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Messaggi del 09/01/2015

Il Dittamondo (4-11)

Post n°1011 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XI

Tu dèi creder, lettor, ch’io non iscrivo, 
in questi versi, cosa che non abbia 
verace testimonio o morto o vivo. 
Qui fui tra due confin, dov’è tal rabbia 
di genti, d’animai, d’acque e foreste, 5 
che qual v’entra può dir ch’è in una gabbia. 
Qui vid’io tali che fan de le teste 
de gli uomin coppe e bevono con quelle 
come Albuino usava a le sue feste. 
Quivi udii io diverse novelle, 10 
quivi cercai di strane regioni, 
quivi trovai di nove favelle. 
Io fui lá dove guardan li grifoni 
li nobili smeraldi e son come aspi, 
ti dico, fiere tigri over leoni. 15 
Questi nemici son de gli Arimaspi 
che han solo un occhio e tolgon gli smeraldi, 
ché altra gente non v’è che quivi raspi. 
Dietro a monte Rifeo son questi spaldi, 
nuvolo e ghiaccio, ond’io non vi passai, 20 
perché stella né sol par che vi scaldi. 
Ne la fine di Europa poi trovai 
gl’Iperborei, che hanno il dí sei mesi 
e sei la notte: e ciò non falla mai. 
Settanta miglia, per quello ch’io intesi, 25 
erano o piú da lo golfo di Trazia 
a l’isola Apollonita, ov’io scesi. 
Qual vivo scampa a Dio de’render grazia, 
ché va per l’ocean settentrione, 
dove ’l mar Morto over ghiacciato spazia. 30 
Ne l’isola Albacia son persone 
che vivon d’uova d’uccelli marini; 
e qui il mar Cronio e ’l Boristen si pone. 
Ne l’oceano, per quelle confini, 
in fra l’altre isole, una ve ne vidi 35 
tal che, pensando, ancor ne arriccio i crini. 
"O luce mia, diss’io, che qui mi guidi, 
che gente è questa, c’ha piè di cavallo?" 
Ed ello a me: "Que’ son detti Ippopidi". 
"Questi non son, diss’io, d’andare a ballo; 40 
e però quanto puoi pur t’apparecchia 
partir da loro e cercare altro stallo". 
Indi passammo a un’altra piú vecchia, 
dicendo: "Ecco i Fanesi, che le membra 
si veston, come vedi, con le orecchia". 45 
"La gente di queste isole mi sembra 
che Dio e la natura gli abbia in ira, 
diss’io, né di piú trista mi rimembra." 
Ed ello a me: "Passa pur oltre e mira 
che, come son bestiali in apparenza, 50 
cotai l’anime pensa che li gira". 
Presa di questi vera esperienza, 
tornammo a terra ferma, in su lo stremo 
silvano, freddo e con poca semenza. 
Si com’io il vidi, dissi: "Ecco lo scemo, 55 
in fra me stesso, dove Lincus volse 
uccider, per rubar, giá Trittolemo". 
La guida mia, parlando, a me si volse: 
"Vedi ’l paese che la Fame graffia 
e donde l’Oreade giá la tolse. 60 
E come leggi in molte pataffia, 
quest’è sí fuor d’ogni dolce pastura, 
che poco giova se pioggia l’annaffia". 
Cosí cercando la secca pianura, 
ed eravamo volti in verso sera, 
mi ragionò del cervo la natura, 
la vita e la beltà de la pantera, 
e quanto i pardi e i tigri sono destri, 
secondo che nel libro suo gli avera. 
Usciti fuor di quei luoghi silvestri, 70 
venimmo in Dacia, ove gli uomini vidi 
piú belli, piú accorti e piú maestri. 
Esperto de’ costumi e de’ lor nidi, 
passammo in Gozia, dove l’oceano 
da tre parti percuote ne’ suoi lidi. 75 
De le Amazone funno, al tempo strano, 
mariti e da Magog il nome scese; 
piú regni acquistâr giá con la lor mano. 
Imperando Valente, del paese 
Gotti, Ipogotti, Gepidi e Vandali 80 
passâr Danubio con poche difese. 
Poi, dopo gravi affanni e molti scandali, 
presono Italia e in Africa ancora 
entrâr con navi, con galee e sandali. 
Sotto la tramontana, ov’ero allora, 85 
vidi Isolandia, de la qual mi giova 
che memoria ne sia per me ora, 
sí per lo bel cristallo, ch’uom vi trova, 
sí che i bianchi orsi sotto il ghiaccio sale 
pescano in mare il pesce che vi cova. 90 
Io non vi fui, ma per certo da tale 
autor l’udio, che senz’altro argomento 
lo scrivo altrui e far non mi par male: 
io dico lungo il mar, che qui rammento, 
uomini e femine magiche sono 95 
ch’a’ marinai col fil vendono il vento
e quanto piace a loro aver ne pono.
 
 
 

Colonna Infame 04-2

Post n°1010 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

(seguito) IV

Abbiam visto, è vero, che la deposizion del primo, come radicalmente nulla, non poteva dar loro alcun diritto di venire a ciò. Ma poiché volevano a ogni modo servirsene, bisognava almeno conservarla intatta. Se gli avessero dette la prima volta quelle parole: ha molto dell'inverisimile; se lui non avesse sciolta la difficoltà, mettendo il fatto in forma meno strana, e senza contradire al già detto (cosa da sperarsi poco); si sarebbero trovati al bivio, o di dover lasciare stare il Mora, o di carcerarlo dopo avere essi medesimi protestato, per dir così, anticipatamente contro un tal atto.

