Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Gennaio 2015 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
      1 2 3 4
5 6 7 8 9 10 11
12 13 14 15 16 17 18
19 20 21 22 23 24 25
26 27 28 29 30 31  
 
 

Messaggi del 14/01/2015

Rime di Celio Magno (150)

Post n°1054 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

150

In risposta per le rime alla canzone del clarissimo signor Domenico Veniero, come se la donna rispondesse

Qual assetata damma
a dolce onda vivace,
tal io gioisco al tuo parlar cortese:
non perch'in me sia dramma
del pregio onde ti piace
ornarmi, e ch'a me scarso il ciel contese,
né forse unqua s'intese
bellezza al mondo nata
degna d'onor tant'alto;
ma perché 'l dono essalto
d'esser dal tuo famoso stil cantata.
ché qual tu m'hai dipinta
sembrerò, se non viva, almeno estinta.
E ch'in me 'l tuo favore
adempia il ben che manca
e 'l poter ch'in me vanti a me sia tolto,
bel lo mostrò il rigore
onde in te l'alma franca
fece prima ad Amor contrasto molto:
ch'ove fere un bel volto
schermo non è che reggia
la primiera percossa.
Or se tua lingua mossa
in soverchie mie lodi erra e vaneggia,
convien che ciò m'apporte
tuo cieco affetto e mia benigna sorte.
Queste sol l'armi furo
ond'io te vinto creda:
e ciò caro, i' nol nego, al cor mi giunse;
ché 'l tuo dir dolce e puro
che l'anime depreda,
te da tutt'altri in mia stima disgiunse.
Questo il mio gel consunse
a ceder già sì lento;
ch'anch'io s'onorar m'odo
da chiari ingegni, godo,
e d'uom nata uman petto aver mi sento:
musa leggiadra e vaga
l'orride fere ancor col canto appaga.
Quinci talor le ciglia
tranquille avien ch'io scopra,
e ti sembri men aspra e men ritrosa.
E indarno altro consiglia
ragion: ch'a lei sta sopra
forza di tua virtù chiara e famosa;
né vuol ch'io sia bramosa
del duol de' tuoi sospiri
in sì bell'alma impresso,
ma che ti sia concesso
qualche scintilla aver de' miei desiri.
Casto ho però 'l pensiero:
ch'Amor con onestà giunto ha 'l suo impero.
Anzi par che l'annoie,
Com'io sempre stimai,
in donna senza lei trovar ricetto:
ch'ambo, qual ricche gioie,
s'han tra lor misti i rai
splendono agli occhi in più gradito aspetto;
ma se per cieco affetto
amor la scaccia, oblia
quel di che più si gloria.
Tu ciò volgi in memoria
qualor t'offende avara cortesia;
che nobile onestade
sol di sguardi e parole usa pietade.
Però se da me brami altra mercede
di mia virtute indegna,
di questa c'hai, la speme ancor si spegna.

 
 
 

Colonna Infame 05

Post n°1053 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Storia della Colonna Infame
di Alessandro Manzoni

Capitolo 5

L'impunità e la tortura avevan prodotto due storie; e benché questo bastasse a tali giudici per proferir due condanne, vedremo ora come lavorassero e riuscissero, per quanto era possibile, a rifonder le due storie in una sola. Vedremo poi, in ultimo, come mostrassero, col fatto, d'esser persuasi essi medesimi, anche di questa.

Il senato confermò e estese la decisione de' suoi delegati. «Sentito ciò che risultava dalla confessione di Giangiacomo Mora, riscontrate le cose antecedenti, considerato ogni cosa,» meno l'esserci, per un solo delitto, due autori principali diversi, due diverse cagioni, due diversi ordini di fatti, «ordinò che il Mora suddetto... fosse di nuovo interrogato diligentissimamente, però senza tortura, per fargli spiegar meglio le cose confessate, e ricavar da lui gli altri autori, mandanti, complici del delitto; e che dopo l'esame fosse costituito reo, con la narrativa del fatto, d'aver composto l'unguento mortifero, e datolo a Guglielmo Piazza; e gli fosse assegnato il termine di tre giorni per far le sue difese. E in quanto al Piazza, fosse interrogato se aveva altro da aggiungere alla sua confessione, la quale si trovava mancante; e, non n'avendo, fosse costituito reo d'avere sparso l'unguento suddetto, e assegnatogli il medesimo termine per le difese.» Cioè: vedete di cavar dall'uno e dall'altro quello che si potrà: a ogni modo, sian costituiti rei, ognuno sulla sua confessione, benché siano due confessioni contrarie.

Cominciaron dal Piazza, e in quel giorno medesimo. Da aggiungere, lui non aveva nulla, e non sapeva che n'avevan loro; e forse, accusando un innocente, non aveva preveduto che si creava un accusatore. Gli domandano perché non ha deposto d'aver dato al barbiere della bava d'appestati, per comporre l'unguento. Non gli ho dato niente, risponde; come se quelli che gli avevan creduta la bugia, dovessero credergli anche la verità. Dopo un andirivieni d'altre interrogazioni, gli protestano che, per non hauer detta la verità intera, come hauea promesso, non può né deue godere della impunità che se gli era promessa. Allora dice subito: Signore, è vero che il suddetto Barbiero mi ricercò a portargli quella materia, et io glie la portai, per fare il detto onto. Sperava, con l'ammetter tutto, di ripescar la sua impunità. Poi, o per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo, soggiunse che i danari promessigli dal barbiere dovevan venire da una persona grande, e che l'aveva saputo dal barbiere medesimo, ma senza potergli mai cavar di bocca chi fosse. Non aveva avuto tempo d'inventarla.

Ne domandarono al Mora, il giorno dopo; e probabilmente il poverino l'avrebbe inventata lui, come avrebbe potuto, se fosse stato messo alla tortura. Ma, come abbiam visto, il senato l'aveva esclusa per quella volta, affine, si vede, di render meno sfrontatamente estorta la nuova ratificazione che volevano della sua confessione antecedente. Perciò, interrogato se lui Constituto fu il primo a ricercare il detto Commissario... et gli promise quantità de danari; rispose: Signor no; e doue vole V.S. che pigli mi (io) questa quantità de danari? Potevano infatti rammentarsi che, nella minutissima visita fattagli in casa quando l'arrestarono, il tesoro che gli avevan trovato, era un baslotto (una ciotola), con dentro cinque parpagliole (dodici soldi e mezzo). Domandato della persona grande, rispose: V.S. non vole già se non la verità, e la verità io l'ho detta quando sono stato tormentato, et ho detto anche d'avantaggio.

