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Messaggi del 07/01/2015

Osservazioni sulla tortura 02

Post n°1000 pubblicato il 07 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Capitolo 2
Idea della pestilenza che devastò Milano nel 1630

Il Ripamonti, cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de' suoi tempi, ha scritta la storia della pestilenza accaduta al tempo appunto in cui viveva, e fa una vivissima compassione la sola idea dell'esterminio, a cui soggiacque la nostra patria in quel tempo. Si tratta niente meno che della distruzione di due terze parti de' cittadini. La crudelissima pestilenza fu delle più spietate che rammemori la storia. Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti i più terribili disastri morali. Ogni legame sociale si stracciò; niente era più in salvo, né le sostanze, né la vita, né l'onestà delle mogli; tutto era esposto alla inumanità, e alla rapina di alcuni pessimi uomini, i quali tanto ferocemente operavano nel seno della misera lor patria spirante, come appena un popolo selvaggio farebbe nel paese nemico. I Monati, classe di uomini trascelta per assistere gli ammalati. invadevano le case; trasportavano le robe che vi trovavano; violavano le figlie e le consorti impunemente sotto gli occhi dell'agonizzante padre o marito; obbligavano a redimersi colla somma di danaro che lor piaceva i parenti, colla minaccia di trasportare i figli o le spose, benché sani, al lazzaretto. I giudici tremanti per la propria vita ricusavano ogni ufficio. Varj ladroni, fingendosi Monati, invadevano e saccheggiavano ogni cosa: tale è lo spettacolo che ci viene descritto dal Ripamonti, che pianse siccome egli attesta, più e più volte in vista di sì orrende calamità. Tali erano i costumi, tale era lo spirito che agitò i nostri antenati in quel tempo, che forse troppo incautamente taluni vorrebbero far ritornare coi loro voti.

La storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio, che dalla corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora governatore. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV. Rara cosa assai era in que' tempi la venuta di un dispaccio, ed era questo un avvenimento che occupava tutta la città, poiché non si partiva dalla corte un reale rescritto se non per gravissime cagioni. Il dispaccio avvisava il governatore essere stati osservati in Madrid quattro uomini, che avevan portati degli unguenti per recare la pestilenza in quella reale città, essere costoro fuggiti, non sapersi in qual parte si fossero essi rivolti per recarvi le malefiche unzioni; quindi se ne avvisava il governatore, acciocché attentamente vegliasse in difesa anche del Milanese. Hae litterae, dice il Ripamonti, quia majestatis ipsius chirographo subsignatae fuerunt, grande sane momentum inclinandis ad pessima quaeque credenda animis facere potuerunt. [Queste lettere, essendo firmate di propria mano dal re, furono di gran peso sugli animi de' cittadini, già proclivi a credere ogni più nefando delitto]. In que' tempi l'ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno avrà pensato allora: è egli possibile il formare una materia che toccandosi dia la pestilenza? Se anche sia possibile, potrà un uomo portarla seco senza caderne vittima? Quattro uomini collegansi per un tale viaggio, e girano il mondo colla pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A qual fine? Per quale utilità? Ma i pochi che avranno così pensato, non avranno avuto ardire di palesarlo; l'autorità di un dispaccio, l'opinione popolare erano terribili contrasti che esponevano a troppo grave pericolo l'uomo che avesse annunziata questa verità. Si sparse adunque l'opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche unzioni.