L'osservazione fu accompagnata da un avvertimento terribile. Et perciò se non si risoluerà di dire interamente la verità, come ha promesso, se gli protesta che non se gli seruarà l'impunità promessa, ogni volta che si trovi diminuta la suddetta sua confessione, et non intiera di tutto quello è passato tra di lui et il suddetto Barbiero, et per il contrario, dicendo la verità se gli servarà l'impunità promessa.

E qui si vede, come avevamo accennato sopra, cosa poté servire ai giudici il non ricorrere al governatore per quell'impunità. Concessa da questo, con autorità regia e riservata, con un atto solenne, e da inserirsi nel processo, non si poteva ritirarla con quella disinvoltura. Le parole dette da un auditore si potevano annullare con altre parole.

Si noti che l'impunità per il Baruello fu chiesta al governatore il 5 di settembre, cioè dopo il supplizio del Piazza, del Mora, e di qualche altro infelice. Si poteva allora mettersi al rischio di lasciarne scappar qualcheduno: la fiera aveva mangiato, e i suoi ruggiti non dovevan più esser così impazienti e imperiosi.

A quell'avvertimento, il commissario dovette, poiché stava fermo nel suo sciagurato proposito, aguzzar l'ingegno quanto poteva, ma non seppe far altro che ripeter la storia di prima. Dirò a V.S.: due dì auanti che mi dasse l'onto, era il detto Barbiero sul corso di Porta Ticinese, con tre d'altri in compagnia; et vedendomi passare, mi disse: Commissario, ho un onto da darvi; io gli dissi: volete darmelo adesso? lui mi disse di no, et all'hora non mi disse l'effetto che doueua fare il detto onto; ma quando me lo diede poi, mi disse ch'era onto da ongere le muraglie, per far morire la gente; né io gli dimandai se lo haueua provato. Se non che la prima volta aveva detto: lui non mi disse niente; m'imagino bene che detto onto fosse velenato; la seconda: mi disse ch'era per far morire la gente. Ma senza farsi caso d'una tal contradizione, gli domandano chi erano quelli che erano con detto Barbiero, et come erano vestiti.

Chi fossero, non lo sa; sospetta che dovessero essere vicini del Mora; come fossero vestiti, non se ne rammenta; solo mantiene che è vero tutto ciò che ha deposto contro di lui. Interrogato se è pronto a sostenerglielo in faccia, risponde di sì. È messo alla tortura, per purgar l'infamia, e perché possa fare indizio contro quell'infelice.

I tempi della tortura sono, grazie al cielo, abbastanza lontani, perché queste formole richiedano spiegazione. Una legge romana prescriveva che «la testimonianza d'un gladiatore o di persona simile, non valesse senza i tormenti». (58) La giurisprudenza aveva poi determinate, sotto il titolo d'infami, le persone alle quali questa regola dovesse applicarsi; e il reo, confesso o convinto, entrava in quella categoria. Ecco dunque in che maniera intendevano che la tortura purgasse l'infamia. Come infame, dicevano, il complice non merita fede; ma quando affermi una cosa contro un suo interesse forte, vivo, presente, si può credere che la verità sia quella che lo sforzi ad affermare. Se dunque, dopo che un reo s'è fatto accusatore d'altri, gli s'intima, o di ritrattar l'accusa, o di sottoporsi ai tormenti, e lui persiste nell'accusa; se, ridotta la minaccia ad effetto, persiste anche ne' tormenti, il suo detto diventa credibile: la tortura ha purgato l'infamia, restituendo a quel detto l'autorità che non poteva avere dal carattere della persona.

E perché dunque non avevan fatta confermare al Piazza ne' tormenti la prima deposizione? Fu anche questo per non mettere a cimento quella deposizione, così insufficiente, ma così necessaria alla cattura del Mora? Certo una tale omissione rendeva questa ancor più illegale: giacché era bensì ammesso che l'accusa dell'infame, non confermata ne' tormenti, potesse dar luogo, come qualunque altro più difettoso indizio, a prendere informazioni, ma non a procedere contro la persona. (59) E riguardo alla consuetudine del foro milanese, ecco quel che attesta il Claro in forma generalissima: «Affinché il detto del complice faccia fede, è necessario che sia confermato ne' tormenti, perché, essendo lui infame a cagion del suo proprio delitto, non può essere ammesso come testimonio, senza tortura; e così si pratica da noi: et ita apud nos servatur». (60)

Era dunque legale almeno la tortura data al commissario in quest'ultimo costituto? No, certamente: era iniqua, anche secondo le leggi, poiché gliela davano per convalidare un'accusa che non poteva diventar valida con nessun mezzo, a cagion dell'impunità da cui era stata promossa. E si veda come gli avesse avvertiti a proposito il loro Bossi. «Essendo la tortura un male irreparabile, si badi bene di non farla soffrire in vano a un reo in casi simili, cioè quando non ci siano altre presunzioni o indizi del delitto.» (61)

Ma che? facevan dunque contro la legge, a dargliela, e a non dargliela? Sicuro; e qual maraviglia che chi s'è messo in una strada falsa, arrivi a due che non son buone, né l'una né l'altra?

Del resto, è facile indovinare che la tortura datagli per fargli ritrattare un'accusa, non dovette esser così efficace come quella datagli per isforzarlo ad accusarsi. Infatti, non ebbero questa volta a scrivere esclamazioni, a registrare urli né gemiti: sostenne tranquillamente la sua deposizione.