Ne' due estratti non è fatto menzione che abbia ratificata la confessione antecedente; se, come è da credere, glielo fecero fare, quelle parole erano una protesta, della quale lui forse non conosceva la forza; ma essi la dovevan conoscere. E del rimanente, da Bartolo, anzi dalla Glossa, fino al Farinacci, era stata, ed era sempre dottrina comune, e come assioma della giurisprudenza, che «la confessione fatta ne' tormenti che fossero dati senza indizi legittimi, rimaneva nulla e invalida, quand'anche fosse poi ratificata mille volte senza tormenti: etiam quod millies sponte sit ratificata». (71)

Dopo di ciò, fu a lui e al Piazza pubblicato, come allora si diceva, il processo (cioè comunicati gli atti), e dato il termine di due giorni a far le loro difese: e non si vede perché uno di meno di quello che aveva decretato il senato. Fu all'uno e all'altro assegnato un difensore d'ufizio: quello assegnato al Mora se ne scusò. Il Verri attribuisce, per congettura, quel rifiuto a una cagione che pur troppo non è strana in quel complesso di cose. «Il furore», dice, «era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difender questa disgraziata vittima.» (72) Ma nell'estratto stampato, che il Verri non doveva aver visto, è registrata la cagion vera, forse non meno strana, e, da una parte, anche più trista. Lo stesso giorno, due di luglio, il notaio Mauri, chiamato a difendere il detto Mora, disse: io non posso accettare questo carico, perché, prima sono Notaro criminale, a chi non conviene accettar patrocinij, et poi anche perché non sono né Procuratore, né Avocato; anderò bene a parlarli, per darli gusto (per fargli piacere), ma non accettarò il patrocinio. A un uomo condotto ormai appiè del supplizio (e di qual supplizio! e in qual maniera!), a un uomo privo d'aderenze, come di lumi, e che non poteva aver soccorso se non da loro, o per mezzo loro, davano per difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n'aveva delle incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano! mettiam pure che non c'entrasse malizia. E toccava a un subalterno a richiamarli all'osservanza delle regole più note, e più sacrosante!

Tornato, disse: sono stato dal Mora, il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato, et che quello che ha detto, l'ha detto per i tormenti; et perché gli ho detto liberamente che non voleuo né poteuo sostener questo carico di diffenderlo, mi ha detto che almeno il Sig. Presidente sij servito (si degni) di prouederli d'un diffensore, et che non voglia permettere che habbi da morire indiffeso. Di tali favori, e con tali parole, l'innocenza supplicava l'ingiustizia! Gliene nominarono infatti un altro.

Quello assegnato al Piazza, «comparve e chiese a voce che gli fosse fatto vedere il processo del suo cliente; e avutolo, lo lesse». Era questo il comodo che davano alle difese? Non sempre, poiché l'avvocato del Padilla, che divenne, come or ora vedremo, il concreto della persona grande buttata là in astratto e in aria, ebbe a sua disposizione il processo medesimo, tanto da farne copiar quella buona parte che è venuta per quel mezzo a nostra notizia.

Sullo spirar del termine, i due sventurati chiesero una proroga: «il senato concesse loro tutto il giorno seguente, e non più: et non ultra». Le difese del Padilla furon presentate in tre volte: una parte il 24 di luglio 1631; la quale «fu ammessa senza pregiudizio della facoltà di presentar più tardi il rimanente»; l'altra il 13 d'aprile 1632; e l'ultima il 10 di maggio dell'anno medesimo: era allora arrestato da circa due anni. Lentezza dolorosa davvero, per un innocente; ma, paragonata alla precipitazione usata col Piazza e col Mora, per i quali non fu lungo che il supplizio, una tal lentezza è una parzialità mostruosa.

Quella nuova invenzione del Piazza sospese però il supplizio per alcuni giorni, pieni di bugiarde speranze, ma insieme di nuove crudeli torture, e di nuove funeste calunnie. L'auditore della Sanità fu incaricato di ricevere, in gran segreto, e senza presenza di notaio, una nuova deposizione di costui; e questa volta fu lui che promosse l'abboccamento, per mezzo del suo difensore, facendo intendere che aveva qualcosa di più da rivelare intorno alla persona grande. Pensò probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli. E siccome, tra le molte e varie congetture ch'eran girate per le bocche della gente, intorno agli autori di quel funesto imbrattamento del 18 di maggio (ché la violenza del giudizio fu dovuta in gran parte all'irritazione, allo spavento, alla persuasione prodotta da quello: e quanto i veri autori di esso furon più colpevoli di quello che conoscessero loro medesimi!), s'era anche detto che fossero ufiziali spagnoli, così lo sciagurato inventore trovò anche qui qualcosa da attaccarsi. L'esser poi il Padilla figliuolo del comandante del castello, e l'aver quindi un protettor naturale, che, per aiutarlo, avrebbe potuto disturbare il processo, fu probabilmente ciò che mosse il Piazza a nominar lui piuttosto che un altro: se pure non era il solo ufiziale spagnolo che conoscesse, anche di nome. Dopo l'abboccamento, fu chiamato a confermar giudizialmente la sua nuova deposizione. Nell'altra aveva detto che il barbiere non gli aveva voluto nominar la persona grande. Ora veniva a sostenere il contrario; e per diminuire, in qualche maniera, la contradizione, disse che non gliel'aveva nominata subito. Finalmente mi disse doppo il spatio di quattro o cinque giorni, che questo capo grosso era un tale di Padiglia, il cui nome non mi raccordo, benché me lo disse; so bene, et mi raccordo precisamente che disse esser figliolo del Sig. Castellano nel Castello di Milano. Danari, però, non solo non disse d'averne ricevuti dal barbiere, ma protestò di non saper nemmeno se questo n'avesse avuti dal Padilla.

Fu fatta sottoscrivere al Piazza questa deposizione, e spedito subito l'auditore della Sanità a comunicarla al governatore, come riferisce il processo; e sicuramente a domandargli se consentirebbe, occorrendo, a consegnare all'autorità civile il Padilla, ch'era capitano di cavalleria, e si trovava allora all'esercito, nel Monferrato. Tornato l'auditore, e fatta subito confermar di nuovo la deposizione al Piazza, s'andò di nuovo addosso all'infelice Mora. Il quale, all'istanze per fargli dire che lui aveva promesso danari al commissario, e confidatogli che aveva una persona grande, e dettogli finalmente chi fosse, rispose: non si trouarà mai in eterno: se io lo sapessi, lo direi, in conscienza mia. Si viene a un nuovo confronto, e si domanda al Piazza, se è vero che il Mora gli ha promesso danari, dichiarando che tutto ciò faceua d'ordine et commissione del Padiglia, figliolo del signor Castellano di Milano. Il difensor del Padilla osserva, con gran ragione, che, «sotto pretesto di confronto», fecero così conoscere al Mora «quello che si desiderava dicesse». Infatti, senza questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori quel personaggio. La tortura poteva bensì renderlo bugiardo, ma non indovino.

Il Piazza sostenne quel che aveva deposto. E voi volete dir questo? esclamò il Mora. Sì, che lo voglio dire, che è la verità, replicò lo sventurato impudente: et sono a questo mal termine per voi, et sapete bene che mi diceste questo sopra l'uschio della vostra bottega. Il Mora, che aveva forse sperato di poter, con l'aiuto del difensore, mettere in chiaro la sua innocenza, e ora prevedeva che nuove torture gli avrebbero estorta una nuova confessione, non ebbe nemmeno la forza d'opporre un'altra volta la verità alla bugia. Disse soltanto: patientia! per amor di voi, morirò.

Infatti, rimandato subito il Piazza, intimano a lui, che dica hormai la verità; e appena ha risposto: Signore, la verità l'ho detta; gli minacciano la tortura: il che si farà sempre senza pregiuditio di quello che è convitto, et confesso, et non altrimenti. Era una formola solita; ma l'averla adoprata in questo caso fa vedere fino a che segno la smania di condannare gli avesse privati della facoltà di riflettere. Come mai la confessione d'avere indotto il Piazza al delitto con la promessa de' danari che si avrebbero dal Padilla, poteva non far pregiudizio alla confessione d'essersi lasciato indurre al delitto dal Piazza, per la speranza di guadagnar col preservativo?