Sappiamo dalla storia come fossero allora governati i popoli sotto Filippo IV. La pestilenza della Germania per la Valtellina liberamente entrò nel Milanese, portatavi dalle truppe imperiali che transitarono per innoltrarsi a Mantova, poco dopo la vociferazione del dispaccio. Ma l'opinione comune del popolo volle ostinatamente piuttosto credere essere la vociferata pestilenza un'artificiosa invenzione de' medici per acquistar lucro, anzi che esaminare e chiarire il fatto. Era forse una tal diffidenza l'effetto della lunga serie d'inganni sofferti dalla classe superiore. Inutilmente i medici più istruiti divulgavano le prove degli ammalati che avevano veduti morire di pestilenza, che la plebe sempre li risguardava come autori di una malignamente immaginata diceria. Celebre è il fatto accaduto al venerabile nostro Ludovico Settala, uomo sommo per que' tempi, non tanto per l'erudizione, la coltura, la scienza medica e le cognizioni di storia naturale di cui il nostro museo ebbe fra i contemporanei d'Europa il primato, quanto per la nobiltà e virtù del suo animo, che disinteressatamente e instancabilmente usò dei talenti a beneficio del popolo. Questi mentre cavalcava, siccome allora era costume de' medici, venne attorniato tumultuosamente da una folla di uomini, donnicciuole, fanciulli, ed ogni classe di plebaglia, indi villanissimamente insultato quale principale autore della opinione che nella città vi fosse la pestilenza, che le turbe esclamavano essere unicamente ne' peli della di lui barba: Ita gravissimus optimusque senex, et antistes sapientiae Septalius, qui innumeris pene mortalibus vitam excellentia artis, quique multis etiam liberalitate sua subsidia vitae dederat, ob petulantiam, stoliditatemque multitudinis periculum adiit [In tal guisa l'ottimo vecchio. che aveva salvata la vita ad un gran numero di persone colla perizia dell'arte e col largire il proprio denaro, corse un grave pericolo per la stolidaggine e la petulanza del volgo]. Così il Ripamonti.

Convenne finalmente col crescere della peste e il moltiplicarsi giornalmente il numero de' morti disingannare il popolo, e persuaderlo che il malore purtroppo era nella città, e laddove i discorsi nessun effetto producevano, si dovettero far manifesti sopra gran carri gli ammassi de' cadaveri nudi aventi i bubboni venefici, e così per le strade dell'affollata città girando questo spettacolo portò infine la convinzione negli animi, e forse propagò più estesamente la pestilenza. Allora fu che il popolo furiosamente si rivolse ad ogni eccesso di demenza. Nei disastri pubblici l'umana debolezza inclina sempre a sospettarne cagioni stravaganti anzi che crederli effetti del corso naturale delle leggi fisiche. Veggiamo i contadini attribuir la gragnuola non già alle leggi delle meteore, ma piuttosto alle streghe. Veggiamo i saggi Romani istessi al tempo, in cui erano rozzi, cioè l'anno di Roma 423 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza, che gli afflisse a' veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di matrone romane: come Livio lib. VIII, cap. XII, Dec. I: Proditum falso esse venenis absumptos, quorum mors infamem annum pestilentia fecerit [Falsamente si disse che erano morti avvelenati coloro la cui morte invece fu provocata, in quel terribile anno, dalla pestilenza]. Veggiamo in Napoli, pure nel secolo scorso, cioè nel 1656, attribuita la pestilenza agli Spagnuoli o allo stesso viceré per rovinare il popolo con polveri pestifere, e si credette «che per la città andavano girando persone con polveri velenose e che bisognava andar di loro in traccia per isterminarle; così in varie truppe uniti andavan cercando questi sognati avvelenatori, ed avendo incontrati due soldati del torrione del Carmine, affin di attaccar brighe che poi finissero in tumulti, avventaronsi sopra di essi, imputandoli di aver loro trovato addosso la sognata polvere. Al rumore essendo accorsa molta gente, per buona sorte vi capitò ancora un uomo dabbene, il quale con soavi parole e moderati consiglj li persuase che dassero nelle mani della giustizia uomini cotanto scellerati, affine, oltre del supplizio che di lor si sarebbe preso, si potesse da essi sapere l'antidoto al veleno, e con tale industria gli riuscì di salvarli; ma appena saputosi che quei due soldati uno era di nazione Francese e l'altro Portoghese, ed uscita anche voce che cinquanta persone con abiti mentiti andavan spargendo le polveri velenose, si videro maggiori disordini; poiché tutti coloro che andavan vestiti con abiti forastieri, e con scarpe o cappelli o altra cosa differente dal comune uso de' cittadini, correvan rischio della vita. Per acchetar dunque la plebe bisognò far morire sopra la ruota Vittorio Angelucci reo per altro di altri delitti, tenuto costantemente dal volgo per disseminatore di polveri, ma nell'istesso tempo fu presa rigorosa vendetta degl'inventori di questa favola, molti di essi essendosene stati in oscure carceri condotti, cinque di loro in mezzo al mercato sulle forche perderono ignominiosamente la vita, e in cotal guisa furono i rumori quietati»: così Giannone al lib. XXXVII, cap. VII. Non è dunque da meravigliarsi se anche in Milano, in mezzo a tanta e sì crudele sciagura, sotto un così maligno flagello, se ne sospettasse volgarmente la cagione nella rnalignità degli uomini, e si credesse verificato il danno predetto del reale dispaccio e prodotto lo sterminio dalle malefiche unzioni. Simili opinioni, quanto sono più stravaganti, tanto più trovano credenza; perché appunto di uno stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode nel trovarne l'origine nella malizia dell'uomo, che si può contenere, anzi che nella implacabile fisica che si sottrae alle umane istituzioni. In quel secolo poi sappiamo quale fosse la coltura degli studj, unicamente rivolti alle parole ed ai delirj della immaginazione. L'opinione quindi delle unzioni malefiche divenne generalmente la trionfante: ogni macchia che apparisse sulle pareti era un corpo di delitto: ogni uomo che inavvedutamente stendesse la mano a toccarle era a furore di popolo strascinato alle carceri, quando non fosse massacrato dalla stessa ferocia volgare. Il Ripamonti riferisce due fatti, dei quali è stato testimonio oculare. Uno, di tre Francesi viaggiatori i quali esaminando la facciata del duomo toccarono il marmo, e furono percossi malamente e strascinati in carcere assai mal conci; l'altro d'un povero vecchio ottuagenario di civile condizione, il quale prima di appoggiarsi alla panca nella chiesa di S. Antonio levò, col passarvi il mantello, la polvere: quell'atto, credutosi una unzione, inferocì il popolo nella casa del Dio di mansuetudine, e presolo pe' pochi capegli e per la barba a pugni, calci ed ogni genere di percosse, non l'abbandonò se non poiché lo rese cadavere. Tale era lo spirito di que' tempi.