Gli domandaron due volte perché non l'avesse fatta ne' primi costituti. Si vede che non potevan levarsi dalla testa il dubbio, e dal cuore il rimorso, che quella sciocca storia fosse un'ispirazion dell'impunità. Rispose: fu per l'impedimento dell'aqua che ho detto che haueuo beuuta. Avrebbero certamente desiderato qualcosa di più concludente; ma bisognava contentarsi. Avevan trascurati, che dico? schivati, esclusi, tutti i mezzi che potevan condurre alla scoperta della verità: delle due contrarie conclusioni che potevan risultare dalla ricerca, n'avevan voluta una, e adoprato, prima un mezzo, poi un altro, per ottenerla a qualunque costo: potevan pretendere di trovarci quella soddisfazione che può dar la verità sinceramente cercata? Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera.

Calato dalla fune, e mentre lo slegavano, il commissario disse: Signore, vi voglio un puoco pensar sino a dimani, et dirò poi quello d'auantaggio, che mi ricordarò, tanto contro di lui, quanto d'altri.

Mentre poi lo riconducevano in carcere, si fermò, dicendo: ho non so che da dire; e nominò come gente amica del Mora, e pochi di buono, quel Baruello, e due foresari, (62) Girolamo e Gaspare Migliavacca, padre e figlio.

Così lo sciagurato cercava di supplir col numero delle vittime alla mancanza delle prove. Ma coloro che l'avevano interrogato, potevano non accorgersi che quell'aggiungere era una prova di più che non aveva che rispondere? Eran loro che gli avevan chiesto delle circostanze che rendessero verisimile il fatto; e chi propone la difficoltà, non si può dir che non la veda. Quelle nuove denunzie in aria, o que' tentativi di denunzie volevan dire apertamente: voi altri pretendete ch'io vi renda chiaro un fatto; come è possibile, se il fatto non è? Ma, in ultimo, quel che vi preme è d'aver delle persone da condannare: persone ve ne do; a voi tocca a cavarne quel che vi bisogna. Con qualcheduno vi riuscirà: v'è pur riuscito con me.

Di que' tre nominati dal Piazza, e d'altri che, andando avanti, furon nominati con ugual fondamento, e condannati con ugual sicurezza, non faremo menzione, se non in quanto potrà esser necessario alla storia di lui e del Mora (i quali, per essere i primi caduti in quelle mani, furono riguardati sempre come i principali autori del delitto); o in quanto ne esca qualcosa degna di particolare osservazione. Omettiamo pure in questo luogo, come faremo altrove, de' fatti secondari e incidenti, per venir subito al secondo esame del Mora; che fu in quel giorno medesimo.

In mezzo a varie domande, sul suo specifico, sul ranno, su certe lucertole che aveva fatto prender da de' ragazzi, per comporne un medicamento di que' tempi (domande alle quali soddisfece come un uomo che non ha nulla da nascondere né da inventare), gli metton lì i pezzi di quella carta che aveva stracciata nell'atto della visita. La riconosco, disse , per quella scrittura che io strazziai inauertentamente; et si potranno li pezzetti congregar insieme, per veder la continenza, et mi verrà ancora a memoria da chi mi sij stata data.

Passaron poi a fargli un'interrogazione di questa sorte: in che modo, non hauendo più che tanta amicitia con il detto Commissario chiamato Gulielmo Piazza, come ha detto nel precedente suo esame, esso Commissario con tanta libertà gli ricercò il suddetto vaso di preseruatiuo; et lui Constituto, con tanta libertà et prestezza, si offerse di darglielo, et l'interpellò di andarlo a pigliare, come nell'altro suo esame ha deposto.

Ecco che torna in campo la misura stretta della verisimiglianza. Quando il Piazza asserì per la prima volta, che il barbiere, suo amico di bon dì e bon anno, con quella medesima libertà e prestezza, gli aveva offerto un vasetto per far morire la gente, non gli fecero difficoltà; la fanno a chi asserisce che si trattava d'un rimedio. Eppure, si devono naturalmente usar meno riguardi nel cercare un complice necessario a una contravvenzion leggiera, e per una cosa in sé onestissima, che a cercarlo, senza necessità, per un attentato pericoloso quanto esecrabile: e non è questa una scoperta che si sia fatta in questi due ultimi secoli. Non era l'uomo del secento che ragionava così alla rovescia: era l'uomo della passione. Il Mora rispose: io lo feci per l'interesse.

Gli domandano poi se conosce quelli che il Piazza aveva nominati; risponde che li conosce, ma non è loro amico, perché son certa gente da lasciarli fare il fatto suo. Gli domandano se sa chi avesse fatto quell'imbrattamento di tutta la città; risponde di no. Se sa da chi il commissario abbia avuto l'unguento per unger le muraglie: risponde ancora di no.

Gli domandan finalmente: se sa che persona alcuna, con offerta de danari, habbi ricercato il detto Commissario ad ontar le muraglie della Vedra de' Cittadini, et che per così fare, li habbi poi dato un vasetto di vetro con dentro tal onto. Rispose, chinando la testa, e abbassando la voce (flectens caput, et submissa voce): non so niente.

Forse soltanto allora cominciava a vedere a che strano e orribil fine potesse riuscire quel rigirìo di domande. E chi sa in che maniera sarà stata fatta questa da coloro, che, incerti, volere o non volere, della loro scoperta, tanto più dovevano accennar di saperne, e mostrarsi anticipatamente forti contro le negative che prevedevano. I visi e gli atti che facevan loro, non li notavano. Andaron dunque avanti a domandargli direttamente: se lui Constituto ha ricercato il suddetto Gulielmo Piazza Commissario della Sanità ad ongere le muraglie lì a torno alla Vedra de' Cittadini, et per così fare se gli ha dato un vasetto di vetro con dentro l'onto che doueua adoperare; con promessa di dargli ancora una quantità de danari.

