. ERGO. BONI. CIVES. NE. VOS. INFELIX. INFAME. SOLUM. COMMACULET.

EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere di Alessandro Manzoni", a cura di Lanfranco Caretti, Ugo Mursia editore, Milano, 1973

 
 
 

Colonna Infame 02 (b)

Post n°973 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

(seguito) Capitolo 2

Alcuni de' nomi che abbiam citati, e di quelli che avremo a citare, son messi dal Verri in una lista di «scrittori, i quali se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de' raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli, non potevano essere riguardati se non coll'occhio medesimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia». (14) Certo, l'orrore per quello che rivelano, non può esser troppo; è giustissimo questo sentimento anche per quello che ammettevano; ma se, per quello che ci misero, o ci vollero metter del loro, l'orrore sia un giusto sentimento, e l'ignominia una giusta retribuzione, il poco che abbiam visto, deve bastare almeno a farne dubitare.
È vero che ne' loro libri, o, per dir meglio, in qualcheduno, sono, più che nelle leggi, descritte le varie specie di tormenti; ma come consuetudini invalse e radicate nella pratica, non come ritrovati degli scrittori. E Ippolito Marsigli, scrittore e giudice del secolo decimoquinto, che ne fa un'atroce, strana e ributtante lista, allegando anche la sua esperienza, chiama però bestiali que' giudici che ne inventan di nuovi. (15)
Furono quegli scrittori, è vero, che misero in campo la questione del numero delle volte che lo spasimo potesse esser ripetuto; ma (e avremo occasion di vederlo) per impor limiti e condizioni all'arbitrio, profittando dell'indeterminate e ambigue indicazioni che ne somministrava il diritto romano.
Furon essi, è vero, che trattaron del tempo che potesse durar lo spasimo; ma non per altro che per imporre, anche in questo, qualche misura all'instancabile crudeltà, che non ne aveva dalla legge, «a certi giudici, non meno ignoranti che iniqui, i quali tormentano un uomo per tre o quattr'ore,» dice il Farinacci; (16) «a certi giudici iniquissimi e scelleratissimi, levati dalla feccia, privi di scienza, di virtù, di ragione, i quali, quand'hanno in loro potere un accusato, forse a torto (forte indebite), non gli parlano che tenendolo al tormento; e se non confessa quel ch'essi vorrebbero, lo lascian lì pendente alla fune, per un giorno, per una notte intera,» aveva detto il Marsigli, (17) circa un secolo prima.
In questi passi, e in qualche altro de' citati sopra, si può anche notare come alla crudeltà cerchino d'associar l'idea dell'ignoranza. E per la ragion contraria, raccomandano, in nome della scienza, non meno che della coscienza, la moderazione, la benignità, la mansuetudine. Parole che fanno rabbia, applicate a una tal cosa; ma che insieme fanno vedere se l'intento di quegli scrittori era d'aizzare il mostro, o d'ammansarlo.
Riguardo poi alle persone che potessero esser messe alla tortura, non vedo cos'importi che niente ci fosse nelle leggi propriamente nostre, quando c'era molto, relativamente al resto di questa trista materia, nelle leggi romane, le quali erano in fatto leggi nostre anch'esse.
«Uomini», prosegue il Verri, «ignoranti e feroci, i quali senza esaminare donde emani il diritto di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza dei delitti, qual debba esser la proporzione tra i delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a rinunziare alla difesa propria, e simili principii, dai quali, intimamente conosciuti, possono unicamente dedursi le naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della società; uomini, dico, oscuri e privati, con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare ai mali del corpo umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con industrioso spasimo le membra degli uomini vivi, e a raffinarlo colla lentezza e coll'aggiunta di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l'angoscia e l'esterminio.»
Ma come mai ad uomini oscuri e ignoranti poté esser concessa tanta autorità? dico oscuri al loro tempo, e ignoranti riguardo ad esso; ché la questione è necessariamente relativa; e si tratta di vedere, non già se quegli scrittori avessero i lumi che si posson desiderare in un legislatore, ma se n'avessero più o meno di coloro che prima applicavan le leggi da sé, e in gran parte se le facevan da sé. E come mai era più feroce l'uomo che lavorava teorie, e le discuteva dinanzi al pubblico, dell'uomo ch'esercitava l'arbitrio in privato, sopra chi gli resisteva?
In quanto poi alle questioni accennate dal Verri, guai se la soluzione della prima, «donde emani il diritto di punire i delitti», fosse necessaria per compilar con discrezione delle leggi penali; poiché si poté bene, al tempo del Verri, crederla sciolta; ma ora (e per fortuna, giacché è men male l'agitarsi nel dubbio, che il riposar nell'errore) è più controversa che mai. E l'altre, dico in generale tutte le questioni d'un'importanza più immediata, e più pratica, erano forse sciolte e sciolte a dovere, erano almeno discusse, esaminate quando gli scrittori comparvero? Vennero essi forse a confondere un ordine stabilito di più giusti e umani principi, a balzar di posto dottrine più sapienti, a turbar, dirò così, il possesso a una giurisprudenza più ragionata e più ragionevole? A questo possiamo risponder francamente di no, anche noi; e ciò basta all'assunto. Ma vorremmo che qualcheduno di quelli che ne sanno, esaminasse se piuttosto non furon essi che, costretti, appunto perché privati e non legislatori, a render ragione delle loro decisioni, richiamaron la materia a princìpi generali, raccogliendo e ordinando quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e cercandone altri nell'idea universale del diritto; se non furon essi che, lavorando a costruir, con rottami e con nuovi materiali, una pratica criminale intera ed una, prepararono il concetto, indicarono la possibilità, e in parte l'ordine, d'una legislazion criminale intera ed una; essi che, ideando una forma generale, aprirono ad altri scrittori, dai quali furono troppo sommariamente giudicati, la strada a ideare una generale riforma.
In quanto finalmente all'accusa, così generale e così nuda, d'aver raffinato i tormenti, abbiamo in vece veduto che fu cosa dalla maggior parte di loro espressamente detestata e, per quanto stava in loro, proibita. Molti de' luoghi che abbiam riferiti possono anche servire a lavarli in parte dalla taccia d'averne trattato con quell'impassibile tranquillità. Ci si permetta di citarne un altro che parrebbe quasi un'anticipata protesta. «Non posso che dar nelle furie», scrive il Farinacci, (non possum nisi vehementer excandescere) «contro que' giudici che tengono per lungo tempo legato il reo, prima di sottoporlo alla tortura; e con quella preparazione la rendon più crudele.» (18)
Da queste testimonianze, e da quello che sappiamo essere stata la tortura negli ultimi suoi tempi, si può francamente dedurre che i criminalisti interpreti la lasciarono molto, ma molto, men barbara di quello che l'avevan trovata. E certo sarebbe assurdo l'attribuire a una sola causa una tal diminuzione di male; ma, tra le molte, mi par che sarebbe anche cosa poco ragionevole il non contare il biasimo e le ammonizioni ripetute e rinnovate pubblicamente, di secolo in secolo, da quelli ai quali pure s'attribuisce un'autorità di fatto sulla pratica de' tribunali.
Cita poi il Verri alcune loro proposizioni; le quali non basterebbero per fondarci sopra un generale giudizio storico, quand'anche fossero tutte esattamente citate. Eccone, per esempio, una importantissima, che non lo è: «Il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizii contro un uomo, e si può metterlo alla tortura». (19)
Se quel dottore avesse parlato così, sarebbe piuttosto una singolarità che un argomento; tanto una tal dottrina è opposta a quella d'una moltitudine d'altri dottori. Non dico di tutti, per non affermar troppo più di quello che so; benché, dicendolo, non temerei d'affermar più di quello che è. Ma in realtà il Claro disse, anche lui, il contrario; e il Verri fu probabilmente indotto in errore dall'incuria d'un tipografo, il quale stampò: Nam sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc ut torqueri possit, (20) in vece di Non sufficit, come trovo in due edizioni anteriori. (21) E per accertarsi dell'errore, non è neppur necessario questo confronto, giacché il testo continua così: «se tali indizi non sono anche legittimamente provati»; frase che farebbe ai cozzi con l'antecedente, se questa avesse un senso affermativo. E soggiunge subito: «ho detto che non basta (dixi quoque non sufficere) che ci siano indizi, e che siano legittimamente provati, se non sono anche sufficienti alla tortura. Ed è una cosa che i giudici timorati di Dio devono aver sempre davanti agli occhi, per non sottoporre ingiustamente alcuno alla tortura: cosa del resto che li sottopone essi medesimi a un giudizio di revisione. E racconta l'Afflitto d'aver risposto al re Federigo, che nemmen lui, con l'autorità regia, poteva comandare a un giudice di mettere alla tortura un uomo, contro il quale non ci fossero indizi sufficienti».
Così il Claro; e basterebbe questo per esser come certi, che dovette intender tutt'altro che di rendere assoluto l'arbitrio con quell'altra proposizione che il Verri traduce così: «in materia di tortura e d'indizi, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del giudice». (22) La contradizione sarebbe troppo strana; e lo sarebbe di più, se è possibile, con quello che l'autor medesimo dice altrove: «benché il giudice abbia l'arbitrio, deve però stare al diritto comune... e badino bene gli ufiziali della giustizia, di non andar avanti tanto allegramente (ne nimis animose procedant), con questo pretesto dell'arbitrio». (23)
Cosa intese dunque, con quelle parole: remittitur arbitrio judicis che il Verri traduce: «tutto si rimette all'arbitrio del giudice»?
Intese... Ma che dico? e perché cercare in questo un'opinion particolare del Claro? Quella proposizione, egli non faceva altro che ripeterla, giacché era, per dir così, proverbiale tra gl'interpreti; e già due secoli prima, Bartolo la ripeteva anche lui, come sentenza comune: Doctores communiter dicunt quod in hoc (quali siano gl'indizi sufficienti alla tortura) non potest dari certa doctrina, sed relinquitur arbitrio judicis. (24) E con questo non intendevan già di proporre un principio, di stabilire una teoria, ma d'enunciar semplicemente un fatto; cioè che la legge, non avendo determinato gl'indizi, gli aveva per ciò stesso lasciati all'arbitrio del giudice. Guido da Suzara, anteriore a Bartolo d'un secolo circa, dopo aver detto o ripetuto anche lui, che gl'indizi son rimessi all'arbitrio del giudice, soggiunge: «come, in generale, tutto ciò che non è determinato dalla legge». (25) E per citarne qualcheduno de' meno antichi, Paride dal Pozzo, ripetendo quella comune sentenza, la commenta così: «a ciò che non è determinato dalla legge, né dalla consuetudine, deve supplire la religion del giudice; e perciò la legge sugl'indizi mette un gran carico sulla sua coscienza». (26) E il Bossi, criminalista del secolo XVI, e senator di Milano: «Arbitrio non vuol dir altro (in hoc consistit) se non che il giudice non ha una regola certa dalla legge, la quale dice soltanto non doversi cominciar dai tormenti, ma da argomenti verisimili e probabili. Tocca dunque al giudice a esaminare se un indizio sia verisimile e probabile». (27)
Ciò ch'essi chiamavano arbitrio, era in somma la cosa stessa che, per iscansar quel vocabolo equivoco e di tristo suono, fu poi chiamata poter discrezionale: cosa pericolosa, ma inevitabile nell'applicazion delle leggi, e buone e cattive; e che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune determinate e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle più che possono.
E tale, oso dire, fu anche l'intento primitivo, e il progressivo lavoro degl'interpreti, segnatamente riguardo alla tortura, sulla quale il potere lasciato dalla legge al giudice era spaventosamente largo. Già Bartolo, dopo le parole che abbiam citate sopra, soggiunge: «ma io darò le regole che potrò». Altri ne avevan date prima di lui; e i suoi successori ne diedero di mano in mano molte più, chi proponendone qualcheduna del suo, chi ripetendo e approvando le proposte da altri; senza lasciar però di ripeter la formola ch'esprimeva il fatto della legge, della quale non erano, alla fine, che interpreti.
Ma con l'andar del tempo, e con l'avanzar del lavoro, vollero modificare anche il linguaggio; e n'abbiam l'attestato dal Farinacci, posteriore ai citati qui, anteriore però all'epoca del nostro processo, e allora autorevolissimo. Dopo aver ripetuto, e confermato con un subisso d'autorità, il principio, che «l'arbitrio non si deve intender libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall'equità»; dopo averne cavate, e confermate con altre autorità, le conseguenze, che «il giudice deve inclinare alla parte più mite, e regolar l'arbitrio con la disposizion generale delle leggi, e con la dottrina de' dottori approvati, e che non può formare indizi a suo capriccio»; dopo aver trattato, più estesamente, credo, e più ordinatamente che nessuno avesse ancor fatto, di tali indizi, conclude: «puoi dunque vedere che la massima comune de' dottori - gl'indizi alla tortura sono arbitrari al giudice - è talmente, e anche concordemente ristretta da' dottori medesimi, che non a torto molti giurisperiti dicono doversi anzi stabilir la regola contraria, cioè che gl'indizi non sono arbitrari al giudice». (28) E cita questa sentenza di Francesco Casoni: «è error comune de' giudici il credere che la tortura sia arbitraria; come se la natura avesse creati i corpi de' rei perché essi potessero straziarli a loro capriccio». (29)
Si vede qui un momento notabile della scienza, che, misurando il suo lavoro, n'esige il frutto; e dichiarandosi, non aperta riformatrice (ché non lo pretendeva, né le sarebbe stato ammesso), ma efficace ausiliaria della legge, consacrando la propria autorità con quella d'una legge superiore ed eterna, intima ai giudici di seguir le regole che ha trovate, per risparmiar degli strazi a chi poteva essere innocente, e a loro delle turpi iniquità. Triste correzioni d'una cosa che, per essenza, non poteva ricevere una buona forma; ma tutt'altro che argomenti atti a provar la tesi del Verri: «né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire... ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla». (30)
Ci si permetta in ultimo qualche osservazione sopra un altro luogo da lui citato; ché l'esaminarli tutti sarebbe troppo in questo luogo, e non abbastanza certamente per la questione. «Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro milanese, che è il sommo maestro di questa pratica: - Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e che con un tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi d'un omicidio, e la condusse a perdere la testa. - Acciocché non si sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtù e tutti i più sacri principii dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit quod judex potest, etc.» (31)
Orrore davvero; ma per veder che importanza possa avere in una question di questa sorte, s'osservi che, enunciando quell'opinione, Paride dal Pozzo (32) non proponeva già un suo ritrovato; raccontava, e pur troppo con approvazione, un fatto d'un giudice, cioè uno de' mille fatti che produceva l'arbitrio senza suggerimento di dottori; s'osservi che il Baiardi, il quale riferisce quell'opinione, nelle sue aggiunte al Claro (non il Claro medesimo), lo fa per detestarla anche lui, e per qualificare il fatto di finzione diabolica; (33) s'osservi che non cita alcun altro il quale sostenesse un'opinion tale, dal tempo di Paride dal Pozzo al suo, cioè per lo spazio d'un secolo. E andando avanti, sarebbe più strano che ce ne fosse stato alcuno. E quel Paride dal Pozzo medesimo, Dio ci liberi di chiamarlo, col Giannone, eccellente giureconsulto; (34) ma l'altre sue parole che abbiam riferite sopra, basterebbero a far veder che queste bruttissime non bastano a dare una giusta idea nemmen delle dottrine di questo solo.
Non abbiam certamente la strana pretensione d'aver dimostrato che quelle degl'interpreti, prese nel loro complesso, non servirono, né furon rivolte a peggiorare. Questione interessantissima, giacché si tratta di giudicar l'effetto e l'intento del lavoro intellettuale di più secoli, in una materia così importante, anzi così necessaria all'umanità; questione del nostro tempo, giacché, come abbiamo accennato, e del resto ognun sa, il momento in cui si lavora a rovesciare un sistema, non è il più adattato a farne imparzialmente la storia; ma questione da risolversi, o piuttosto storia da farsi, con altro che con pochi e sconnessi cenni. Questi bastan però, se non m'inganno, a dimostrar precipitata la soluzione contraria; come erano, in certo modo, una preparazion necessaria al nostro racconto. Ché in esso noi avremo spesso a rammaricarci che l'autorità di quegli uomini non sia stata efficace davvero; e siam certi che il lettore dovrà dir con noi: fossero stati ubbiditi!

