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Messaggi del 11/01/2015

Rime di Celio Magno (109)

Post n°1038 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

109

Ove, o Roma, son or l'altere imprese,
fonti de la tua gloria? Ove il fecondo
seme, da cui fiorian quei degni eroi?
ov'è l'invitto tuo valor che stese
l'imperio e 'l grido, sì ch'un solo mondo
spazio angusto sembrava a' merti tuoi?
Quando Pallade e Febo ancor de' suoi
fregi il tuo nome ornò famoso e chiaro,
ambo in farti felice emuli a Marte?
Tutte ha già rotte e sparte
le tue pompe e corone il tempo avaro.
Onde, se qual tu fosti io guardo, m'empi
di meraviglia e di pietade il petto;
e le reliquie tue divoto inchino.
Tu dunque, mentre il tuo pregio divino
m'infiamma il cor, gradisci il pronto affetto;
né sdegnar che mia musa a' nostri tempi
rinovi alcun de' tuoi più cari essempi:
perch'altri preso a così nobil esca
per l'orme loro il proprio vanto accresca.
Scorgo sopra il destrier col ferro ignudo
il magnanimo Cocle in mezzo il ponte
corso a impedir de l'arme ostili il varco;
che di sé fatto a la sua patria scudo
sostenne a pugna con ardita fronte
di tutta Etruria ei sol l'impeto e 'l carco.
Poi, tronco il passo e d'ogni tema scarco,
saltò ne l'onde, e sparse al grave peso
d'acqua e vergogna a' suoi nemici il volto;
e fu dal Tebro accolto
quasi Marte dal cielo a lui disceso,
ch'espresse il suo stupor con tali accenti:
— Da che quest'urna io verso, atto più degno
del tuo giamai non vidi in altro figlio.
E mostri ben che sicurtà il periglio
tiensi e s'ha per l'onor la vita a sdegno
ove i cor sono al ben commune ardenti.
Fa dubbi il tuo valor gli occhi e le menti
se quel che scopre a noi sì chiaro lume
sia d'uom terreno o di celeste nume. —
Splende poscia al pensier quel petto forte
ch'ignoto entrò fra mille armate schiere;
ei sol, per torre al tosco re la vita.
Vano fe' 'l bel desio contraria sorte,
non già 'l valor; ch'in aspre fiamme e fere
arse la man, del non suo error punita.
E con voce dicea, libera, ardita:
— Scorgasi in questa destra il cor romano,
e 'l vivo ardor di gloria in questo foco;
ch'ivi aver non pò loco
tema. — E Roma additò con l'altra mano.
— Ivi ognun scherza de la morte al passo,
com'io, benché di lor men degno assai;
e sorgon più quanto più 'l ciel gli preme.
Conosci dunque, o re, che con la speme
del vincer noi tu merchi i propri guai. —
Sembrar tutti a quel dir d'immobil sasso,
e 'l dio guerrier, dal ciel mirando a basso,
con la vampa e la pena in lei sofferta
gradì la mano in sacrificio offerta.
Quell'altro, anch'ei da spron d'amor sospinto
del patrio nido, col destrier feroce
si lancia entro a l'oscura, ampia caverna,
lieto ch'a l'alto precipizio accinto
si mostri più d'ogni un pronto e veloce,
perch'indi sorga poi sua fama eterna.
Visto Pluton ne la sua sede inferna
scender l'eroe, de l'antic'onta esperto
teme un novo Teseo, ch'ivi a far preda
di Proserpina rieda,
fer trarla un'altra volta a l'aere aperto.
Ma s'assicura poi, ch'altra, d'onore,
brama l'ha scorto per l'orrendo speco.
Da te, Curzio, da te s'impari il vanto
di sprezzar morte, e 'l falso, oscuro manto
squarciar che 'l ver contende al senso cieco;
che di tua sacra bocca odo uscir fuore:
— Chi per la patria more, unqua non more. —
Però più ch'altro grido, il tuo rimbomba,
né fu mai de la tua più nobil tomba.
Ma quanto è poi del chiaro spirto il pregio
ch'a sua povera mensa i doni e l'oro
de' Sanniti rifiuta e in sé ne ride?
Stimò ch'ogni ricchezza e splendor regio
cedesse di virtute al bel tesoro,
che spesso manca ove fortuna arride.
Raro avarizia con onor si vide:
ch'ella ogni bel desio da sé discaccia,
provando in mezzo l'acque eterna sete.
Sovrana laude miete
chi la patria arricchir, non sé, procaccia;
onde il buon Curio allor così rispose:
— Dite al re vostro ch'a me il ferro splende
via più che l'oro; e ch'io, nel vincer uso,
per non rimaner vinto, il don ricuso:
che s'altri esca non cura, amo nol prende. —
Oh come in breve detto agli occhi espose
di povertà l'alte ricchezze ascose!
Ama natura il poco; e in lui sol giace
vera de l'alma libertate e pace.
Ecco offrirsi non meno a la mia vista,
del bel poggio d'onor salito in cima,
quel ch'a terra spianò l'alta Cartago;
che tra le sue più ricche prede vista
nobil vergine e bella oltr'ogni stima,
ei sul fior de' verd'anni e di lei vago
ma del mirarla sol contento e pago,
al suo sposo insperata in don la porse,
giunto al dono il tesor di queste note:
— Forza d'amor non puote
contra fermezza di virtute opporse.
gloria è 'l vincer altrui, ma più se stesso,
e biasmo in noi del senso vil l'impero
ch'asconde aspro veleno in dolce frutto. —
Ceda pur Giove a Scipio il pregio tutto
de le su' imprese; che dal nudo arciero
ei fu ben mille volte al giogo messo;
questi, l'alto poter d'Amor depresso,
in vendetta d'ogn'un tratto in catena
dinanzi al carro trionfando il mena.
In sì fertil terren, quasi rampolli
di vario frutto in un medesmo stelo,
sorser altre felici e nobil alme.
Per le cui lingue e penne i sette colli
con vanto non minor s'alzaro al cielo,
ricchi d'altre corone e d'altre palme.
Quinci la patria sua di gravi salme
sgombra il gran Tullio, e fa ch'ella non cada;
e co' più forti duci orando giostra:
ché la toga esser mostra
in bel campo d'onor pari a la spada.
Arma l'una il parlar, l'altra la forza,
di ferir e schermir ciascuna scaltra;
quella assalta a silenzio, a tromba questa,
sotto insegne di morte o vita onesta;
gli animi l'una vince, i corpi l'altra;
e 'l mondo il ferro, e 'l ciel la lingua sforza.
Così 'l suo lume addoppia e gli altri ammorza
l'alma figlia di Marte; e sovra Atene,
giudice ancor Minerva, il pregio ottiene.
O de' suoi figli a pien felice madre,
se del regnar le troppo ingorde voglie
tener sapea con man più parca a freno!
Che poi che 'l mondo a le sue invitte squadre
cesse l'imperio, e fu d'antiche spoglie
senza nov'oste il Campidoglio pieno,
languì virtute a lasciv'ozio in seno,
tra pompe e fasti di superbia folle
ch'ogn'alto stato al fin crollando atterra:
più fero il ciel fa guerra
a torre che più in aere il capo estolle.
Un altro mal sua libertà disperse:
che Megera infernal ne l'alme erranti
empio furor di civil odio impresse;
onde ognun, di pietà le leggi oppresse,
stimò sua gioia de la patria i pianti;
e col ferro crudel, ch'in lei converse,
di sangue un fiume nel bel petto aperse.
così ruina a lei dal salir nacque,
e di sua propria mano estinta giacque.
Tu, tu, Vinezia mia più saggia t'armi
di schermo tal che vivi ognor secura
da queste due mortali orride pesti.
Fu dritta mira ognor di tue fort'armi
pace, e non guerra; e sol regna in te cura
d'egual concordia infra desir modesti.
Quinci tu sola oltra mill'anni resti
e duo secoli ancor, vergine invitta
in regal manto e venerabil seggio;
quinci a' tuoi lauri io veggio
del saper e del dir la palma ascritta.
Sei tu di libertà verace nido,
a le tempeste altrui fidato porto,
gloria del mar, del ciel diletta figlia.
Onde può dir chi drizza al ver le ciglia
che l'occaso di quella aperse l'orto
de la tua luce, e in te sorse il suo grido;
e che l'eterno re dentro al tuo lido
tutto il più bel degli altri imperi accolse
quando ornar de' tuoi raggi il mondo volse.
Canzon, mentre ch'ammiro or questa or quella,
quasi novo Elitropio a doppio sole,
dubbio, non so qual più m'abbagli e splenda.
Par che l'una da l'altra essempio prenda,
e ch'or prima, or seconda al ciel se n' vole
sovra ogn'uman pensiero altera e bella.
Ma se tropp'erto è 'l segno e scarsa stella
contende il lauro a la mia nuda chioma,
tacito adorerò Vinezia e Roma.

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 09

Post n°1037 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

IX
Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità

Se la inquisizione della verità fra i tormenti è per se medesima feroce, se ella naturalmente funesta la immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non pervertito spontaneamente inclinerebbe a proscriverla e detestarla; nondimeno un illuminato cittadino preme e soffoca questo isolato raccapriccio e contrapponendo ai mali, dai quali viene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne risulta dalla scoperta della verità nei delitti, trova bilanciato a larga mano il male di uno colla tranquillità di mille. Questo debb'essere il sentimento di ciascuno, che, nel distribuire i sensi di umanità, non faccia l'ingiusto riparto di darla tutta per compassionare i cittadini sospetti, e niente per il maggior numero de' cittadini innocenti. Questa è la seconda ragione, alla quale si cerca di appoggiare la tortura da chi ne sostiene al giorno d'oggi l'usanza come benefica ed opportuna, anzi necessaria alla salvezza dello stato.
Ma i sostenitori della tortura con questo ragionamento peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti proposizioni:
I - Che i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità.
II - Che la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità.
III - Che quand'anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.
Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, comincierò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di raro accade, che de' rei robusti e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare se medesimi. In questi casi, che non sono né rari né immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori, che ho di sopra fatti conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero da più d'un secolo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si dichiararono rei di un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità? Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti. Veggasi lo stesso Claro, il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si confessarono rei dell'omicidio d'un nobile e furono condannati a morte, sebbene poi alcuni anni dopo sia comparso il supposto ucciso, che attestò non essere mai stato insultato da' condannati. Veggasi il Muratori ne' suoi Annali d'Italia, ove parlando della morte del Delfino così dice: «Ne fu imputato il conte Sebastiano Montecuccoli suo coppiere, onorato gentiluomo di Modena, a cui di complessione dilicatissima... colla forza d'incredibili tormenti fu estorta la falsa confessione della morte procurata a quel principe ad istigazione di Antonio de Leva e dell'imperatore stesso, perloché venne poi condannato l'innocente cavaliere ad una orribile morte». Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna.
Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Quale è il sentimento che nasce nell'uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lo strazio, tanto più sarà violento il desiderio e l'impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo, col quale un uomo torturato può accelerare il termine dello spasimo? Coll'asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato è innocente: e il torturato innocente è spinto egualrnente come il reo ad accusare se stesso del delitto. Dunque i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma bensì un mezzo che spinge l'uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia egli, ovvero non lo abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi per essere una perfetta dimostrazione.
Sulla faccia di un uomo abbandonato allo stato suo natura delle sensazioni si può facilmente conoscere la serenità della innocenza, ovvero il turbamento del rimorso. La placida sicurezza, la voce tranquilla, la facilità di sciogliere le obbiezioni nell'esame possono far ravvisare talvolta l'uomo innocente; e così il cupo turbamento, il tono alterato della voce, la stravaganza, l'inviluppo delle risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi sieno posti, un reo e un innocente fra gli spasimi, fra le estreme convulsioni della tortura; queste dilicate differenze si eclissano; la smania, la disperazione, l'orrore si dipingono egualmente su di ambi i volti, gemono egualmente, e in vece di distinguere la verità, se ne confondono crudelmente tutte le apparenze.
Un assassino di strada avvezzo a una vita dura e selvaggia, robusto di corpo e incallito agli orrori resta sospeso alla torura, e con animo deciso sempre rivolge in mente l'estremo supplizio che si procura cedendo al dolore attuale; riflette che la sofferenza di quello spasimo gli procurerà la vita, e che cedendo all'impazienza va ad un patibolo; dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la tortura. Un povero cittadino avvezzo a una vita più molle, che non si è addomesticato agli orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibra sensibile tutta si scuote, un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio: si eviti il male imminente, questo pesa insopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore; questo è quello che gli suggerisce l'angoscia estrema in cui si trova avvolto, e si accusa di un non commesso delitto. Tali sono e debbono essere gli effetti dello spasimo sopra i due diversi uomini. Pare con ciò concludentemente dimostrato, che la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità, ma è un invito ad accusarsi reo egualmente il reo che l'innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla.

 
 
 

Il Dittamondo (4-19)

Post n°1036 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XIX

Pur sempre andando, mi disse Solino:
"Ben so che sai sí come Ilderico
perdeo il regno e tolselo Pipino;

e però lascio, ché qui non tel dico; 
ma io ti conterò, ché nol sai forsi, 5 
come Dio rende dattaro per fico. 
Giá n’eran sei de’ Caroli trascorsi, 
quando Ruberto venne maggiordomo 
con far tra quelli de’ giochi degli orsi. 
Morto Ruberto, il figliuol, ch’Ugo nomo, 10 
tenne l’ufficio e a Lodovico Balbo 
fe’ di gran mali, ma non dico como; 
dopo questo Ugo, il figliuol crudo e scialbo, 
nomato Ugo Ciapetta, ch’al suo padre 
donato avrebbe a ciascun male il calbo. 15 
Con le parole lusinghiere e ladre 
trasse a sé alcuno di quelli del regno 
e con promesse assai false e bugiadre; 
e tanto fece a ’nganno e con ingegno, 
che sopra Carlo, ch’era suo signore, 20 
trattò la morte, onde non era degno. 
O potenza di Dio, o Sommo Amore, 
che fai, u’ miri, ov’è la tua giustizia? 
Ché la terra non s’apre a tal dolore? 
Costui di notte, ove sicuro ospizia, 25 
prese lo suo signor con due suoi figli, 
li quai fe’ poi morire a gran tristizia. 
Cosí il tiranno, dopo piú consigli, 
si ridusse a le man la signoria 
e l’arme sua lassò e prese i gigli. 30 
E, poi ch’ebbe del tutto la balia, 
non pur si tenne al primo mal, ma quanti 
trovò di quelli uccise e sperse via. 
Morto costui, che fece mal cotanti, 
rimase il regno al suo figliuol Ruberto, 35 
pietoso a Dio e divoto a’ suoi santi. 
E, secondo ch’udio, dico per certo 
ch’ei fu sottile e di scienza pieno 
e ne’ fatti del mondo assai esperto. 
E poi che in tutto, al mondo, venne meno, 40 
Arrigo seguí poi, che ’l regno tenne 
e ben guidar lo seppe col suo freno. 
Apresso di costui signor ne venne 
Filippo primo, di cui ancor si disse 
ch’assai il regno ben li si convenne. 45 
Lodovico, il figliuol, dopo lui visse, 
lo qual, vivendo, il suo figliuol fe’ re, 
perché guidasse il regno, s’ei morisse. 
Oh quanto è folle qualunque pon fé 
ne le cose del mondo e che si crede 
che vadan come va il pensier fra sé! 
Il padre, che sperava e avea fede 
che rimanesse dopo lui il figliuolo, 
morto cader se ’l vide giú tra’ piede. 
E odi come e se questo fu duolo: 55 
ché, cavalcando, un porco l’attraversa, 
onde cadde e morio in un punto solo. 
Dopo tanta sventura e sí diversa, 
morio il padre e Ludovico il sesto 
reda rimase e nel regno conversa. 60 
E secondo ch’ancor m’è manifesto, 
Filippo terzo tenne dopo lui 
l’onor con vita cortese e onesto. 
Un altro Ludovico di costui 
nacque, che ’l regno governò apresso: 65 
sí forte fu, che ne fe’ dire altrui. 
Ma nota quel ch’a dir ti vegno adesso: 
costui lasciò quel Ludovico reda, 
che ’n catalogo tra’ Santi fu messo. 
Costui ebbe un fratel, che si correda 70 
del regno di Cicilia: io dico Carlo, 
che fe’ di Curradino ingiusta sceda. 
Ora, di questa schiatta, ch’io ti parlo, 
Filippo quarto apresso seguio, 
che ’l regno tenne e ben seppe guardarlo. 75 
Filippo pestifer nomare udio 
lo quinto apresso e, s’io non sono errato, 
superbo fu, malizioso e rio. 
Micidi fece assai lo scelerato 
e sua fattura fu che Bonifazio 80 
papa fu preso e poi incarcerato. 
Trenta anni tenne il regno e questo spazio; 
né in tutto quel tempo di mal fare, 
secondo il dire altrui, si vide sazio. 
Al fine, essendo in un bosco a cacciare 85 
e trovandosi a solo a sol col porco, 
morto il caval, li convenne smontare; 
e quella fiera, acerba piú d’un orco, 
li corse addosso e con la lunga sanna 
lo gittò morto a traverso del sorco. 90 
Ludovico il figliuol, cui il tosco danna, 
tenne la signoria da diece mesi: 
e ciò fu degno, s’alcun non m’inganna. 
Filippo sesto, secondo ch’io intesi, 
dopo costui il paese governa; 95 
ma poco funno i suoi fatti palesi. 
E perché il ver per te chiaro si cerna, 
morto Filippo, Carlo apresso fue, 
che da cinque anni nel reame verna. 
Costui si fu fratel degli altri due 100 
e figliuol di Filippo acerbo e crudo: 
e qui finîr tutte le rede sue.
Venuti meno quei di questo scudo,
Filippo di Valos seguí da poi
e Giovanni il figliuol, del qual conchiudo 105
che con gran guerra tiene il regno ancoi".
 