Esclamò, più che non rispose: Signor no! maidè (63) no! no in eterno! far io queste cose? Son parole che può dire un colpevole, quanto un innocente; ma non nella stessa maniera.

Gli fu replicato, che cosa dirà poi quando dal suddetto Gulielmo Piazza Commissario della Sanità, gli sarà questa verità sostenuta in faccia.

Di nuovo questa verità! Non conoscevan la cosa che per la deposizione d'un supposto complice; a questo avevan detto essi medesimi, il giorno medesimo, che, come la raccontava lui, haueua molto dell'inverisimile; lui non ci aveva saputo aggiungere neppure un'ombra di verisimiglianza, se la contradizione non ne dà; e al Mora dicevano francamente: questa verità! Era, ripeto, rozzezza de' tempi? era barbarie delle leggi? era ignoranza? era superstizione? O era una di quelle volte che l'iniquità si smentisce da sé?

Il Mora rispose: quando mi dirà questo in faccia, dirò che è un infame, et che non può dire questo, perché non ha mai parlato con me di tal cosa, et guardimi Dio!

Si fa venire il Piazza, e, alla presenza del Mora, gli si domanda, tutto di seguito, se è vero questo e questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Risponde: Signor sì, che è vero. Il povero Mora grida: ah Dio misericordia! non si trouarà mai questo.

Il commissario: io sono a questi termini, per sostentarui voi.

Il Mora: non si trouarà mai, non prouarete mai d'esser stato a casa mia.

Il commissario: non fossi mai stato in casa vostra, come vi son stato; che sono a questi termini per voi.

Il Mora: non si trouarà mai che siate stato a casa mia.

Dopo di ciò, furon rimandati, ognuno nel suo carcere.

Note

(continua)

 
 
 

'A Bbifania

Post n°1009 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

'A Bbifania

Chissà si l'arivedo la Bbifana
che 'st'anno me portò gnente de ggnente,
je só rimasto propio 'ndiferente,
senza che pô sembrà 'na cosa strana.

Qui passa 'n giorno o ddua, 'na settimana,
er tempo córe troppo celermente
pe' gusti mia, ma puro de la ggente
che vede annasse via 'na vita sana.

Pô ddarsi che só stato 'n po' cattivo,
magara la Bbifana nun esiste
ed io ce credo come 'n primitivo,

nun sò si só più bbono o só più ffesso.
Nun credo che só ddiventato triste,
è solo che 'sta vita è 'n vero cesso.

Valerio Sampieri
9 gennaio 2014

 
 
 

Colonna Infame 04-1

Post n°1008 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

IV

L'auditore corse, con la sbirraglia, alla casa del Mora, e lo trovarono in bottega. Ecco un altro reo che non pensava a fuggire, né a nascondersi, benché il suo complice fosse in prigione da quattro giorni. C'era con lui un suo figliuolo; e l'auditore ordinò che fossero arrestati tutt'e due.

Il Verri, spogliando i libri parrocchiali di San Lorenzo, trovò che l'infelice barbiere poteva avere anche tre figlie; una di quattordici anni, una di dodici, una che aveva appena finiti i sei. Ed è bello il vedere un uomo ricco, nobile, celebre, in carica, prendersi questa cura di scavar le memorie d'una famiglia povera, oscura, dimenticata: che dico? infame; e in mezzo a una posterità, erede cieca e tenace della stolta esecrazione degli avi, cercar nuovi oggetti a una compassion generosa e sapiente. Certo, non è cosa ragionevole l'opporre la compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia se volesse condonar le pene de' colpevoli al dolore degl'innocenti. Ma contro la violenza e la frode, la compassione è una ragione anch'essa. E se non fossero state che quelle prime angosce d'una moglie e d'una madre, quella rivelazione d'un così nuovo spavento, e d'un così nuovo cordoglio a bambine che vedevano metter le mani addosso al loro padre, al fratello, legarli, trattarli come scellerati; sarebbe un carico terribile contro coloro, i quali non avevano dalla giustizia il dovere, e nemmeno dalla legge il permesso di venire a ciò.

Ché, anche per procedere alla cattura, ci volevano naturalmente degl'indizi. E qui non c'era né fama, né fuga, né querela d'un offeso, né accusa di persona degna di fede, né deposizion di testimoni; non c'era alcun corpo di delitto; non c'era altro che il detto d'un supposto complice. E perché un detto tale, che non aveva per sé valor di sorte alcuna, potesse dare al giudice la facoltà di procedere, eran necessarie molte condizioni. Più d'una essenziale, avremo occasion di vedere che non fu osservata; e si potrebbe facilmente dimostrarlo di molt'altre. Ma non ce n'è bisogno; perché, quand'anche fossero state adempite tutte a un puntino, c'era in questo caso una circostanza che rendeva l'accusa radicalmente e insanabilmente nulla: l'essere stata fatta in conseguenza d'una promessa d'impunità. «A chi rivela per la speranza dell'impunità, o concessa dalla legge, o promessa dal giudice, non si crede nulla contro i nominati», dice il Farinacci. (54) E il Bossi: «si può opporre al testimonio che quel che ha detto, l'abbia detto per essergli stata promessa l'impunità... mentre un testimonio deve parlar sinceramente, e non per la speranza d'un vantaggio... E questo vale anche ne' casi in cui, per altre ragioni, si può fare eccezione alla regola che esclude il complice dall'attestare... perché colui che attesta per una promessa d'impunità, si chiama corrotto, e non gli si crede». (55) Ed era dottrina non contradetta.