Note

 
 
 

Colonna Infame 02

Post n°972 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

Capitolo 2

Questa, come ognun sa, si regolava principalmente, qui, come a un di presso in tutta Europa, sull'autorità degli scrittori; per la ragion semplicissima che, in una gran parte de' casi, non ce n'era altra su cui regolarsi. Erano due conseguenze naturali del non esserci complessi di leggi composte con un intento generale, che gl'interpreti si facessero legislatori, e fossero a un di presso ricevuti come tali; giacché, quando le cose necessarie non son fatte da chi toccherebbe, o non son fatte in maniera di poter servire, nasce ugualmente, in alcuni il pensiero di farle, negli altri la disposizione ad accettarle, da chiunque sian fatte. L'operar senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo.
Gli statuti di Milano, per esempio, non prescrivevano altre norme, né condizioni alla facoltà di mettere un uomo alla tortura (facoltà ammessa implicitamente, e riguardata ormai come connaturale al diritto di giudicare), se non che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il delitto portasse pena di sangue, e ci fossero indizi; (3) ma senza dir quali. La legge romana, che aveva vigore ne' casi a cui non provvedessero gli statuti, non lo dice di più, benché ci adopri più parole. «I giudici non devono cominciar da' tormenti, ma servirsi prima d'argomenti verisimili e probabili; e se, condotti da questi, quasi da indizi sicuri, credono di dover venire ai tormenti, per iscoprir la verità, lo facciano, quando la condizion della persona lo permette.» (4) Anzi, in questa legge è espressamente istituito l'arbitrio del giudice sulla qualità e sul valore degl'indizi; arbitrio che negli statuti di Milano fu poi sottinteso.
Nelle così dette Nuove Costituzioni promulgate per ordine di Carlo V, la tortura non è neppur nominata; e da quelle fino all'epoca del nostro processo, e per molto tempo dopo, si trovano bensì, e in gran quantità, atti legislativi ne' quali è intimata come pena; nessuno, ch'io sappia, in cui sia regolata la facoltà d'adoprarla come mezzo di prova.
E anche di questo si vede facilmente la ragione: l'effetto era diventato causa; il legislatore, qui come altrove, aveva trovato, principalmente per quella parte che chiamiam procedura, un supplente, che faceva, non solo sentir meno, ma quasi dimenticare la necessità del suo, dirò così, intervento. Gli scrittori, principalmente dal tempo in cui cominciarono a diminuire i semplici commentari sulle leggi romane, e a crescer l'opere composte con un ordine più indipendente, sia su tutta la pratica criminale, sia su questo o quel punto speciale, gli scrittori trattavan la materia con metodi complessivi, e insieme con un lavoro minuto delle parti; moltiplicavan le leggi con l'interpretarle, stendendone, per analogia, l'applicazione ad altri casi, cavando regole generali da leggi speciali; e, quando questo non bastava, supplivan del loro, con quelle regole che gli paressero più fondate sulla ragione, sull'equità, sul diritto naturale, dove concordemente, anzi copiandosi e citandosi gli uni con gli altri, dove con disparità di pareri: e i giudici, dotti, e alcuni anche autori, in quella scienza, avevano, quasi in qualunque caso, e in qualunque circostanza d'un caso, decisioni da seguire o da scegliere. La legge, dico, era divenuta una scienza; anzi alla scienza, cioè al diritto romano interpretato da essa, a quelle antiche leggi de' diversi paesi che lo studio e l'autorità crescente del diritto romano non aveva fatte dimenticare, e ch'erano ugualmente interpretate dalla scienza, alle consuetudini approvate da essa, a' suoi precetti passati in consuetudini, era quasi unicamente appropriato il nome di legge: gli atti dell'autorità sovrana, qualunque fosse, si chiamavano ordini, decreti, gride, o con altrettali nomi; e avevano annessa non so quale idea d'occasionale e di temporario. Per citarne un esempio, le gride de' governatori di Milano, l'autorità de' quali era anche legislativa, non valevano che per quanto durava il governo de' loro autori; e il primo atto del successore era di confermarle provvisoriamente. Ogni gridario, come lo chiamavano, era una specie d'Editto del Pretore, composto un poco alla volta, e in diverse occasioni; la scienza invece, lavorando sempre, e lavorando sul tutto; modificandosi, ma insensibilmente; avendo sempre per maestri quelli che avevan cominciato dall'esser suoi discepoli, era, direi quasi, una revisione continua, e in parte una compilazione continua delle Dodici Tavole, affidata o abbandonata a un decemvirato perpetuo.
Questa così generale e così durevole autorità di privati sulle leggi, fu poi, quando si vide insieme la convenienza e la possibilità d'abolirla, col far nuove, e più intere, e più precise, e più ordinate leggi, fu, dico, e, se non m'inganno, è ancora riguardata come un fatto strano e come un fatto funesto all'umanità, principalmente nella parte criminale, e più principalmente nel punto della procedura. Quanto fosse naturale s'è accennato; e del resto, non era un fatto nuovo, ma un'estensione, dirò così, straordinaria d'un fatto antichissimo, e forse, in altre proporzioni, perenne; giacché, per quanto le leggi possano essere particolarizzate, non cesseranno forse mai d'aver bisogno d'interpreti, né cesserà forse mai che i giudici deferiscano, dove più, dove meno, ai più riputati tra quelli, come ad uomini che, di proposito, e con un intento generale, hanno studiato la cosa prima di loro. E non so se un più tranquillo e accurato esame non facesse trovare che fu anche, comparativamente e relativamente, un bene; perché succedeva a uno stato di cose molto peggiore.
È difficile infatti che uomini i quali considerano una generalità di casi possibili, cercandone le regole nell'interpretazion di leggi positive, o in più universali ed alti princìpi, consiglin cose più inique, più insensate, più violente, più capricciose di quelle che può consigliar l'arbitrio, ne' casi diversi, in una pratica così facilmente appassionata. La quantità stessa de' volumi e degli autori, la moltiplicità e, dirò così, lo sminuzzamento progressivo delle regole da essi prescritte, sarebbero un indizio dell'intenzione di restringer l'arbitrio, e di guidarlo (per quanto era possibile) secondo la ragione e verso la giustizia; giacché non ci vuol tanto per istruir gli uomini ad abusar della forza, a seconda de' casi. Non si lavora a fare e a ritagliar finimenti al cavallo che si vuol lasciar correre a suo capriccio; gli si leva la briglia, se l'ha.
Ma così avvien per il solito nelle riforme umane che si fanno per gradi (parlo delle vere e giuste riforme; non di tutte le cose che ne hanno preso il nome): ai primi che le intraprendono, par molto di modificare la cosa, di correggerla in varie parti, di levare, d'aggiungere: quelli che vengon dopo, e alle volte molto tempo dopo, trovandola, e con ragione, ancora cattiva, si fermano facilmente alla cagion più prossima, maledicono come autori della cosa quelli di cui porta il nome, perché le hanno data la forma con la quale continua a vivere e a dominare.
In questo errore, diremmo quasi invidiabile, quando è compagno di grandi e benefiche imprese, ci par che sia caduto, con altri uomini insigni del suo tempo, l'autore dell'Osservazioni sulla tortura. Quanto è forte e fondato nel dimostrar l'assurdità, l'ingiustizia e la crudeltà di quell'abbominevole pratica, altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell'attribuire all'autorità degli scrittori ciò ch'essa aveva di più odioso. E non è certamente la dimenticanza della nostra inferiorità che ci dia il coraggio di contradir liberamente, come siamo per fare, l'opinion d'un uomo così illustre, e sostenuta in un libro così generoso; ma la confidenza nel vantaggio d'esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per punto principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con occhio più tranquillo, nel complesso de' suoi effetti, e nella differenza de' tempi, come cosa morta, e passata nella storia, un fatto ch'egli aveva a combattere, come ancor dominante, come un ostacolo attuale a nuove e desiderabilissime riforme. E a ogni modo, quel fatto è talmente legato col suo e nostro argomento, che l'uno e l'altro eravam naturalmente condotti a dirne qualcosa in generale: il Verri perché, dall'essere quell'autorità riconosciuta al tempo dell'iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch'essa prescriveva o insegnava ne' vari particolari, ce ne dovrem servire come d'un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più vivamente l'iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo.
«È certo», dice l'ingegnoso ma preoccupato scrittore, «che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle occasioni nelle quali possano applicarvisi, né sul modo di tormentare, se col foco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero delle volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll'autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati.» (5)
Ma in quelle leggi nostre stava scritta la tortura; ma in quelle d'una gran parte d'Europa, (6) ma nelle romane, ch'ebbero per tanto tempo nome e autorità di diritto comune, stava scritta la tortura. La questione dev'esser dunque, se i criminalisti interpreti (così li chiameremo, per distinguerli da quelli ch'ebbero il merito e la fortuna di sbandirli per sempre) sian venuti a render la tortura più o meno atroce di quel che fosse in mano dell'arbitrio, a cui la legge l'abbandonava quasi affatto; e il Verri medesimo aveva, in quel libro medesimo, addotta, o almeno accennata, la prova più forte in loro favore. «Farinaccio istesso,» dice l'illustre scrittore, «parlando de' suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species.» (7)
Ho detto: in loro favore; perché l'intimazione ai giudici d'astenersi dall'inventar nuove maniere di tormentare, e in generale le riprensioni e i lamenti che attestano insieme la sfrenata e inventiva crudeltà dell'arbitrio, e l'intenzion, se non altro, di reprimerla e di svergognarla, non sono tanto del Farinacci, quanto de' criminalisti, direi quasi, in genere. Le parole stesse trascritte qui sopra, quel dottore le prende da uno più antico, Francesco dal Bruno, il quale le cita come d'uno più antico ancora, Angelo d'Arezzo, con altre gravi e forti, che diamo qui tradotte: «giudici, arrabbiati e perversi, che saranno da Dio confusi; giudici ignoranti, perché l'uom sapiente abborrisce tali cose, e dà forma alla scienza col lume delle virtù». (8)
Prima di tutti questi, nel secolo XIII, Guido da Suzara, trattando della tortura, e applicando a quest'argomento le parole d'un rescritto di Costanzo, sulla custodia del reo, dice esser suo intento «d'imporre qualche moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura.» (9)
Nel secolo seguente, Baldo applica il celebre rescritto di Costantino contro il padrone che uccide il servo, «ai giudici che squarcian le carni del reo, perché confessi»; e vuole che, se questo muore ne' tormenti, il giudice sia decapitato, come omicida. (10)
Più tardi, Paride dal Pozzo inveisce contro que' giudici che, «assetati di sangue, anelano a scannare, non per fine di riparazione né d'esempio, ma come per un loro vanto (propter gloriam eorum); e sono per ciò da riguardarsi come omicidi». (11)
«Badi il giudice di non adoprar tormenti ricercati e inusitati; perché chi fa tali cose è degno d'esser chiamato carnefice piuttosto che giudice,» scrive Giulio Claro. (12)
«Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro que' giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti,» scrive Antonio Gomez. (13)
Diletto e gloria! quali passioni, in qual soggetto! Voluttà nel tormentare uomini, orgoglio nel soggiogare uomini imprigionati! Ma almeno quelli che le svelavano, non si può credere che intendessero di favorirle.
A queste testimonianze (e altre simili se ne dovrà allegare or ora) aggiungeremo qui, che, ne' libri su questa materia, che abbiam potuti vedere, non ci è mai accaduto di trovar lamenti contro de' giudici che adoprassero tormenti troppo leggieri. E se, in quelli che non abbiam visti, ci si mostrasse una tal cosa, ci parrebbe una curiosità davvero.