La pestilenza andava sempre più mietendo vittime umane, e si andava disputando sulla origine di quella anziché accorrervi al riparo. Gli uni la facevano discendere da una cometa che fu in quell'anno osservata nel mese di giugno truci u1tra solitum etiam facie [d'aspetto più spaventevole ancora dell'usato], come scrive il Ripamonti. Altri ne davano l'origine agli spiriti infernali, e v'era chi attestava d'avere distintamente veduto giungere sulla piazza del duomo un signore strascinato da sei cavalli bianchi in un superbo cocchio, e attorniato da numeroso corteggio. Si osservò che il signore aveva una fisonomia fosca ed infuocata; occhi fiammeggianti, irsute chiome e il labbro superiore minaccioso. Entrato questi nella casa, ivi furono osservati tesori, larve, demonj e seduzioni d'ogni sorta, per adescare gli uomini a prendere il partito diabolico: di tali opinioni se ne può vedere più a lungo la storia nel citato Ripamonti. Fra tai delirj si perdevano i cittadini anche più distinti e gli stessi magistrati; e in vece di tenere con esatti ordini segregati i cittadini gli uni dagli altri, in vece d'intimare a ciascuno di restarsene in casa, destinando uomini probi in quartieri diversi per somministrare quanto occorreva a ciascuna famiglia, rimedio il solo che possa impedire la comunicazione del malore, e rimedio che adoperato da principio avrebbe forse con meno di cento uomini placata la pestilenza; in vece, dico, di tutto ciò, si è comandata con una mal'intesa pietà una processione solenne, nella quale si radunarono tutti i ceti de' cittadini, e trasportando il corpo di S. Carlo per tutte le strade frequentate della città, ed esponendolo sull'altar maggiore del duomo per più giorni alle preghiere dell'affollato popolo, prodigiosamente si comunicò la pestilenza alla città tutta, ove da quel momento si cominciarono a contare sino novecento morti ogni giorno. In una parola, tutta la città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai più assurdi e atroci delirj, malissimo pensati furono i regolamenti, stranissime le opinioni regnanti, ogni legame sociale venne miseramente disciolto dal furore della superstiziosa credulità; una distruttrice anarchia desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai più i miseri nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella luttuosissima epoca; si ricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla inquisizione, alle torture, tutto diventò preda della pestilenza, della superstizione, del fanatismo e della rapina; cosicché 1a proscritta verità in nessun luogo poté palesarsi. Cento quaranta mila cittadini Milanesi perirono scannati dalla ignoranza.