 
 

Rime di Celio Magno (101-108)

Post n°1035 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

101

Al serenissimo prencipe di Venezia etcetera il signor Marino Grimani

O di questa del mar reina altera
prencipe, figlio e padre amato e caro,
serenissimo ciel, dove un sol chiaro
splende ognor di virtute e gloria vera;

chi non adora in te l'alta e sincera
mente, del commun ben guida e riparo?
chi mai spirto di te più degno e raro
nel tuo seggio sublime o vide o spera?

Tu di pregio sovran, non pur conforme,
al sommo grado; e co' tuoi desti lumi,
più che co' propri, ognun sicuro dorme.

Cedano al tuo splendor gli antichi lumi;
e dopo lunga via per felici orme
t'accoglia il ciel fra suoi beati numi.

102

Nella creazione in Procurator di San Marco dell'illustrissimo signor Giacomo Foscarini cavalier

Fosti pria da virtù, fosti da chiaro
grido ov'or t'alza tua patria eletto;
e 'l publico dei cor gioioso affetto
l'onor raddoppia e 'l fa più dolce e caro.

Tu di nobil suo figlio essempio raro,
d'ogni bontà, d'ogni valor ricetto;
tu con l'opra e 'l consiglio e 'l franco petto
guida al suo ben, sicuro al mal riparo.

Cortese don da giusta man prendesti,
e se 'l grado t'illustra, a lui non meno
lo splendor tu de la tua gloria presti.

Ma qual fregio esser può ch'adorni a pieno
tua degna chioma? E quando è che non resti
scarso a merto divin premio terreno?

103

All'illustrissimo signor Zaccaria Contarini cavalier

Qual del mio genitor l'antica fede
sì cara a' tuoi grand'avi in me deriva,
tal la grazia ver lui ch'in lor fioriva
tu serbi verde in te, lor degno erede.

Se l'un mi fura il ciel, l'altro succede
a mio ristoro, e 'l morto padre avviva;
ma tua pietà, signor, ver me sì viva,
de' tuoi l'essempio e di tutt'altri eccede.

Nobilissimo ardor d'alma gentile,
natia virtù de la tua chiara prole,
a l'uom giovando farsi a Dio simìle;

io, poich'altro non posso e 'l cor se n' dole,
t'adoro: e prego t'apra oltr'ogni stile
felici gli anni in lungo corso il sole.

104

All'illustrissimo signor Leonardo Donato, cavalier, procurator

Occhi aver sempre al ben commune intenti,
orecchie al dritto amiche, al torto sorde,
lingua che 'l ver con l'eloquenzia accorde,
mani in ogni opra lor pure, innocenti,

piè per la patria mai non stanchi o lenti,
cor ch'unqua dal ben far non sia discorde,
senso che viva a la ragion concorde
o, rubello, assalirla indarno tenti,

mente ch'a Dio per umiltà sublime
s'erga e, del suo voler cercando ogni orma,
a par di lui tutt'altro un'ombra stime.

Questa di bear l'uom sicura norma,
Donato, a noi tua degna vita esprime;
e te specchio d'onor nel mondo forma.

105

All'illustrissimo signor Paolo Tiepolo, cavalier, procurator, in ringraziamento di cortesissime lodi dategli orando in Senato

Qual era io più non son; tu mi trasformi
pur in sorte, signor, via più gradita,
mentre ad amarmi cortesia t'invita
e d'umil pregio in me gran lode formi.

Ponno i rai del tuo lume, al sol conformi,
le tenebre illustrar de la mia vita;
può di tua voce sol benigna aita
sollevarmi da terra e 'n ciel ripormi.

Dunque mio più non son; da te derivo,
feconda d'ogni onor nobil radice;
ché, s'in me langue il merto, in te l'avvivo.

E, se non che di forze il ciel m'ha privo
a tanto alto dever, n'andrei felice:
nel tuo favor, più ch'in me stesso, vivo.

106

Nel ritorno a Venezia dell'illustrissimo signor Luigi Grimani dall'ultimo carico di Proveditor Generale dello Stato di terraferma

Pur al fin torni, e 'l tuo bramato aspetto
rendi a la patria: che festosa e lieta
oltra i chiari trofei d'Illirio e Creta
questo ancor t'ha del novo imperio eretto.

Gode ella in sé che dal tuo nobil petto
frutti ognor più fecondi e dolci mieta,
mentre te n' corri a gloriosa meta
dietro al tuo ben con sì fervente affetto.

Compagna a te ne vien celebre fama
d'alto valor, che risonar d'intorno
i liti da del tuo gradito nome.

E fra lo stuol ch'onor apprezza ed ama,
a te virtute in bel trionfo adorno
del suo lauro felice orna le chiome.

107

All'illustrissimo signor Alberto Badoaro cavalier

Fedel servo divoto i miei verd'anni
per la patria ho già spesi, or bianco il pelo;
e scorto ognor da puro ardente zelo,
stimai dolci i travagli, utili i danni.

Supplice or vegno a quei sublimi scanni
dove te per mio ben ripose il cielo;
e da spirti divini in mortal velo
chiedo il ristoro omai di tanti affanni.

Tu, che del viver mio speme e conforto
Fosti in ogni fortuna, onde il tuo merto
ne l'alma impresso eternamente io porto:

Spira al mio debil legno in mare incerto
l'aura del tuo favor; che giunto in porto,
sarà 'l mio voto a la tua gloria offerto.

108

Eletto secretario dell'eccelso Consiglio di X

Ne le tenebre mie l'alma sua luce
principe a par del sol chiaro comparte,
con sì benigni rai che d'ogni parte
sembianza in lui del sommo sol riluce.

L'un e l'altro a seguir virtù m'è duce
col lume di sue glorie al mondo sparte;
e d'onor frutti, quasi in steril parte
fatta da lor feconda, in me produce.

Ch'ove i miei prieghi son di merto voti,
degni li rende a pien grazia e favore
che piove in me da lor bontade immensa;

han ambo entro 'l mio petto altari e voti,
dove eterna di fé lampada accensa
lor serbo, e porgo in sacrificio il core.

 
 
 
 
 

Rime di Celio Magno (99-100)

Post n°1033 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

99

In morte del clarissimo signor Domenico Veniero

Pien di lagrime gli occhi e 'l cor di doglia,
avara, invida tomba, a te ritorno
che del saggio Venier l'ossa rinchiudi,
per rinovar nel suo funesto giorno
debite essequie a l'onorata spoglia
fra pensier di sua morte acerbi e crudi.
Qui Febo e 'l coro suo tutti i lor studi
pongano in celebrar l'amato nome,
fatta di sé corona al mesto sasso;
qui di letizia casso
il lauro sfrondi le sue verdi chiome;
qui Venere e le Grazie e degna schiera
di sacri spirti ad un pianga e si lagni,
e in lodar lui la propria lingua onori.
Vestasi il ciel, sì come i nostri cori,
d'oscuro velo, e 'l mio pianto accompagni;
pianga il figlio diletto in benda nera
questa d'Adria gentil reina altera:
e 'l suon di così giusti, aspri lamenti
portin pietosi in ogni parte i venti.
Giunt'era ei già con gli anni a quella etate
che più maturi e più perfetti rende
de l'alme nostre in questa vita i frutti,
quando più la ragion de' sensi prende
l'imperio, e gode in propria libertate
de' suoi desiri al vero ben ridutti;
e colmo qui fra noi se n' gia di tutti
quei doni onde virtù beato uom face
e di quanti bei fregi ornan la mente.
Cor di bontate ardente,
di Natura e di Dio fedel seguace;
sublime ingegno, ti cui felice volo
dovunque giunger brama ha facil varco,
tanto umil più, quanto più in alto sale;
nobil costume a cui d'onor sol cale,
d'ogni men degna e bassa voglia scarco;
senno e valor nel mondo o raro o solo
e di bell'opre un glorioso stuolo:
furon doti di lui ricche e superbe;
or con lui spente, a noi son piaghe acerbe.
scorgeasi fuor dal suo benigno aspetto
un vivo raggio del bel lume interno
che d'amor riverente i cori empia;
e da la dotta lingua un fiume eterno
d'alta eloquenza e di saper perfetto,
che rendea sazia l'altrui sete, uscia.
Gentilezza, modestia e cortesia
eran fide compagne al caro fianco:
che non avean più dolce albergo altrove.
Quando fia ch'uom si trove
di giovar più bramoso e meno stanco?
Ben sapea che per farsi a Dio simìle
non tenta studio uman via più sicura,
né che di questa più l'innalzi al cielo;
ma ver la cara patria arse di zelo
tal, che sembra di ghiaccio ogn'altra cura,
tutto a lei dopo Dio divoto umìle.
O sol di scettro degna alma gentile
e ch'aprissero a lei per gloria loro
la terra e 'l mar tutte le gemme e l'oro!
Chi poi spiegar poria le lodi a pieno
de' dolci carmi suoi senza il soccorso
de la medesma sua famosa lira?
Nacque in grembo a le Muse; e prese il corso
là 've Parnaso il proprio aspetto ameno
nel chiaro specchio del suo fonte mira;
e giunto al colmo, ov'altri indarno aspira,
de l'onde sacre ebbe; e lieto il lauro
piegò suoi rami in premio al degno crine.
Poi di lui le divine
rime Febo raccolse, alto tesauro:
le quai, se per temprar il duol talora
di sua perdita amara o legge o canta,
via più 'l cor turba e 'l sen di pianto bagna.
Né men tristo ad ogn'or per lui si lagna
che già per quei più chiari, ond'ei si vanta,
e che più 'l suo bel colle e 'l mondo onora.
Questo don, per cui sol mirabil fora
il pregio suo, può dirsi un raggio in lui
che fu sì chiaro sole agli occhi altrui.
E benché a' piedi infermi: aspra, importuna
doglia la notte e i dì facesse oltraggio,
che per tant'anni in cruda guerra il tenne,
non però cesse il franco animo e saggio
a l'iniquo furor di ria fortuna:
anzi più chiaro il suo valor divenne.
Tal fertil pianta, a cui dura bipenne
la scorza incida o tronchi intorno i rami,
più vigor prende e si rinova e cresce;
ché 'l danno util riesce
in cor che sol virtute apprezzi ed ami.
Pigra, inerme chiamar vita si deve
che senza oprar l'interne forze passi
contra quel che combatte i sensi e l'alma;
né s'agguagli alcun'altra a quella palma
che 'l dolor che le membra e 'l cor trapassi,
soffrendo vince, e frutto indi riceve.
Così fe' 'l peso intolerabil leve,
l'invitto spirto; e sovra i forti eroi
chiuse con doppia gloria i giorni suoi.
Però d'ogni virtù lucente e puro
specchio non sol tra noi vivendo apparse,
ma fuor lungi diffuse altrove il lume;
tal che 'l suo nome in ogni clima sparse
la Fama, né da lei spiegate furo
per alcun mai più volentier le piume.
E quasi il tempio in cui d'Apollo il nume
riverì Delo era il suo proprio nido:
ove stuol suo divoto ognor concorse,
che stupido in lui scorse
per prova il vero assai maggior del grido.
Ivi fioria non men ch'in Elicona
coro gentil di saggi, eletti spirti,
d'ogni valor, d'ogni bel vanto amici;
ivi assai più ch'altrove i dì felici
menava Febo, e di lauri e di mirti
per man di lui porgeva ai crin corona;
e mentre del lor canto il ciel risuona,
Nettuno, allor che più fremean le sponde,
quetava per udirlo i venti e l'onde.
Giace or estinto; e qual rifugio o scudo
trovar, lasso, io potrò contra l'assalto
del duol che 'l cor m'opprime insano e cieco?
Ma poiché 'l mio valor non va tant'alto,
vivrò di pace e di conforto ignudo,
spento chi di mia speme il meglio ha seco.
Quanto ben, quanta gioia allor fu meco
mentre in terra albergasti, alma felice!
Quanto più chiari il sol m'aperse i rai!
E me stesso pregiai
ne la tua grazia, mia vera beatrice;
né di cotanto onor mi fece degno
altro più che mia fede: in cui scorgesti
voler che mai dal tuo non torse il ciglio.
Tu la voce, la man, l'opra e 'l consiglio
pronti al mio ben, più ch'al tuo proprio, avesti,
dolce di mia fortuna alto sostegno;
tu fido lume al mio debile ingegno;
tu mio ricco ornamento: ed è tuo dono
quel ch'io so, quel ch'io vaglio e quel ch'io sono.
Ahi cruda morte e ria, quanto in un punto
Prezioso tesoro al vento hai sparso!
Che più di caro a me nel mondo avanza?
Ahi, come il ciel di quel che dona è scarso,
e poco dolce a molto amaro è giunto!
Come ha 'l dolor vicin nostra speranza!
Misera umana vita, oscura stanza
di pena e pianto; in cui se pur riluce
qualche raggio di ben ch'appaghi il core,
è sol per far maggiore
il mal, ché doppio poi tormento adduce.
Ma se spogliato di tutt'altro io vivo,
tor già non mi potrà l' empio destino
ch'ad onta e scorno de' suoi colpi acerbi
dentro il mio petto in mezzo 'l cor non serbi
l'amato nome, il suo valor divino
e 'l foco di mia fé più sempre vivo.
E quando anco i' sarò di spirto privo,
sfavillerà di grato affetto e pio
verso la sua memoria il cener mio.
Or tu dal ciel dove beata siedi,
anima eletta, i miei sospiri ascolta,
e fra lor gli onor tuoi sparsi e confusi.
E se la lingua a celebrarti volta
lungi è dal merto ond'ogni segno eccedi,
pronto voler la debil forza iscusi.
Né qual poveri sian miei versi esclusi:
Ch'adorna ancora il ciel minuta stella,
né sdegna i picciol rii l'immenso mare.
Tu, Febo, tu fa chiare
l'alte sue lodi, e tu, pregiata e bella
schiera che qui col mio mesci il tuo pianto,
fate illustre vendetta incontra morte
del colpo reo che 'l cor tanto v'offese.
E com'ei tutto ad onorarvi intese,
così lauro più bel non si riporte
tra voi che per cantar suo nobil vanto:
e risuoni il suo nome in ogni canto
finché d'intorno a la terrena mole
avrà girando e corso e luce il sole.
Ecco Febo, canzon, che del su' alloro
corona sceglie e 'l bel sepolcro n'orna;
e le compagne dee spiegando il grembo
versan sul marmo un odorato nembo
di quanti fiori è primavera adorna;
segui l'essempio e tu del sacro coro:
ch'io de l'ossa in onor ch'amo ed adoro
verserò qui da l'aspre piaghe interne,
quasi sangue del cor, lagrime eterne.