(continua)

Note

 
 
 

Rime inedite del 500 (L-2)

Post n°971 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

L

[6 Muse padovane]

Muse padovane.

Voi, che 'n fiamma amorosa acceso 'l core
Nel sen di Brenta le vestigia sparse
Delle nimphe cercate a tutte l'ore
Ne' dolci lumi ond'elle son sì scarse,
Desïando temprar lo 'ntenso ardore,
Venite meco, e le vedrete far se
Dive del sacro umor, che 'n cedro e myrra
Consacra chi ne bee 'n Parnaso e Cirra.
Fiamma gentil, che co' tuoi raggi ardenti
M'accendesti nel cor nuovi desiri
Se giammai ti fur' grati i mesti accenti
Che per te sparsi 'n mille versi miri,
Hor mi scorgi 'l camin', m'aqueta i venti
Cruciosi, e fa ch'una dolce aura spiri;
Né t'incresca che quanto io m'alzo et ergo
Fia sua loda, a cui sol le carte vergo.
Era nella stagion che l'erbe e i fiori
Muoion languendo nel materno seno,
Arsi dalli soverchi, gravi ardori,
Che muove 'l sol nel mezzodì sereno,
Quando Febo già carco di sudori
A veloce destrier raccolte il freno,
E mentre quei pascendo all'erbe intorno
Gìano errando, in Parnaso fe' ritorno.
Quivi 'n mezzo le nove alme sorelle
Sovra le fresche, verdeggianti sponde
D'Hippocrene, le chiome aurate e belle,
Cinto della sua santa, armata fronde,
Rinfrescossi la fronte, e ambe le stelle
Col beato liquor de le sacre onde;
Indi la lira in mano e 'l plettro tolse
E 'n dolci note la sua lingua sciolse.
Al dolce suono, all'armonia celeste,
Gli alberi, i sassi 'ntorno alle fresche acque
Si ragunaro, e di purpuree veste
Si copriro le piazze, e intento giacque
Ogni animal, né in ciel veduta avreste
Pur' una nube, et ogni vento tacque;
Sol la fontana, qual risponder voglia;
Nel chiaro fondo mormora e gorgoglia.
Ei cantava sì come il sommo Giove
D'acqua, di terra, d'aere, di fuoco
Creò ciò che quà giù si ferma e muove,
E che di tal semenza a poco, a poco
Il mondo crebbe in varie forme e nuove,
E come dal diluvio fu ogni luoco
Sommerso, e che da Pirra poi di duro
Sasso i mortali reparati furo.
Così diceva Apollo, a cui le Muse
Ripetendo con rime dolci e terse
Quel che egli nell'estremo suon concluse
Respondieno; ma sì varie e diverse
Dall'armonia ch'aver prima eran' use
Che non cantar', ma più tosto dolerse
Parieno, e qual tra cigni roca turba
De' corvi che gracchiando il canto sturba.
Due e tre volte quei medesmi metri
Iterar' per ridurli al vago stile,
Che da chiari cristalli, puri vetri
Del Castalio liquor, dolce e gentile
S'infonde a chi ne gusta; ma più tetri
Furno gli accenti, et ogni rima umìle
Onde qual fu al stillar del nuovo elettro
Sul Po la lira gittò Febo e 'l plettro.
Indi s'accese di tanta ira e sdegno
(S'ira e disdegno può cader ne' dei),
Ch'a' feroci corsier senza ritegno
Ripose i morsi, e quattro volte, e sei
Con la sferza gli strinse finché 'l regno
Passò di Spagna, e i popoli che lei
Hanno da tergo, e giunse ove già pose
Hercole i segni ed entro 'l mar s'ascose.
Né perché sia dal piè fin sovra al collo
Bagnato, spegner può la mente accesa,
Anzi ha fermo 'l pensier che non dia crollo
Etho dal giogo che sì 'l grava e pesa
Con gli altri tre, finché non sia satollo
D'aver trovato da chi meglio impresa
Sia la sua mente, e chi 'l Castalìo umore
Guardi 'nvece dell'alme nuove suore.
E così poi che di Titon' la sposa
Del mar degli Indi trasse il robicondo
Volto, e di gigli, e di vermiglia rosa,
E di mille fioretti sparse il mondo,
Senza aver mai potuto trovar cosa
Che gli piacesse il di primo e 'l secondo,
Togliendo al mondo il manto umido e nero
Tutto Febo trascorse l'hemispero.
Il terzo dì sopra la verde piaggia
D'Euganea, ove 'l Troian riposò 'l piede
Dopo la crudel strage, empia e malvaggia,
E 'l grave incendio della patria sede
Come passando il suo bel lume raggia
Tra ramo e ramo una gran turba vede
Di pastoral' sampogne e note alpestri
Risonar sente i bei luoghi silvestri.
E vago di veder che questo sia
Lascia nell'aria l'infiammate ruote
E ratto in terra scende per la via
Ch'apre il cerchio macchiato in bianche note
Verso la turba, verso 'l suon s'invia;
Ma prima le vermiglie bianche gote
Di lunga barba veste, e 'l bel crin d'oro
Cuopre e si spoglia del divin decoro.
La sampogna dall'un, dall'altro fianco
Pende la tasca senza legge e norma,
Le lievi membra quasi lasso e stanco
Appoggia ad un bastone, e si trasforma
Tutto in pastor, come già più volte anco
Per le Tessale rive seguir l'orma
Lo vide 'l vago Amphirse della greggia
Che Batto cangiar fece in dura scheggia.
Indi, poscia che fu al bel luogo giunto
Là 've da cridi pastorali et alle
Rozze sampogne dolce canto aggiunto
Ribomba il monte, e la vicina valle,
Tacito passa ove di fior trapunto
Appar segnato il rugiadoso calle,
E vede che con rito e patria legge
La turba onora il Dio che Brenta elegge.
Presso ove spiega il Dio le altiere corna
Giace un prato che mai greggi, né falci
No 'l tradiro, ove sì che altrui distorna
Non entra il sol, s'abbassi 'n capro, o s'alci
Nel marin' granchio, perché 'n vista adorna
Velo diffendono alni, abeti, e salci,
Quercie frondose e co' rami ritorti
Abbenché 'l canto piacque al Dio degli orti.
Fanvi di sé bella e gioconda vista
In gran parte le suore di Fetonte
Allegre, poi che di lor fronde trista
Ornossi Alcide vincitor la fronte
'U è 'l lauro, il mirto, il pino e seco mista
L'elce e l'horno pur hor scesi dal monte,
Sopra di cui con dolci modi e belli
S'odon cantar mille soavi augelli.
Gira il bel prato men d'un miglio attorno,
Eterna primavera lo dipinge
Di mille varii fiori, e quasi un corno
Le verdi sponde mormorando stringe
Dolcemente un ruscello, e d'ogni intorno
Quinci e quindi i bei lati abbraccia e cinge
Un bosco d'odoriferi ginepri,
Albergo e stanza a paurose lepri.
Quivi 'n sublime et onorato seggio
Tutto di toffo e di pomice viva
Siedesi lieto, in atto adorno e reggio
Il dio che regna in la vicina riva;
Cingonlo intorno di verdigno treggio
Canne palustri, giunchi, edera, oliva,
La bianca barba, e le canute tempie
Stillano acqua che 'l seno e 'l grembo gli empie.
Veggonsi 'ntorno pastori e bifolci,
Lasciate le spelunche e le capanne,
Ballare a prova, a suoni alpestri e dolci,
E di pive, e di zuffoli, e di canne,
Al cui suono tu ancor t'aggiri e folci,
Pan, benché sbuffi e vuoti ognor le zanne.
Tendon lacciuoli i satiri alle ninfe
Per l'erba fresca e per le chiare linfe.
Le Driadi, Amadriadi e Napee
Seguono ornate in modi chiari, illustri,
Con tutte l'altre boscarecce dee,
E come a gara ciascuna s'industri
Qual gigli e rose, qual delle amiclee
Valli 'l bel fior qual vanni e ligustri,
Qual'offre al dio pien di narcisi 'l grembo,
Qual di mille altri fior gli scuote il lembo.
Altri la palma piena, e piena cesta
Gli sparge di papavero e di calta,
Altri di croco e di fior di ginestra,
Di varie erbe ghirlande 'nteste smalta;
Non tutte ad una guisa hanno la vesta,
Non dissimil però, qual da terra alta
Porta la gonna, e per l'erbetta fresca
Muove i pie' ignudi, e mille cuori invesca,
Qual le chiome de l'or pel collo ha sparte,
Qual l'ha raccolte in vaghi nodi strani,
Evvi chi nel bel seno aperto ad arte
Mostra i pomi d'avorio, et a Silvani
E Fauni strugge i cori a parte, a parte;
V'è chi dalle gentil', candide mani
Ha ignude insino agli omeri le braccia,
Ond'a mille pastor' l'anime allaccia.
V'ha in gran copia con gli occhi 'n mano e strali
Con le faretre al fianco cacciatrici,
Tutte succinte e i pie' sin' sovra i sali
Coperte delle pelli, che vittrici
Riportano di fere e mostri, quali
Soglion sovente giù per le pendici
Di Cinto mille ninfe in una schiera
Di Latona seguir la figlia altiera.
La dea di Cipri delle proprie foglie
Cinta, la fronte, co' lascivi figli
Ond'ordisca ghirlande lieta coglie
Azzurri, verdi fior, bianchi e vermigli,
E quei tra l'erba d'amorose voglie
Spargono l'esca e tendon lacci e artigli,
Esca dolce d'amor, dolci legami,
Ond'altri preso, ardendo in eterno ami.
Molti vanno a diporto e lor' trastullo,
Dolci cantando gli amorosi inganni,
Questa di Lesbia canta e di Catullo,
Di Nason per Corinna i dolci affanni,
Quella gli amor' di Properzio e Tibullo
Canta, e di Gallo i gravi, acerbi danni;
Gallo, che pianse per altrui paese
Licoride irne, e alfin sé stesso offese.
Altri d'Aci cantando e Galatea
Giva, che dal Ciclope ebbe sì avversi
I pensieri, e gli fu sì acerba e rea;
Altri con altra lingua et altri versi
Dante e Beatrice risonar facea,
E 'l gran Tosco con stili ornati e tersi
Addolcir Laura, talché la fresca aura
Ode sonar per tutto: Laura, Laura.
E non udì già mai tanto concento
Il bel Caistro ne' suoi stagni, quando
Senza strepito alcun stette più intento
Ad ascoltar' i cigni, che tornando
De' verdi, lieti parchi, l'aura e 'l vento
E l'aria intorno addolciscon cantando,
Come dolci, soavi accenti udìo
La gran Brenta, il bel bosco, il picciol rio.
Mira Febo il bel stuolo, e questa, e quella
Loda, e tra sé tacitamente parla;
Quindi sceglier convien chi abbia della
Rupe Elicona cura, o di lasciarla
Deserta, inculta, perché né più bella,
Né più dotta potrei d'altronde farla
Cercando 'ntorno dal Gange alla Spagna
Quanto il padre ocean circonda e bagna.
Taccia chi loda il bel terren toscano,
E quel cui la sirena il nome diede;
Perdonimi il gentil, piacevol' Fano
Fan' di fortuna che a null'altro cede
In produr' donne di giocondo, umano
Viso, e che fanno in terra del ciel fede,
Fano d'immortal, degno, eterno grido,
Delle grazie e d'amori albergo e nido.
Veggio due nel suo sen, dai cui begli occhi,
Dalla dolce, soave, alma sembianza
Par che tal grazia, tal virtù trabocchi
Che quindi Amor ogni sua impresa avanza;
Né più d'altronde par che l'arco scocchi:
Giovanna l'una s'è, l'altra Costanza,
Ambedue Gabrielli, e l'una e l'altra
Bella, gentil, leggiadra, onesta e scaltra.
Veggio due che dall'indo al lido Mauro
Son di senno e valore esempio e specchio,
Impoverito ha l'una il bel Metauro
Per far ricco e famoso Montevecchio;
L'altra partita insin' dal pie' d'Isauro
Fa nel tuo sen di bel nido apparecchio;
Felice chi tal' piante have produtto,
Ma più felice chi ne coglie il frutto.
Ecco la bella coppia pellegrina:
Camilla Castracani e Beatrice,
Costanza Nigosanti, e la divina
Hippolita Duranti, e chi felice
Col guardo ogni alma fa la Saracina
Giovanna, unica al mondo qual fenice;
Ginevra de' Panetii 'n cui si mostra
Quanta bellezza ha l'amorosa chiostra.
Leggiadramente le Palazze altere
Insieme in un drappel veggìo raccolte,
La Taddea Gambetella in vesti nere
Le care membra onestamente involte
E chi non è sezzaia in queste schiere
Giustina de' Duranti e altre molte,
Costanza Francescucci, a cui s'appressa