Messo alla tortura, confermò subito tutto quello che aveva detto il commissario; ma non bastando questo ai giudici, disse che infatti il Padilla gli aveva proposto di fare un ontione da ongere le Porte et Cadenazzi, promessigli danari quanti ne volesse, datigliene quanti n'aveva voluti.

Noi altri, che non abbiamo, né timor d'unzioni, né furore contro untori, né altri furiosi da soddisfare, vediamo chiaramente, e senza fatica, come sia venuta, e da che sia stata mossa una tal confessione. Ma, se ce ne fosse bisogno, n'abbiamo anche la dichiarazione di chi l'aveva fatta. Tra le molte testimonianze che il difensor del Padilla poté raccogliere, c'è quella d'un capitano Sebastiano Gorini, che si trovava, in quel tempo (non si sa per qual cagione) nelle stesse carceri, e che parlava spesso con un servitore dell'auditor della Sanità, stato messo per guardia a quell'infelice. Depone così: «mi disse detto servitore, sendo se non (appena) all'hora stato detto Barbiere rimenato dall'esame: V.S. non sa che il Barbiere m'ha detto adesso adesso, che nell'esame che ha fatto, ha dato fuori (buttato fuori) il Sig. Don Gioanni figliolo del Sig. Castellano? Et io, ciò sentendo, restai stupito, et li dissi: è vero questo? Et esso servitore mi replicò che era vero; ma che era anche vero che lui protestava di non raccordarsi di non hauer forsi mai parlato con alcuno spagnuolo, et che se li hauessero mostrato detto Sig. Don Gioanni, non l'haurebbe né anche conosciuto. Et soggiongendo, esso servitore, disse: io li dissi perché dunque lo haueua dato fuori? et lui disse che l'haueua dato fuori per hauerlo sentito nominare là, et che perciò rispondeua a tutto quello che sentiva, o che li veniua così in bocca.» Questo valse (e ne sia ringraziato il cielo) a favor del Padilla; ma vogliam noi credere che i giudici, i quali avevan messo, o lasciato mettere per guardia al Mora un servitore di quell'auditor così attivo, così investigatore, non risapessero, se non tanto tempo dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle parole così verisimili, dette senza speranza, un momento dopo quelle così strane che gli aveva estorte il dolore?

E perché, tra tante cose dell'altro mondo, parve strana anche ai giudici quella relazione tra il barbier milanese e il cavaliere spagnolo; e domandarono chi c'era stato di mezzo, alla prima disse ch'era stato uno de' suoi, fatto e vestito così e così. Ma incalzato a nominarlo, disse: Don Pietro di Saragoza. Questo almeno era un personaggio immaginario.

Ne furon poi fatte (dopo il supplizio del Mora, s'intende) le più minute e ostinate ricerche. S'interrogarono soldati e ufiziali, compreso il comandante stesso del castello, don Francesco de Vargas, succeduto allora al padre del Padilla: nessuno l'aveva mai sentito nominare. Se non che si trovò finalmente, nelle carceri del podestà, un Pietro Verdeno, nativo di Saragozza, accusato di furto. Costui, esaminato, disse che in quel tempo era a Napoli; messo alla tortura, sostenne il suo detto; e non si parlò più di Don Pietro di Saragozza.

Sempre incalzato da nuove domande, il Mora aggiunse che lui aveva poi fatto la proposta al commissario, il quale aveva anche lui avuto danari per questo, da non so chi. E certo non lo sapeva; ma vollero saperlo i giudici. Lo sventurato, rimesso alla tortura, nominò pur troppo una persona reale, un Giulio Sanguinetti, banchiere: «il primo venuto in mente all'uomo che inventava per lo spasimo». (73)

Il Piazza, che aveva sempre detto di non aver ricevuto danari, interrogato di nuovo, disse subito di sì. (Il lettore si rammenterà, forse meglio de' giudici, che, quando visitaron la casa di costui, danari gliene trovaron meno che al Mora, cioè punto.) Disse dunque d'averne avuti da un banchiere; e non avendogli i giudici nominato il Sanguinetti, ne nominò lui un altro: Girolamo Turcone. E questo e quello e vari loro agenti furono arrestati, esaminati, messi alla tortura; ma, stando fermi a negare, furon finalmente rilasciati.

Il 21 di luglio, furono al Piazza e al Mora comunicati gli atti posteriori alla ripresa del processo, e dato un nuovo termine di due giorni a far le loro difese. L'uno e l'altro scelsero questa volta un difensore, col consiglio probabilmente di quelli ch'erano stati loro assegnati d'ufizio. Il 23 dello stesso mese, fu arrestato il Padilla; cioè, come è attestato nelle sue difese, gli fu detto dal commissario generale della cavalleria, che, per ordine dello Spinola, dovesse andare a costituirsi prigioniero nel castello di Pomate; come fece. Il padre, e si rileva dalle difese medesime, fece istanza, per mezzo del suo luogotenente, e del suo segretario, perché si sospendesse l'esecuzione della sentenza contro il Piazza e il Mora, fin che fossero stati confrontati con don Giovanni. Gli fu fatto rispondere «che non si poteva sospendere, perché il popolo esclamava...» (eccolo nominato una volta quel civium ardor prava jubentium; la sola volta che si poteva senza confessare una vergognosa e atroce deferenza, giacché si trattava dell'esecuzion d'un giudizio, non del giudizio medesimo. Ma cominciava allora soltanto a esclamare il popolo? o allora soltanto cominciavano i giudici a far conto delle sue grida?) «...ma che in ogni caso il signor Don Francesco non si pigliasse fastidio, perché gente infame, com'erano questi duoi, non potevano col suo detto pregiudicare alla reputatione del signor Don Giovanni». E il detto d'ognuno di que' due infami valse contro l'altro! E i giudici l'avevan tante volte chiamato verità! E nella sentenza medesima decretarono che, dopo l'intimazion di essa, fossero l'uno e l'altro tormentati di nuovo su ciò che riguardava i complici! E le loro deposizioni promossero torture, e quindi confessioni, e quindi supplizi; e se non basta, anche supplizi senza confessioni!

«Et così», conclude la deposizione del segretario suddetto, «tornassimo dal signor Castellano, et li facessimo la relatione di quant'era passato; et lui non disse altro, ma restò mortificato; la qual mortificatione fu tale, che fra pochi giorni se ne morse.»

Quell'infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo. E se qualcosa potesse accrescer l'orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe il veder que' disgraziati, dopo l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano estorte. La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que' giudici, non solo a fare atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli.