100

In morte dell'illustrissimo signor Paolo Paruta, cavalier, procurator

Piangi, s'ami virtute, e inchina il sasso:
qui giace il gran Paruta, ed in lui forse
figlio più degno il sen d'Adria non scorse,
né fu di maggior lume orbato e casso.

Mai de la patria in pro non sazio o lasso,
vinse al merto ogni onor ch'ella gli porse;
e volando al sovran, morte il precorse,
ch'a lui chiuse anzi tempo invida il passo.

Ma tempri il duol che quant'ei visse dirsi
poteo felice; e 'n suoi purgati inchiostri
vivrà sempre di lui l'effigie interna.

E lo spirto divin ne' sommi chiostri
vede or beato a la sua pace unirsi,
godendo in terra e 'n ciel la gloria eterna.

 
 
 

Il Dittamondo (4-18)

Post n°1032 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XVIII

Soli rimasi, la mia guida e io
passammo dentro a la nobil cittade,
dove piú dí soddisfeci al disio. 

Cercato e visto ogni sua dignitade, 
dico per certo che quante ne sono 5 
in Europia vince di bontade. 
Qui le scienze con lor dolce sono 
per tutto, le divine e le morali, 
la notte e ’l dí udir cantar si pono. 
Qui sono i bei costumi e naturali 10 
quanto ad Atenes mai, quando fu donna 
di filosofi e d’arti liberali. 
Questa dir puossi sostegno e colonna 
di ciascun che va lá e vuol far bene 
e, ne’ bisogni suoi, verace alonna. 15 
Cosí ricchezza e quanto si convene 
a la vita de l’uomo lá si trova 
e con viva giustizia si mantene. 
Veduto quivi ogni cosa nova, 
"Buono è d’altro pensar, mi disse, omai, 20 
Solin, ché ’l dimorar piú qui non giova". 
E io a lui: "Ben di’; ma, se tu vai, 
non perder tempo, ma de’ re di Francia 
mi di’ il principio e la fine, se ’l sai". 
Ed ello, andando: "Volgi in qua la guancia 25 
e ’l mio breve parlar, sí come il dico, 
dentro a la mente tua pensa e bilancia. 
Tu dèi sapere che in quel tempo antico 
ch’arsa fu Troia e che al mondo i Troiani 
per tutto germogliâr come ’l panico, 30 
due si partiro d’alto cuor sovrani, 
nipoti del re Priamo, e con gran gente 
piú paesi cercâr diversi e strani. 
Turco fu l’uno, pel quale al presente 
Turchia è detta e sí com’io il confesso 35 
per molti autori questo si consente. 
Francio, o vuo’ dir Priamo, l’altro apresso 
al fin d’Europa, sopra il quarto seno, 
Sicambria fece, poi che lá fu messo. 
Apresso in Germania, di sopra il Reno, 40 
Franconia nominò un gran paese: 
ben lo vedesti di ricchezza pieno. 
E tanto l’ali sue aperse e stese, 
che ’n fino qui a Parigi, ove siam ora, 
Francia per lui nominar s’intese. 45 
Bene è alcun che vuol dir che Franchi ancora 
fosson nomati da Valentiniano, 
pe’ gran servigi che li fenno allora. 
Di questo Francio o Priamo, che ti spiano, 
discese Marcomir, del qual poi nacque 50 
Ferramonte, a cui il suo rimase in mano. 
Apresso, Meroveo a’ suoi sí piacque, 
che fun contenti di chiamarlo re: 
e cosí il nome del ducato tacque. 
Del nome suo Meroveo si fe’ 55 
nova prosapia, ch’apresso seguio 
per aver lunga fama dopo sé. 
Childerico fu poi, del quale udio 
che fe’ Basino di Basina tristo, 
che Clodoveo apresso parturio. 60 
Or questo Clodoveo, nato d’acquisto, 
fu ’l primo re, che prendesse battesimo, 
di Francia, per l’amor di Gesú Cristo. 
E secondo ch’i’ udio, e ’n fra me esimo, 
cinquanta volte diece o alcun piue 65 
correano gli anni allor del cristianesimo. 
Per quattro suoi figliuoi partito fue 
il regno poi; ma questo lascio stare, 
ché troppo andrebbe il mio parlare in sue. 
Al tempo d’Eraclio imperador mi pare 70 
che Clotario di Francia tenea il regno, 
dove il primo Pipin venne a montare. 
Da nove re apresso ti disegno 
che funno in fine a Ilderico, il quale 
l’ultimo fu: e questo parve degno. 75 
Pipin Breve fu quel che prima sale, 
sí come udisti dir lá, dov’io era, 
a quell’antica che piangea il suo male. 
Venuto men lo stoppino e la cera 
e spento il lume de la prima schiatta, 80 
i Caroli montâr dove quella era. 
O mondana speranza sciocca e matta, 
ch’ognor ne’ beni temporal ti fidi, 
guarda come si gira e si baratta! 
I Merovinghi, che fun di gran gridi, 85 
qui venner meno e i Caroli montaro 
dov’eran questi e tennero i lor nidi. 
Vero è che con piú fama e con piú chiaro 
nome fu la seconda che la prima, 
imperò che lo ’mperio governaro. 90 
E se di tal prosapia scrivi in rima, 
dir puoi com’essa uscí di Germania 
e che del troian sangue si dilima. 
Anchise, Arnolfo e Pipin fun che pria 
vennero in Francia e qui, per lor sapere, 
preson del maggiordomo la balia. 
E puoi ancora, se cerchi, vedere 
come Pipino Magno e Grimoaldo 
dirieto a’ primi fun di gran podere. 
Ansoigio, che fu sicuro e baldo, 100 
e Pipin Grosso seguitâr costoro, 
tenendo ognor l’ufficio fermo e saldo. 
Grimoaldo secondo apresso loro 
tenne il governo e poi il fratello, 
che piú d’alcun de’ primi qui onoro. 105 
Ben so che ’l sai: dico Carlo Martello, 
del quale Paide fu la genitrice, 
fortissimo del corpo, grande e bello. 
Di costui nacque, per quel che si dice,
Pipin Breve, che ingenerò da poi 110
Carlo Magno, che fu tanto felice,
che mai cristian miglior non fu tra noi".
 
 
 

Osservazioni sulla tortura 08

Post n°1031 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

VIII
Se la tortura sia un tormento atroce

Non può mettersi in dubbio, che nell'epoca delle supposte unzioni pestilenziali la tortura non sia stata veramente atrocissima Ma si potrebbe anche dire che i tempi sono mutati, e che fu allora un eccesso cagionato dalla estremità de' mali pubblici da non servire di esempio. Io però credo che al giorno d'oggi la pratica criminale sia diretta da quei medesimi libri che si consultavano nel 1630, e appoggiato su questi parmi facile cosa il conoscere, che veramente la tortura è un infernale supplizio.
Col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co' tormenti. Quaestio est veritatis indagatio per tormentum, seu per torturam; et potest tortura appellari quaestio a quaerendo, quod judex per tormenta inquirit veritatem [L'interrogatorio è l'indagine della verità per mezzo dei tormenti, ovvero della tortura; e la tortura si può chiamare interrogatorio, essendo questo un'inchiesta, poiché il giudice inquisisce la verità per mezzo dei tormenti].
I fautori della tortura cercano calmare il ribrezzo, che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento. Poco è il male, dicono essi, che ne soffre il torturato; si tratta di un dolore passaggiero, per cui non accade mai l'opera di medico o cerusico; sono esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primo argomento, col quale si cerca di soffocare il raccapriccio, che alla umanità sveglia la idea della tortura. Pure dai fatti accaduti nel 1630 viene delineato a caratteri di sangue l'orrore di questi tormenti; le leggi, le pratiche sotto le quali viviamo sono le stesse, siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere le stesse crudeltà, se non che ritornassero de' giudici simili a quelli d'allora. Si adopera attualmente per tortura la lussazione dell'osso dell'omero; si adopera talvolta il fuoco a' piedi, crudeli operazioni per se stesse, ma nessuna legge limita la crudeltà a questi due modi; i dottori che sono i maestri di questi spasimi, i dottori che si consultano per regola e norma de' giudizj criminali, non prescrivono certamente molta moderazione. Il Bossi Milanese, che tratta della pratica criminale di Milano, al tit. De Torturis, n. 2 dice: «Non chiamerò tortura ogni dolore di corpo: la tortura debb'essere più grave, che se si tagliassero ambe le mani; e soffrir la tortura, egli è patire le estreme angosce dello spasimo... E basta osservare i preparativi e i modi di tormentare per conoscerlo: niente è mite, anzi tutto è crudelissimo; e perciò spesse volte si dà la tortura col fuoco, e quel che dice l'uomo tormentato col fuoco si reputa la verità istessa». ( Nec quodlibet tormentum cum dolore corporis dicitur quaestio: hinc est quod gravior est tortura, quam utriusque manus abscissio; et pati torturam est supremas angustias sustinere, ut vidimus et audivimus, et de his tormentis loquitur totus titulas de quaestionibus; sic etiam loquuntur doctores quod maxime patet dum congerunt instrumenta et modos torquendi; quia nihil horum est leve, immo crudelissimun, et ideo etiam igne saepe rei torquentur: igne defatigati, quae dicunt ipsa videtur esse veritas.) Dopo ciò non saprei mai come possa dirsi, che la tortura per sé sia un male da poco. Non nego che un giudice umano potrà temperare la ferocia di questa pratica, ma la legge non è certamente mite, né i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual crudeltà il Zigler descrive questa inumanissima pratica «Oltre lo stiramento, con candele accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo; ovvero alle estremità delle dita si conficcano sotto l'unghie de' pezzetti di legno resinoso, indi si appiccica il fuoco a que' pezzetti; ovvero si pongono a cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro cui si gettano carboni ardenti, e coll'infuocarsi del metallo acerbamente e con incredibili dolori si cruciano.» Tali sono i precetti che dà questo dottore, di cui ecco le parole originali: Praeter expansionem, carnifices cutem inquisiti cadentibus luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt; vel partes digitorum extimas immissis infra ungues piceis cuniculis, iisque postmodum accensis per adustionem inquisitos excruciant; aut etiam tauro vel asino ex metallis formato, ut incalescenti paullatim per ignes injectos, tandemque per auctum calorem nimium doloribus incredibilibus insidentes urgeant, delinquentes imponunt. Farinaccio istesso parlando de' suoi tempi asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species. Tale è la natura dell'uomo che superato il ribrezzo de' mali altrui e soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce e giubila della propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui; di che ne serve d'esempio anche il furore de' Romani per i gladiatori. Veggasi lo stesso Farinaccio, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi ed astenersi dal tormentare il reo colle sue proprie mani; e cita chi vide un pretore, che prendeva il carcerato pe' capelli e gli orecchi, e fortemente lo faceva cozzare contro di una colonna, dicendogli: «ribaldo, confessa»; cosi egli: abstineat etiam judex se ab eo quod aliqui judices facere solent, videlicet a torquendo reos cum propriis manibus... Refert Paris de Puteo se vidisse quemdam potestatem, qui capiebat reum per capillos, vel per aures, dando caput ipsius fortiter ad columnam, dicendo: confitearis et dicas veritatem, ribalde [si astenga il giudice da ciò che alcuni giudici sogliono fare, dal torturare cioè gli imputati con le proprie mani... Paride del Pozzo riferisce d'aver egli stesso visto un giudice che afferrava il reo per i capelli, per le orecchie e, battendogli la testa contro una colonna, diceva: confessa, ribaldo, di' la verità]. Il celebre Bartolo di se stesso ci significa, come gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo colla tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un simile accidente. Hoc incidit mihi, quia dum viderem juvenem robustum, torsi illum et statim fere mortuus est; e con tale indifferenza racconta il fatto atroce quel freddissimo dottore. Dopo ciò convien pure accordare, e sull'esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de' maestri della tortura, ch'ella è crudele e crudelissima e che se a1 giorno d'oggi la sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per se medesima atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori legalmente autorizzati può qualunque uomo nuovamente soffrirli, sintanto che o non sia moderata con nuove leggi la pratica, ovvero non sia abolita.
Né gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire, spasimo che talvolta ha condotto a morire nel tormento più d'un reo; ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla. Il citato Bossi asserisce, che se un reo confessa invitato dal giudice con promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene. Il Tabor dice che anche a una donna che allatti si può benissimo dar la tortura, purché non accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiam mulieri lactanti torturam aliquando fuisse indictam, cum ea moderatione ne infanti in alimentis aliquid decedat, quam declarationem facile admitto. Per dare poi la tortura a un testimonio, basta che egli sia di estrazione vile perché sia autorizzato il tormento: Vilitas personae est justa causa torquendi testem, e il Claro asserisce che basta vi siano alcuni indizj contro un uomo, e si può metterlo alla tortura; e in materia di tortura e di indizj, non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all'arbitrio del giudice: Sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc, ut torqueri possit... In hoc autem quae dicantur indicia ad torturam sufficientia scire debes, quod in materia judiciorum et torturae propter varietatem negotiorum et personarum, non potest dari certa doctrina, sed remittitur arbitrio judicis. La sola fama basta perché, se il giudice lo vuole, sia un uomo posto alla tortura. Basti un solo orrore per tutti; e questo viene riferito dal celebre Claro Milanese, che è il sommo maestro di questa pratica. «Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla. accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d'indurla ad accusarsi del delitto, e con tal mezzo un certo reggente indusse una giovine ad aggravarsi di un omicidio, e la condusse a perdere la testa» Acciocché non si sospetti che quest'orrore contro la religione, la virtú e tutti i più sacri principj dell'uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro: Paris dicit, quod judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera, et eidem dicere quod vult eam habere in suam, et fingere velle illam deosculari et ei pollicere liberationem; et quod ita factum fuit a quodam regente qui quamdam mulierem blanditiis illis induxit ad consfitendum homicidium, quae postea decapitata fuit.
Non credo di essere acceso da molto entusiasmo, se dico essere la tortura per se medesima una crudelissima cosa, essere orribile la facilità, colla quale può farsi soffrire ad arbitrio di un solo giudice nella solitudine del carcere, ed essere veramente degna della ferocia de' tempi delle passate tenebre la insidiosa morale, alla quale si ammaestrano i giudici da taluno de' più classici autori. Si tratta adunque di una questione seriissima e degna di tutta l'attenzione, e non regge quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo o l'importanza.

 
 
 

Rime di Celio Magno (88-98)

Post n°1030 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

88

S'arde in me, cruda Filli, altro desio
per giusto premio a la mia lunga fede
che mirar tua beltà, s'altro il cor chiede,
or qui morto a' tuoi piè cader poss'io.

Poss'io viver, direi, nel foco mio
senza alcuna impetrar da te mercede;
ma 'l tuo sì duro orgoglio, ohimè, non crede
ch'è tal viver di morte assai più rio.

Cheggio sol di tua vista esser beato,
né 'l dei negar: ché 'l sol, cui t'assomiglio,
mostra a tutti benigno il volto amato.

Ma s'in me poi tu scopri altro consiglio,
allor mi fuggi; e siami in pena dato
aver da' tuoi begli occhi eterno essiglio.

89

Qui sotto questo caro arbore amato
stava Fillide mia col grembo steso,
mentr'io, su i rami a coglier pomi asceso,
giù ne pioveva or d'uno or d'altro lato.