Mentre si preparavano a visitare ogni cosa, il Mora disse all'auditore: Oh V.S. veda! so che è venuta per quell'unguento; V.S. lo veda là; et aponto quel vasettino l'haueuo apparecchiato per darlo al Commissario, ma non è venuto a pigliarlo; io, gratia a Dio, non ho fallato. V.S. veda per tutto; io non ho fallato: può sparagnare di farmi tener legato. Credeva l'infelice, che il suo reato fosse d'aver composto e spacciato quello specifico, senza licenza.

Frugan per tutto; ripassan vasi, vasetti, ampolle, alberelli, barattoli. (I barbieri, a quel tempo, esercitavan la bassa chirurgia; e di lì a fare anche un po' il medico, e un po' lo speziale, non c'era che un passo.) Due cose parvero sospette; e, chiedendo scusa al lettore, siam costretti a parlarne, perché il sospetto manifestato da coloro, nell'atto della visita, fu quello che diede poi al povero sventurato un'indicazione, un mezzo per potersi accusare ne' tormenti. E del resto c'è in tutta questa storia qualcosa di più forte che lo schifo.

In tempo di peste, era naturale che un uomo, il quale doveva trattar con molte persone, e principalmente con ammalati, stesse, per quanto era possibile, segregato dalla famiglia: e il difensor del Padilla fa questa osservazione dove, come vedremo or ora, oppone al processo la mancanza d'un corpo di delitto. La peste medesima poi aveva diminuito in quella desolata popolazione il bisogno della pulizia, ch'era già poco. Si trovaron perciò in una stanzina dietro la bottega, duo vasa stercore humano plena, dice il processo. Un birro se ne maraviglia, e (a tutti era lecito di parlar contro gli untori) fa osservare che di sopra vi è il condotto. Il Mora rispose: io dormo qui da basso, et non vado di sopra.

La seconda cosa fu che in un cortiletto si vide un fornello con dentro murata una caldara di rame, nella quale si è trovato dentro dell'acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa gialla et bianca, la quale, gettata al muro, fattone la prova, si attaccava. Il Mora disse: l'è smoglio (ranno): e il processo nota che lo disse con molta insistenza: cosa che fa vedere quanto essi mostrassero di trovarci mistero. Ma come mai s'arrischiarono di far tanto a confidenza con quel veleno così potente e così misterioso? Bisogna dire che il furore soffogasse la paura, che pure era una delle sue cagioni.

Tra le carte poi si trovò una ricetta, che l'auditore diede in mano al Mora, perché spiegasse cos'era. Questo la stracciò, perché, in quella confusione, l'aveva presa per la ricetta dello specifico. I pezzi furon raccolti subito; ma vedremo come questo miserabile accidente fu poi fatto valere contro quell'infelice.

Nell'estratto del processo non si trova quante persone fossero arrestate insieme con lui. Il Ripamonti dice che menaron via tutta la gente di casa e di bottega; giovani, garzoni, moglie, figli, e anche parenti, se ce n'era lì. (56)

Nell'uscir da quella casa, nella quale non doveva più rimetter piede, da quella casa che doveva esser demolita da' fondamenti, e dar luogo a un monumento d'infamia, il Mora disse: io non ho fallato, et se ho fallato, che sij castigato; ma da quello Elettuario in puoi, io non ho fatto altro; però, se hauessi fallato in qualche cosa, ne dimando misericordia.

Fu esaminato il giorno medesimo, e interrogato principalmente sul ranno che gli avevan trovato in casa, e sulle sue relazioni col commissario. Intorno al primo, rispose: signore, io non so niente, et l'hanno fatto far le donne; che ne dimandano conto da loro, che lo diranno; et sapevo tanto io che quel smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'esser oggi condotto prigione.

Intorno al commissario, raccontò del vasetto d'unguento che doveva dargli, e ne specificò gl'ingredienti; altre relazioni con lui, disse di non averne avute, se non che, circa un anno prima, quello era venuto a casa sua, a chiedergli un servizio del suo mestiere. Subito dopo fu esaminato il figliuolo; e fu allora che quel povero ragazzo ripetè la sciocca ciarla del vasetto e della penna, che abbiam riferita da principio. Del resto, l'esame fu inconcludente; e il Verri osserva, in una postilla, che «si doveva interrogare il figlio del barbiere su quel ranno, e vedere da quanto tempo si trovava nella caldaia, come fatto, a che uso; e allora si sarebbe chiarito meglio l'affare. Ma», soggiunge, «temevano di non trovarlo reo». E questa veramente è la chiave di tutto.

Interrogarono però su quel particolare la povera moglie del Mora, la quale alle varie domande rispose che aveva fatto il bucato dieci o dodici giorni avanti; che ogni volta riponeva del ranno per certi usi di chirurgia; che per questo gliene avevan trovato in casa; ma che quello non era stato adoperato, non essendocene stato bisogno.

Si fece esaminare quel ranno da due lavandaie, e da tre medici. Quelle dissero ch'era ranno, ma alterato; questi, che non era ranno; le une e gli altri, perché il fondo appiccicava e faceva le fila. «In una bottega d'un barbiere,» dice il Verri, «dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d'estate?» (57)