Nelle difese del Padilla, si trovano, ed è un sollievo, le proteste che fecero della loro e dell'altrui innocenza, appena furono affatto certi di dover morire, e di non dover più rispondere. Quel capitano citato poco fa, depose che, trovandosi vicino alla cappella dov'era stato messo il Piazza, lo sentì che «strepitava, et diceva che moriva al torto, et che era stato assassinato sotto promessa», e rifiutava il ministero di due cappuccini venuti per disporlo a morir cristianamente. «Et in quanto a me,» soggiunge, «m'accorgei che lui haueua speranza che si douesse retrattare la sua causa... et andai dal detto Commissario, pensando di far atto di carità col persuaderlo a disporsi a ben morire in gratia di Dio; come in effetto posso dire che mi riuscì; poiché li Padri non toccorono il punto che toccai io, qual fu che l'accertai di non hauer mai visto, né sentito dire che il Senato retrattasse cause simili, dopo seguita la condanna... Finalmente tanto dissi, che s'acquietò... et doppo che fu acquietato, diede alcuni sospiri, et poi disse come haueua dato fuori indebitamente molti innocenti.» Tanto lui, quanto il Mora, fecero poi stendere dai religiosi che gli assistevano una ritrattazion formale di tutte l'accuse che la speranza o il dolore gli avevano estorte. L'uno e l'altro sopportarono quel lungo supplizio, quella serie e varietà di supplizi, con una forza che, in uomini vinti tante volte dal timor della morte e dal dolore; in uomini i quali morivan vittime, non di qualche gran causa, ma d'un miserabile accidente, d'un errore sciocco, di facili e basse frodi; in uomini che, diventando infami, rimanevano oscuri, e all'esecrazion pubblica non avevan da opporre altro che il sentimento d'un'innocenza volgare, non creduta, rinnegata tante volte da loro medesimi; in uomini (fa male il pensarci, ma si può egli non pensarci?) che avevano una famiglia, moglie, figliuoli, non si saprebbe intendere, se non si sapesse che fu rassegnazione: quel dono che, nell'ingiustizia degli uomini, fa veder la giustizia di Dio, e nelle pene, qualunque siano, la caparra, non solo del perdono, ma del premio. L'uno e l'altro non cessaron di dire, fino all'ultimo, fin sulla rota, che accettavan la morte in pena de' peccati che avevan commessi davvero. Accettar quello che non si potrebbe rifiutare! parole che possono parer prive di senso a chi nelle cose guardi soltanto l'effetto materiale; ma parole d'un senso chiaro e profondo per chi considera, o senza considerare intende, che ciò che in una deliberazione può esser più difficile, ed è più importante, la persuasion della mente, e il piegarsi della volontà, è ugualmente difficile, ugualmente importante, sia che l'effetto dipenda da esso, o no; nel consenso, come nella scelta.

Quelle proteste potevano atterrire la coscienza de' giudici; potevano irritarla. Essi riusciron pur troppo a farle smentire in parte, nel modo che sarebbe stato il più decisivo, se non fosse stato il più illusorio; cioè col far che accusassero sé medesimi, molti che da quelle proteste erano stati così autorevolmente scolpati. Di quest'altri processi toccheremo soltanto, come abbiam detto, qualcosa, e soltanto d'alcuni, per venire a quello del Padilla; cioè a quello che, come per l'importanza del reato è il principale, così, per la forma e per l'esito, è la pietra del paragone per tutti gli altri.

Note

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 13-14

Post n°1052 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

XIII.
Come siasi introdotto l'uso di torturare ne' processi criminali

La corruzione del sistema di Roma produsse l'uso della tortura. Concentrate nella sola persona degli imperatori le principali dignità di console, tribuno della plebe e pontefice massimo, si annientò la repubblica e si formò il governo dispotico, collocandosi nell'uomo medesimo il supremo comando dell'armata, la presidenza al senato, il diritto di rappresentare la plebe e quello di presiedere alle cose sacre, agli augurj ed a quanto moveva le opinioni del popolo. Se in Venezia lo stesso uomo fosse comandante delle armi, doge, avogador, inquisitore di stato e patriarca sarebbe abolita la repubblica al momento senza alcun cambiamento di sistema: così accadde a Roma. Da principio Cesare, poi Augusto rispettarono la memoria della libertà, che era recente nell'animo de' Romani; poiché gradatamente s'indebolì quella, si spanse con minor ritegno il natural desiderio ne' despoti di avere una illimitata potenza su tutto. Quindi si procurò di rendersi ben affetta la plebe co' donativi, cogli spettacoli, coll'abbondanza dell'annona e coll'avvilire le cospicue famiglie consolari. E così consolando la plebe colla umiliazione de' nobili, l'orgoglio de' quali le era di peso, ebbero la politica di formarsi il più numeroso partito in favore; e facendo causa comune il principe colla plebe contro i nobili, rapironsi le sostanze degli opulenti impunemente, onde bastare al lusso capriccioso del principe ed alla scioperata indolenza della plebe Romana, si annientò quel numero di famiglie le quali sole potevano servire di argine alla tirannia col loro credito e colle ricchezze, e rimase un governo in cui uno era tutto: e il restante, posto a bassissimo livello, di nessun inciampo poté essere alle voglie illimitate del despota. Tale è il principio che fondò l'impero romano. È dunque conforme a tal principio che si degradassero i nobili e i cittadini e si pareggiassero ai servi, e quindi la tortura usata per questi ultimi soli durante i tempi felici di Roma, fosse dilatata anche ai liberi, a misura che la tirannia si rassodava. Quindi Emilio Fervetti assicura che non invenies ante Diocletianum et Maximianum imperatores quaestionem unquam habitam fuisse de homine ingenuo [non troverai prima degli imperatori Diocleziano e Massimiano la tortura usata per gli uomini liberi]. Vi è chi asserisce che al tempo di Carlo Magno venisse nuovamente stabilito che gli uomini liberi ne fossero esenti. Certa cosa ella è che nessuno scrittore si trova, a quanto so, il quale abbia trattato con un metodico esame del modo di tormentare i rei prima del secolo XIV, il che fa conoscere, che non si risguardava la tortura come essenziale ai giudizj criminali. Dopo quel tempo vennero gli scrittori criminalisti, i quali se avessero scritto in una lingua meno barbara, farebbero ribrezzo a chiunque si pregia di avere una porzione d'umanità nel cuore. Allora fu che usciti gli uomini dalla ignoranza si occuparono faticosissimamente nell'addestrarsi fra un inviluppo di opinioni e di parole, e che sui rottami delle opinioni greche, arabe ed ebree si eressero le università, nelle quali gravemente colle opinioni platoniche, peripatetiche e cabalistiche, unite ai dettami di Avicenna e di Averroè, s'imparò a delirare metodicamente in metafisica, in fisica, in medicina, in giurisprudenza e in tutte le altre facoltà. Vennero poi il Claro, il Girlando, il Tabor, il Giovannini, il Zangherio, l'Oldekop, il Carpzovio, il Gandino, il Farinaccio, il Gomez, il Menocchio, il Bruno, il Brunoro, il Carerio, il Boerio, il Cumano, il Cepolla, il Bossio, il Bocerio, il Casonio, il Cirillo, il Bonacossi, il Brusato, il Follario, l'Iodocio, il Damoderio e l'altra folla di oscurissimi scrittori celebri presso i criminalisti, i quali se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de' raffinati loro spasimi in lingua volgare, e con uno stile di cui la rozzezza e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall'esaminarli, non potevano essere riguardati se non coll'occhio medesimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e ignominia.
Forse la metodica introduzione de' tormenti accaduta dopo il secolo Xl trae la sua origine dallo stesso principio, che fece instituire i "Giudizj di Dio"; quando cioè si volle interporre con una spensierata temerità il giudizio dell'eterno motore dell'universo nelle più frivole umane questioni; quando col portare un ferro arroventato in mano, ovvero con immergere il braccio nell'acqua bollente, e talvolta coll'attraversare le cataste di legna ardenti, si decideva o l'innocenza o la colpa dell'accusato. In quella barbarie dei tempi si credette che l'Essere eterno non avrebbe sofferto che l'innocenza restasse oppressa, e che anzi l'avrebbe sottratta al dolore e ad ogni danno; quasi che per le piccole nostre questioni dovesse Dio sconvolgere le leggi fisiche da lui medesimo create, ad ogni nostra richiesta. Scemata poi col tempo la grossolana ignoranza, sentirono i popoli la irragionevolezza di tai forme di giudizio: e quelle del ferro, dell'acqua bollente e del fuoco ferendo gli sguardi della moltitudine, perché fatte con solennità in pubblico e precedute dalle più auguste cerimonie, dovettero cedere e annientarsi a misura che progredì la ragione; laddove esercitandosi le torture nel nascondiglio del carcere senz'altri testimonj che il giudice, gli sgherri e l'infelice, non trovarono ostacolo al perpetuarsi, essendo per lo più incallita la naturale compassione in chi per mestiero presiede a quelle metodiche atrocità, deboli i lamenti di quei che ne hanno sopportato l'orrore, e rari gli uomini, i quali riunendo le cognizioni all'amore dell'umanità, abbiano avuto la costanza di esaminare un sì lugubre oggetto colla lettura de' più rozzi e duri scrittori di tal materia, e la forza di resistere al ribrezzo che porterebbe a lasciar cadere più volte la penna dalle mani.
Comunque siasi della vera origine da cui emani la nostra pratica criminale, egli è certo che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle occasioni, nelle quali possano applicarvisi, né sul modo da tormentare, se col fuoco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero di volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll'autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati. Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci, i quali senza esaminare d'onde emani il diritto di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza dei delitti, qual debba essere la proporzione fra i delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a rinunziare alla difesa propria e simili principj, dai quali intimamente conosciuti possono unicamente dedursi le naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della società; uomini, dico, oscuri e privati con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare ai mali de corpo umano: e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un serio e placido oggetto di studio, e si accolsero alle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con industrioso spasimo le membra degli uomini vivi e a raffinarlo colla lentezza e colla aggiunta di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l'angoscia e l'esterminio. Tai libri, che avrebbero dovuto con ragione ricoprire i loro autori di una eterna ignominia, e che se fossero in lingua volgare e comunemente letti più che non sono, o farebbero orrore alla nazione, ovvero spegnendo in essa i germi di ogni umana virtù, la compassione e la generosità dell'animo, la precipiterebbero nuovamente verso il secolo di barbarie e di ferro; tai libri, dico, presero fra la oscurità credito, e venerazione acquistarono presso gl'istessi tribunali; e sebbene mancanti dell'impronta della facoltà legislativa e meri pensamenti d'uomini privati, acquistarono forza di legge, legge illegittima in origine, e servono tuttavia per esterminio de' sospetti rei, anche nel seno della bella, colta e gentile Italia, madre e maestra delle belle arti, anche nella piena luce del secolo XVIII: tanto difficil cosa è il persuadere che possano essere stati barbari i nostri antenati, e rimovere un'antica pratica per assurda che ella possa essere!