Null'altra di beltà la Taddea Alessa.

(continua)

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

 
 
 

Colonna Infame, Indice

Post n°970 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

La Storia della Colonna Infame faceva inizialmente parte de "I Promessi Sposi", quale appendice, ma nel 1842 Manzoni rese tale appendice un volumetto a sé stante, separandolo dall'opera maggiore.

Introduzione

Capitolo 1
Capitolo 2 (1) (2)
Capitolo 3 (1) (2) (3)
Capitolo 4 (1) (2) (3) (4)
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7

Note

Edizione di riferimento: "Opere di Alessandro Manzoni", a cura di Lanfranco Caretti, Ugo Mursia editore, Milano, 1973

 
 
 

Colonna Infame 01

Post n°969 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

Capitolo 1

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteva su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora , soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani.
C'era alla finestra d'una casa della strada medesima un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin dal momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. Viddi, dice, che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli... et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scrivere; et poi viddi che, leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, dove era un poco di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d'inchiostro, giacché pare che scrivesse davvero. Infatti, nell'esame che gli fu fatto il giorno dopo, interrogato, se l'attioni che fece quella mattina, ricercorno scrittura, risponde: signor sì. E in quanto all'andar rasente al muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno d'un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione di questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceva questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo piovoso, perché più persone potessero imbrattarsi li panni nell'andar in volta, per andar al coperto.
Dopo quella fermata, costui tornò indietro, rifece la medesima strada, arrivò alla cantonata, ed era per isparire; quando, per un'altra disgrazia, fu rintoppato da uno ch'entrava nella strada, e che lo salutò. Quella Caterina, che, per tener dietro all'untore, fin che poteva, era tornata alla finestra di prima, domandò all'altro chi fosse quello che haueua salutato. L'altro, che, come depose poi, lo conosceva di vista, e non ne sapeva il nome, disse quel che sapeva, ch'era un commissario della Sanità. Et io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi piacciono niente. Subito puoi si diuulgò questo negotio, cioè fu essa, almeno principalmente, che lo divolgò, et uscirno dalle porte, et si vidde imbrattate le muraglie d'un certo ontume che pare grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero che haueuano trovato tutto imbrattato li muri dell'andito della loro porta. L'altra donna depone il medesimo. Interrogata, se sa a che effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde: dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate.
E, cose che in un romanzo sarebbero tacciate d'inverisimili, ma che pur troppo l'accecamento della passione basta a spiegare, non venne in mente né all'una né all'altra, che, descrivendo passo per passo, specialmente la prima, il giro che questo tale aveva fatto nella strada, non avevan però potuto dire che fosse entrato in quell'andito: non parve loro una gran cosa davvero, che costui, giacché, per fare un lavoro simile, aveva voluto aspettare che fosse levato il sole, non ci andasse almeno guardingo, non desse almeno un'occhiata alle finestre; né che tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se fosse usanza de' malfattori di trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto; né che maneggiasse impunemente una materia che doveva uccider quelli che se ne imbrattassero i panni; né troppe altre ugualmente strane inverisimiglianze. Ma il più strano e il più atroce si è che non paressero tali neppure all'interrogante, e che non ne chiedesse spiegazione nessuna. O se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo.
I vicini, a cui lo spavento fece scoprire chi sa quante sudicerie che avevan probabilmente davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci, si misero in fretta e in furia a abbruciacchiarle con della paglia accesa. A Giangiacomo Mora, barbiere, che stava sulla cantonata, parve, come agli altri, che fossero stati unti i muri della sua casa. E non sapeva, l'infelice, qual altro pericolo gli sovrastava, e da quel commissario medesimo, ben infelice anche lui.
Il racconto delle donne fu subito arricchito di nuove circostanze; o fors'anche quello che fecero subito ai vicini non fu in tutto uguale a quello che fecero poi al capitano di giustizia. Il figlio di quel povero Mora, essendo interrogato più tardi se sa o ha inteso dire in che modo il detto commissario ongesse le dette muraglie et case, risponde: sentei che una donna di quelle che stanno sopra il portico che trauersa la detta Vedra, quale non so come habbi nome, disse che detto commissario ongeua con una penna, hauendo un vasetto in mano. Potrebb'esser benissimo che quella Caterina avesse parlato d'una penna da lei vista davvero in mano dello sconosciuto; e ognuno indovina troppo facilmente qual altra cosa poté esser da lei battezzata per vasetto; ché, in una mente la qual non vedeva che unzioni, una penna doveva avere una relazione più immediata e più stretta con un vasetto, che con un calamaio.
Ma pur troppo, in quel tumulto di chiacchiere, non andò persa una circostanza vera, che l'uomo era un commissario della Sanità; e, con quest'indizio, si trovò anche subito ch'era un Guglielmo Piazza, genero della comar Paola, la quale doveva essere una levatrice molto nota in que' contorni. La notizia si sparse via via negli altri quartieri, e ci fu anche portata da qualcheduno che s'era abbattuto a passar di lì nel momento del sottosopra. Uno di questi discorsi fu riferito al senato, che ordinò al capitano di giustizia, d'andar subito a prendere informazioni, e di procedere secondo il caso.
È stato significato al Senato che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de' Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole, già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre il processo.
Al veder questa ferma persuasione, questa pazza paura d'un attentato chimerico, non si può far a meno di non rammentarsi ciò che accadde di simile in varie parti d'Europa, pochi anni sono, nel tempo del colera. Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che stendesse la mano sopra imputati di quella sorte, quando non fosse stato per sottrarli al furore della moltitudine. È, certo, un gran miglioramento; ma se fosse anche più grande, se si potesse esser certi che, in un'occasion dello stesso genere, non ci sarebbe più nessuno che sognasse attentati dello stesso genere, non si dovrebbe perciò creder cessato il pericolo d'errori somiglianti nel modo, se non nell'oggetto. Pur troppo, l'uomo può ingannarsi, e ingannarsi terribilmente, con molto minore stravaganza. Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono ugualmente all'occasion di mali che possono esser benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni. Per citarne un esempio anch'esso non lontano, anteriore di poco al colera; quando gl'incendi eran divenuti così frequenti nella Normandia, cosa ci voleva perché un uomo ne fosse subito subito creduto autore da una moltitudine? L'essere il primo che trovavan lì, o nelle vicinanze; l'essere sconosciuto, e non dar di sé un conto soddisfacente: cosa doppiamente difficile quando chi risponde è spaventato, e furiosi quelli che interrogano; l'essere indicato da una donna che poteva essere una Caterina Rosa, da un ragazzo che, preso in sospetto esso medesimo per uno strumento della malvagità altrui, e messo alle strette di dire chi l'avesse mandato a dar fuoco, diceva un nome a caso. Felici que' giurati davanti a cui tali imputati comparvero (ché più d'una volta la moltitudine eseguì da sé la sua propria sentenza); felici que' giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio e essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma ch'eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti.
La persona ch'era stata indicata al capitano di giustizia, per averne informazioni, non poteva dir altro che d'aver visto, il giorno prima, passando per via della Vetra, abbruciacchiar le muraglie, e sentito dire ch'erano state unte quella mattina da un genero della comar Paola. Il capitano di giustizia e il notaio si portarono a quella strada; e videro infatti muri affumicati, e uno, quello del barbiere Mora, imbiancato di fresco. E anche a loro fu detto da diversi che si sono trouati ivi, che ciò era stato fatto per averli veduti unti; come anco dal detto Signor Capitano, et da me notaro, scrive costui, si sono visti ne' luoghi abbrugiati alcuni segni di materia ontuosa tirante al giallo, sparsaui come con le deta. Quale riconoscimento d'un corpo di delitto!
Fu esaminata una donna di quella casa de' Tradati, la quale disse che avevan trovati i muri dell'andito imbrattati di una certa cosa gialla, et in grande quantità. Furono esaminate le due donne, delle quali abbiam riferita la deposizione; qualche altra persona, che non aggiunse nulla, per ciò che riguardava il fatto; e, tra gli altri, l'uomo che aveva salutato il commissario. Interrogato di più, se passando lui per la Vedra de' Cittadini, vidde le muraglie imbrattate, risponde: non li feci fantasia, perché fin' all'hora non si era detto cosa alcuna.
Era già stato dato l'ordine d'arrestare il Piazza, e ci volle poco. Lo stesso giorno 22, referisce... fante della compagnia del Baricello di Campagna al prefato Signor Capitano, il quale ancora era in carrozza, che andaua verso casa sua, sicome passando dalla casa del Signor Senatore Monti Presidente della Sanità, ha ritrouato auanti a quella porta, il suddetto Guglielmo Commissario, et hauerlo, in esecuzione dell'ordine datogli, condotto in prigione.
Per ispiegare come la sicurezza dello sventurato non diminuisse punto la preoccupazione de' giudici, non basta certo l'ignoranza de' tempi. Avevano per un indizio di reità la fuga dell'imputato; che di lì non fossero condotti a intendere che il non fuggire, e un tal non fuggire, doveva essere indizio del contrario! Ma sarebbe ridicolo il dimostrar che uomini potevano veder cose che l'uomo non può non vedere: può bensì non volerci badare.
Fu subito visitata la casa del Piazza, frugato per tutto, in omnibus arcis, capsis, scriniis, cancellis, sublectis, per veder se c'eran vasi d'unzioni, o danari, e non si trovò nulla: nihil penitus compertum fuit. Né anche questo non gli giovò punto, come pur troppo si vede dal primo esame che gli fu fatto, il giorno medesimo, dal capitano di giustizia, con l'assistenza d'un auditore, probabilmente quello del tribunale della Sanità.
È interrogato sulla sua professione, sulle sue operazioni abituali, sul giro che fece il giorno prima, sul vestito che aveva; finalmente gli si domanda: se sa che siano stati trouati alcuni imbrattamenti nelle muraglie delle case di questa città, particolarmente in Porta Ticinese. Risponde: mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese. Gli si replica che questo non è verisimile; si vuol dimostrargli che lo doveva sapere. A quattro ripetute domande, risponde quattro volte il medesimo, in altri termini. Si passa ad altro, ma non con altro fine: ché vedrem poi per qual crudele malizia s'insistesse su questa pretesa inverisimiglianza, e s'andasse a caccia di qualche altra.
Tra i fatti della giornata antecedente, de' quali aveva parlato il Piazza, c'era d'essersi trovato coi deputati d'una parrocchia. (Eran gentiluomini eletti in ciascheduna di queste dal tribunale della Sanità, per invigilare, girando per la città, sull'esecuzion de' suoi ordini.) Gli fu domandato chi eran quelli con cui s'era trovato; rispose: che li conosceva solamente di vista e non di nome. E anche qui gli fu detto: non è verisimile. Terribile parola: per intender l'importanza della quale, son necessarie alcune osservazioni generali, che pur troppo non potranno esser brevissime, sulla pratica di que' tempi, ne' giudizi criminali.