 
 
 

Rime di Celio Magno (43-50)

Post n°999 pubblicato il 07 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

43

Sopra l'amenità della villa dei Pradazzi nel Trivigiano, dove il clarissimo signor Orsatto Giustiniano ha un suo podere

Vago augellin gradito,
ch'a me dinanzi uscendo
Di ramo in ramo ti ricovri e passi;
e, quasi in dolce invito
cari accenti movendo,
per questo bel sentier mi scorgi i passi:
felice te, cui dassi
menar i giorni e l'ore
in così bel soggiorno,
che spira d'ogn'intorno,
con meraviglia altrui, gioia ed amore.
or qual albergo al mondo
potresti aver più dolce e più giocondo?
Folti boschetti e lieti,
cui dolce aura ognor fiede,
dal sol ti prestan refrigerio ed ombra;
e dentro a' lor secreti
ciascun t'invita e chiede
allor che 'l sonno ogni animal ingombra.
Il digiun poi si sgombra
per campagne feconde
di qual cibo più curi;
e se di ber procuri,
con man cava lor fresche e lucid'onde
ti porgon, liete e pronte,
le vaghe ninfe ognor del vicin fonte.
Questo ben dee, qualora
quinci te n' passi altrove,
d'alto rapirti a le sue sponde amene;
come tu spesso ancora,
mentre il piè ratto ei move,
il corso a l'acque sue cantando affrene:
ch'infra le rive piene
d'erbe e di fiori adorni,
bianchi, vermigli e gialli,
sembran chiusi cristalli
tra ricche gemme, onde la terra s'orni
acciò ch'altri la vante,
e n'abbia gloria il ciel, suo fido amante.
Qui, non altrove, io tegno
che già Venere bella
sovente in braccio al bell'Adon scendesse,
e dietro al caro pegno,
or questa preda or quella
cacciando, col bel piè l'erba premesse;
e poi, lassa, il piangesse,
da cruda fera anciso
e nel suo sangue involto.
Benché 'l crederlo è stolto:
ch'alcun oltraggio in questo paradiso
natura non consente,
né tema d'aspro o venenoso dente.
Deh l'ali avessi anch'io,
qual tu, da girne a volo
librando in aria il mio terrestre peso:
ch'appagherei 'l desio,
quasi ad un guardo solo,
di tutto quel ch'agli occhi or m'è conteso.
Poi me n'andrei giù sceso
per la propinqua valle,
e per questo e quel colle,
e colà dove estolle
quel monte al ciel le sue frondose spalle:
dietro a cui, mentre scende
già 'l sol, mezzo si cela e mezzo splende.
Rimanti pur, canzon, con questo augello,
qui fra letizia e gioco;
ché men dolce ti fora ogni altro loco.

44

Per le nozze dell'altezza del signor duca d'Urbino Francesco Maria con la serenissima donna Lucrezia da Este

Cangi or beato il Po, cangi il Metauro
in or l'arene, in puro argento l'onde,
In gemme i fior e l'erbe; e per le sponde
nasca in premi d'onor la palma e 'l lauro.

Ecco l'alma Lucrezia, ecco il tesauro
d'ogni virtù, che nel bel seno asconde;
che col gran sposo suo luce diffonde
tal, che per lor già torna il secol d'auro.

Questi, come del ciel la luna e 'l sole,
saran del mondo i più splendenti lumi,
cari non men per opre altere e sole:

poi che tutti gli antichi e bei costumi
fiorir faranno, e fia lor chiara prole
felice copia di terrestri lumi.

45

Ecco subito lampo; ecco disserra
Giove irato tonando al ciel le porte;
treman le stelle e la celeste corte;
trema con l'aria il mar; trema la terra.

Questi col braccio suo spezza ed atterra
qualunque muro adamantino e forte;
questi già spinse i rei giganti a morte
che lo sfidaro a temeraria guerra;

Questi a la mensa orribile raccolto
di Licaone il real tetto irato
arse, e fe' lui vestir ferigno volto;

e questi d'un fanciul nudo ed alato
l'arco pur teme: e 'n varie forme volto
va innanzi al carro suo preso e legato.