Ma in ultimo, da quelle visite non risultava una scoperta; risultava soltanto una contradizione. E il difensore del Padilla ne deduce, con troppo evidente ragione, che «dalla lettura dell'istesso processo offensiuo, non si vede constare del corpo del delitto; requisito e preambolo necessario, acciò si venga a Reato, atto tanto pregiudiciale, e danno irreparabile». E osserva che, tanto più era necessario, in quanto l'effetto che si voleva attribuire a un delitto, il morir tante persone, aveva la sua causa naturale. «Per i quali giuditii incerti», dice, «quanto fosse necessario venire all'esperienza, lo ricercauano le maligne costellationi, et li pronostici de' Matthematici, quali nell'anno 1630 altro non concludevano che peste, e finalmente il veder tante città insigni della Lombardia, et Italia rimanere desolate, et dalla peste distrutte, in quali non si sentirno pensieri, né timori di onto.» Anche l'errore vien qui in aiuto della verità: la quale però non n'aveva bisogno. E fa male il vedere come quest'uomo, dopo aver fatto e questa e altre osservazioni, ugualmente atte a dimostrar chimerico il delitto medesimo, dopo avere attribuito alla forza de' tormenti le deposizioni che accusavano il suo cliente, dica in un luogo queste strane parole: «conuien confessare, che per malignità de' detti nominati, et altri complici, con animo ancor di sualigiare le case, et far guadagni, come il detto Barbiere, al fol. 104, disse, si mouessero a tanto delitto contro la propria Patria.»

Nella lettera d'informazione al governatore, il capitano di giustizia parla di questa circostanza così: «Il barbiero è preso, in casa di cui si sono trovate alcune misture, per giudicio de periti, molto sospette.» Sospette! È una parola con cui il giudice comincia, ma con cui non finisce, se non suo malgrado, e dopo aver tentati tutti i mezzi per arrivare alla certezza. E se ognuno non sapesse, o non indovinasse quelli ch'erano in uso anche allora, e che si sarebbero potuti adoprare, quando si fosse veramente pensato a chiarirsi sulla qualità velenosa di quella porcheria, l'uomo che presiedeva al processo ce l'avrebbe fatto sapere. In quell'altra lettera rammentata poco sopra, con la quale il tribunale della Sanità aveva informato il governatore di quel grande imbrattamento del 18 di maggio, si parlava pure d'un esperimento fatto sopra de' cani, «per accertarsi se tali ontuosità erano pestilentiali o no». Ma allora non avevan nelle mani nessun uomo sul quale potessero fare l'esperimento della tortura, e contro il quale le turbe gridassero: tolle!

Prima però di mettere alle strette il Mora, vollero aver dal commissario più chiare e precise notizie; e il lettore dirà che ce n'era bisogno. Lo fecero dunque venire, e gli domandarono se ciò che aveva deposto era vero, e se non si rammentava d'altro. Confermò il primo detto, ma non trovò nulla da aggiungerci.

Allora gli dissero che ha molto dell'inuerisimile che tra lui et detto barbiero non sia passata altra negotiatione di quella che ha deposto, trattandosi di negotio tanto grave, il quale non si commette a persone per eseguirlo, se non con grande et confidente negotiatione, et non alla fugita, come lui depone.

L'osservazione era giusta, ma veniva tardi. Perché non farla alla prima, quando il Piazza depose la cosa in que' termini? Perché una cosa tale chiamarla verità? Che avessero il senso del verisimile così ottuso, così lento, da volerci un giorno intero per accorgersi che lì non c'era? Essi? Tutt'altro. L'avevan delicatissimo, anzi troppo delicato. Non eran que' medesimi che avevan trovato, e immediatamente, cose inverisimili che il Piazza non avesse sentito parlare dell'imbrattamento di via della Vetra, e non sapesse il nome de' deputati d'una parrocchia? E perché in un caso così sofistici, in un altro così correnti?

Il perché lo sapevan loro, e Chi sa tutto; quello che possiamo vedere anche noi è che trovaron l'inverisimiglianza, quando poteva essere un pretesto alla tortura del Piazza; non la trovarono quando sarebbe stata un ostacolo troppo manifesto alla cattura del Mora.

(segue)

Note

 
 
 

Rime di Celio Magno (55)