Gioir parea ciascun che per lei nato
fosse, e da lei con festa accolto e preso;
io de' più scelti ad arricchirla inteso
nel suo goder per lor godea beato.

Quante fiate a' rai di quel bel volto
intento e di me stesso in dolce oblio,
fui quasi, errando il piè, sossopra volto!

E quante ancora indarno ebbi desio
di cangiar forma, e 'n novo frutto volto
caderle in sen tra gli altri pomi anch'io.

90

Perché con sì sottile acuto raggio
Cinzia a spiar per l'ombra folta passi
dove Filli mia bella or meco stassi
sotto questo frondoso, antico faggio?

Forse, cercato il tuo pastor ch'oltraggio
ti fa tardo ver te movendo i passi,
qui gli occhi ancor per ritrovarlo abbassi,
e sospettosa in ciel fermi il viaggio?

Vano è 'l timor, se pur timor ti prese
in sui primo scoprir de' furti miei,
me credendo colui che 'l cor t'accese:

che per Endimion fuor del mio laccio
Filli non usciria; ned io torrei
Gioir Diàna a te più tosto in braccio.

91

Qual per bel prato a la stagion novella
da vari fior va raccogliendo fuore
ape ingegnosa il dolce, almo licore,
di ch'empie e sparge la sua ricca cella;

tal nel volto e nel sen de la mia bella
Filli, or d'un bianco or d'un vermiglio fiore,
coglie il dolce, cred'io, che serba in quella
cara e soave bocca, industre Amore.

Questo è 'l nettar d'Amor, ch'a mille prove
vince quel che più dolce e più pregiato
il bel frigio garzon ministra a Giove;

e raro a me dal ciel gustarlo è dato:
forse perch'uom mortal la via non trove
da girne a par degli alti dèi beato.

92

Con sue candide man del proprio petto
Filli cortese il chiuso velo aperse,
e duo piccioli colli a me scoperse
tra cui valle giacea d'alto diletto.

Sculto per man famosa in marmo eletto
sì vago seno il mondo unqua non scerse;
né mai da sé formato agli occhi offerse
Natura altro più vago e più perfetto.

Io, poich'a dolci prieghi in grazia l'ebbi,
l'avide labbra d'alta sete pieno
chinai, ma foco in quella neve bebbi.

E tutt'altro il mio cor pregiando meno
ivi rimase, e mai più nol riebbi:
ma felice or si vive in quel bel seno.

93

Stanco già dopo lungo, erto camino
in grembo a Teti il sol facea ritorno,
e da l'ardor del caldo, estivo giorno
stava a terra ogni fior, languido e chino.

Quando irrigar vid'io vago giardino
ch'era tutto per sete arso d'intorno
Filli succinta in schietto abito adorno,
ripieno il vaso al bel fonte vicino.

Sospesa l'una man l'elsa tenea
del cavo rame; e 'n lui sovente immersa
l'altra, su l'erbe fuor l'acqua spargea;

che parean dir: — Tua man candida e tersa
cessi l'onda spruzzar, ché noi ricrea
sol la virtù che 'l tuo bel ciglio versa. —

94

Benché ad aprir con lei la bella Aurora
vi lusinghi e consiglie,
deh non aprite ancora!
Indugiate ad aprir, rose vermiglie!
Tosto dal sonno desta
la mia più bella Aurora a voi, qual suole,
tornando, sparso il crin da l'aurea testa,
vi condurrà de' suoi begli occhi il sole.
A lei v'aprite, a lei con largo nembo
piovete entro il bel grembo:
ché se de l'altre voi più vaghe sete,
gradir più vaga Aurora ancor dovete.

95

Prendi, Fillide, prendi
da fido amante umìle
questa rosa novella
ch'al tuo volto è simìle,
anzi di lui men bella.
Ma se la spregi, e rendi
per mercé crudeltade,
pensa che tua beltade,
onde sì altera vai,
sparir tosto vedrai
come il pregio e 'l colore
in questo vago fiore.

96

Mentre in verde boschetto
desta al suono un pastor le dolci corde,
giunge vago augelletto
a prova il dolce canto al suon concorde.
Io di natura e d'arte al bel concento
bear l'anima sento;
ma certo armonia tale
non è cosa mortale:
son forse dèi del loco adorno e bello,
volti l'uno in pastor, l'altro in augello.

97

Tradotto dal greco antico

Di Medea cruda è quella
statua dov'hai tuo nido,
incauta rondinella.
Ahi consiglio mal fido,
creder i figli tuoi
a lei, ch'uccise i suoi.

98

Combatte in mio favor sovente Amore
con la mia dea, che a torto
mi vuol, perch'io l'adoro, al tutto morto;
quei l'armi ha di pietade,
questa di crudeltade.
Ma sempre, ahi lasso, in tal battaglia ho scorto
ch'ella vince, ei fa pace, io 'l danno porto:
ch'ogni piaga, ogni dolore
e sangue che si versa, è del mio cuore.

 
 
 

Il Dittamondo (4-17)

Post n°1029 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XVII

Pur seguitando la mia cara scorta
e ragionando, il nostro cammino
di Normandia in Francia ci porta. 

Tra l’oceano e ’l giogo d’Apennino, 
tra Rodan, Reno e Pireno si serra 5 
la Francia tutta e cosí la confino. 
E poi che noi entrammo in quella terra, 
in vèr Parigi fu la nostra strada, 
che Nantes bagna e che la Senna afferra. 
Io vedea arsa e guasta la contrada, 10 
le larghe strade venute sentieri, 
i campi senza frutto e senza biada. 
E mentre che di ciò stava in pensieri, 
noi vedemmo un da traverso venire 
in abito e con segno di corrieri. 15 
"Dieus vous salf", fu il primo suo dire. 
"E tu soies, fiz ie, le bien venus", 
vago di dimandare e lui d’udire. 
Apresso disse: "En quel part alez vus"? 
"A Paris", respondi. "E ie encore". 20 
E ici se taist, qu’il ne dist plus. 
Cosí andammo presso che due ore; 
ma poi che ’l tempo mi parve e fu a vis, 
presi a parlare senza piú dimore. 
"Di moi, biau frere, ie voi cest païs, 25 
qui tant estre soloit biaus e noble, 
degasté tout, en feu e flame mis. 
Comant fu ce? où est l’argent e l. moble 
au roi de France, qui tant en solt avoir?
Car nus savoit conter ne dir le noble". 30
"Amis – fist il – quant que tu dis est voir, 
car en toute crestiente n’estoit rois, 
qui tant eüst grant richece e pöoir. 
Com ales est d’ici iusque a un mois 
dir ne l· sauroie; mes de tant bien t’afi: 35 
chaucuns s’en fet le signe de la crois. 
Degasté l’ont e maumenes ensi 
par son valor Adoart d’Engleterre, 
cil de Gales e li bon quens de Arbi". 
E ie: "Por quoi encomença la guerre?" 40 
"Por quoi?", fist il; "car por son eritage 
demandoit Paris e toute la terre. 
Dont nostre rois le tint a grant outrage 
e por tel chose fu començé l’estrif, 
qui France a gasté e trestout son barnage. 45 
Asez en sont por le mont de chetif, 
homes e femes, jovenciaus enfans, 
e plusors mors, qui encor seroient vif. 
Bien a la guerre duré vint e sis ans 
tant fiere e fort entre ces rois ensemble, 
quant iames fu entre Cartage e Romans. 
De sous Cales chascuns sa gens asemble, 
iluec morust Jeans li rois ardis, 
cil d’Alençon e plus barons ensemble. 
Le nostre rois s’en fuï desconfis; 55 
apres s’en vint Adoart e Bretons 
trestout ardant iusque pres a Paris. 
Une autre fois semont ses barons 
li rois de France e fist son garnimens; 
por soi vengier trestout mist a bandons. 60 
Que vous diroie? moult amasse grant gens 
fort e ardie; mes tel fu son pechie, 
car vencus fu e il pris ensemens. 
Por voir te di que cil de Gales mie 
n’avoit gens a mon roi desconfire, 65 
si prope dieus ne li fust en aïe. 
Or t’ai conté en brief nostre martire: 
encor te di que ie ai pëor de pis, 
si dieus par temps ne tramest son mire". 
"Bien ai oï trestout ce que tu dis; 70 
mes fai moi sage si li rois Adoart 
en ses victoires a grant terre conquis". 
"Oïl, fist il; partout sont li liepart; 
en Gascogne flors de lis ni est remes, 
en Normandie, neïs entre Picart. 75 
Por grans assiege li fu rendus Cales. 
Que te diroie sus la mer de Bretagne, 
quant qui tenoit mon roi s’en est ales?" 
"Amis, fiz ie, a la roial ensagne 
messager sembles; di moi lau tu vais, 80 
si dir se puet e s’ici non remagne". 
"Voir est, fist il, que messager me fais 
a la postoile de part le roi de France, 
por quoi en brief ce croi oïr porais". 
A la parole qui tant outre s’avance, 85 
pensai en moi e dis entre mes dens: 
cestui a dou roi e de pes esperance. 
"Or me di, frere: i morust grant gens 
en ces batailles?". "Quatre vint milier, 
respondi cil, e plus si com ie pens". 90 
"Di moi: a fils qui le puisse vengier 
li rois?" "Oïl, Charles le daufin, 
respont apres, uns ieune bachelier". 
Ensi parlant, nous guië nostre chemin 
droit a Paris, lau mon cuer avoie; 95
e 'l messager, a tout le chief enclin,
prist congié e se mist a la voie.
 
 
 

Osservazioni sulla tortura 07

Post n°1028 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

VII
Come terminasse il processo delle unzioni pestifere

Se volessi porre esattamente sott'occhio al lettore la scena degli orrori metodicamente praticati in quella occasione, dovrei trascrivere tutto il processo, dovrei inserire le torture fatte soffrire ai banchieri, ai loro scritturali ed altre civili persone; torture crudelissime, date per obbligarli a confessare, che dal loro banco si dava qualunque somma di danaro a chiunque anche sconosciuto, purché nominasse D. Giovanni di Padilla; e danaro, che si sborsava senza averne alcuna quitanza e senza scriversi partita ne' loro libri: e tutte queste assurde proposizioni emanate dal forzato romanzo, che la insistenza degli spasimi fece concertare fra i miseri Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che di sopra ne ho dato, e troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi oggetti. Dalla scena orribile che ho descritta si vede l'atroce fanatismo del giudice di circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri criminali, e portarlo alle estreme angosce, d'onde l'infelice si sarebbe sottratto con mille accuse contro se medesimo, se per disgrazia gli si fosse presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si prodigò la tortura a molti innocenti: in somma tutto fu una scena d'orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il barbiere Gian-Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la colonna infame), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo, che si chiamava il Foresè, Francesco Manzone, Caterina Rozzana e moltissimi altri; questi condotti su di un carro, tenagliati in piú parti, ebbero, strada facendo, tagliata la mano; poi rotte le ossa delle braccia e gambe, s'intralciarono vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizzanti per ben sei ore, al termine delle quali furono perfine dal carnefice scannati, indi bruciati e le ceneri gettate nel fiume. L'iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora, così dice:

HIC.UBI.HAEC.AREA.PATENS.EST
SURGEBAT.OLIM.TONSTRINA
JO.JACOBI.MORAE
QUI.FACTA.CUM.GULIELMO.PLATEA
PUB.SANIT.COMMISSARIO
ET.CUM.ALIIS.CONJURATIONE
DUM.PESTIS.ATROX.SAEVIRET
LAETIFERIS.UNGUENTIS.HUC.ET.ILLUC.ASPERSIS
PLURES.AD.DIRAM.MORTEM.COMPULIT
HOS.IGITUR.AMBOS.HOSTES.PATRIAE.JUDICATOS
EXCELSO.IN.PLAUSTRO
CANDENTI.PRIUS.VELLIICATOS.FORCIPE
ET.DEXTERA.MULCTATOS.MANU
ROTA.INFRINGI
ROTAQUE.INTEXTOS.POST.HORAS.SEX.JUGULARI
COMBURI.DEINDE
AC.NE.QUID.TAM.SCELESTORUM.HOMINUM
RELIQUI.SIT
PUBLICATIS.BONIS
CINERES.IN.FLUMEN.PROJICI
SENATUS.JUSSIT
CUJUS.REI.MEMORIA.AETERNA.UT.SIT
HANC.DOMUM.SCELERIS.OFFICINAM
SOLO.AEQUARI
AC.NUNQUAM.IMPOSTERUM.REFICI
ET.ERIGI.COLUMNAM
QUAE.VOCETUR.INFAMIS
PROCUL.HINC.PROCUL.ERGO
BONI.CIVES
NE.VOS.INFELIX.INFAME.SOLUM
COMACULET
MDCXXX.KAL.AUGUSTI

Qui dov'è questa piazza
sorgeva un tempo la Barbieria
di Gian Giacomo Mora
il quale con Guglielmo Piazza
pubblico commissario di sanità
e con altri fatta una congiura
mentre la peste infieriva più atroce
sparsi qua e là mortiferi unguenti
molti trasse a cruda morte
entrambi adunque giudicati nemici della patria
sopra un alto carro
martoriati prima con rovente tanaglia
e troncata la mano destra
si frangessero colla ruota
e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati
poscia abbruciati
e perché d'uomini così scellerati
nulla resti
confiscati gli averi
si gettassero le ceneri nel fiume
il senato medesimo ordinò
a memoria perpetua di tale reato
questa casa officina del delitto
di radere al suolo
e giammai rialzarsi in futuro
ed erigere una colonna
che si appelli infame
lungi adunque lungi da qui
buoni cittadini
che voi l'infelice infame suolo
non contamini
il primo d'agosto MDCXXX.