46

Poiché né il lungo mio gridar mercede
con voce dal dolor già stanca e vinta,
né la fronte portar di morte tinta,
donna, al mio foco interno acquistan fede,

questo ferro prendete, e là 've siede
l'imagin vostra nel mio cor dipinta,
fate agli occhi la via: ch'ivi se finta
o se vera è mia fiamma, a pien si vede.

Né si resti per voi, stimando errore
quinci mostrar, che dal benigno aspetto
abbiate dentro sì diverso il core;

ché a fedel servo è via più crudo effetto
non dar credenza al suo verace ardore,
ch'aprirli a morte mille volte il petto.

47

Novo Prometeo i' son, misero e lasso:
ché del bel viso ond'ardo il foco e i rai
con troppo ingorde luci un dì furai,
per darne spirto al cor di vita casso.

Ond'or d'un alto sdegno ad aspro sasso
in catena crudel di pianto e guai
avido rostro in me non sazio mai
provo, e di morte in morte ognor trapasso.

Ma quei peccò, da reo desir condutto;
io per soverchio amar supplicio sento,
di buon seme cogliendo acerbo frutto.

Quegli a cosa furar vietata intento;
io la vista d'un sol, dal ciel produtto
per farne ogni occhio uman lieto e contento.

48

Mai non ritorno al mio bel sole amato
seguendo i piè, ch'altrove andar non sanno:
ché non sia del piacer maggior l'affanno,
e da presso più acerbo il ben bramato.

Quegli occhi, i quai per adorar son nato,
com'essi, ohimè, per sol mio strazio e danno,
pur d'un guardo mercede al cor non danno,
sempre in atto ver me nemico, irato.

E se lontan dal loro sdegno io vivo,
più cruda guerra allor, misero, provo,
del mio solo conforto e d'alma privo.

Così vo del mio male ingordo e schivo,
e quel che m'è più dolce, amaro trovo,
disperato sperando, or morto, or vivo.

49

Questa selvaggia mia cruda guerriera,
che fiamme e strali ne' begli occhi porta,
tal in me s'arma e tal guerra m'apporta
che tosto andrà de la mia morte altera.

Ben contra lei talor, perch'io non pera,
si sforza in sua ragion l'anima accorta;
e sofferendo pugna e si conforta
di ricovrar sua libertà primiera.

Ma quasi a l'amo in mar già colto pesce,
quanto più mi riscuoto, esser mi sento
più preso; ed ella più mie pene accresce.

E se quando m'ha 'l duol presso che spento
pietà ne mostra, è sol perché le incresce
ch'abbia fin con la morte il mio tormento.

50

Mentre ingrato dolor che 'l cor percote
turba a madonna il viso almo e sereno,
e 'l bel pianto, ond'ha 'l ciglio umido e pieno,
scende rigando le vermiglie gote,

Amor, ch'offesa tal soffrir non puote,
come fanciullo a sua nutrice in seno
che lamentar la sente, anch'ei non meno
piange e si lagna in dolorose note.

Né ciò men, lasso, a me tormento adduce;
anzi sì grave e rio l'alma il sostiene,
ch'io scorgo presso il fin de la mia luce.

Sol un conforto in vita il cor mantiene:
che mentre il duol madonna a tal conduce,
vendetta fa de le mie lunghe pene

 
 
 

Il Dittamondo (4-07)

Post n°998 pubblicato il 07 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo

di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO VII

L’isola prima, che ci diede porto, 
quella di Creti fu, sí come piacque 
ch’io dovessi arrivare al mio conforto. 
Dal temperato ciel, la terra e l’acque. 
Macaronneson in prima si disse; 5 
ma da Cres re il propio nome nacque. 
Io fui dove nascoso Giove visse, 
benché fra lor n’è or poca memoria, 
quando ’l suo padre volse che morisse. 
E fui ancor dove Dedalo storia 10 
la cosa ch’è ritrosa al Minotoro 
di cui Teseo prese poi vittoria. 
Fama è per quelli che vi fan dimoro 
che giá si vide con cento cittade, 
onde Centopol si dicea fra loro. 15 
Qui fu, in prima che in altre contrade, 
ragion trovata e ordinata legge, 
arme, saette e altre novitade; 
qui per Pirrico domi e messi in gregge 
prima cavai, che in alcun’altra parte, 20 
secondo che si conta e che si legge; 
qui prima si trovò lo studio e l’arte 
de la musica e qui prima fun remi 
fatti a le navi e vela con sarte. 
Solino andando e io per quelli stremi, 
mi disse: "Guarda Ida, ch’è sí alto 
che prima vede il sol che su vi tremi. 
Cadisto e Ditinneo di minor salto 
non credo: onde la gente navicante 
per nuvol gli hanno nel lor primo assalto. 30 
D’ogni buon frutto qui vedi le piante; 
similemente ancora ci si trova 
d’un’erba e d’altra, che son sane e sante. 
Lupo né volpe alcuna ci cova, 
nottol né serpe e, s’alcun ci si porta, 35 
come pesce senz’acqua ci fa prova. 
Ma se di questi la vita ci è morta, 
di pecore e di capre grandi stuoli 
trovar ci puoi e di simile sorta 
e qual per piú salvatico ci toli. 40 
La terra è sí de la natura amica, 
che tutta è buona da far prati e broli. 
Quelle cittá, che ne l’etate antica 
eran di maggior nome, fun Gortina, 
Cnoso, Teranna, Cilisso e Cidonica. 45 
De’ fiumi, che ne vanno a la marina, 
al tempo d’ora piú chiari ci sono 
Gortina e Lipisso, che di qua china. 
Di tutti i vermi, c’han tosco, ragiono 
solo il falangio, che di ragno ha forma, 50 
la cui puntura è il piú senza perdono. 
Qui si trova una gemma, e scrivi in norma 
Idaeus dactylus, di color ferrigna, 
che di pollice umano mostra forma. 
La pianta d’ogni vin, ch’è buon, vi alligna 55 
quanto in altro luogo e qui t’insegno 
che l’erba alimo nasce e c’ingramigna. 
Al modo che giacer vedesi un legno 
d’abete, lungo e grosso, in su la terra, 
co’ rami tronchi, l’isola disegno. 60 
Diciotto volte diece miglia serra 
la sua lunghezza e cinquanta in traverso, 
se l’antica misura qui non erra. 
Le sue confine son per questo verso: 
Libico mar dal mezzodì la cinge, 65 
sí come legger puoi in alcun verso. 
A Carpatos da levante si stringe; 
poi da ponente e da settentrione 
l’Egeo, overo il Cretico, costringe". 
Posto ch’ebbe silenzio al suo sermone, 70 
io dimandai: "Dopo Giove chi tenne 
e fu signore di questa regione?" 
Ed ello a me: "Apresso re vi venne 
Minos, che nacque di lui e d’Europa, 
per lo qual Silla lodola divenne. 75 
Atenes prese e ’l suo paese scopa 
per la vendetta d’Androgeo suo figlio; 
franco fu in armi e giustizia s’appropa". 
Così parlando, giungemmo sul ciglio 
del mare, ove trovammo un legno a punto, 80 
nel quale entrammo senza piú consiglio. 
Lo nostro indugio, apresso, non fu punto: 
prendemmo il mare e navigammo tanto, 
ch’io mi trovai ov’è Carbasa giunto. 
Di quest’isola udio contar cotanto: 85 
che fu la prima che rame ci diede 
e Calidonio le dá questo vanto,
antichissimo autor da darli fede.
 
 
 

Rime di Celio Magno (41-42)

Post n°997 pubblicato il 07 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

41

Ben deggio aver di pianto umido il volto,
privo di te, vago augelletto e raro:
poiché tu fosti a me, vivendo, un caro
alto tesoro in poca piuma involto.

Tu del mio core, al tuo cantar rivolto,
sgombravi ogni pensier torbido, amaro;
e per gradirmi, a te medesmo avaro,
tornavi in tua prigion se neri sciolto.

Or tra l'ombre di Stige orride vai,
picciol, timido spirto, e scampar tenti;
ma l'ali, come già, lasso non hai.