Post n°1007 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

55

Cerca di persuadere la sua donna ad accettarlo per suo poeta

A che dagli occhi, Amor, vaghi e sereni,
dove come in tuo ciel ti giri e movi,
folgorando in me piovi
sì minaccioso eterne fiamme e strali?
Ben Giove irato al mio pensier rinovi,
allor che sovra i mostri empi terreni
tra sì spessi baleni
fulminando atterrò lor posse frali;
benché, per tante tue piaghe mortali
saette a ministrar, verrebbon manchi
d'Etna i martelli, allor bastanti e forti.
Non cerco insidie ond'io voglia deporti
del regno tuo, né che tua gloria manchi;
ma se quest'occhi stanchi
non vedi mai pur nel tuo nido intenti,
n'incolpa solo, e non inganno od arte:
ch'acquetar non si sanno in altra parte.
Anzi io t'adoro, Amor, nel santo lume
di quel bel ciglio ond'hai cura e governo;
e prego il ciel ch'eterno
duri il tuo seggio in sì gradito loco.
Ma, lasso, altro nemico occulto scerno,
ch'indi scacciarti, e non invan, presume;
e già suo rio costume
opra in te sordamente a poco a poco:
ch'or un stral ti rintuzza, or del tuo foco
un carbon spegne, or un lacciuol ti solve,
e l'or del vago crin ti fura il ladro;
or un spirito ardente, almo e leggiadro
di quel bel viso estingue e 'n fumo solve,
perch'al fin ombra e polve
rimanga il corpo in cui tu regni e vivi;
e te non solo privi
d'ogni tuo ben, ma 'l secol nostro indegno,
che non have dal ciel più caro pegno.
Deh, perché mentre a far oltraggio intende
al bel volto leggiadro, a laurea testa,
ed al tuo mal s'appresta,
non è 'l crudel ne le tue forze colto?
Perché dentro il suo cor fiamma non desta
il bel guardo divin, ch'un ghiaccio accende?
Perché, s'ogni alma prende,
e lui quel vago crin non tiene involto?
Talché d'ogni altra cura in tutto sciolto
fermasse il corso, e in un col ciel si stesse
immoto a contemplar l'alta beltade;
e chiudendo al morir tutte le strade,
sol una faccia sempre il mondo avesse,
né più tornar potesse
in braccio al suo Titon la bella Aurora;
e tal dì fosse allora
ch'anch'io mi ritrovassi intento e fiso
a l'eterno piacer del vago viso.
Ma, stolto, che bram'io? Se nulla vale
dal suo corso fatal punto ritrarlo?
Ecco, mentr'or ti parlo,
ch'ei pur se n' vola, al tuo danno passando.
E già mi par di vincitor mirarlo,
rotto a te l'arco e spennacchiate l'ale,
e con doglia immortale
dal tuo nido gentil tenerti in bando.
Né ciò tanto devria dolerti quando
potessi altrove riparar tuo stato
e 'n sì begli occhi aver sì caro albergo;
ma come nulla, s'io mi volgo a tergo,
donna veggio simil nel tempo andato,
così non fa beato
altra di tai bellezze il secol nostro;
né di sì nobil mostro,
di sì raro miracol di natura
si vanterà giamai l'età futura.
Misero, che farai? Tosto al tuo danno
giungerà 'l tuo nemico empio ed avaro;
né v'ha schermo o riparo
che te dal suo furor difenda e copra.
Ma qual grazia or m'inspira e 'l modo chiaro
mi mostra da temprar tuo duro affanno?
E con illustre inganno
farti a quel crudo rimaner di sopra?
Qual destin vuol ch'io per tuo ben lo scopra?
Né perché così pronto a' miei martiri
ti provi, Amor, ciò ti nascondo e taccio;
là come tuo fedel, palese il faccio,
perché tu quinci a tua salute aspiri.
Non ha, se dritto miri,
più bel don da natura umana mente
od arte più possente
a cosa oprar meravigliose e nove,
di quella che le muse al canto move.
Leva questa di terra alto e sublime
nostro intelletto a più beata sorte,
e con soavi scorte
la via gl'insegna onde se n' poggi a Dio;
questa con voci ognor leggiadre e scorte,
vaghi pensier tessendo in versi e 'n rime,
di qual tormento opprime
più l'alma, induce dilettoso oblio;
questa col canto suo frenar s'udio
spesso i fiumi nel corso, e i monti e i sassi
seguaci far di sua rara dolcezza;
questa di morte ancor le leggi sprezza
e ne l'inferno aperta strada fassi.
quinci agli spirti lassi
da le cure del mondo have ristoro
Giove nel sommo coro,
mentre Febo cantando in dolci note
l'armonia tempra a le celesti rote.
Di quei ch'a tal favor degnan le stelle
un solo scegli e tel procaccia amico;
ché del tempo nemico
ei sol darti potrà vittoria e palma.
E lodando i begli occhi e 'l cor pudico,
e gli atti e le parole, e queste e quelle
doti pregiate e belle
di così gloriosa e nobil alma,
farà soggetto a la tua dolce salma
per fama eterna ogni cor empio e duro,
e rinovando andrà le tue faville
sempre negli altrui petti a mille a mille.
E saria pronto ancor con piè sicuro
scender nel regno oscuro
poich'ella fosse estinta, e lieto duce
qua su tornarla in luce:
se non che come sua cara e diletta
per darle ampia corona il ciel l'aspetta.
Ma pria che sovra alcun sentenza cada
ch'a tanta impresa dar debba di piglio,
apra la mente il ciglio,
ed al deliberar spazio consenta.
Perché, s'al ver si mira, ogni consiglio
che prenda frettoloso incerta strada
raro avien che non vada
in precipizio e del su' error si penta.
Quanti ne sono al tuo pensier rammenta:
quei però che t'apriro i petti suoi
e che 'l guardo di tua donna infiamma:
ché chi non arde a l'amorosa fiamma
scema grazia cantando a' pregi tuoi.
Colui s'elegga poi
ch'in amar primo ha più per te sofferto;
né curar ch'altri a merto
di prove e di valor gli vada innanzi,
sol ch'in ciò glorioso ogni altro avanzi.
Scalda ogni fredda lingua ardente voglia,
e di steril fa l'alme feconde;
né mai deriva altronde
soave fiume d'eloquenza rara.
Quinci altri col suo dir ne' petti infonde
allegrezza, timor, speranza e doglia;
e come al vento foglia,
le menti a suo voler volge e prepara.
Ma non si tenga in ria prigione amara
qualunque avrai per sì bel vanto eletto,
né mercé lagrimando indarno chieda:
ch'ingegno in cui gran duol continuo fieda,
par che 'l canto e le rime aggia in dispetto;
e dal gravoso affetto
che respirar nol lascia, oppresso e stanco,
sul cominciar vien manco;
o se descrive pur suo duro scempio,
è di tua crudeltate indegno essempio.
Fa ch'anzi lieto ognor gridando ei chiami
te signor grato e sé felice amante;
e che d'aver si vante
guanto puote venir d'onesto dono.
Volgi pietoso in lui le luci sante,
con cui da morte a vita altrui richiami;
rendi a lui dolci gli ami
ove i cor presi a tanto strazio sono.
Da quel saggio parlar cortese suono
e rinverdirla a più soave frutto:
talché sempre lontan da doglia e lutto
con l'ardor senta il refrigerio insieme.
E ciò fecondo seme
in lui sarà del tuo sperato onore:
ché dolcezza e stupore
versando in cantar lei, sua gran beltate
porterà viva ancor per ogni etate.
Deh t'avess'io, canzon, più ch'altra adorna:
onde tua vista a pien cara e gradita
fosse ad Amor, ch'in que' begli occhi ha vita.
Pur ti rassetta e ripolisci ed orna,
ed a lo specchio torna
finch'ogni macchia tua l'arte corregga;
indi, perch'ei ti vegga,
movi sicura, ove 'l mio cor comprenda:
ch'a suo poeta me destini e prenda.