Note

 
 
 

Colonna Infame 00

Post n°968 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

Introduzione

Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.
In una parte dello scritto antecedente, l'autore aveva manifestata l'intenzione di pubblicarne la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza vergogna, sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non altro, e di mole corrispondente. Ma se il ridicolo del disinganno deve cadere addosso a lui, gli sia permesso almeno di protestare che nell'errore non ha colpa, e che, se viene alla luce un topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i monti. Aveva detto soltanto che, come episodio, una tale storia sarebbe riuscita troppo lunga, e che, quantunque il soggetto fosse già stato trattato da uno scrittore giustamente celebre (Osservazioni sulla tortura, di Pietro Verri), gli pareva che potesse esser trattato di nuovo, con diverso intento. E basterà un breve cenno su questa diversità, per far conoscere la ragione del nuovo lavoro. Così si potesse anche dire l'utilità; ma questa, pur troppo, dipende molto più dall'esecuzione che dall'intento.
Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d'un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. E l'argomento era stringente, come nobile e umano l'assunto.
Ma dalla storia, per quanto possa esser succinta, d'un avvenimento complicato, d'un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d'un'utilità, se non così immediata, non meno reale. Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell'intento speciale, c'è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l'ignoranza de' tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranza in fisica può produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s'applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficacia dell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell'atroce giudizio. Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que' giudici condannaron degl'innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com'ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a espedienti, de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all'ignoranza e alla tortura la parte loro in quell'orribile fatto: ne furono, la prima un'occasion deplorabile, l'altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l'unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?
Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que' giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un'aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl'innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors'anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l'ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se que' magistrati, trovando i colpevoli d'un delitto che non c'era, ma che si voleva, (1) furon più complici o ministri d'una moltitudine che, accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la menzogna, l'abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l'adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né, per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.
Ora, tali cagioni non furon pur troppo particolari a un'epoca; né fu soltanto per occasione d'errori in fisica, e col mezzo della tortura, che quelle passioni, come tutte l'altre, abbian fatto commettere ad uomini ch'eran tutt'altro che scellerati di professione, azioni malvage, sia in rumorosi avvenimenti pubblici, sia nelle più oscure relazioni private. «Se una sola tortura di meno,» scrive l'autor sullodato, «si darà in grazia dell'orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa.» (2) Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti, e detestarle.
E non temiamo d'aggiungere che potrà anche esser cosa, in mezzo ai più dolorosi sentimenti, consolante. Se, in un complesso di fatti atroci dell'uomo contro l'uomo, crediam di vedere un effetto de' tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l'orrore e con la compassion medesima, uno scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l'indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que' fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l'orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma quando, nel guardar più attentamente a que' fatti, ci si scopre un'ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell'azioni opposte ai lumi che non solo c'erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d'avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori.
Non ho però voluto dire che, tra gli orrori di quel giudizio, l'illustre scrittore suddetto non veda mai, in nessun caso, l'ingiustizia personale e volontaria de' giudici. Ho voluto dir soltanto che non s'era proposto d'osservar quale e quanta parte c'ebbe, e molto meno di dimostrare che ne fu la principale, anzi, a parlar precisamente, la sola cagione. E aggiungo ora, che non l'avrebbe potuto fare senza nocere al suo particolare intento. I partigiani della tortura (ché l'istituzioni più assurde ne hanno finché non son morte del tutto, e spesso anche dopo, per la ragione stessa che son potute vivere) ci avrebbero trovata una giustificazione di quella. - Vedete? - avrebbero detto, - la colpa è dell'abuso, e non della cosa. - Veramente, sarebbe una singolar giustificazione d'una cosa, il far vedere che, oltre all'essere assurda in ogni caso, ha potuto in qualche caso speciale servir di strumento alle passioni, per commettere fatti assurdissimi e atrocissimi. Ma l'opinioni fisse l'intendon così. E dall'altra parte, quelli che, come il Verri, volevano l'abolizion della tortura, sarebbero stati malcontenti che s'imbrogliasse la causa con distinzioni, e che, con dar la colpa ad altro, si diminuisse l'orrore per quella. Così almeno avvien d'ordinario: che chi vuol mettere in luce una verità contrastata, trovi ne' fautori, come negli avversari, un ostacolo a esporla nella sua forma sincera. È vero che gli resta quella gran massa d'uomini senza partito, senza preoccupazione, senza passione, che non hanno voglia di conoscerla in nessuna forma.
In quanto ai materiali di cui ci siam serviti per compilar questa breve storia, dobbiam dire prima di tutto, che le ricerche fatte da noi per iscoprire il processo originale, benché agevolate, anzi aiutate dalla più gentile e attiva compiacenza, non han giovato che a persuaderci sempre più che sia assolutamente perduto. D'una buona parte però è rimasta la copia; ed ecco come. Tra que' miseri accusati si trovò, e pur troppo per colpa d'alcun di loro, una persona d'importanza, don Giovanni Gaetano de Padilla, figlio del comandante del castello di Milano, cavalier di sant'Iago, e capitano di cavalleria; il quale poté fare stampare le sue difese, e corredarle d'un estratto del processo, che, come a reo costituito, gli fu comunicato. E certo, que' giudici non s'accorsero allora, che lasciavan fare da uno stampatore un monumento più autorevole e più durevole di quello che avevan commesso a un architetto.
Di quest'estratto, c'è di più un'altra copia manoscritta, in alcuni luoghi più scarsa, in altri più abbondante, la quale appartenne al conte Pietro Verri, e fu dal degnissimo suo figlio, il signor conte Gabriele, con liberale e paziente cortesia, messa e lasciata a nostra disposizione. È quella che servì all'illustre scrittore per lavorar l'opuscolo citato, ed è sparsa di postille, che sono riflessioni rapide, o sfoghi repentini di compassion dolorosa, e d'indegnazione santa. Porta per titolo: Summarium offensivi contra Don Johannem Cajetanum de Padilla; ci si trovan per esteso molte cose delle quali nell'estratto stampato non c'è che un sunto; ci son notati in margine i numeri delle pagine del processo originale, dalle quali son levati i diversi brani; ed è pure sparsa di brevissime annotazioni latine, tutte però del carattere stesso del testo: Detentio Morae; Descriptio Domini Johannis; Adversatur Commissario; Inverisimile; Subgestio , e simili, che sono evidentemente appunti presi dall'avvocato del Padilla, per le difese. Da tutto ciò pare evidente che sia una copia letterale dell'estratto autentico che fu comunicato al difensore; e che questo, nel farlo stampare, abbia omesse varie cose, come meno importanti, e altre si sia contentato d'accennarle. Ma come mai se ne trovano nello stampato alcune che mancano nel manoscritto? Probabilmente il difensore poté spogliar di nuovo il processo originale, e farci una seconda scelta di ciò che gli paresse utile alla causa del suo cliente.
Da questi due estratti abbiamo naturalmente ricavato il più; ed essendo il primo, altre volte rarissimo, stato ristampato da poco tempo, il lettore potrà, se gli piace, riconoscere, col confronto di quello, i luoghi che abbiam presi dalla copia manoscritta.
Anche le difese suddette ci hanno somministrato diversi fatti, e materia di qualche osservazione. E siccome non furon mai ristampate, e gli esemplari ne sono scarsissimi, non mancherem di citarle, ogni volta che avremo occasion di servircene.
Qualche piccola cosa finalmente abbiam potuto pescare da qualcheduno de' pochi e scompagnati documenti autentici che son rimasti di quell'epoca di confusione e di disperdimento, e che si conservano nell'archivio citato più d'una volta nello scritto antecedente.
Dopo la breve storia del processo abbiam poi creduto che non sarebbe fuor di luogo una più breve storia dell'opinione che regnò intorno ad esso, fino al Verri, cioè per un secolo e mezzo circa. Dico l'opinione espressa ne' libri, che è, per lo più, e in gran parte, la sola che i posteri possan conoscere; e ha in ogni caso una sua importanza speciale. Nel nostro, c'è parso che potesse essere una cosa curiosa il vedere un seguito di scrittori andar l'uno dietro all'altro come le pecorelle di Dante, senza pensare a informarsi d'un fatto del quale credevano di dover parlare. Non dico: cosa divertente; ché, dopo aver visto quel crudele combattimento, e quell'orrenda vittoria dell'errore contro la verità, e del furore potente contro l'innocenza disarmata, non posson far altro che dispiacere, dicevo quasi rabbia, di chiunque siano, quelle parole in conferma e in esaltazione dell'errore, quell'affermar così sicuro, sul fondamento d'un credere così spensierato, quelle maledizioni alle vittime, quell'indegnazione alla rovescia. Ma un tal dispiacere porta con sé il suo vantaggio, accrescendo l'avversione e la diffidenza per quell'usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa.
A questo fine, avevam pensato alla prima di presentare al lettore la raccolta di tutti i giudizi su quel fatto, che c'era riuscito di trovare in qualunque libro. Ma temendo poi di metter troppo a cimento la sua pazienza, ci siam ristretti a pochi scrittori, nessuno affatto oscuro, la più parte rinomati: cioè quelli, de' quali son più istruttivi anche gli errori, quando non posson più esser contagiosi.