Benché nullo è 'l bisogno e 'n van paventi:
ché per girne securo usar potrai,
di penne invece, i tuoi soavi accenti.

42

Piangea l'acerbo fin Tirsi dolente
di Dafne, amata sposa,
nel celebrar l'infauste nozze estinta;
né per rimedio alcun, lasso, ch'ei tente,
trovar può tregua o posa
col duol, che gli ha già l'alma oppressa e vinta.
Un dì dal negro velo, ond'era cinta,
tratta la mesta cetra, in man la prende;
e con lei mentre intende
consolarsi in disparte,
fuor di sé, fuor di via l'aspra sua pena
al sepolcro di Dafne incauto il mena.
Grida allor: — Ben dei sempre in questa parte,
misero cor, lagnarte.
Ma qual, da canto e suon, cerchi conforto,
se pace aver puoi solo esangue e morto?
Già sparir le tue gioie e spente furo,
lasso, in quei dolci lumi
ove albergo felice un tempo avesti;
or ch'in tenebre vivi, altro non curo
se non che ti consumi
sì ch'ancor io nud'ossa ed ombri resti.
Ove son or quei raggi almi e celesti
del sol del suo bel volto? ove il tesoro
de' vaghi capei d'oro?
E le perle e i rubini
che formar già solean note sì care?
Ove de l'alma l'alte doti rare,
e l'opre, e i pensier casti e pellegrini?
De' quai pregi divini
ricca se n' giva a l'altre ninfe innanti,
com'io di fede a tutti gli altri amanti.
Qui dentro giace, ohimè, la bella spoglia,
in polvere conversa;
e la mia qui di fuor vivendo spira?
Temprasi forse in me la mortal doglia
perch'in pianto si versa?
E si ravviva il cor mentre sospira?
O per pena maggior, morto, respira?
S'a questa tomba i passi il ciel mi scorse,
ben chiaro indicio porse
ch'anch'io spento e sepolto
con chi fu la mia vita esser devrei.
Ma poiché tarda il fin de' giorni miei,
per dargli spron, sia sempre il pensier volto
a quanto il ciel m'ha tolto:
ché di perduto ben continuo duolo
agli strali di morte affretta il volo.
Tutta grazia e beltà, tutta onor vero
Fu quell'alma gentile;
e in lei tutti i suoi doni il ciel raccolse.
Ahi colpo d'empia sorte iniquo e fero,
qual piaga ebbe simìle
il mondo? O mai con più ragion si dolse?
Lasso, a me tanto ben prometter volse,
lieto in vista, Imeneo, per cangiar poscia
mia gioia in doppia angoscia:
ché la sua face santa
arse in essequie e in doloroso lutto.
Così talor il ciel n'invidia il frutto,
quando cor si dovea, di nobil pianta
folgorando, e lo schianta.
Così Tantalo vede a' desir suoi
l'onda e i pomi appressarsi, e fuggir poi.
Anzi mia pena in ciò maggior si scorge:
ché 'l suo ben parte e riede,
il mio per non tornar mai più se n' gio.
Deh, perché 'l ciel, mia cetra, a te non porge
quel ch'ad Orfeo già diede?
Per impetrar, non già da Pluto anch'io,
ma dal gran Giove, il caro idolo mio?
Ch'essa splende or là su, più che mai bella,
gradita dea novella.
Ma che vaneggio, ahi lasso?
A che sogna il desio falsa speranza?
Sol dunque intorno a te pianger m'avanza,
o ricco de' miei danni avaro sasso.
E d'ogn'altro ben casso,
spregio anco il suon di questo cavo legno:
ché fuor che morte, ogni refugio i' sdegno. —
Così 'l misero disse, e sovra il marmo
che 'l suo tesor chiudea, spezzò la cetra;
dove Amor la faretra,
piangendo, e l'arco rotto avea non meno,
e le Grazie squarciato il crine e 'l seno.