Come poi subissero la pena, il canonico Giuseppe Ripamonti, che era vivo in que' tempi, ce lo dice: Confessique isti flagitium, et tormentis omnibus excruciati perseveravere confitentes donec in patibulum agerentur. Hi demum juxta laqueum inter carnificis manus de sua innocentia ad populum ita dixere: mori se libenter ob scelera alia, quae admisissent; caeterum unguendi artem se factitavisse nunquam, nulla sibi veneficia aut incantamenta nota fuisse. Ea sive insania mortalium, sive perversitas, et livor astusque daemonis erat. Sic indicia rerum, et judicum animi magis magisque confundebantur. (Dopo di avere ne' tormenti confessato ogni delitto, di cui erano ricercati, protestavano all'atto di subire la morte di morir rassegnati per espiare i loro peccati avanti Dio, ma di non aver mai saputo l'arte di ungere, né fabbricar veleni, né sortilegi.) Così dice il Ripamonti, che pure sostiene l'opinione comune, cioè che fossero colpevoli.
Le crudeltà usate da più di un giudice in quel disgraziato tempo giunsero a segno, che più di uno fu tormentato tant'oltre da morire fra le torture: il Ripamonti lo dice, e invece d'incolpare la ferocia de' giudici, va al suo solito a trovame la meno ragionevole cagione, cioè che il Demonio li strangolasse. Constitit flagitii reos in tormentis a Daemone fuisse strangulatos [Constatava che alcuni reii del misfatto, sottoposti alla tortura, furono strozzati dal demonio].
Il cardinale Federico Borromeo, nostro illustre arcivescovo in que' tempi, dubitava della verità del delitto, e in una di lui scrittura inserita nel Ripamonti cosi disse: Non potuisse privatis sumptibus haec potenta patrari. Regum, principumque nullus opes authoritatemque comodavit. Ne caput quidem, authorve quispiam unctorum istorum, furiarumque reperitur; et haud parva conjectura vanitatis est, quod sua sponte evanuit scelus, duraturum haud dubio usque in extrema, si vi aliqua consilioque certo niteretur. Media inter haec sententia, mediumque inter ambages dubiae historiae iter. (Non si sarebbe co' danari d'un semplice privato potuto fare una così portentosa cospirazione. Nessun re o principe ne somministrò i mezzi, o vi diè protezione. Non apparve nemmeno chi fosse l'autore o il capo di tali unzioni e furiosi disegni; e non è piccola congettura che fosse un sogno il vedere una tale cospirazione svanita da sé, mentre avrebbe dovuto durare sino al totale esterminio, se eravi una forza, un disegno, un progetto, che dirigessero una tale sciagura. Fra tali dubbietà e incertezze deve la storia farsi la strada.) Né quel solo illuminato cardinale vi fu allora che ne dubitasse, che anzi convien dire che la dubitazione fosse di varj, poiché tanto il Ripamonti che il Somaglia e altri scrittori di que' tempi si estendono a provare la reità dei condannati; cosa che non avrebbero certamente fatta, se non fosse stato bisogno di combattere un'opinione contraria. Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito scrisse la storia di quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione sostenne l'opinione degli unti malefici, dolendosi egli del difficile passo in cui si trova di opinare se oltre gl'innocenti, i quali furono di tal delitto incolpati, realmente vi fossero veri spargitori dell'appestata unzione, mostri di natura, obbrobrj della umanità e nemici pubblici; né tanto gli sembra scabroso il passo per la dubbiezza del fatto, quanto perché non trovavasi posto in quella libertà in cui uno scrittore possa spiegare i sentimenti dell'animo suo, «poiché se io dirò (così il Ripamonti) che unzioni malefiche non vi furono, tosto si griderà ch'io sia un empio e manchi di rispetto ai tribunali. L'orgoglio de' nobili e la credulità della plebe hanno già adottata questa opinione, e la difendono come inviolabile, onde cosa inutile e ingrata sarebbe se io volessi oppormivi». Eccone le parole:
 Caeterum his ita expositis anceps atque difficilis mihi locus oritur exponendi, praeter innoxio istos unctores, et capita honesta quae nihil cogitavere mali et periculum adiere ingens, putemne veros etiam fuisse unctores, monstra naturae, propudia generis humani, vitae communis inimicos, quales etiam isti (cioè alcuno de' quali ha raccontato i casi) nimium injuriosa suspicione destinabantur. Neque eo tantum difficilis ancepsve locus est, quia res etiam ipsa dubia adhuc et incerta, sed quia ne illud quidem liberum solutumque mihi relinquitur quod a scriptore maxime exigitur, ut animi sui sensum de unaquaque re depromat atque explicet. Nam si dicere ego velim unctores fuisse nullos frustra caelestes iras et consilia divina trahi ad fraudes artesque hominum, exclamabunt illico multi historiam esse impiam, meque ipsum impietatis teneri, judiciorumque violatorem. Adeo sedet contraria opinio animis; pariterque et credula suo more plebs, et superba nobilitas cursu in eam vadunt amplexi rumoris hanc auram, quomodo qui aras et focos et sacra tueretur. Adversus hosce capessere pugnam ingratum mihi nunc, inutileque est [Ora mi si fa innanzi un argomento incerto e difficile a svolgere; se oltre questi innocui untori, uomini dabbene, che nulla macchinarono di male, e colsero nonostante pericolo di vita, vi siano stati altresì veri untori, mostri di natura, infamia del genere umano e nemici alla vita comune, siccome con troppo ingiurioso sospetto si andava affermando. E non solo è argomento arduo perché di dubbioso in se stesso; ma altresì perché non mi è conceduta la libertà sì necessaria allo storico di emettere e sviluppare la propria opinione sopra ciascun fatto. Ov'io volessi dire che non vi furono untori, e che indarno si attribuiscono alle frodi ed alle arti degli uomini i decreti della Provvidenza ed i celesti gastighi, molt griderebbero tosto empia la mia storia, e me irreligioso e sprezzatore delle leggi. L'opposta opinione è ora invalsa negli animi: la plebe credula, com'è suo stile, ed i superbi nobili essi pure, seguendo la corrente, sono tenaci in dar fede a questo vago rumore come se avessero a difendere la religione e la patria. Ingrata ed inutile fatica sarebbe per me il combattere siffatta credenza]. Da ciò conoscesi qual fosse la opinione del troppo timido Ripamonti, il quale dice: Quaestio multiplici torsit ambage dubitantes fuerintne venena haec, et aliqua ungendi ars, an vanus absque re ulla timor, qualia saepe in extremis malis deliramenta animos occupare consueverunt [Gli animi ondeggiavano in molte dubbiezze circa la questione se vi furono realmente unti ed un'arte di spargerli, ovvero se fu uno di quei vani timori senza fondamento che spesso fan delirare gli uomini caduti nell'estremo de' mali]; perloché evidentemente si conosce, che malgrado l'infelicità de' tempi vi era nella città nostra un ceto d'uomini che non si lasciarono strascinare dal furore del volgo, e sentirono l'assurdità del supposto delitto e la falsità dell'opinione.
 Riepilogando tutto lo sgraziato amrnasso delle cose sin qui riferite, ogni uomo ragionevole conoscerà, che fu immenso il disastro che rovinò in quell'epoca infelicissima i nosti maggiori, e che quest'ammasso crudele di miserie nacque tutto dall'ignoranza e dalla sicurezza ne' loro errori, che formò il carattere de' nostri avi. Somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare la credenza ai fatti, nel ricusare l'esame di un avvenimento cosi interessante; somma superstizione nell'esigere dal cielo un miracolo, acciocché non si accrescesse il male contagioso coll'affollare unitamente il popolo; somma crudeltà e ignoranza nel distruggere gl'innocenti cittadini, lacerarli e tormentarli con infernali dolori per espiare un delitto sognato. Insomma la proscritta verità in nessun conto poté manifestarsi; i latrati della superstizione e l'insolente ignoranza la costrinsero a rimanersene celata. Per tutto il passato secolo si risentì in questo infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono di agricoltori; le arti e i mestieri si annientarono; e fors'anche al giorno d'oggi abbiamo de' terreni incolti, che prima di quell'esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del popolo nella desolazione in cui giacque; poco rimase delle antiche ricchezze, e non si citerà una casa fabbricata per cinquant'anni dopo la pestilenza, che non sia meschina. I nobili s'inselvatichirono; ciascuno vivendo in una società molto angusta di parenti, si risguardò come isolato nella sua patria; e non si rípigliarono i costumi sociali, che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura, se non appena al principio del secolo presente. Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!

 
 
 

Il Dittamondo (4-16)

Post n°1027 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XVI

"O piú che padre, o buon consiglio mio, 
l’andare è buon, diss’io; ma, se tu il sai, 
fa che contenti, andando, il mio disio. 
Questa gente normanna, onde tu vai, 
dimmi chi fu e come venne quici 5 
ed in qual tempo, secondo che l’hai". 
Ed ello a me: "La gente, che tu dici, 
come volan li storni a schiera a schiera, 
mosson di Sizia e di quelle pendici. 
Per l’oceano e per la sua rivera, 10 
come tu sai che i pirati fanno, 
quanto potean trovar tutto lor era. 
Poi, dopo lungo tempo e grave affanno, 
passarono in Norvegia e ancora quivi 
similemente fecero gran danno. 15 
Pur cosí discendendo per que’ rivi, 
rubando la Bretagna e Germania, 
tutti si fenno, per l’acquisto, divi 
e, giunti ove or si dice Normandia, 
e presa la cittá di Rotomagno, 20 
quivi fermaron la lor signoria. 
Rollo era il signor tra loro piú magno, 
pieno di gran vertute e di valore, 
largo e cortese a ogni suo compagno. 
Carlo, in quel tempo, era imperadore, 25 
il Semplice, che udita la novella, 
credo per fuggir briga e farsi onore, 
la figliuola, che nome avea Ghisella, 
fatta amistá e compagnia con lui, 
li diede a sposa, ch’era onesta e bella. 30 
Apresso ancora confermò costui 
signor di questo gran comprendimento 
ed el si fe’ cristian con tutti i sui 
e ne gli anni di Cristo novecento 
e dodici piú prese il battesmo, 35 
di che ciascun, di qua, ne fu contento. 
Ruberto conte il tenne a cristianesmo 
e del suo nome lo nomò Ruberto, 
secondo che ciò piacque a lui medesmo. 
Due figliuoli ebbe sí fatti, per certo, 40 
che, se ’l mondo n’avesse ora di quelli, 
non sarebbe de’ buon, com’è, diserto. 
Larghi, pro’ funno, fortissimi e belli: 
Guglielmo Lunga-spada, il primo, reda, 
come sai che di qua fanno i fratelli; 45 
Riccardo, l’altro, il suo figliuol correda 
Tancredi e ’n Puglia andaro e lá fen guerra, 
acquistando cittá, castella e preda. 
In Francia poi passâr, s’alcun non erra; 
a posta del re fen guerra in Borgogna, 50 
dove molta acquistâr ricchezza e terra. 
A ciò che senza chiosa si dispogna, 
se deggio sodisfare a quel che chiedi, 
qui lungo un poco parlar mi bisogna. 
Morto Riccardo, rimase Tancredi 55 
con dodici figliuoi, che ciascun fue 
forte e fiero quanto un leon vedi. 
E senza dubbio ben credo che tue 
ti segneresti per gran maraviglia, 
se udissi di ciascun l’opere sue. 60 
Anfredo fu di quelli e costui piglia 
guerra con Leon papa e ’l mal che fe’ 
de la sua gente ancor se ne pispiglia. 
Ben so che per altrui chiaro ne se’ 
di Ruberto Guiscardo, come prese 65 
Puglia e Cicilia e tennela per sé. 
De’ dodici fu l’uno e di lui scese 
Baiamondo e Rugger, che senza fallo 
assai ben poi governaro il paese. 
Morti costoro in poco d’intervallo, 
due Baiamondi fun, che l’un seguio 
apresso l’altro a guardar questo stallo. 
Rugger fu poi, che con gran disio 
incoronar si fe’ re di Cicilia, 
ch’assai si vide a’ suoi libero e pio. 75 
Similmente ciascun fe’ gran familia 
de’ dodici e per lor prodezza e senno 
qual conte fu e qual gran terra pilia. 
Ma nota qui che niente t’impenno 
de’ successor del buon Guglielmo primo, 80 
perché altrove udirai di quel che fenno". 
"Quanto m’hai detto, rispuosi io, istimo 
e veggio ben, ché a punto hai risposto 
a la dimanda mia in fino a imo. 
Ma dimmi questo nome onde fu posto 85 
a questi che chiamati son Normanni,
ch’io non l’intendo, se non m’è disposto".
 
 
 

Rime di Celio Magno (86-87)

Post n°1026 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

86

Trovandosi alla corte di Spagna l'anno 1576, secretario con l'illustrissismo signor Alberto Badoaro cavalier, allora ambasciator presso sua Maestà catolica, e soprapreso da una ferma imaginazione di dover morire in quelle parti, compose questa canzone

Me stesso piango, e de la propria morte
apparecchio l'essequie anzi ch'io pera:
Ch'ognor in vista fera
m'appar davanti e 'l cor di tema agghiaccia,
chiaro indicio che già l'ultima sera
s'appressi e 'l fin di mie giornate apporte.
Né piango perché sorte
larga e benigna abbandonar mi spiaccia:
anzi or con più che mai turbata faccia
fortuna provo a farmi oltraggio intenta;
ma se in cotal pensier l'anima immersa
geme, e lagrime versa,
e del su' amato nido uscir paventa,
Natura il fa che per usata norma
l'imagine di morte orribil forma.
Lasso me che quest'alma e dolce luce,
questo bel ciel, quest'aere onde respiro
lasciar convegno; e miro
fornito il corso di mia vita omai.
E l'esalar d'un sol breve sospiro
a' languid'occhi eterna notte adduce,
né per lor mai più luce
Febo, o scopre per lor più Cinzia i rai;
e tu lingua, e tu cor, chi vostri lai
spargete or meco in dolorose note,
e voi piè giunti a' vostri ultimi passi:
non pur di spirto cassi
sarete, e membra d'ogni senso vote,
ma dentro a la funesta, oscura fossa
cangiati in massa vil di polve e d'ossa.
O di nostre fatiche empio riposo
e d'ogni uman sudor meta infelice:
da cui torcer non lice
pur orma, né sperar pietade alcuna.
Che val, perch'altri sia chiaro e felice
di gloria d'avi, o d'oro in arca ascoso,
e d'ogni don gioioso
che natura può dar larga e fortuna,
se tutto è falso ben sotto la luna?
E la vita sparisce, a lampo eguale
che subito dal cielo esca e s'asconda?
e s'ove è più gioconda
più acerbo scocca morte il crudo strale?
pur ier misero io nacqui; ed oggi il crine
di neve ho sparso, e già son giunto al fine.
Né per sì corta via vestigio impressi
senz'aver di mia sorte onde lagnarme:
ché da l'empia assaltarme
vidi con alte ingiurie a ciascun varco.
contra la qual da pria non ebbi altr'arme
che lagrime e sospir da l'alma espressi;
poi de' miei danni stessi
l'uso a portar m'agevolò l'incarco;
quinci a studio non suo per forza l'arco
rivolto fu del mio debile ingegno
tra 'l roco suon di strepitose liti:
ove i dì più fioriti
spesi; e par che 'l prendesse Apollo a sdegno,
ché se fosser già sacri al suo bel nome,
forse or di lauro andrei cinto le chiome.
Ma qual colpa n'ebb'io se 'l cielo averso
par che mai sempre a' bei desir contenda?
e virtù poco splenda
se luce a lei non dan le gemme e l'oro?
Né quanto il dritto e la natura offenda
s'accorge il mondo in tal error sommerso;
al qual anch'io converso,
de le fortune mie cercai ristoro,
benché parco bramar fu 'l mio tesoro,
con l'alma in sé di libertà sol vaga
e d'onest'ozio più che d'altro ardente:
resa talor la mente,
quasi per furto, infra le Muse paga;
che de' prim'anni miei dolci nodrici
fur poi conforto a' miei giorni infelici.
Un ben ch'ogni mal vinse il ciel mi diede,
quando degnò de la sua grazia ornarmi
l'alta mia patria, e farmi
servo a sé, noto altrui, caro a me stesso.
Onde umil corsi ov'io senti' chiamarmi
a più nobil camin volgendo il piede.
Così a l'ardente fede
pari ingegno e valor fosse concesso,
o pria sì degno peso a me commesso:
che saldo almen sarebbe in qualche parte
l'infinito dever che l'alma preme.
Quinci in quest'ore estreme
ella con maggior duol da me si parte;
ch'ove a l'obligo scior la patria invita,
non pon mille bastar, non ch'una vita.
Dunque s'ora il mio fil tronca la dura
Parca, quanti ho de' miei più cari e fidi
Amor cortese guidi
al marmo in ch'io sarò tosto sepolto;
e la pietà ch'in lor mai sempre vidi,
qualche lagrima doni a mia sventura.
E se pur di me cura
ebbe mai Febo, anch'ei con mesto volto
degni mostrarsi ad onorar rivolto
un fedel servo onde rea morte il priva;
prestin le Muse ancor benigno e pio
officio al cener mio;
e su la tomba il mio nome si scriva:
acciò, se 'l tacerà d'altro onor casso
la fama, almen ne parli il muto sasso.
Andresti e tu, più ch'altri afflitto e smorto,
a versar sovra me tuo pianto amaro,
mio germe unico e caro,
s'in tua tenera età capisse il duolo.
Ahi, che simile al mio destino avaro
provi: ch'a pena anch'io nel mondo scorto,
piansi infelice il morto
mio genitor, restando orbato e solo.
misero erede, a cui sol largo stuolo
d'affanni io lascio in dura povertade,
chiudendo gli occhi, ohimè, da te lontano!
Porgi, o Padre sovrano,
per me soccorso a l'innocente etade,
ond'ei securo da' miei colpi acerbi
viva, e de l'ossa mie memoria serbi.
Ahi, ch'anzi pur, Signor, pregar devrei
per le mie gravi colpe al varco estremo;
dove pavento e tremo
da la giust'ira tua, mentre a lor guardo.
Tu, cui condusse in terra amor supremo
a lavar col tuo sangue i falli miei,
tu che fattor mio sei,
volgi ne l'opra tua pietoso il guardo.
Ch'or è pronto il pentir, se fu 'l cor tardo
per la tua strada e volto a' propri danni:
e con lagrime amare il duol ne mostro.
tu da l'infernal mostro
l'alma difendi e da' perpetui affanni;
tal che d'ogni suo peso e nodo sciolta
di tua grazia gioisca in ciel raccolta.
Là su, là su, canzon, la vera eterna
patria n'aspetta: a Dio se n' torni l'alma
che sol bear la può d'ogni sua brama.
E poiché già mi chiama
a depor questa fral, corporea salma,
prestimi grazia a la partita innanzi:
ch'almen qualch'ora a ben morir m'avanzi.