XIV.
Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura, ed usi odierni di alcuni stati

Né mancarono di tempo in tempo uomini illuminati, che apertamente mostrarono la disapprovazione loro all'uso della tortura. Veggasi Cicerone nella citata orazione Pro Silla; egli chiaramente dice: Illa tormenta moderatur dolor, gubernat natura cujsque tum animi, tum corporis, regit quaesitor, flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil veritati locus relinquatur. (La tortura è dominata dallo spasimo, governata dal temperamento di ciascuno, sì d'animo che di membra; la ordina il giudice, la piega il livore, la corrompe la speranza, la indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce nessun luogo rimane alla verità.) Così Cicerone parlava della tortura, sebbene co' soli servi venisse allora costumata. Veggasi S. Agostino dove tratta dell'errore degli umani giudizj quando la verità è nascosta, de errore humanorum judiciorum dum veritas latet, ove chiaramente disapprova l'uso della tortura: "Mentre si esamina se un uomo sia innocente si tormenta, e per un delitto incerto dassi un certissimo spasimo; non perché si sappia che sia reo il paziente, ma perché non si sa se sia reo, quindi l'ignoranza del giudice ricade nell'esterminio dell'innocente". (Dum quaeritur utrum sit innocens cruciatur, et innocens luit pro incerto scelere certissimas poenas, non quia illud commisisse detegitur, sed quia commisisse nescitur, ac per hoc ignorantia judicis plerumque est calamitas innocentis.) Quintiliano pure accenna la disputa che eravi fra quei che sostenevano che la tortura è un mezzo di scoprire la verità, e quei che insegnavano esser questa la cagione di esporre il falso, poiché i pazienti tacendo mentiscono, e i deboli sforzatamente mentiscono parlando: Sicut in tormentis, qui est locus frequentissimus cum pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera saepe etiam causam falsa dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat, aliis infirmitas necessarium. Su tal proposito Seneca dice: Etiam innocentes cogit mentiri: Il dolore sforza anche gl'innocenti a mentire. Valerio Massimo tratta pure della tortura disapprovandola. Principalmente poi il Vives, nel Commentario al citato passo di S. Agostino, detesta la pratica della tortura ampiamente: io però ne riferirò soltanto parte. "Io mi maraviglio", dice quest'autore, "che noi Cristiani riteniamo tuttavia delle usanze gentilesche, e ostinatamente le difendiamo: usanze non solamente opposte alla carità Cristiana, ma alla stessa umanità". (Miror Christianos homines tam multa gentilia et ea non modo charitati et mansuetudini christianae contraria, sed omni etiam humanitate, mordicus retinere.) Indi soggiunge: "Qual'è mai questa pretesa necessità di tormentare gli uomini, necessità deplorabile, e che se fosse fattibile dovrebbe con un rivo di lacrime cancellarsi, se la tortura non è utile, anzi se se ne può far senza, né perciò ne verrebbe danno alcuno alla sicurezza pubblica? E come vivono adunque sì gran numero di nazioni anche barbare, come le chiamano i Greci ed i Latini, le qual nazioni credono feroce e orrenda cosa torturare un uomo, della di cui reità si dubita?... Non vediamo noi ben sovente degl'infelici che incontrano la morte, anzi che poter sopportare lo spasimo e si accusano di un delitto non commesso, certi del supplizio, per evitare la tortura? In vero debbe aver l'animo da carnefice chi può reggere alle lacrime, ai gemiti, alle estreme angosce espresse dallo spasimo di un uomo che non sappiamo se sia reo. E una così acerba, così iniqua pratica lasciamo noi che domini sul capo di ciascuno di noi?". (Quae est enim ista necessitas tam intollerabilis et tam plangenda, etiam si fieri potest fontibus lacrymarum irriganda, si nec utilis est, et sine damno rerum publicarum tolli potest? Quomodo vivunt multae gentes et quidem barbarae, ut Graeci et Latini putant, quae ferum et immane arbitrantur torqueri hominem, de cujus facinore dubitatur... An non frequentes quotidie videmus, qui mortem perpeti malint quam tormenta, et fateantur fictum crimen de supplicio certi, ne torqueantur? Profecto carnifices animos habemus, qui sustinere possumus gemitus et lacrymas, tanto cum dolore expressas, hominis quem nescimus sit ne nocens. Quidquod acerbam et per quam iniquam legem sinimus in capita nostra dominari?) Né fra i criminalisti medesimi mancò mai un numero di uomini più ragionevoli e colti, che detestarono l'uso de' tormenti: così lo Scalerio, il Nicolai, Ramirez de Prado, Segla, Rupert, il Weissenbac, il Wesembeccio e simili; l'ultimo chiama la tortura una invenzione diabolica portata dall'inferno per tormentare gli uomini: inventum diabolicum ad excruciandos homines de tormentis infernalibus allatum. E il Mattei nel suo trattato De criminibus ha scritto contro l'uso de tormenti; e il Tommassi dice, che onestamente confessa che la tortura è cosa iniqua e indegna di un popolo cristiano: iniquam esse torturam et Christianas respublicas non decentem cordate assero. Finalmente un trattato completo scrisse su tal argomento Giovanni Grevio col titolo: Tribunal reformatum, in quo sanioris et tutioris justitiae via judici Christiano in processu criminali commonstratur, rejecta et fugata tortura, cujus iniquitatem et multiplicem fallaciam, atque illicitum inter Christianos usum libera et necessaria dissertatione aperuit Joannes Grevius ecc. [la Riforma del tribunale, in cui si indica al giudice cristiano la via di una più sana e più sicura giustizia da seguire nei processi, viene negata e messa al bando la tortura; la cui iniquità e frequente fallacia e l'ingiusto uso che se ne fa dai cristiani, Giovanni Grevio ha acclarato in una libera e indispensabile discussione].
Da questa serie d'autorità sembra bastantemente chiaro il torto di coloro, che asseriscono che sia un nuovo ritrovato de' moderni filosofi l'orrore per la tortura; essi non possono aspirare a questa gloria di aver i primi sentita la voce della ragione e dell'umanità su di tale proposito; ma tanto è antica la contraddizione a questa barbara costumanza, quanto è antico il ragionare e l'abborrire le inutili crudeltà. Io non citerò adunque alcuno de' moderni filosofi, contento di aver allegate le autorità di Cicerone, di S. Agostino, di Quintiliano, di Valerio Massimo e degli altri.