 
 
 

Il Dittamondo (4-06)

Post n°996 pubblicato il 07 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO  VI

Qui segue ’l tempo a ragionar di Trazia, 
però che giunti in su la proda semo, 
e dir di quel che dentro vi si spazia. 
"Questo fiume, che vedi, di monte Emo, 
disse Solino andando noi, discende 5 
né perde in fine al mar vela né remo. 
Tiras fue da cui il nome prende, 
creato da Iafet, questa provincia, 
ben che per altro modo alcun lo ’ntende. 
Questo paese, quando s’incomincia 10 
il mondo ad abitar, molti e diversi 
popoli tenne per traverse e schincia: 
i’ dico Massageti, Siti e Bersi, 
Sarmati e piú e piú barbara gente, 
de’ quali i nomi i piú sono ora persi. 15 
E se tu leggerai e porrai mente 
non pur nel mio, ma in molti altri volumi, 
come viver soleano anticamente, 
vedrai ch’eran di modi e di costumi 
sí svariati da que’ che s’usan ora, 20 
quanto è un corbo dal cigno di piumi. 
La natura de’ gru mi disse allora, 
come la scrive, e i bei provedimenti 
c’hanno al volare e al dormire ancora; 
e quanto sonvi con grandi argomenti 25 
le rondini, lo stino e ’l bisanteo 
e nel viver solleciti e attenti. 
Cosí parlando, vidi Rodopeo 
al quale Rodopea di Demofonte 
lo nome dié, quando ’l primo perdeo. 30 
Un fiume surge d’una chiara fonte, 
che Mesto noman quei de la contrada: 
questo passammo su per un bel ponte. 
Io udii ancora pur per quella strada 
che un altro v’era tanto grosso d’acqua, 35 
che la state e il verno mal si guada: 
per lungo corso gran terreno adacqua 
e bagna di Pangeo la radice; 
poi corre in mare, dove si scialacqua: 
Ebrum, secondo ch’io udio, si dice; 40 
e cosí me ’l nomò la scorta mia, 
andando sempre per quelle pendice. 
Poi ci traemmo per la dritta via, 
dove trovammo lo stagno Bistonio, 
ch’assai famoso par che di lá sia. 45 
Un luogo v’è che si chiama Sitonio, 
ove Orfeo nacque, che col dolce sono 
lusingava in inferno ogni demonio. 
E cosí sopra il mare giunto sono, 
lo qual si stringe tra Abidos e Sesto 
sí, che da sette stadi esser vi pono. 
"L’occhio aguzza, Solino disse, a questo 
punto e nota ben ciò che io diviso, 
ché senza chiosa qui val poco il testo. 
Elles dal padre accomiatata e Friso, 55 
colpa de la crudel noverca loro, 
che non soffria mirarli per lo viso, 
con un monton la madre e con molto oro 
apparve lor, dicendo: "Questo mare 
qui su passate e non fate dimoro, 60 
e, per la vita, a dietro non guardare". 
Saliti in su la bestia forte e doma, 
entrâr ne l’acqua e misonsi a passare. 
Volsesi Elles lasciando corna e coma, 
onde giú cadde e annegata quivi 65 
per lei quel luogo Ellesponto si noma. 
Passato Frisso e giunto sopra i rivi, 
forte piangendo la bella sorore, 
bagnava gli occhi suoi grami e cattivi. 
Con grande avere e con molto dolore, 70 
come detto li fu, passò in Colco 
per fare a Marte, in quella parte, onore. 
A piè d’un arbor puose, sopra il solco, 
il drago e ’l tauro e suvvi l’aureo vello, 
per lo qual poi Ianson si fe’ bifolco. 75 
Ancor per questo mar, ch’io ti favello, 
Aleandro, nuotando ov’Ero adora, 
perdeo la forza e affogò in ello. 
Similmente per questa stretta ancora 
Serses fe’ far di navi il forte ponte, 80 
onde passò di qua in sua malora. 
Ma movi i piedi e drizza la tua fronte 
per ritrovare l’isole Ciclade, 
che cinque volte diece e piú son conte, 
ché piú non veggio per queste contrade 85 
da notar cosa alcuna e, se giá fue, 
venuta è meno per la lunga etade". 
Per questo modo andando noi due, 
trovammo un legno a punto su la riva, 
sopra il quale ello e io salimmo sue. 90 
Seguita ora ch’io divisi e scriva 
le novitá, ch’io vidi e ch’io udio 
per questo mar, di che la fama è viva,
poi che da piaggia in tutto mi partio.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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