87

Tornando a Venezia dalla corte di Spagna

Pur m'apri, o Febo il desiato giorno
che del mio duro essilio il fine apporta;
e la tua bella scorta
di vaghe gemme e d'or t'orna il sentiero.
Anch'io m'accingo a strada lunga e torta
per far ov'io lasciai l'alma ritorno,
spargendo il cielo intorno
de le tue lodi e del mio gaudio intero.
Felice dì, che ben vince il primiero
quando questo mio fral nel mondo uscìo:
ch'allor nascendo a le miserie venni;
or del mal che sostenni
esco; ed al fonte d'ogni ben m'invio
ch'addolcir può con sua gioia infinita
tutto il martir de la passata vita.
Rimanetevi in pace alme contrade
che 'l nobil Ebro e 'l ricco Tago inonda;
siate amica e gioconda
stanza altrui pur, che me l'albergo offende.
E s'aere in voi vital, terra feconda
di quanto ad uman uso in mente cade,
fra pace e sicurtade
d'ogni vanto qua giù degne vi rende,
ingrato però 'l sole agli occhi splende
ove ha tenebre il cor; né può presente
stato goder chi del futuro ha brama.
Benché di chiara fama
non men ricco il sen d'Adria esser si sente;
dov'ogni don del cielo alberga, e dove
bramo anzi morte aver, che vita altrove.
Oh come ardente il cor t'ama e desia,
dolce mia patria, a cui s'io vivo e spiro,
s'in me pregio alcun miro,
dopo Dio debbo il tutto, e 'l corpo e l'alma.
Come, s'al tuo splendor il guardo giro,
ineffabil divien la gioia mia!
Tu giusta e saggia e pia;
tu d'ogni alta virtù trionfo e palma;
tu vergine e reina invitta ed alma,
porto di libertà, specchio d'onore,
e tal che chi di te nasce entro il seno,
paradiso terreno,
fa dubbiar qual sia grazia in lui maggiore:
o 'l nascer uom nel mondo, o l'aver nido
in sì felice e glorioso lido.
Vedrò del mar uscir lungi le cime
de l'alte torri e de' superbi tetti
ch'al ciel sembrano eretti
non da mortal ma da celeste cura;
vedrò 'l duce regal co' padri eletti
c'hanno il fren de l'imperio alto e sublime,
ne la cui vita esprime
ogni essempio di gloria arte e natura;
vedrò de' cari miei la gioia pura
nel volto e ne' sembianti impressa e viva,
dando anch'io de la mia lagrime in pegno.
E quasi stanco legno
che da lunga tempesta in porto arriva,
beato quanto cape in mortal velo
scioglierò i voti, umìle, al re del cielo.
Deh, perché mentre il fral corporeo incarco
porta destriero al mio desir sì lento,
cangiar in quel noi sento
che d'Elicona il fonte aprio col piede?
Che giunto a la mia pace in un momento
la strada e i giorni accorcerei ch'or varco;
e ben deggio esser parco
d'ore che sì felici il ciel mi diede.
Ma 'l pensiero, il cui volo ogni altro eccede,
verso il bramato ben dispieghi i vanni,
e l'abbia sempre innanzi, e 'l miri e 'l goda:
Talché con dolce froda
del camin le fatiche e 'l tempo inganni;
e perché del piacer non manchi un'ora,
sogni dormendo i miei diletti ancora.
Ma se forse, canzon, tra via n'aspetta
morte, deh prega il ciel che la sospenda
sol tanto, e fia pietà di pochi giorni,
che dove ho 'l core io torni,
e 'l caro oggetto una sol volta renda
di quanto amo e desio lieto a quest'occhi;
e poscia a voglia sua l'arco in me scocchi.

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 06

Post n°1025 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

VI
Della insidiosa cavillazione che si usò nel processo verso di alcuni infelici

Soffoco violentemente la natura, e superato il ribrezzo che producono tante atrocità, io trascriverò per intiero l'esame fatto al povero maestro di scherma Carlo Vedano. La scena è crudelissima, la mia mano la strascrive a stento; ma se il raccapriccio che io ne provo gioverà a risparmiare anche una sola vittima, se una sola tortura di meno si darà in grazia dell'orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa. Ecco l'esame.

1630 die 18 septembris etc.

Eductus e carceribus Carolus Vedanus [18 settembre 1630, ecc. Tradotto dalle carceri Carlo Vedano].
Int.: «Che dica se si è risolto a dir meglio la verità di quello ha sin qui fatto circa le cose che è stato interrogato, e che gli sono state mantenute in faccia da Gio Stefano Baruello».
Resp.: «Illustrissimo signore, non so niente».
Ei dicto: «Che dica la causa perché interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco, che fa l'osteria là a S. Sisto di compagnia del Baruello, non contento di dire una volta di no, rispose: "Signor no, signor no, signor no"».

Resp.: «Perché non è la verità».
Ei dicto: «Che per negare una cosa basta dire una volta di no, e che quel replicare signor no, signor no, signor no, mostra il calore con che lo nega, e che per maggior causa lo neghi che perché non sia vero».
Resp.: «Perché non vi sono stato».
Ei dicto: «Che occasione aveva di scaldarsi cosi?».
Resp.: «Perché non vi sono stato, illustrissimo signore».
Ei denuo dicto: «Perché interrogato, se aveva mai mangiato col detto Baruello all'osteria sopra la piazza del castello, rispose: "Signor no, mai, mai, mai"»
Resp.: «Ma, signore, vi ho mangiato una volta, ma non solo, ma in compagnia di Francesco barbiere figliuolo d'Alfonso, e quando ho risposto: "Signor no, mai, mai, mai' mi sono inteso d'avervi mangiato col Baruello solamente».
Ei dicto: «Prima, che esso non era interrogato se avesse mangiato là col Baruello solo o in compagnia d'altri, ma semplicemente se aveva mangiato con lui alle dette osterie, e però se gli dice che in questo si mostra bugiardo, poiché allora ha negato e adesso confessa; di più se gli dice che si ricerca di saper da lui, perché causa con tanta esagerazione negò di avervi mangiato; né gli bastò di dire di no, che anco vi aggiunse quelle parole "mai, mai, mai"».
Resp.: «Ma, signore, perché io non vi ho mai mangiato, altro che quella volta, ed intesi l'interrogazione di V. S. se aveva mangiato con lui solo; e quanto al secondo, dico che mi sfogava così perché non vi ho mai mangiato».
Ei denuo dicto: «Perché, interrogato se mai ha trattato col Baruello di far servizio al signor D. Giovanni, rispose di no, ed essendogli replicato che ciò gli sarebbe stato mantenuto in faccia, aveva risposto che questo non si sarebbe trovato mai, ed essendogli di nuovo replicato che di già si era trovato, rispose con parole interrotte: "Sarà, uh! uh! uh!"».
Resp.: «Perché non ho mai parlato con lui»
Int.: «Chi è questo lui?».
Resp.: «È il figliuolo del signor castellano».
Ei dicto: «Perché questa mattina, interrogato se si è risoluto a dire la verità meglio di quel che fece jeri sera, ha prorotto in queste parole: "Perché io ne sono innocente di quella cosa che mi imputano", le quali parole, oltreché sono fuori di proposito, non essendo mai stato interrogato sopra imputazione che gli sia stata data, mostrano ancora che esso sappia d'essere imputato di qualche cosa; e pure interrogato che imputazione sia questa, ha detto di non saperlo: onde se gli dice, che oltreché si vuol sapere da lui perché ha detto quella risposta fuori di proposito, si vuol anche sapere che imputazione è quella, che gli vien data».
Resp.: «Io ho detto così perché non ho fallato».
Ei dicto denuo: «Perché, interrogato se quando passò sopra la piazza del castello col detto Baruello videro alcuno, ha risposto prima di no, poi ha soggiunto: "Ma, signore, vi erano della gente, che andavano innanzi e indietro"; e dettogli perché dunque aveva detto "signor no", ha risposto: "Io m'era inteso se aveva veduto dei nostri compagni": soggiungendo: "No, signore, siano per la Vergine santissima, che non ho fallato"; le quali parole ultime, come sono state fuori di proposito, non essendo egli finora stato interrogato di alcun delitto specificatamente, così mettono in necessità il giudice di voler sapere perché le ha dette, e però s'interroga ora perché dica, perché ha detto quelle parole fuori di proposito con tanta esagerazione».
Resp.: «Perché non ho fallato».
Ei dicto: «Che sopra tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta, altrimenti si verrà ai tormenti per averla».
Resp.: «Torno a dire che non ho fallato, ed ho tanta fede nella Vergine santissima che mi ajuterà, perché non ho fallato, non ho fallato»

Tunc jussum fuit duci ad locum Eculei, et ibi torturae sujici, adhibita etiam ligatura canubis ad effectum ut opportune respondeat interrogationibus sibi factis, ut supra, et non aliter etc., et semper sine praejudicio confessi et convicti ac aliorum jurium etc.; prout fuit ductus, et ei reiterato juramento veritatis dicendae, prout juravit etc. fuit denuo [Allora fu comandato di condurlo al luogo del cavalletto ed ivi sottoporlo a tortura, usando anche la legatura con la canape affinché rispondesse in modo opportuno alle interrogazioni fattegli, come sopra e non altrimenti, ecc. e sempre senza pregiudizio del diritto del reo confesso e convinto degli altri diritti, ecc.; fu pertanto ivi condotto e, ripetutogli il giuramento di dire la verità, egli giurò ecc. e fu quindi]:
Int.: «A risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni già fattegli, come sopra, altrimenti si farà legare e tormentare».
Resp.: «Perché non ho fallato, illustrissimo signore».

Tunc semper sine praejudicio; ut supra, ad effectum tantum, ut supra, et eo prius vestibus Curiae induto jussum fuit ligari, prout fuit per brachium sinistrum ad funem applicatus, et cum etiam ei fuisset aptata ligatura canubis ad brachium dexferum fuit denuo [Allora, sempre senza pregiudizio, come sopra, agli effetti di quanto sopra, e dopo avergli fatto indossare abiti talari, si comandò che fosse legato, quindi venne sospeso ad una fune per il braccio sinistro, dopo che anche al braccio destro fu adattata una legatura di canape. Indi fu nuovamente]:
Int.: «A risolversi di rispondere a proposito alle interrogazioni dategli, come sopra, che altrimenti si farà stringere».
Resp.: «Non ho fallato, sono cristiano, faccia V. S. illustrissima quello che vuole».

Tunc semper sine praejudicio, ut supra, jussum fuit stringi, et cum stringeretur, fuit denuo [Allora sempre senza pregiudizio, come sopra, fu ordinato che si stringesse e, quando fu stretto, fu nuovamente]:
Int.: «Di risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni dategli».
Resp.: «Ah Vergine santissima, acclamando [gridando], non so niente».

Iterum institus ad dicendam veritatem, ut supra [Di nuovo sollecitato a dire la verità, come sopra].
Resp. acclamando [rispose gridando]: «Ah Vergine santissima di S. Celso, non so niente».
Ei dicto: «Che dica la verità, se no si farà stringere più forte: cioè risponda a proposito».
Resp.: «Ah, signore, non ho fatto niente».

Tunc jussum fuit fortuis stringi, et dum stringeretur, fuit pariter [Fu ordinato allora di stringere più forte, e mentre lo si stringeva, gli fu chiesto ancora]:
Int.: «A risolversi a dir la verità a proposito».
Resp. acclamando: «Ah, signore illustrissimo, non so niente:».

Institus ad opportune respondendum, ut supra [Invitato a rispondere a tono, come sopra].
Resp.: «Son qui a torto, non ho fallato, misericordia, Vergine santissima».
Inter.: Iterum ad opportune respondendum, ut supra [Di nuovo invitato a rispondere a tono, come sopra] «che altrimenti si farà stringere più forte».
Resp. acclamando: «Non lo so, illustrissimo signore, non lo so, illustrissimo signore»

Tunc jussum fuit fortius stringi, et dum stringeretur fuit denuo [Fu allora ordinato di stringere più forte, e mentre lo si stringeva gli fu di nuovo].
Int. ad opportune respondendum, ut supra [Intimato di rispondere a tono].
Resp. acclamando: «Ah Vergine santissima, non so niente»;

Tunc postergatis manibus et ligatus, fuit in Eculeo elevatus, deinde [Allora, postegli le mani dietro il dorso, fu sollevato sul cavalletto].
Int.:«A risolversi a rispondere opportunamente alle interrogazioni già dategli».
Resp. acclamando : «Ah, illustrissimo signore, non so niente».
Int. ad opportune respondendam, ut supra.
Resp.: «Non so niente, non so niente. Che martirj sono questi che si danno ad un cristiano! Non so niente»

Et iterum institus, ut supra.
Resp.: «Non ho fallato».

Tunc ad omnem bonum finem jussum fuit deponi et abradi, prout fuit depositus; et dum abraderetur fuit iterum [Allora, ad ogni buon fine, fu ordinato che fosse messo a terra e che gli fosse rasato il capo; fu quindi deposto e, mentre lo si radeva, fu di nuovo]:
Int. ad opportune respondendam, ut supra.
Resp.: «Non so niente, non so niente».

Et cum esset abrasus, fuit denuo in Eculeo elevatus, deinde [E come fu rasato, lo fecero nuovamente salire sul cavalletto, indi]:
Int.: «A risolversi ormai a rispondere a proposito».
Resp. acclamando : «Lasciatemi giù, che dico la verità».
Et dicto: «Che cominci a dirla, che poi si farà lasciar giù».
Resp. acclamando : «Lasciatemi giù che la dico».

Qua promissione attenta fuit in plano depositus, deinde [Ottenuta la promessa, fu deposto a terra indi]:
Int.: «A dir questa verità che ha promesso di dire».
Resp.: «Illustrissimo signore, fatemi slegare un pochettino, che dico la verità».
Ei dicto: «Che cominci a dirla».
Resp.: «Fu il Baruello che mi venne a trovare in porta Ticinese, e mi domandò che andassi con lui per certo formento che era stato rubato, e disse che avressimo chiappato un villano, che aveva lui una cosa da dargli per farlo dormire, ma non vi andassimo». Postea dixit [indi disse]: «No signore, V S. mi faccia slegare un poco, che dico che V S. avrà gusto».
Ei dicto: «Che cominci a dire, che poi si farà slegare».
Resp.: «Ah signore fatemi slegare che sicuramente vi darò gusto, vi darò gusto».
Qua promissione attenta jussum fuit dissolvi, et dissolutus, fuit postea:
Int.: «A dire la verità che ha promesso di dire».
Resp.: «Illustrissimo signore, non so che dire, non so che dire; non si troverà mai che Carlo Vedano abbia fatta veruna infamità»
Institus: «A dire la verità che ha promesso di dire, che altrimenti si farà di nuovo legare e tormentare, senza remissione alcuna».
Resp.: «Se io non ho fatto niente...».
Iterum institus, ut supra.
Resp.: «Signor senatore, vi sono stato a casa di messer Gerolamo a mangiare col Baruello, ma non mi ricordo della sera precisa».