Resta finalmente da conoscere, se quello che poté praticarsi presso la repubblica degli Ebrei, presso la Grecia e presso Roma, sia eseguibile ancora ai tempi nostri. Io su tal proposito citerò uno squarcio di quello che il re di Prussia ha scritto nella dissertazione, Dei motivi di stabilire o d'abrogare le leggi. "Mi si perdoni", dice il reale autore, "se alzo la voce contro la tortura; ardisco assumere le parti dell'umanità contro di una usanza indegna de' Cristiani, indegna di ogni nazione incivilita, e tanto inutile quanto crudele. Quintiliano, il più saggio e il più eloquente retore, riguarda la tortura come una prova di temperamento; uno scellerato robusto nega il fatto, un innocente gracile se ne accusa. È accusato un uomo; vi sono degli indizj, il giudice vuol chiarirsene, si pone lo sgraziato uomo alla tortura. Se egli è innocente, qual barbarie è ella mai l'avergli fatto soffrire il martirio? Se la violenza del tormento lo sforza ad accusare se stesso indebitamente, quale detestabile inumanità è ella mai quella di opprimere cogli spasimi i più violenti, e condannare poi al supplizio un cittadino virtuoso? Sarebbe men male lasciar impuniti venti colpevoli, di quello che lo è il sacrificare un innocente. Se le leggi vengono stabilite per il bene de' popoli, come è mai possibile che si tollerino di tali che prescrivono ai giudici di commettere metodicamente delle azioni tanto atroci, e che ributtano la stessa umanità? Sono già otto anni (allora che il re scriveva, ora saranno trenta) dacché la tortura è abolita in Prussia; siamo sicuri di non confondere il reo coll'innocente, e la giustizia non perciò ha ella perduto punto del suo vigore". (Qu'on me pardonne si je me recrie contre la question. J'ose prendre le parti de l'humanité contre un usage honteux à des Chrétiens et à des peuples policés, et, j'ose ajouter, contre un usage aussi cruel qu'inutile. Quintilien, le plus sage et le plus éloquent des rhéteurs, dit en traitant de la question, que c'est une affaire de tempérament: un scélérat vigoureux nie le fait, un innocent d'une complexion faible l'avoue. Un homme est accusé, il y a des indices, le juge est dans l'incertitude, il veut s'éclaircir: ce malheureux est mis à la question. S'il est innocent, quelle barbarie de lui faire souffrir le martire? Si la force des tourmens l'oblige à déposer contre lui-meme, quelle inhumanité èpouvantable que d'exposer aux plus violentes douleurs, et de condamner à la mort un citoyen vertueux, contre lequel il n'y a que des soupçons? Il vaudrait mieux pardonner à vingts soupables, que de sacrifier un innocent. Si les loix se doivent établir pour le bien des peuples, faut-il qu'on en tolère de pareilles qui mettent les juges dans le cas de commettre méthodiquement des actions criantes, qui révoltent l'humanité? Il y a huit ans que la question est abolie en Prusse: on est súr de ne point confondre l'innocent et le coupable, et la justice ne s'en fait pas moins.) Così parla, così attesta uno de' più grandi uomini che sta sul trono. In Prussia, nel Brandeburghese, nella Slesia e in ogni parte della dominazione prussiana non si dà più tortura di veruna sorta, e la giustizia punisce i rei, e la società vi è sicura.
Nell'Inghilterra già da molto tempo non si tollera più la tortura: la legge condanna a un genere di morte il reo che ricusa di rispondere al giudice, questa si chiama la peine forte et dure, ma a torto chiamerebbesi tortura, poiché finisce colla morte e non è veritatis indagatio per tormentum. Veggasi sul proposito dell'Inghilterra il barone di Bielfeld. Dacché l'esperienza fa vedere che nell'Inghilterra e nella Prussia i delitti si discoprono e si puniscono, che la giustizia si esercita e la società non ne soffre, ella è cosa quasi barbara il non abolire l'uso della tortura. Chiunque ha viscere, ed abbia una volta veduto commettere una tal violenza alla natura umana, non può, cred'io, essere di un parere diverso; così egli: Depuis qu'on voit en Angleterre et en Prusse que tous les crimes se découvrent, qu'ils sont punis, que la justice est rendue, que la société n'en souffre point, il est presque barbare de ne pas abolir l'usage de la question. Quiconque a des entrailles, et a vu une fois faire cette violence à la nature humaine, ne saurait s'empêcher, je pense, d'etre de mon sentiment. Che nell'Inghilterra sia affatto abolita la tortura, lo attesta anche il presidente di Montesquieu. Anche nel regno della Svezia non si usano torture, se crediamo a Ottone Tabor. Nei regni d'Ungheria, di Boemia, nell'Austria, nel Tirolo ecc., per una ordinazione degna del regno di Maria Teresa, nell'anno 1776 restò abolito l'uso della tortura; e sulla fine dell'anno medesimo un così umano regolamento promulgossi nella Polonia con una legge che comincia così: "La costante esperienza dimostra quanto sia vizioso il mezzo impiegato in varj processi criminali per venire in cognizione della verità mediante la tortura, e nello stesso tempo quanto sia cosa crudele il farne uso per provare l'innocenza"; quindi se ne abolisce la pratica, e si prescrive che si debbano adoperare i soli mezzi di convinzione.
Vi sono stati e vi sono tuttavia alcuni, i quali per ultimo rifugio ricorrono alle locali circostanze del Milanese, ed asseriscono non potersi far senza della tortura presso della nostra nazione. Incautamente al certo, e per soverchia venerazione agli usi trapassati in tal guisa calunniano la nostra patria; quasi che i cittadini nostri, d'indole oltre modo feroce e maligna, con altro miglior mezzo non si potessero contenere se non trattandoli con atrocità e degradandoli all'essere di schiavi; quasi che i principj di virtù e d sensibilità fossero talmente spenti nel nostro popolo, che quei mezzi che bastano presso le altre nazioni fossero insufficienti per noi! Io ben so che chi fa tale eccezione non riflette alle conseguenze, che pure immediatamente ne emanano. Chiunque conosce la nostra patria, per i nostri concittadini ne ha un'idea ben diversa; risovvengasi ciascuno dell'epoca non molto remota, quando la nostra benefica ed immortale sovrana Maria Teresa essendo in pericolo di soccombere al vajuolo, stavano aperte le chiese alle pubbliche preghiere; allora fu che ogni ceto di persone, artigiani, contadini, nobili, plebei, tutti, posposti gli ufficj loro, a pi degli altari singhiozzando offrivano voti all'Onnipotente per conservare i preziosi giorni di una sovrana, alla quale la virtù, la beneficenza e il dovere hanno guadagnato i cuori sensibili. I teneri e spontanei movimenti della moltitudine, che non poteva essere mossa da verun fine politico, bastano a provare il sentimento di bontà e di rettitudine che è comunemente piantato ne' cuori. No, non si dica che i Milanesi sieno una eccezione odiosa della regola.