 
 
 

Il Dittamondo (4-01)

Post n°967 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO I

In forma quadra era il loco ch’io dico, 
disabitato tutto e senza porte, 
messo in dispregio per vecchio e antico. 
E, poi che dentro fui con le mie scorte, 
vidi una loggia fatta per memoria, 5 
a volte tutta, intorno a una corte. 
In ogni quadro suo avea una storia 
con gran figure di marmo intagliato 
sí belle, che ’l veder mi fu gran gloria. 
Quivi era nel principio storiato 10 
Cres, figliuolo di Nembrot, del cui nome 
apresso Creti fu cosí chiamato; 
poi Cielo, poi Saturno, e seguia come 
Giove cacciava il padre fuor del regno 
con poca compagnia e con men some. 15 
Seguia di Giove ancor, sí come a ’ngegno 
con Almena giacea e quanto Giuno 
ebbe il figliuol ne la culla a disdegno. 
Sí mirando gl’intagli a uno a uno, 
seguir vedea come Ercules conquise 20 
Anteo gigante, che vincea ciascuno; 
similemente come a morte mise 
Busiris, le tre Arpie e Gerione 
e come Cacco ne la cava uccise. 
Quivi era ancora del fiero dragone, 25 
che guardava il bel pome, l’aspra morte 
e quella de la cerva e del leone; 
poi come entrava per le infernal porte 
e ’ncatenava Cerber con tre teste, 
e sostenea il ciel, tant’era forte. 30 
Seguia, apresso, il danno e le tempeste 
del fiero porco, ch’Arcadia guastava, 
e come l’uccidea ne le foreste. 
Quivi era ancor come la morte dava 
a Diomedes, a Nesso e al centauro 35 
e la cagion perché ben loro stava. 
Quivi era in terra Acheloo il gran tauro; 
quivi tollea lo scudo e la lorica 
a Menalippa, che lucean com’auro. 
Quivi era Iole, l’ultima sua amica; 40 
quivi parea tagliar le teste a l’idra 
e rotare ad un sasso il tristo Lica. 
E sí come uom, che mirando disidra 
di piú vedere e che quel che ha veduto 
ne la sua mente imagina e considra, 45 
facea io; e poi che proveduto 
ebbi la prima parte, gli occhi porsi 
a l’altra, e, come gli occhi, il passo muto. 
Carano re con molta gente scorsi 
sí come Agar edificar facea 50 
e l’agurio del sito non trascorsi. 
Cinus, Tiramans, Perdiccas vedea, 
Archelao, Filippo e, dopo lui, 
Aeropus, Alceta e Amintas parea; 
poi seguiva Alessandro e di costui 55 
prima parea che statua d’oro 
Apollin ricevesse che d’altrui. 
Nove n’annoverai dopo costoro, 
tra’ quali vidi Archelao secondo 
piú dato a studio ch’ad altro lavoro. 60 
Aspero e fiero quanto fu al mondo 
nel suo aspetto quivi si mostrava 
Filippo armato e d’animo profondo. 
Quivi era come Olimpia sposava 
con molta festa e, apresso, seguia 65 
come Atenes e Tessaglia acquistava. 
Quivi era come in rotta si fuggia 
la gente sua, ferito ne la coscia, 
lasciando la gran preda per la via. 
Quivi era il gran martiro e quell’angoscia 
che sofferson da lui le genti grece, 
per che suggette e ferme li fun poscia. 
Quivi era come sedici anni e diece 
regnato avea allora che fu morto 
tra’ suoi e la vendetta che sen fece. 75 
Non vidi lá tra quelli intagli scorto 
come Arruba a la morte condusse 
e tolse il regno falsamente e a torto. 
Non vidi lá, né credo che vi fusse, 
sí come i suoi fratelli ancora uccise 80 
né la cagion che a tanto mal l’indusse. 
Non vidi lá quel fallo che commise 
per aver Cappadocia al suo dimino, 
e quando i due signori a morte mise. 
Quivi era com Natanabo fuggio 85 
di Egitto a Filippo e cosí come 
Alessandro era tal, che nel disio 
piú non cercava latte né idiome. 
Allor pensai e dissi: "Oh quanto è falso
chi incolpa altrui a torto e dá mal nome 90
e quanto è giusto se ’l compra poi salso!".

 
 
 

Rime inedite del 500 (L-1)

Post n°966 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

L

[1 Muse padovane]

Al reverendissimo cardinal Farn(ese).

Chiaro splendor del gran Farnese nome,
Alessandro gentil, largo, cortese,
Cui di virtù le proprie doti accese
Di purpureo capel miser le chiome.

Se di mal culto ingegno afflitte e dome
E stanche forze ponno essere intese,
Tra l'alte nostre glorïose imprese,
Tra 'l grave peso e l'onorate some,

Non sdegnate, signor, s'è picciol dono
Questo che v'offre un fedel servo umile,
Acceso della vostra altera fama.

Così a' gigli che 'l ciel gradisce et ama
Doni Cloride bella eterno Aprile,
Né grandine gli offenda, pioggia, o tuono.


[2 Muse padovane]

Al medesimo.

Io non vidi, signor mai 'n poggio, o 'n riva,
O in chiusa valle Talìa, Euterpe, o Clio,
Che mi fesser' gustare o fonte, o rio,
Onde sì tosto poetando i' scriva.

Né di lauro, di mirto, edera, oliva,
Venere, Palla, Febo, od altro dio
Mi cinser' mai la fronte per desìo,
Ch'io n'abbia e sempre avrò mentre che viva.

Ma ad un bel fuoco, ad un bel saggio ardente
Di due begli occhi Amor desta il pensiero
E lo sprona lontan dal volgo ignaro,

Indi ai versi, alle rime erge la mente
E fammi andar della speranza altiero,
Ch'a madonna il mio dir' ancor fia caro.

[3 Muse padovane]

Per lo medesimo.

Sante Muse d'Euganea, che ne' seni
Di Permesso et d'Eurota, al suon dell'onde,
Cinte delle mai sempre verdi fronde,
Ite errando per luoghi dolci, ameni,

Volgete i rai de' begli occhi sereni
Al gran Farnese, et per l'humide sponde
Ite, honor delle sue virtù profonde,
Spargete i grembi di ligustri pieni;

Pasceteli un giovenco, ch'abbia d'oro
L'altiere corna, e 'l tergo crespo et irto
Di seta, e già col pie' l'arena sparga,

E 'l capo cinto di porpora e alloro,
Perché al vostro lettor lingua empia e larga
Non noccia, ornate di baccare e mirto.

[4 Muse padovane]

Alle Nimphe padovane.

Non perch'io speri col mio dolce canto
Agguagliare 'l valor che 'n voi s'ascose
Allor che l'alme ai cari membri infose
Chi 'l mondo affrena sol col ciglio e canto.

Ché sol lodarvi a pien' si darà vanto
Chi quant'il vago April fior', frondi e rose
Sparger suol' per le piagge rugiadose,
Spera chiuder raccolte in picciol manto.

Ma ben per dimostrar che di me dono
Vi feci il dì che ne' begli occhi vostri
Vidi tutto quel ben che 'l ciel comparte,

Sante Nimphe d'Euganea, a voi gl'inchiostri
Non lo sdegnate, a voi lo 'ngegno e l'arte,
A voi sacro lo stil, la cetra, e 'l suono.

[5 Muse Padovane]

Al libro.

A pie' de' colli, ove con larga vena
La Brenta i verdi paschi irriga e fende,
E le superbe corna piega e stende
Contra 'l leon, che la contrada affrena,

Nella stagion che 'l bel tempo rimena,
I fiori e l'erbe, e sua vista riprende
La terra, mosse 'l fuoco onde m'incende
Amor, sola cagion d'ogni mia pena.

Ivi rime felici il mio bel sole
Vedrete, a cui con atto umile e piano
Sciogliete in dolce suon cotal' parole:

Dal lido d'Adria alla sinistra mano
A voi m'envia chi nelle rive sole
Del Metauro piangendo è quasi 'nsano.

Tratte da:
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Rime inedite del 500 (46-49)

Post n°965 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLVI

[Di anonimo]

Voi, che spendete in gl'onorati e santi
Studï dell'età vostra il più bel fiore,
Volendo uscir di tenebre e d'errore
E sforzar i contrari segni erranti,

Ponetevi di me l'esempio inanti,
Che delle sante leggi il gran valore
Gustand'il tempo mio spesi e l'amore
In lor sì ch'altri non si puon' davanti,

Non giovenil pensier, non van' desìo,
Che spesso ingombra il cuor a molti sciocchi,
A me poté giamai piegar il petto.

Vissi felice, or me n' vo lieto a Dio,
O cari amici, nel celeste tetto.
Così diss'il Berò, poi chiuse gli occhi.


XLVII

[Di anonimo]

Del tuo arenoso letto le gran' sponde
Coprir di ricche gemme e vaghi fiori
Hor puoi, figlio diletto, e dar maggiori
Tributi al gran signor delle sals'onde;

Poscia ch'en le tue parti più gioconde
Splendono i pregi e i valorosi onori
Del signor' Adrian, gesti e valori,
Fama, nome, virtù chiare e faconde,

Di cui privato il Tebro già famoso,
Senza il suo antico orgoglio corre irato,
E pien' d'invidia al procelloso regno;

Così mostrando di letizia segno,
Di verdi fronde il regal fianco ornato
Diss'al Ren picciol l'Appennin silvoso.


XLVIII

[Di anonimo]

Un arbuscel, che in solitarie rive
Verso il ciel spiega i rami orridi et hirti,
E d'odor vince i pin, gl'abeti e i mirti
E lieto e verde al ghiaccio e al caldo vive

Il nome ha di colei, che mi prescrive
Termine, e leggi ai travagliati spirti,
Da cui seguir non potrian Scille, o Scirti
Ritrarmi, o le brumali ore e l'estive:

E se benigno influsso di pianeta
Lunghe vigilie e più amorosi sproni
Potran condurmi ad onorata meta,

Non voglio, e Febo e Bacco mi perdoni,
Che lor' frondi mi mostrino poeta;
Ma ch'un ginebro sia che mi coroni.


XLIX

[Di anonimo]

La bella man, con che 'l cor mi stringete,
Donna, è cagion ch'altro non è che pianto
Mia vita, e se talor io rido, o canto
Facciol' per non mostrar quel che voi siete.

S'io scuoto per slegarlo, raccendete
L'altero sguardo et abbruggiate quanto
È in me di forza e si raddoppia intanto
Mia pena, e del mio mal, empia, ridete.

E così stando ne' bei lacci avvolto
Ognor s'affligge, e s'io mi sforzo trarlo
De la potente man, mi strugge 'l sguardo.

Mi pento, ahimè!, ben che 'l pentir sia tardo,
Ch'i' non dovea ne le man vostre darlo,
D'onde, se non per morte, mai fu sciolto.

Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-23)

Post n°964 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XXIII

Sempre passando d’un paese in altro 
e ascoltando la mia cara guida, 
ch’era piú ch’io non dico esperto e scaltro, 
fra me dicea: "Qui gli orecchi di Mida 
non fan mestier, ma di Tullio la mente 5 
a tante cose, quante insieme annida". 
Discese giú del monte incontanente; 
prese il cammin diritto per lo piano, 
come colui che gli avea tutti a mente. 
Mi disse poi: "Da la sinistra mano 10 
come tu vai, un paese incomincia: 
Magnesia è detto per quei che vi stanno. 
E come per Tessaglia, cosí schincia 
per Macedona e tanto è buona e diva, 
quant’è di qua alcun’altra provincia. 15 
Moetena v’è, de la qual par si scriva 
che Filippo ivi ciclopis divenne 
un dí ch’armato la terra assaliva. 
E perché non rimase ne le penne 
de’ poeti Libetria, fontana 20 
che surge lá, parlare a me convienne. 
Ma vieni, ch’io non so piú cosa strana 
da notar qui; troviamo altra contrada, 
ché ’l perder tempo è cosa sciocca e vana". 
Con maggior passi prendemmo la strada, 25 
quand’uno sopra un’acqua ci appario 
in atto sí come uom ch’aspetta e bada. 
E giunto a lui, de la bocca m’uscio 
"Jiá su" e fu greco il saluto, 
perché l’abito suo greco scoprio. 30 
Ed ello, come accorto e proveduto, 
Calós írtes allora mi rispose, 
allegro piú che non l’avea veduto. 
Cosí parlato insieme molte cose, 
ípeto: xéuris franchicá? Ed esso: 35 
Ime roméos e xéuro plus glose. 
E io: Paracaló se, fíle mu; apresso 
mílise franchicá ancor gli dissi. 
Metá charás, fu sua risposta adesso. 
Udito il suo parlar, cosí m’affissi, 40 
dicendo: "Questo è me’ ch’io non pensava"; 
e gli occhi miei dentro al suo volto fissi. 
Poi il dimandai lá dov’ello andava; 
rispuosemi: "Qui presso a una chora, 
dove il re Pirro anticamente stava". 45 
Io mi rivolsi al mio consiglio allora 
e dissi: "Che ti pare? Andrem con lui?" 
Rispuose: "Sí, ché me’ non ci veggio ora". 
"Quando ti piaccia, e io e costui, 
con lo qual son, ti farem compagnia 50 
in fin dove tu vai", diss’io a lui. 
Ed ello allor: "Se a voi piace la mia, 
la vostra in tutto m’aggrada e contenta". 
E cosí insieme prendemmo la via. 
Nel mezzo era io, quando Solin mi tenta, 55 
dicendomi pian pian: "Con lui ragiona, 
ché vedi che n’ha voglia e non si attenta". 
Io mi rivolsi a la terza persona 
e dissi: "Dimmi dove si diparte 
Tessaglia, se lo sai, da Macedona". 60 
Ed ello a me: "Quel fiume propio parte 
l’una da l’altra, ove tu me trovasti: 
e cosí ’l troveresti in molte carte". 
La guida mia mi tenta ancor che ’l tasti 
per udirlo parlare e io il come 65 
penso fra me, ch’a sodisfarlo basti. 
Poi, con parole accorte, dolci e dome, 
io lo pregai che mi facesse chiaro 
onde venia e qual era il suo nome. 
"Ond’è ch’io vegna, questo a te fia chiaro 70 
ora per me: Antedamas m’è detto". 
Cosí rispuose e fummi non avaro. 
"Ma tu chi se’, che vai cosí soletto 
con un compagno per questo cammino, 
ch’è pien d’ogni paura e di sospetto?" 75 
"Io mi son un che vado pellegrino 
cercando il mondo, per essere sperto 
d’ogni sua novitá e qui non fino". 
"L’impresa lodo, disse; ma per certo 
troppo è grave e lunga la fatica, 80 
se per grazia del Ciel non t’è sofferto". 
E io a lui: "Tu vedi la formica 
che d’affannarsi la state non cala, 
onde poi il verno vive e si nutrica. 
E, per contraro, vedi la cicala, 85 
che canta e di sua vita non provede, 
trista morir come la state cala. 
Folle è colui e poco innanzi vede, 
che vive per pappare e per dormire 
se pregio dopo morte aver si crede. 90 
Per gravi affanni e lungo sofferire, 
per non temer ne’ bisogni la morte, 
può l’uom vita acquistar dopo il morire. 
Nel Sommo Bene e ne la sua gran corte 
ho tanta fede, che, per grazia, spero 95 
fornir la ’mpresa ch’a te par sí forte". 
Cosí parlando, trovammo un sentero 
su per lo quale Antedamas si mise 
con dir: "Questo è piú presso e piú leggero". 
Non molto andammo per quelle ricise, 100 
che noi giungemmo a una cittade, 
la qual veder mi piacque per piú guise. 
Larghe, diritte e lunghe avea le strade, 
i casamenti a volte e alti tanto, 
che m’era gran piacer tal novitade. 105 
E cosí, ricercando d’ogni canto, 
venimmo a un palagio grande e bello,
con ricche mura e forte tutto quanto,
posto in forma d’un nobile castello.
 
 
 

Rime di Celio Magno (10-20)

Post n°963 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

10

Fida mia cetra, a me fin da prim'anni
trastullo sovr'ogni altro amato e caro,
mentre fortuna e 'l ciel non mi negaro
teco l'ore passar vote d'affanni;

poich'empia sorte e ria con gravi danni
il dolce stato mio cangia in amaro,
ed oggi par che 'l mondo cieco, avaro,
fuor che l'oro e l'aver tutt'altro danni;

qui, dove già le dee del sacro monte
mi t'offersero in don con lieto volto
e m'invitaro al bel Castalio fonte,

a questo verde lauro, onde m'è tolto
sperar corona a l'infelice fronte,
t'appendo e lascio, ad altro fin rivolto.

11

A messer Girolamo Molino

Qual Febo, già ripien d'alto diletto,
da pria raccolse il generoso figlio,
ch'impetrò poscia il suo mortal periglio
e cadendo ebbe in Po tomba e ricetto,

tal tu scopri ver me paterno affetto,
mio vero Apollo: onde fidanza or piglio
chiederti anch'io del tuo divin consiglio
il lume, e 'l fren da te guidato e retto.

Sì che l'alte tue vie, donde riceve
tal luce il mondo, a me sian chiare e conte,
e sia, s'al corso i' manco, il danno leve.

Ché sol ch'altri il tuo carro ardito monte,
è gloria tal che già curar non deve,
s'a cader poi ne vien novo Fetonte.

12

Al clarissimo signor Domenico Veniero

Oh quanto fu, signor, felice il giorno,
quanto ebbe allor virtù propizia stella,
che voi, quasi d'un sol luce novella,
feste di voi nascendo il mondo adorno.

Fortuna solo ad empia guerra e scorno
contra il vostro valor s'armò rubella,
quando in infermo fral l'anima bella
rinchiuse a far dolente, aspro soggiorno.

Ma come in cava e tenebrosa fossa
che l'impeto ritien, vento raccolto
più si riscuote e fa sentir sua possa,

così lo spirto in egre membra involto
rinfranca sua virtù quant'è più scossa,
e s'alza a maggior ben nel mal sepolto.

13

Al clarissimo signor Orsatto Giustiniano

Se ad ambo, Orsatto, il ciel con simil sorte
un fratel già ci diede e poi se l' tolse,
ristorò 'l danno allor che stringer volse
tra noi di vero amor nodo sì forte.

Questi rompendo i privilegi a morte
il lor fraterno affetto in noi raccolse,
e ognun saldò la piaga onde si dolse,
le lor vite sentendo in noi risorte.

Ma qual di carità nome più chiaro
santa amicizia in sé non chiude? E quale
caso addolcir non può grave ed amaro?

Non ha tesoro il mondo a questo eguale,
né virtute ed amor pregio più raro,
né maggior don dal ciel vita mortale.

14

Sopra il palazzo di messer Camillo Trivisano in Murano

Viva questo superbo e nobil tetto,
sì che volger di ciel mai nol consume:
trofeo d'alto valor, sacro a quel nume
ch'orna altrui di saper la lingua e 'l petto.

E di lui che l'eresse il nome eletto
portando ovunque il sol porta il suo lume,
qui la Fama talor le stanche piume
posi, come in suo proprio almo ricetto.

Qui giunta, or a l'adorna e viva fonte
si rinfreschi le labbra; or l'aura accolga,
ch'eterna spira al bel giardino in fronte;

or del suo gran Camillo in sé rivolga
l'altere lodi, e in farle ognor più conte
da lui del ben parlar l'essempio tolga.

15

Al signor Sforza Brivio e al signor Bernardo Maschio

O del più prezioso uman tesoro
proprio e nobil ricetto alme gradite,
mentre insieme i cor vostri amando unite,
sì ch'un senso, un voler sempre han tra loro;

quanto è l'uso tra voi, tanto è 'l ristoro,
in continua d'amor cortese lite.
Anzi, un spirito sol regge due vite,
tra voi stessi godendo un secol d'oro.

Io tanto ben sovr'ogni sorte ammiro
con dolce invidia; e d'esser anch'io stretto
in sì bel nodo m'arde alto desiro.

Che 'l valor vostro adempiria 'l diffetto
del mio men degno; e s'in me 'l cor rimiro,
primo andrei, non che par, col vostro affetto.

16

Benché per novo sdegno Amor sospinto
del vostro cor vi sembri e 'n fuga volto,
deh sia nel perseguirlo il fren raccolto,
e 'l vano ardor de la vendetta estinto.

Spesso, ov'altri più 'l caccia e tien per vinto,
più riman preso e ne' suoi lacci avolto;
ch'in nove insidie del nemico è colto
e dà certa vittoria un perder finto.

Cessi adunque il furor, né di man v'esca
dardo che poi con doppio aspro tormento
rivolto in voi le vostre piaghe accresca.

Ch'un solo sguardo a raddolcirvi intento
di que' begli occhi, onde 'l crudel v'invesca,
mille sdegni pò far di nebbia al vento.

17

Sopra una statua di Venere scolpita da messer Danese Cataneo

Su la conca natia, de l'onde fuore,
Venere novo Fidia ignuda finge,
che con le belle man la chioma stringe
perch'espresso ne stilli il salso umore.

Giura chi mira in lei con dolce errore
ch'è carne il marmo, e vivo spirto cinge;
e la beltà celeste i cor constringe,
benché di ghiaccio, ad avampar d'amore.

L'opra, Danese, è tua, scultor divino;
al cui scarpello i più famosi carmi
cedono il pregio in render vita altrui.

Ch'a l'arte tua più vaghi i parti sui
scorge natura, e stiman gloria insino
gli stessi dèi spirar dentro a' tuoi marmi.

18

Sembrin le piume tue pungenti spine
a chi 'l corpo ti crede e pace spera,
ingrato letto; e in te sanguigna schiera
di sozzi, avidi vermi il ciel destine.

Lunge il sonno da te la via decline,
o venga in vista spaventosa e fera;
ed Aletto, Tisifone e Megera
scuotan d'intorno a te l'orribil crine.

De' suoi dolci t'escluda almi riposi
Imeneo sacro, e ti bestemmi e danni
a steril nido d'infelici sposi.

Morte ti vesta ognor d'oscuri panni
sotto cui stian ben mille morbi ascosi;
tal ch'aborrito poi ti rodan gli anni.

19

Sopra l'Europa di messer Giulio Ballino

D'Europa tutta le città più chiare
e lor memorie, in mille inchiostri sparte
ha 'l Ballin qui raccolto in poche carte,
chiudendo quasi in picciol vetro il mare.

Qui, senza il piè stancar, presente appare
qual più brami veder lontana parte,
e quanto acquista un lungo studio ed arte
vien, ch'altri in breve e dolce spazio impare.

Qui leggendo vedrai con chiari essempi
come volga fortuna imperi e regni
in compagnia degli anni ingordi ed empi.

E come l'opre e i nomi illustri e degni
difender può da tante ingiurie e scempi
solo il favor de' pellegrini ingegni.

20

Sopra il trattato del perfetto amante del signor Brunoro Zampesco

- Quando talor da' tuoi pregiati e degni
studi cessa il tuo figlio, invitto Marte,
meco brev'ozio spenda, e i modi e l'arte
d'un amante perfetto al mondo insegni.

La man, ch'ad alto onor destini e degni,
e già mille tue lodi intorno ha sparte,
spieghi ancor le mie glorie in dotte carte,
e tua spada a' miei strali unir s'ingegni.

Quinci eterno vivrà ne l'altrui petto
con più lucenti fiamme il foco mio,
raddoppiando ad ogni or speme e diletto. -

Ciò detto, Amor de' suoi tesori aprio
l'ampie ricchezze al suo Brunor diletto,
onde poi sì bell'opra al mondo uscìo.

 
 
 

Rime inedite del 500 (XLV)

Post n°962 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)

XLV

[Di anonimo]

Perugia a papa Pavolo.

Saggio et almo signore, io son colei
Che tu di morta hai ritornata viva,
Quella a cui tu più vero padre sei
Di quel che mi fondò in questa riva:
Ché per li racquistati onori miei
Di ch'altri già m'avea gran tempo priva
Di te desìo con bassa voce umile
Dir quel che converebbe a miglior stile.