Et cum ulterius vellet progredi jussum fuit denuo ligari per brachium sinistrum ad funem, et per brachium dextrum canubi et cum ita esset ligatus, antequam stringeretur [E, poiché non voleva dire altro, fu comandato di legarlo per il braccio sinistro alla fune e per il braccio destro al canape e, così legato, prima che si stringesse].
Int.: «Ad opportune respondendum, ut supra».
Resp.: «Fermatevi; V. S. aspetti, signor senatore, che voglio dire ogni cosa».
Ei dicto: «Che dunque dica».
Resp.: «Se non so che dire».

Tunc jussum fuit stringi, et dum stringeretur acclamavit: «Aspettate che la voglio dire la verità».
Ei dicto.: «Che cominci a dirla».
Resp.: «Ah signore! se sapessi che cosa dire, direi»: et acclamavit: «ah, signor senatore!».
Ei dicto: «Che si vuole che dica la verità».
Resp.: «Ah, signore, se sapessi che cosa dire la direi».
Et etiam institus ad dicendam veritatem, ut supra
Resp. acclamando: «Ah signore, signore, non so niente».
Et jussum fuit fortius stringi, et dum stringeretur, fuit denuo:
Institus: «A risolversi a dire la verità promessa, e di rispondere a proposito».
Resp. acclamando: «Non so niente, signore, signore, non so niente».

Et cum per satis temporis spatium stetisset in tormentis, multunque pati videretur, nec aliud ab eo sperari posset, jussum fuit dissolvi et reconsignari, prout ita factum est [E, poiché era stato alla tortura per un tempo sufficiente ed era evidente che soffriva molto e che d'altra parte non vi era altro da sperare da lui, fu comandato di scioglierlo e di ricondurlo in prigione; ciò che fu fatto]

 
 
 

Il Dittamondo (4-15)

Post n°1024 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XV

Posati alquanto, prendemmo la via
pur lungo il Ren, dove trovammo Olanda,
ch’è terra ferma e par ch’isola sia: 

però che ’l mar la gira e inghirlanda 
dico da le due parti e cosí il Reno 5 
la chiude e serra ancor da l’altra banda. 
Molto è il paese ubertoso e pieno 
di belli armenti, di stagni e di laghi 
e da lavoro, in parte, buon terreno. 
Gli abitator son pacifici e vaghi 10 
viver del loro e non rubare altrui; 
ma, a qual li sforza o ’nganna, mostran draghi. 
In fra l’altre cittá, a le qua’ fui, 
Utrech mi piacque, ma stettivi poco, 
come piacque a Solin, ch’era con lui. 15 
"Vienne, mi disse, e troviamo altro loco". 
Indi mi trasse in un altro paese 
sopra il mar lungo e per larghezza poco. 
E, poi che l’occhio mio chiaro comprese 
la gente grande e l’abitato loro, 20 
nuovo pensier ne la mente s’accese. 
E dissi a la mia guida: "Son costoro 
i Frisoni, ai quai Cesare, bis vinti, 
l’abito diede col qual fan dimoro?" 
Rispuose: "Sí e pognam che sian cinti 
e tonduti e vestiti a questo modo, 
fieri ne l’armi sono e poco infinti. 
L’abito c’hanno se ’l tengono a lodo, 
quando contro a colui che vinse il tutto 
provâr due volte d’uscir del suo nodo. 30 
Gente non so, che dentro al lor ridutto 
piú amin libertá, che costor fanno, 
che per lei son disposti ad ogni lutto". 
"Ben lo mostrâr, diss’io, e fu gran danno, 
contra il conte d’Analdo lor signore: 35 
poco è passato piú del decimo anno". 
Cosí parlando noi, dentro e di fore 
cercammo quel paese, e, poi che noto 
mi fu a l’occhio e dipinto nel core, 
vidi che di bituminoso loto 40 
e di sterco di buoi si facean foco, 
perché di legna per tutto v’è vôto. 
Vidi gli abitator di questo loco 
come aman castitade e i loro figli 
guardano in fin che ’l tempo par loro poco. 45 
E dicon, quando con lor ne pispigli, 
ch’aver dèn l’uno e l’altro etá matura, 
se denno ingenerar chi li somigli". 
"Qui non è cosa piú da poner cura; 
passiamo altrove, dissi a la mia scorta; 50 
fuggiam costor, ché ’l veder m’è paura". 
Ed ello a me: "Qui due strade ci porta: 
l’una, per mare, passa in Inghilterra; 
l’altra, a sinistra, in vèr la Francia è torta. 
Qual farem noi?" "Qual piú ti piace afferra", 55 
rispuosi; ond’el si volse verso Fiandra, 
che l’oceano in vèr ponente serra. 
Donne gentil, con voce di calandra, 
lá vidi e gran pasture e ricchi armenti 
e pecore infinite andare a mandra. 60 
E nobili cittadi e ricche genti 
vi sono, quant’io sappia in altra parte; 
onesti, belli, accorti e intendenti. 
Poi sopra tutti gli altri sanno l’arte 
che Pallas prima portò in Egitto; 65 
aspri ne l’armi e molto dati a Marte. 
Di boschi è forte quel paese afflitto: 
e però la piú parte foco fanno 
come di sopra de’ Frisoni ho ditto. 
L’Escalt e Lis, due gran fiumi, v’hanno 70 
e piú terre ch’adornan la contrada: 
Bruggia, Guanto e Doagio, ov’è ’l buon panno. 
Di qui ci mena in Picardia la strada, 
che giá Gallia Belgica fu detta; 
da Piten castro par che ’l nome scada. 75 
Dolce è il paese quanto a l’uom diletta 
e l’aire temperata, chiara e sana, 
la terra buona a ciò che vi si getta. 
Morico, Belva, Normaco e Ambiana 
vidi cittá e, tra i fiumi, piú degno 80 
l’Ana trovai, che per Fiandra si spiana. 
Passati per Bologna, dietro tegno 
a la mia guida ed entro in Normandia, 
lo qual paese ricco e buon disegno. 
Qui son bei porti, armenti e prateria, 85 
la terra di gran frutto e l’aire sana 
e per tutto abitata par che sia. 
Un fiume v’è, che lo chiaman Sequana, 
che bagna la cittá di Rotomagno, 
dove si truova d’ogni cosa strana. 90 
Qui non mi pare da darne piú lagno. 
"Troviam la Francia, mi disse Solino, 
ché quanto piú, dovendo andar, rimagno,
e piú m’è grave e noioso il cammino".
 
 
 

Colonna Infame 04-4

Post n°1023 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

(seguito) Capitolo 4

L'interrogatorio che succedette alla tortura fu, dalla parte de' giudici, com'era stato quello del commissario dopo la promessa d'impunità, un misto o, per dir meglio, un contrasto d'insensatezza e d'astuzia, un moltiplicar domande senza fondamento, e un ometter l'indagini più evidentemente indicate dalla causa, più imperiosamente prescritte dalla giurisprudenza.

Posto il principio che «nessuno commette un delitto senza cagione»; riconosciuto il fatto che «molti deboli d'animo avevan confessato delitti che poi, dopo la condanna, e al momento del supplizio, avevan protestato di non aver commessi, e s'era trovato infatti, quando non era più tempo, che non gli avevan commessi», la giurisprudenza aveva stabilito che «la confessione non avesse valore, se non c'era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione non era verisimile e grave, in proporzion del delitto medesimo». (68) Ora, l'infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell'interrogatorio, che la bava de' morti di peste l'aveva avuta dal commissario, che questo gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e dell'accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt'e due: uno, nel suo posto di commissario; l'altro, con lo spaccio del preservativo. Non domanderemo al lettore se, tra l'enormità e i pericoli d'un tal delitto, e l'importanza di tali guadagni (ai quali, del resto, gli aiuti della natura non mancavan di certo), ci fosse proporzione. Ma se credesse che que' giudici, per esser del secento, ce la trovassero, e che una tal cagione paresse loro verisimile, li sentirà essi medesimi dir di no, in un altro esame.

Ma c'era di più: c'era contro la cagione addotta dal Mora una difficoltà più positiva, più materiale, se non più forte. Il lettore può rammentarsi che il commissario, accusando sé stesso, aveva addotta anche lui la cagione da cui era stato mosso al delitto; cioè che il barbiere gli aveva detto: ungete... et poi venete da me, che hauerete una mano, o come disse nel costituto seguente, una buona mano de danari. Ecco dunque due cagioni d'un solo delitto: due cagioni, non solo diverse, ma opposte e incompatibili. l'uomo stesso che, secondo una confessione, offre largamente danari per avere un complice; secondo l'altra, acconsente al delitto per la speranza d'un miserabile guadagno. Dimentichiamo quel che s'è visto fin qui: come sian venute fuori quelle due cagioni, con che mezzi si siano avute quelle due confessioni; prendiam le cose al punto dove sono arrivate. Cosa facevano, trovandosi a un tal punto, de' giudici ai quali la passione non avesse pervertita, offuscata, istupidita la coscienza? Si spaventavano d'essere andati (foss'anche senza colpa) tanto avanti; si consolavano di non essere almeno andati fino all'ultimo, all'irreparabile affatto; si fermavano all'inciampo fortunato che gli aveva trattenuti dal precipizio; s'attaccavano a quella difficoltà, volevano scioglier quel nodo; qui adopravan tutta l'arte, tutta l'insistenza, tutti i rigiri dell'interrogazioni; qui ricorrevano ai confronti; non facevano un passo prima d'aver trovato (ed era forse cosa difficile?) qual de' due mentisse, o se forse mentissero tutt'e due. I nostri esaminatori, avuta quella risposta del Mora: perché lui hauerebbe guadagnato assai, poiché si sarian ammalate delle persone assai, et io hauerei guadagnato assai con il mio elettuario, passarono ad altro.

Dopo ciò, basterà, se non è anche troppo, il toccar di fuga, e in parte, il rimanente di quel costituto.

Interrogato, se vi sono altri complici di questo negotio, risponde: vi saranno li suoi compagni del Piazza, i quali non so chi siano. Gli si protesta che non è verisimile che non lo sappi. Al suono di quella parola, terribile foriera della tortura, l'infelice afferma subito, nella forma più positiva: sono li Foresari et il Baruello: quelli che gli erano stati nominati e così indicati, nel costituto antecedente.

Dice che il veleno lo teneva nel fornello, cioè dove loro s'erano immaginati che potesse essere; dice come lo componeva, e conclude: buttavo via il resto nella Vedra. Non possiam tenerci qui di non trascrivere una postilla del Verri. «E non avrebbe gettato nella Vetra il resto, dopo la prigionia del Piazza!»

Risponde a caso ad altre domande che gli fanno su circostanze di luogo, di tempo e di cose simili, come se si trattasse d'un fatto chiaro e provato in sostanza, e non ci mancassero che delle particolarità; e finalmente, è messo di nuovo alla tortura, affinché la sua deposizione potesse valer contro i nominati, e segnatamente contro il commissario. Al quale avevan data la tortura per convalidare una deposizione opposta a questa in punti essenziali! Qui non potremmo allegar testi di leggi, né opinioni di dottori; perché in verità la giurisprudenza non aveva preveduto un caso simile.

La confessione fatta nella tortura non valeva, se non era ratificata senza tortura, e in un altro luogo, di dove non si potesse vedere l'orribile strumento, e non nello stesso giorno. Eran ritrovati della scienza, per rendere, se fosse stato possibile, spontanea una confessione forzata, e soddisfare insieme al buon senso, il quale diceva troppo chiaro che la parola estorta dal dolore non può meritar fede, e alla legge romana che consacrava la tortura. Anzi la ragione di quelle precauzioni, la ricavavano gl'interpreti dalla legge medesima, cioè da quelle strane parole: «La tortura è cosa fragile e pericolosa e soggetta a ingannare; giacché molti, per forza d'animo o di corpo, curan così poco i tormenti, che non si può, con un tal mezzo, aver da loro la verità; altri sono così intolleranti del dolore, che dicon qualunque falsità, piuttosto che sopportare i tormenti». (69) Dico: strane parole, in una legge che manteneva la tortura; e per intendere come non ne cavasse altra conseguenza, se non che «ai tormenti non si deve creder sempre», bisogna rammentarsi che quella legge era fatta in origine per gli schiavi, i quali, nell'abiezione e nella perversità del gentilesimo, poterono esser considerati come cose e non persone, e sui quali si credeva quindi lecito qualunque esperimento, a segno che si tormentavano per iscoprire i delitti degli altri. De' nuovi interessi di nuovi legislatori la fecero poi applicare anche alle persone libere; e la forza dell'autorità la fece durar tanti secoli più del gentilesimo: esempio non raro, ma notabile, di quanto una legge, avviata che sia, possa estendersi al di là del suo principio, e sopravvivergli.

Per adempir dunque una tale formalità, chiamarono il Mora a un nuovo esame, il giorno seguente. Ma siccome in tutto dovevan metter qualcosa d'insidioso, d'avvantaggioso, di suggestivo, così, in vece di domandargli se intendeva di ratificar la sua confessione, gli domandarono se ha cosa alcuna d'aggiongere all'esame et confessione sua, che fece hieri, doppo che fu ommesso di tormentare. Escludevano il dubbio: la giurisprudenza voleva che la confessione della tortura fosse rimessa in questione; essi la davan per ferma, e chiedevan soltanto che fosse accresciuta.

Ma in quell'ore (direm noi di riposo?) il sentimento dell'innocenza, l'orror del supplizio, il pensiero della moglie, de' figli, avevan forse data al povero Mora la speranza d'esser più forte contro nuovi tormenti; e rispose: Signor no, che non ho cosa d'aggiongerui, et ho più presto cosa da sminuire. Dovettero pure domandargli, che cosa ha da sminuire. Rispose più apertamente, e come prendendo coraggio: quell'unguento che ho detto, non ne ho fatto minga (mica), et quello che ho detto, l'ho detto per i tormenti. Gli minacciaron subito la rinnovazion della tortura; e ciò (lasciando da parte tutte l'altre violente irregolarità) senza aver messe in chiaro le contradizioni tra lui e il commissario, cioè senza poter dire essi medesimi se quella nuova tortura gliel'avrebbero data sulla sua confessione, o sulla deposizion dell'altro; se come a complice, o come a reo principale; se per un delitto commesso ad istigazione altrui, o del quale era stato l'istigatore; se per un delitto che lui aveva voluto pagar generosamente, o dal quale aveva sperato un miserabile guadagno.

A quella minaccia, rispose ancora: replico che quello che dissi hieri non è vero niente, et lo dissi per li tormenti. Poi riprese: V.S. mi lasci un puoco dire un'Aue Maria, et poi farò quello che il Signore me inspirarà; e si mise in ginocchio davanti a un'immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un giorno giudicare i suoi giudici. Alzatosi dopo qualche momento, e stimolato a confermar la sua confessione, disse: in conscienza mia, non è vero niente . Condotto subito nella stanza della tortura, e legato, con quella crudele aggiunta del canapo, l'infelicissimo disse: V.S. non mi stij a dar più tormenti, che la verità che ho deposto, la voglio mantenere. Slegato e ricondotto nella stanza dell'esame, disse di nuovo: non è vero niente. Di nuovo alla tortura, dove di nuovo disse quello che volevano; e avendogli il dolore consumato fino all'ultimo quel poco resto di coraggio, mantenne il suo detto, si dichiarò pronto a ratificar la sua confessione; non voleva nemmeno che gliela leggessero. A questo non acconsentirono: scrupolosi nell'osservare una formalità ormai inconcludente, mentre violavan le prescrizioni più importanti e più positive. Lettogli l'esame, disse: è la verità tutto.

Dopo di ciò, perseveranti nel metodo di non proseguir le ricerche, di non affrontar le difficoltà, se non dopo i tormenti (ciò che la legge medesima aveva creduto di dover vietare espressamente, ciò che Diocleziano e Massimiano avevan voluto impedire!), (70) pensaron finalmente a domandargli se non aveva avuto altro fine che di guadagnar con la vendita del suo elettuario. Rispose: che sappia mi, quanto a me, non ho altro fine.