 
 
 

Il Dittamondo (4-22)

Post n°1051 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXII

"Qual vuol esser Cristian perfetto a Dio, 
disse Solin, per veder belli essempli 
venga a Vignon, dove siam tu e io, 
e l’occhio al principale prima templi, 
poi a’ suoi frati digradando miri, 5 
come ciascun col ciel par che contempli. 
Qui vanno a piè con preghi e con sospiri, 
qui povertá si brama e porta in palma, 
qui con digiun s’affliggono i disiri; 
qui castitá, che santifica l’alma, 10 
qui caritade, qui speranza e fede, 
umilitá e veritá s’incalma. 
Qui tanto amor nel prossimo si vede, 
che ciascun quanto può piú si distrugge 
per farli quel che li bisogna e chiede. 15 
Ogni mondan diletto qui si fugge, 
e gola e simonia e vanagloria 
e gli altri vizi tutti s’hanno in ugge". 
Cosí mi disse, andando, la mia gloria. 
E io a lui: "Questo è sommo bene, 20 
s’egli han la vita di Cristo in memoria: 
ché, quando miro come si convene, 
vedo veracemente che per altro 
in questo mondo l’uomo a star non vene, 
che sol per acquistar, con questo, l’altro; 25 
e in acquistarlo non ci so piú modo 
che tener dietro a Lui divoto e scaltro. 
Ma qui di quel che di’ niente ci odo: 
non so se parli al modo di Ribi, 
che per antifrasis si sciolga il nodo". 30 
Ed ello a me: "Se tu vai e stai ibi 
dov’elli vanno e sono a concistoro, 
e gli occhi tuoi del loro pasto cibi, 
vedrai la santitá che regna in loro 
e del sesto Chimento udirai come 35 
ispese largamente il gran tesoro. 
Assai ci sono, a’ quali io non fo nome, 
che s’avessen da spender com’ebbe ello, 
che darebbon non men d’un sí bel pome". 
Qui si taceo e io allor favello: 40 
"Ora t’intendo e credo ciò che dici, 
mirando ai modi di questo e di quello". 
Ed elli ancor: "Figliuolo, ascolta quici 
e ciò ch’io dico, quanto puoi, rubrica, 
ché quel dir frutta c’ha vive radici. 45 
Ben so ch’a molti il mio parlar nemica; 
ma s’alcun ti si duol, rispondi: – Nota: 
non faccia l’uom, se non vuol che si dica –". 
Veduta la milizia sacerdota, 
cui piange Roma per la sua follia 50 
e de la terra ogni parte rimota, 
di lá partimmo e prendemmo la via 
per cercar la Guascogna e la Turona, 
le quai province son d’Equitania. 
Tra Piren monte e ’l fiume di Garona 55 
e tra ’l mare oceano si racchiude 
la contrada ch’attien tutta a Guascona. 
Silvestri, montuose, fredde e nude 
in molte parti vidi le sue rive, 
e in altre assai di belle ville e drude. 60 
La gente vi trovai, che quivi vive, 
bella del corpo, aldace e feroce, 
come Isidoro, Plinio e Erodoto scrive. 
Per la copia del vino, ond’è gran voce, 
vengono i mercatanti in quella parte, 65 
che poi il portan fuor de la sua foce. 
Questa provincia truovo in molte carte 
che da Vachea Vascona si dice 
e con Tolosa ancor confina in parte. 
E cosí ricercando le sue lice, 70 
vi trovammo Bordella sopra il mare, 
dove Garona perde ogni radice. 
Di lá partimmo, apresso, per trovare 
Turonia, ch’è un bel paese e grande; 
la terra ha buona e salubrima l’a’re. 75 
Per lo paese un gran fiume si spande: 
Ligio si noma e questo si vede 
pien di navilio, spesso, da le bande. 
Una cittá ne la contrada siede: 
Turona è detta, ch’è tanto vetusta, 80 
che prima a la provincia il nome diede. 
La gente grande v’è, forte e robusta, 
in opera benigna piú che in vista 
e coi vicini temperata e giusta. 
Tutta l’Equitania si chiude e lista 85 
tra la Narbona e ’l paese di Spagna 
e tra ’l mare oceano si regista. 
"A ciò, disse Solin, che non rimagna 
terra di qua, che non ti sia scoperta, 
è buon cercar per la minor Bretagna". 90 
Io fui in Gaunes, dove ancor s’accerta 
la morte di Dorins e la donzella 
che i levrier lassò al re de la Deserta. 
E fui ancora dove si novella 
che, combattendo, Artú Frolle conquise, 95 
acquistando i due regni e le castella. 
Poi vidi l’isoletta dove uccise 
Tristano l’Amoroldo e dove ancora 
Elias di Sansogna a morte mise. 
In Tintoil udii contare allora 
d’un’ellera, che de l’avello uscia 
lá dove ’l corpo di Tristan dimora, 
la quale abbarbicata se ne gia 
per la volta del coro, ove trovava 
quello nel quale Isotta par che sia. 105 
Per le giunture del coperchio entrava 
e dentro l’ossa tutte raccogliea 
e come viva fosse l’abbracciava:
e ciò di novo trovato parea.

 
 
 

Rime di Celio Magno (138-149)

Post n°1050 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

138

[Ad Ascanio Pignatelli. 1]

Desto amor dal mio amor è 'l tuo ch'or giunge,
novo sole, ad aprirmi il dì più chiaro;
e mentre ei m'alza de' più degni a paro,
divini accenti a cortesia congiunge.