 
 
 

Il Dittamondo (4-10)

Post n°1006 pubblicato il 09 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO X

Ora passiamo tra popoli barberi, 
bestiali, mostruosi e salvatichi 
quanto le scimmie che stanno tra gli alberi. 
"Qui si convien ch’accortamente pratichi, 
disse Solin, ché ne’ tempi preteriti 5 
ismarriti ci son di ben grammatichi. 
E però fa, ch’andando, chiaro averiti 
per me o per altrui d’ogni tuo torbido, 
se de la gran fatica aspetti meriti". 
"Non dubbiare, diss’io, che sia sí orbido 10 
ch’io scriva cosa, onde non abbia copia 
per te o per autor sentito o morbido; 
ché matto è quel che sí nel cuor s’appropia 
una cosa, che solo a sé vuol credere, 
veggendo che fa male e follia propia". 15 
Qui non fu piú né ’l dimandar né ’l chiedere; 
la strada prese per la nostra Sizia 
su da levante, come dee procedere. 
Noi fummo dove Meotide ospizia 
con la figliuola, che vincea di correre 20 
ciascun, secondo che di lá s’indizia. 
Questo è paese a non voler trascorrere: 
acquoso è molto, ma, dove tu ’l semini, 
frutta sí ben, ch’altrui ne può soccorrere. 
Non lungi qui fu il regno de le femini 25 
che co’ mariti lor negavan vivere, 
salvo ch’al tempo del Toro e del Gemini. 
E se le lor confine deggio scrivere, 
sí l’Europa e l’Asia le dividono, 
che da niuna parte son dilivere. 30 
E con tanta franchezza giá si vidono, 
che Greci e Persi, quando n’han memoria, 
per danno antico e per vergogna stridono. 
Piú secoli regnaro in questa gloria; 
l’ordine loro assai fu bella e strania, 35 
come’ veder si può ’n alcuna storia. 
Di sotto a queste è ’l paese d’Albania, 
dove si truova gente senza novero; 
acerbi, ch’a passarvi è una smania. 
Cosí, seguendo dietro al mio ricovero, 40 
attraversando vidi il fiume d’Ipano 
tal, ch’ogni altro appo lui di lá par povero. 
Lungo ha sí il corso, che quei che s’arripano 
al suo principio, de la fine ignorano; 
ed e converso quei ch’al fin si stipano. 45 
In questa parte gli Auceti dimorano, 
ai quali il fiume pare un gran rimedio: 
navican quello piú che non lavorano. 
Utile è molto in fine a Callipedio, 
dove trova Exampeo, che, nel suo giungere, 50 
di natura il trasforma e fassi tedio. 
"Qui non bisogna ch’io ti debba pungere, 
disse Solin, perché a’ luoghi domestichi 
mille anni ognor ti dee parer di giungere. 
Maraviglia udirai, se tu lo investichi, 55 
de’ Neuri che in lupi si figurano 
la state, e vanno silvani e rubestichi. 
In fin che ’l sole è in Leo, cotali oscurano; 
poi ciascun torna in sua figura ed essere: 
non so il peccato, onde tal pena durano". 60 
"Qui si conviene, a lui diss’io, compessere 
la lingua"; e, se non fossi il testimonio, 
non l’ardirei nei miei versi tessere. 
Tra questi corre il fiume Boristonio, 
abondevol di pesce buono e nobile, 65 
del qual le spine tenerume conio. 
Vidi i Geloni, gente ferma e immobile, 
e queste genti i corpi lor dipingono 
e piú e men com’hanno onore e mobile. 
Qui presso gli Antropofagi si stringono 70 
i quali vivon tanto crudelissimi, 
che d’usar carne umana non s’infingono. 
Qui passai boschi d’animai fierissimi 
che’n fin al mare di Tabi si stendono: 
piú e piú dí penai, sí son lunghissimi. 75 
Qui sono i Seres, che ’n Asia s’intendono, 
onde Solin mi disse: "Buono è volgere 
come a settentrion le strade scendono". 
Le prime genti, che qui seppi sciolgere, 
Calibi e Dachi fun, che senza regola 80 
vivon crudei, né mai li puoi rivolgere. 
Una gente non lungi a lor s’impegola, 
gli Esidoni, sí piena d’ogni vizio, 
ch’a riveder quanto la morte negola. 
Qui fui ed ebbi di ciò vero indizio: 85 
che tanto sono acerbi li Scitauri, 
che squartan l’uom per farne sacrifizio. 
Li Numadi si pascon come tauri; 
li Satarcei, nemici d’avarizia, 
negan l’argento o cosa che s’inauri. 90 
Tutti i diletti e tutta la letizia 
de’ Georgi è quando i campi lavorano 
e che n’abbian ricolta con dovizia. 
Gli Asiati qui presso dimorano: 
costor non han de l’altrui desiderio 95 
né per ricchezza piú fra lor s’onorano. 
Albergo od ospidale o monasterio 
non vi trovai e però nel mio vivere 
usar mi convenia gran magisterio. 
Qui non val saper leggere né scrivere; 100 
né qui per cenno alcun ti sanno intendere; 
quivi non giova aver fiorin né livere,
onde a’ bisogni tuoi li possi spendere.

 
 
 
 
 

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