Che sappia mi! Chi, se non lui, poteva sapere cosa fosse passato nel suo interno? Eppure quelle così strane parole erano adattate alla circostanza: lo sventurato non avrebbe potuto trovarne altre che significassero meglio a che segno aveva, in quel momento, abdicato, per dir così, sé medesimo, e acconsentiva a affermare, a negare, a sapere quello soltanto, e tutto quello che fosse piaciuto a coloro che disponevan della tortura.

Vanno avanti, e gli dicono: che ha molto dell'inuerisimile che, solamente per hauer occasione il Commissario di lavorare assai, et lui Constituto di vendere il suo elettuario habbino procurato, con l'imbrattamento delle porte, la destruttione et morte della gente; perciò dica a che fine, et per che rispetto si sono mossi loro duoi a così fare, per un interesse così legiero.

Ora vien fuori quest'inverisimiglianza? Gli avevan dunque minacciata e data a più riprese la tortura per fargli ratificare una confessione inverisimile! L'osservazione era giusta, ma veniva tardi, diremo anche qui; giacché il rinnovarsi delle circostanze medesime, ci sforza quasi a usar le medesime parole. Come non s'erano accorti che ci fosse inverisimiglianza nella deposizione del Piazza, se non quando ebbero, su quella deposizione, carcerato il Mora; così ora non s'accorgono che ci sia inverisimiglianza nella confession di questo, se non dopo avergli estorta una ratificazione che, in mano loro, diventa un mezzo sufficiente per condannarlo. Vogliam supporre che realmente non se n'accorgessero che in questo momento? Come spiegheremo allora, come qualificheremo il ritener valida una tal confessione, dopo una tale osservazione? Forse il Mora diede una risposta più soddisfacente che non fosse stata quella del Piazza? La risposta del Mora fu questa: se il Commissario non lo sa lui, io non lo so; et bisogna che lui lo sappia, et da lui V.S. lo saprà, per essere stato lui l'inuentore. E si vede che questo rovesciarsi l'uno sull'altro la colpa principale, non era tanto per diminuire ognuno la sua, quanto per sottrarsi all'impegno di spiegar cose che non erano spiegabili.

E dopo una risposta simile, g'intimarono che per hauer lui Constituto fatto la suddetta compositione et unguento, di concerto del detto Commissario, et a lui doppo dato per ontare le muraglie delle case, nel modo et forma da lui Constituto et dal detto Commissario, deposto, a fine di far morire la gente, si come il detto Commissario ha confessato d'hauere per tal fine eseguito, esso Constituto si fa reo d'hauer procurato in tal modo la morte della gente, et che per hauer così fatto, sij incorso nelle pene imposte dalle leggi a chi procura et tenta di così fare.

Ricapitoliamo. I giudici dicono al Mora: come è possibile che vi siate determinati a commettere un tal delitto, per un tal interesse? Il Mora risponde: il commissario lo deve sapere, per sé, e per me: domandatene a lui. Li rimette a un altro, per la spiegazione d'un fatto dell'animo suo, perché possan chiarirsi come un motivo sia stato sufficiente a produrre in lui una deliberazione. E a qual altro? A uno che non ammetteva un tal motivo, poiché attribuiva il delitto a tutt'altra cagione. E i giudici trovano che la difficoltà è sciolta, che il delitto confessato dal Mora è diventato verisimile; tanto che ne lo costituiscono reo.

Non poteva esser l'ignoranza quella che faceva loro vedere inverisimiglianza in un tal motivo; non era la giurisprudenza quella che li portava a fare un tal conto delle condizioni trovate e imposte dalla giurisprudenza.

Note

 
 
 

Rime di Celio Magno (76-85)

Post n°1022 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

76

A quelle belle man che m'impiagaro
col proprio arco d'Amor sì forte il petto;
a quelle onde in tal laccio il cor fu stretto
che più che libertà m'è dolce e caro;

queste spoglie onorar non sia discaro,
di sé vestendo il viv'avorio e schietto.
E dove manca il don, paghi l'affetto,
ch'a voi non è de l'alma propria avaro.

Queste odorando voi, per me le rose
bacieran de la bocca, ove natura
odor che spira assai più dolce ascose;

e per me si godran la luce pura
degli occhi, ove il mio sole il ciel ripose.
O di pover don felice usura!

77

Perdon vi chieggio, o mia terrena stella,
et ad ogni supplicio umil mi rendo,
se vostra fe' col mio sospetto offendo
e vi forma il pensier ver me rubella.

Che far poss'io? Voi sovr'ogni altra bella;
più ch'altri io cieco ognor vaneggio ardendo:
e quante Amor insidie ordisca intendo
per riportar di voi palma novella.

So come in donna foco, a cui ristoro
vicina esca non dia, talor si spegna,
e lontananza in Lete il cor le immerga;

ma so non men che d'onor legge insegna
che prodiga bellezza è vil tesoro
e in nobil petto un ardor solo alberga.

78

Lettere amorose abruciate fra via per sospetto di peste.

Primo

Frena l'empio furor, ministro insano
ch'ardi le chiuse carte; anzi le inchina:
ch'elle son, se nol sai, cosa divina,
e scritte in terra da celeste mano.

Temer peste da loro è stolto e vano,
ch'anzi salute il ciel per lor destina;
e fanne prova in me, c'ho già vicina
morte, languendo a la mia dea lontano.

Fortuna rea, ch'al mio digiun sofferto
per sì lungo sperar, con doppia noia
invidi il cibo in su le labbra offerto;

ma 'l restar il mio nome e la mia gioia
arsi e 'n cenere volti, augurio è certo
che vuole in ciel ch'in questo essilio i moia.

79

Secondo

Ahi, ch'innocenti fur le dolci e pie
note dal mio bel sole in carta espresse;
e nel funesto rogo arse con esse
alto tesor de le speranze mie.

Anzi, tra quelle fiamme ingorde e rie
arser allor le mie viscere istesse;
poiché nel duol de l'aspre piaghe impresse
conforto altro non è che 'l ciel m'invie.

Ma tu, se in te di nobil cura è dramma,
fanne vendetta, Amor; che son tue piume
quelle onde scrive e i cor madonna infiamma.

E troppo offende il tuo possente nume
che sacrilega man con empia fiamma
del più bel foco tuo l'esca consume.

80

Terzo

Chiedea mia fé che le bramate carte
desser luce a quest'occhi e vita al core,
e sentisser da me devuto onore
di ben mille miei baci a parte a parte.

Ma s'esser pur dovean distrutte e sparte,
ciò fatto avria de' miei sospir l'ardore,
o de' miseri lumi il largo umore
ch'io verso dal mio ben, lasso, in disparte.

Or che farò? Se del conforto usato
in terra e 'n mar le vie rinchiuse stanno?
Perché più vivo in sì dolente stato?

Deh soccorri tu Amor pietoso al danno:
fatti de la mia dea corriero alato
o m'aita con morte in tanto affanno.

81

Al saettar di duo be' lumi ardenti,
che d'angelo parean dal ciel disceso,
vinto io rimasi; e bench'a morte offeso,
m'eran dolci i sospir, dolci i tormenti.

Ma poi che gli occhi, a più bel segno intenti,
ebber oltre passando il guardo steso
a quel divin ch'entro 'l mortal compreso
è primo ardor de le più nobil menti,

qual sotto vista dilettosa e vaga
di prato ove mal cauto il piè trascorse,
trovai dentro un bel sen brutt'angue ascoso:

che mordendo il mio cor crudo e pietoso
in lui sanò d'amor l'indegna piaga
e con mortal velen vita mi porse.

82

Amante

Ingrato, empio mio cor, che fatto degno
d'arder al sol d'alta beltà verace,
potesti d'altra oscura, ignobil face
foco gradir de la tua fede indegno.

Qual acerba d'Amor pena e disdegno
contra te basta a tanta colpa audace?
Poich'ingiuria a colei per te si face
ch'è sol del viver tuo lume e sostegno?

Dunque, o sia questa mano in te conversa
con giusto ferro, o tu del proprio errore
lagrime amare eternamente versa:

ch'è severo in se stesso un nobil core,
né si purga in amor voglia perversa
se non con morte o con mortal dolore.

83

Cuore

Poiché duol senza fin, lasso, io sostegno
lungi da la mia vera, amata pace,
ceda il biasmo a pietà, s'alcun fallace
rimedio in tanto mal cercar convegno:

ch'ogni soccorso tenta, ogni suo ingegno,
infermo che vicino a morte giace;
né fallir vano a pena aspra soggiace,
né ricco è men de la mia fede il pegno.

Anzi indegna provar fiamma diversa
dal mio bel foco accrebbe il primo ardore,
e mia colpa in sua gloria or si riversa.

Basti dunque ch'io moia a tutte l'ore,
misero essempio di fortuna aversa,
senza spronar ne le mie piaghe Amore.

84

Amante

Bramar la morte, aver la vita a sdegno,
giunger sempr'esca al suo foco penace,
e pascersi di quel ch'amaro spiace:
legge è d'un cor di vera doglia pregno.

Ma s'aver può da lei tregua o ritegno
di rubello desir fatto seguace,
e fuor che 'l suo bel sole altro gli piace,
è di tepida fiamma aperto segno.

Così tu la tua fé candida e tersa
macchiasti; e guasto del tuo pregio il fiore,
hai con la mia la sua gloria dispersa.

E mentre cerchi il mal render minore
con lingua, qual sei tu, di frode aspersa,
il tuo fallo raddoppi, e 'l mio disnore.

85

Cuore

Peccai, stolto; e pentito a mercé vegno,
com'uom ch'al vero cede e vinto tace;
e vergogna e dolor mi punge e sface,
tal ch'a scorno e tormento il viver tegno.

Dunque io contra 'l mio sol ghiaccio divegno?
e me stesso gli furo empio e rapace?
Dunque altrove spirar posso fugace
da quel bel seno, in cui felice i' regno?

Torni pur l'onda al suo fonte riversa
rapido rio, con meno altrui stupore,
poich'in perfidia è la mia fé conversa;

ed io mi strugga in lagrimoso umore
d'acerba doglia: onde, mia colpa astersa,
racquisti almen con bel morir l'onore.

 
 
 

Il Dittamondo (4-14)

Post n°1021 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XIV

Due son le Germanie, l’alta e la bassa: 
l’alta di sopra al Frioli si stende 
per Chiarentana e ’l Tirallo oltrapassa; 
la bassa lungo il Ren tutta s’intende. 
Molto sono i paesi grandi e ricchi; 5 
molto in tornei e in giostre vi si spende. 
Passati di Buemmia in Ostericchi, 
dissi a Solino: "Io ti prego, per Dio, 
che quanto puoi piú tosto te ne spicchi". 
"Perché?", rispuose. "È il paese sí rio?" 10 
"No, anzi è buon: ma Ridolfo e Alberto 
me ’l fan cosí spiacer dentro al cuor mio: 
ché l’uno e l’altro ti dico per certo 
ebbe lo ’mperio in mano e ciascun fue 
tal, ch’ogni suo ne rimase diserto". 15 
Usciti di Vienna sol noi due, 
prese la strada per veder Soapia, 
per lo molto valor che giá vi fue. 
Poi dimandai se di quella prosapia 
alcun possente e vertudioso v’era: 20 
ma non trovai chi bene il ver ne sapia. 
Di lá partiti, passammo in Bavera, 
onde fu il buon Namo e questa schiatta 
la piú gentil, che sia di lá, s’avera. 
Molto mi parve quella gente tratta 25 
d’amare e portar fede al suo signore, 
ne l’arme accorta e tutta bene adatta. 
Cosí cercando noi dentro e di fore, 
per Norimberg e Monaco sentia 
gittar sospiri e menar gran dolore: 30 
per ch’io mi volsi a la mia compagnia 
e dissi: "Ciò non è senza cagione". 
Ed ello: "Tu, che l’intendi, ne spia". 
Ond’io, udita la sua intenzione, 
cosí mi trassi accortamente presso, 35 
dov’era gente con poco sermone. 
* * * 
Isa passati, prendemmo la strada 
in vèr Messena, ch’è un buon paese 
e propio ch’assai v’han metalli e biada. 
Da Messena cittá il nome prese; 40 
l’Albia la bagna, che l’adorna assai: 
la gente v’è buona, bella e cortese. 
Veduti quelli, in Sansogna passai 
e tanto questa contrada mi piacque, 
che niuna di lá miglior trovai. 45 
De’ Greci questa gente udio che nacque; 
Atrodan, l’Albia, Solan e Visera 
con Linia vi passai e piú altre acque. 
Lá vidi pietre di questa maniera: 
c’hanno l’odore sí soave e buono, 50 
quanto fan le viole in primavera. 
Genti fortissime e fiere vi sono: 
e ciò provaro al tempo de’ buon Otti, 
i quai tra gli altri imperador ragiono. 
Le cittá, le castella e i lor ridotti 55 
cercato, mossi in vèr Franconia i passi, 
per que’ piú dritti e sicuri condotti. 
Bello è il paese e pien di gente fassi; 
Maganza è quivi, dove par che ’l Reno 
e ’l fiume Meno da lato le passi. 
Noi trovammo Toringia per quel seno, 
che vuol dir gente come torre dura: 
duri sono ai nemici e senza freno. 
Forte è la terra e l’aire sana e pura, 
chiusa da monti e di metalli piena, 65 
con ricchi armenti e con bella pianura. 
A Vestfalia ora la via ci mena: 
questa provincia è forte per li monti 
e ’l Reno e la Visera la ’ncatena. 
Piú altri fiumi vi sono con be’ ponti, 70 
sí come Lipia, Rura, e sonvi ancora 
per li lor boschi dilettevol fonti. 
Molto è la gente, che quivi dimora, 
accorta in arme e i cavalier si destri, 
ch’assai per loro il paese s’onora. 75 
Gran copia v’hanno d’animai campestri, 
forti cittadi e nobili castelli 
e frutti assai dimestichi e silvestri. 
Cosí cercando lungo il Ren per quelli 
paesi, a Trieves fui e fui in Cologna, 80 
dove sono i tre magi in ricchi avelli. 
Orsola v’è, che con quanto bisogna 
di fede a Cristo, con le vergin sue 
sostenne morte e non temeo rampogna. 
La terra è ricca e sí ben posta fue, 85 
che de l’altre, che sono a essa intorno, 
donna mi parve, e qui non dico piue. 
Pur tra’ German, come il Ren drizza il corno 
in verso il mar, trovammo piú contadi, 
li quai trapasso, ché a essi non torno. 90 
Io vidi molti fiumi senza guadi 
e’n fra gli altri piú nobile è la Mosa, 
che bagna di Brabanza le contradi. 
Questa è gente fiera e bellicosa 
contro a’ nemici e in fra lor si vede 95 
benigna assai, pacifica e pietosa. 
Per quel cammin, che piú dritto procede, 
passammo in Lottoringia e questa gente 
l’ultima de’ German quasi si crede. 
Da Lottario re, che anticamente 100 
ne fu signore, il paese si noma: 
di lá si dice e ’l nome me ’l consente. 
Li maggior fiumi, che ’l paese doma, 
è Mosa con Mosella e que’ passai; 105 
poi fui a Mes, ch’è di lá una Roma.
E quivi alquanto con Solin posai.

 
 
 

Nun te dimenticà

Post n°1020 pubblicato il 11 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Nun te dimenticà

Me sai tu ddì ch' è 'n fiore delicato?
Er gelo lo rovina e fà avvizzì,
er su' profumo nun pôi ppiù sentì;
rivive solo quanno l'hai spostato,

dove ce stà 'r calore l'hai portato.
Ce stà 'na cosa sola da capì
che vvale pe' 'gni robba ar monno cqui:
La vita è vita solo si ssei amato.

Nun ce vô' mórto a tte pe' ccoccolallo,
riempillo de carezze e d'attenzioni
e, si tu lo pôi fà, tu devi fallo.

Nun cià da provocatte arcun stupore
'sta cosa che t'ho ddetta. Me canzoni?
Nun te dimenticà: la vita è Amore.

Valerio Sampieri
10 gennaio 2015

 
 
 
 
 

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