Dammi, prego, gli accenti e le parole
Atte a vestire il mio nobil concetto;
Che se tu porgi, quasi un vivo sole,
I chiari raggi tuoi dentro al mio petto,
Altro Apollo, il cor mio non brama, o vuole,
Che l'insegni ad ornar tanto soggetto,
Che tu con tua presentia e tua virtute
Dolci e chiare far puoi rime aspre e mute.
Deh! reggi, signor mio, questa tremante,
Questa mia roca voce e paurosa
Ch'anzi al conspetto tuo tue lodi sante
Senza tua aita incominciar non osa;
Ma già sento nel cor timido, errante
Da te muover virtute in ch'ei si posa
E fa con tal favor sperarmi ch'io
Possa in parte acquetare il desir mio.
Volgendo gli occhi il re del cielo in terra
Ebbe pietà delle sue afflitte gregge,
Ch'altre da lupi aver vide aspra guerra,
Vide altre errar smarrite e senza legge,
Altre, oh! chi ci apre il nostro ovile e serra,
Chi ci conduce ai paschi, e chi ci regge?
Pigri pastori, neghittosi e lenti
Odi gridar con voci alte e dolenti.
Onde elegger volendo un pastor fido,
D'alta fortezza, pieno e di consiglio
Aggirò dall'ardente al freddo lido
Tre e tre volte il venerabil ciglio,
Indi fissollo al tuo bel patrio nido
Per levarne d'uno stranio e gran periglio,
E fra cento ti scelse, al quale ei diede
Di Pietro manto, mitria, e verga, e sede.
Queste dicendo sì onorate e gravi
Non son d'altri omer' some che dai tuoi,
Tu solo con maniere aspre e soavi
La bella schiera mia difender puoi:
Altri a cui dia non so queste alme chiavi
Per liberarla dai nemici suoi,
Che da quel ch'io da le reti chiamai
Simil guardian fin qui non ebbe mai.
E ben sortiro i desir sommi effetti
Tosto ch'in mano il santo peso avesti,
Che sotto i provvidi occhi tuoi ricetto
Securo e fermo a noi misere desti,
E se non eri al gran bisogno eletto
Forse ai barbari in preda or ne vedresti.
Tu ne campasti da presunti affanni
Provvedendo ai futuri, aperti danni.
Tu chiudesti le porte al bel paese
Che 'l mar circonda e l'Alpe, Apennin parte,
Fuori spingendo a far loro altre imprese
E per terra e per mar Bellona e Marte,
E dove or dall'ispano, or dal Francese
Travagli avea da empir fin mille carte,
Italia, col favor della tua stella,
Rendesti più che mai serena e bella.
Ecco col tuo soccorso e tuo consiglio
Carlo spiegar le sue cristiane insegne
E contra Affrica armare il fiero artiglio,
Sì che l'orgoglio all'avversario spegne.
Ecco Tunisi preso, e di periglio
Tratte mill'alme di catene indegne,
E i legni prima timidi in quei mari
Securi or da pirati e da corsari.
Che se non era quella santa impresa,
Quel sì lodato e glorïoso acquisto
Cotanto ardir, tanta arroganza presa
Avea 'l nostro nemico, anzi di Cristo,
Di Europa tutta, nonché Italia accesa
Veder sperava, e forse avea provisto.
Quella perdita sola lo ritenne
Ch'ei non ponesse al fier desìo le penne.
E se non che nodrito è 'l suo furore
Dalla discordia ch'or regna fra dui,
All'arrabbiato Can non darìa 'l core
Forse di contrastare oggi con nui,
Benché altri speri dopo un gran sudore
E dopo molti aspri viaggi tui
Concordi alfin vedere ambi i cognati,
Lor danni e loro antichi odii scordati.
Che sì dannosamente non contese
L'ultima volta contra Grecia Xerse,
Poscia che 'l saggio e forte Atheniese
Far la sua patria serva non sofferse;
Ma prima volse in cambio dell'offese
Morir, che darla in preda a genti Perse
Come costui, se in sì lodevol lite
Sono lor forze al tuo valor unite.
Quanto in questa tua età senile e lenta,
Che più al riposo ch'ai negotii inchina,
Quanto affatichi perché in questa spenta
Sia l'ira ch'esser può nostra ruina.
Te non caldo, né gelo alcun sgomenta,
Anzi come ver' auro il fuoco affina,
Più nei disagi si mantien natura
Perché di te pietà celeste ha cura.
Ora a Bologna somma diligenza
Per accordarli il tuo camin dirizza
Et hor per tal cagion verso Provenza
U' trovi Carlo el re de' Franchi in Nizza,
Ora a Lucca ti volge, ora a Piacenza
E d'estinguer fai prova ov'altri attizza,
Né per quattro viaggi, né per sei
Indarno fatti unqua men forte sei.
Ma come vero padre intorno ai figli
Ch'all'arme vede e ripararvi tenta,
Ora ai preghi ricorre, ora ai consigli,
E non è mai chi si ritiri o penta,
Benché invano or li preghi, or li consigli
Finché nei petti lor la fiamma ha spenta,
Così né tu cessar, Padre almo, puoi
Finché in pace non vedi i figli tuoi.
E per poter estinguer più d'un foco
Che l'occhio d'un tutto veder non puote,
Mentre provedi altrove in altro loco
Mandi ora l'uno et or l'altro nipote,
Ai quali sono, e parmi dirne poco,
Tutte le virtù in prezo, e tutte note;
E ben conviensi a nobil piante ornate
Non tralignar dal ceppo onde son nate.
Né questi sol ch'ànno dominio in terra,
Cerchi d'unir con salda pace insieme;
Ma d'ogni tua città, d'ogni tua terra
Delle fazioni sterpi il tristo seme,
Le quali armate a civile aspra guerra
Vider gli altri anni, di che ancor si geme
Solo spegnendo col tuo gran valore
Quel che non valse ogni tuo antecessore.
Astrea non è che sforzi a gir lontano
A rigar di dolor la bella guancia;
Poi che fece ritorno, e ch'ebbe in mano,
Tua mercè, la sua spada e la bilancia,
Il suo valor non più riesce vano,
Non è più 'l nome suo favola o ciancia
Com'era quando in ogni tua cittade
Reggean di pari forza e crudeltade,
Che poco, o nulla, potria dirsi vario
Dalli passati iniqui giorni nostri
Quel tempo in che a vicenda or Scilla, or Mario
Dei miseri proscritti empierò i rostri
E quanto ebbe più d'altra il ciel contrario
E più dentro il mio sen nodrirsi mostri
Tanto più deggio a te, per lo cui dono
Son d'aspri guai ridotta a quel ch'io sono.
Quante fïate i miei figli perversi
Mentre io vivea sotto la cura altrui
Hanno in lor stessi i ferri lor conversi
Di durezza vincendo i regni bui!
Talché del sangue lor potea vedersi
Carca la terra, et io tinta ne fui
Il viso e 'l petto, e con acerbi affanni
Questi or per tua cagion candidi panni.
E questo sol perché le sacre leggi
Vedeano invece lor la forza e l'armi,
Tu ben ch'or me con le sorelle reggi
Conoscesti la via di risanarmi;
Perciò li erranti miei figli correggi
E loro mostri più clemenza, parmi
Che posto gli hai de la ragione il freno
Quando altri di lor empie voglie è pieno.
Tu m'hai riscossa da la morte insieme
Rifatta più che mai bella e lucente,
Et alfine un rettor che s'ama e teme
Datomi saggio, fido e diligente,
Sotto cui altri non m'ancide e preme
Tal che dir posso ormai lieta e ridente:
Altri non m'aiutar giovene e forte,
Questi in vecchiezza mi campò da morte.

Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)
 
 
 

Il Dittamondo (3-22)

Post n°961 pubblicato il 04 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO TERZO

CAPITOLO XXII

Poi ch’io ebbi compreso a parte a parte 
le sue parole e vidi che si tacque, 
un letto feci de le fronde sparte. 
Del luogo degno, de’ pomi e de l’acque, 
ch’io vidi e assaggiai, al sommo Padre 5 
grazia rendeo, sí ciascun mi piacque. 
Dopo la cena, piú cose leggiadre 
mi disse ’l mio conforto, essendo stesi 
sopra ’l gran petto de la nostra madre. 
Sí per lo suon de l’acqua, ch’io intesi, 10 
e sí per le parole belle ancora, 
soave sonno e riposato presi. 
E fui cosí in fino che l’aurora 
trasse gli augelli fuor de’ caldi nidi, 
a cantar per lo bosco che s’infiora. 15 
Quivi udio versi, ma gli uccei non vidi, 
con tanta melodia, ch’io potrei dire 
che quei di qua fra lor parrebbon gridi. 
Lo vago imaginar, lo dolce udire 
sí mi piacea, ch’io tenea l’occhio chiuso 
e non dormia e fuggia di dormire. 
"Non pur giacer, mi disse, ma sta suso, 
la buona scorta mia; ché la pigrizia 
non men che per natura s’ha per uso. 
Pensa quant’è il cammin di qui in Sizia 25 
e girar poi sotto tramontana 
e veder Tile e passare in Galizia, 
e cercare Gaulea e Mauritana, 
Libia, Etiopia e, dopo Gange, 
l’isola Crise, Argire e Taprobana". 30 
Cosí come donzella, a cui l’uom tange 
parole proverbiose, quando falla, 
rossa diventa e ’l fallo in fra sé piange, 
tal divenn’io, fuggendo in vèr la spalla 
il volto, e mormorai: "Ben falla troppo 35 
qual per diletto in grande affar si stalla". 
Indi si mosse e io li tenni doppo 
pur per lo giogo in verso un altro spicchio, 
che n’era per la strada di rintoppo. 
Quivi mi disse: "Ascolta dove io picchio: 40 
sappi ch’al tempo d’Ogigio diluvio 
non arrivò qua su pesce né nicchio: 
io dico quando fu sí grande il pluvio, 
che bestial sacrifizio, incenso o mirra, 
valse che il mare e ciascun altro fluvio 45 
non soperchiasse Licabetto e Cirra, 
onde per tema sopra questo corno 
Deucalion fuggio con la sua Pirra. 
Di questi sassi, che vedi d’intorno, 
per consiglio di Temis nacque poi 50 
la gente, che ’l paese fece adorno". 
E io a lui: "Rivolgi gli occhi tuoi 
dove t’addito, ché io vorrei udire 
che mura fun, che veggio presso a noi". 
Ed ello a me: "Per certo ti so dire 55 
che lá fu Cirra ed Elicona è detto 
quel monte per lo qual ci convien ire. 
E quel che vedi, che ci è di rimpetto, 
è Citerone; e quivi fu giá Nisa, 
la quale è or, come questa, in dispetto. 60 
Ma quanto puoi oltre quei colli avisa: 
di sotto a essi move una fontana 
ed èvi una cittá, che ha nome Pisa. 
E benché la novella suoni strana, 
giá fu chi creder volle, senza scusa, 65 
che ’l nome desse a quella di Toscana. 
La fonte, ch’ io ti dico, chiusa chiusa, 
cacciata per Alfeo, per gran caverne 
va sotto il mare e sorge a Siracusa. 
Ma perché l’occhio tanto non dicerne 70 
e cercar non si può, conviensi al tutto 
che le parole mie ti sian lucerne. 
Per questi luoghi, donde io t’ho condutto, 
si trovan laghi e assai fonti e fiumi 
belli a vedere e che son di gran frutto. 75 
Spercheo v’è, lo qual de le sue schiumi 
lo nome prende e, s’altro non l’inghiotte, 
non par che nel cammin mai si consumi. 
Mezzo scornato e con le membra rotte 
per la battaglia sua corre Acheleo, 80 
bagnando Epirro e le sue belle grotte. 
Degno di fama vi passa Peneo, 
se pensi che per tema non mai Danne 
né per lusinghe castitá perdeo. 
Non molto lungi a quello un altro vanne 85 
che Siringa cacciò, che vinta e lassa 
venne palú, del qual sonâr le canne. 
Eveno ancor per la contrada passa, 
famoso piú però che quivi Nesso, 
per suo gran fallo, il bino corpo lassa. 
E benché tu non li vedessi adesso, 
Ismeno, Ilisso e la Castalia fonte
veder potei, ché assai vi fummo presso".
Cosí parlando, discendemmo il monte.
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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