Primo e tacito amai, scorto sì lunge
il mio dal pregio tuo sublime e raro;
or che tu mi precorri in stil sì caro,
vergogna me del mio silenzio punge.

Ma troppo oltra il mio merto, alma gentile,
m'orna il tesor del tuo benigno affetto
col farmi a te, che par non hai, simìle.

E s'empie tanta grazia il mio diffetto,
ragion è ben ch'in questo core umìle
tu, qual nume in suo tempio, abbi ricetto.

139

[2]

Fetonte io sembro, o di valor tra noi
gradito sol: poiché raccolto splendo
nel lume di tua gloria, e 'l carro ascendo
sol di te degno e di famosi eroi.

Ma quei morte ebbe in premio a' desir suoi,
io, tua mercede, eterna vita attendo;
quegli audace usò 'l dono, umile io 'l rendo,
stella accesa restando ai raggi tuoi.

Tal ch'ove il tuo splendor meco non giostri,
sfavillar posso anch'io di qualche luce;
ma di me nulla appar quando ti mostri.

Se dunque è pregio in me, per te riluce;
e s'han lume sovrano i giorni nostri,
il chiaro sol di tua virtù l'adduce.

140

[A Bernardo Maschio]

Pietà dunque è spogliar chi già si more
di quel conforto sol ch'in vita il tiene?
Ed a l'altre ch'io provo acerbe pene
medicina sarà mortal dolore?

Non pò, Maschio, non pò né corso d'ore,
né lungo essilio in peregrine arene,
né quanto d'aspro e rio dal ciel mi viene
pur dramma il foco mio render minore.

Visse quest'alma sol quant'ella scorse
l'amate carte; ond'or che 'l ciel le fura,
ben son le mie giornate a sera corse.

Ch'in un misero cor nova sventura
inaspra il dente al duol che prima il morse,
e d'amore al velen cede ogni cura.

141

[A Domenico Venier]

Ahi, che tant'alto, ove 'l tu' amor le ha scorte,
la bassa musa mia non spiega l'ale;
e dove apporta il ciel guerra fatale
son l'umane difese inferme e corte.

Ma quando al tuo destin sì iniquo e forte
fosse atto di por fren canto mortale,
qual vince il tuo di meraviglie? E quale
poria più del tuo scampo aprir le porte?

Siati conforto almen ch'in gloria cresci,
mentre per altro già celebre e noto,
d'animo invitto in tanto mal riesci.

E Dio sol prega d'altra speme voto,
che tutto ei può: per lui di martir esci,
o inchina il suo voler, servo divoto.

142

[A Orsatto Giustinian]

Non ha 'l mio cor giamai con più diletto
più nobil cura in sé vivendo scorto
che di giovarti; e 'n ciò pur mi conforto
darti ancor segno del mio ardente affetto.

Ma 'l render paghi a mie forze è disdetto
tuoi dolci prieghi: in cui te stesso a torto
frodi del vanto a me concesso e porto,
benché tutto è d'amor cortese effetto.

E se pur mentre teco alzarmi tento
in pregio e 'n fama, ove tu pieghi io stendo
talor le braccia a sostenerti intento,

son quasi fido legno a cui crescendo
ricco arboscel s'appoggia: e ornamento
da' tuoi rami felici e gioia prendo.

143

[A Simone Contarini]

Ben or sper'io che m'ami altri e mi stime
e che Febo tra suoi non sdegni accorme,
poiché m'orna tua grazia e tenta porme
dal piè del bel Parnaso a l'alte cime.

Sembri raro scultor ch'intagli e lime
un rozo marmo e 'n vaga statua il forme;
che 'l dotto stil, con cui tu mi trasforme,
la gloria tua ne le mie lodi esprime.

Così d'eterno onor paga è mia brama,
che 'l ciel di tanto don povera fece:
e mio tesor divien tua cortesia.

Oh s'adempisse ancor l'ardente prece
del poter innalzar la musa mia
là 've 'l tuo merto e 'l suo dever la chiama.

144

 [A Giacomo Barbaro]

Più di te vecchio legno in preda al vento
scorgo anch'io da vicin l'ora funesta,
ché morte il san non men che l'egro infesta;
ira con tai voci al cor porgo ardimento:

a che tanto dolor, tanto lamento
perché ritoglia Dio quel che ne presta?
A che deve uom bramar lunga tempesta
e del suo proprio porto aver spavento?

Vissi; e potea lo spazio esser più corto.
E se de' falli miei per tema imbianco,
in lui che mi creò prendo conforto.

Ciò pensa e tu: ma più ti renda franco
che di te, sacro cigno, ancor che morto,
non verrà mai la gloria e 'l canto manco.

145

[Ad Alessandro Turamini]

Mira i bassi miei carmi occhio clemente
di cortesia: ch'in te bell'alma impera
mentre gl'innalzi; e la lor fosca sera
fai sembrar col tuo dir chiaro Oriente.

Oh potess'io cantar sì dolcemente:
ch'amollirei l'aspra mia donna e fera;
e contra il tempo rio forte guerrera
fora a schermirsi la mia debil mente.

Ma può sbramarmi a par di Mincio e d'Arno
il bel Sebeto; e 'l mio nome e gli ardori
sol render paghi il tuo soave canto:

ché così fian per me voraci indarno
l'onde di Lete; e da' tuoi propri onori
coglierò non sperato, eterno vanto.

146

[A Domenico Venier, in nome del ritratto]

Dentro al tuo cor più viva e bella siede
colei cui rassembr'io, nobil pittura;
e più da morte in lui regna secura
mentre al mondo ne fai sì chiara fede.

Oh qual grazia è la tua darle in mercede
eterno onor d'un ben che 'l tempo fura!
Omai più non la punga invida cura
del grido che 'l gran Tosco a Laura diede.

Né men ti debbo anch'io del pregio colto
dal tuo divino stil; che spiro in esso
di corpo finto in viva forma volto.

Ma pria ne lodo Amor ch'al ver sì presso
fa gir il falso: onde in me credi accolto
quel c'hai ne gli occhi, e più ne l'alma, impresso.

147

[A Valerio Marcellini. 1]

Se declina il mio sol, non però sento
spegnersi il foco in me del suo splendore;
Ché non tanto m'accese il bel di fuore,
quanto de l'alma il vago, alto ornamento.

E s'or con quel mi scalda Amor più lento,
con questo fa l'incendio ognor maggiore:
ché s'avanza in beltà senil valore,
ond'io più sempre son d'arder contento.

Né perché del bel volto il tempo rio
oscuri il lume dal mio cor lo sgombra,
a le cui fiamme eterne il ciel l'unio.

Così nebbia d'error nulla m'ingombra:
ché per gli amati raggi il pensier mio
del sommo sol la vera luce adombra.

148

[2]

Non creò Dio bellezza acciò che spento
sia 'l foco in noi che per lei desta Amore;
né temer del suo ardor deve il tuo core,
poich'io, men forte assai, nulla il pavento.

E s'a mirar quant'ella è frale intento
invece di piacer t'empi d'orrore,
perché l'onde solcar non stimi errore
con aspro, ove puoi gir con dolce vento?

Meco dunque al ciel s'erga il tuo desio
per miglior via; ché van timor t'adombra,
posto il tuo gran valor troppo in oblio.

Pensa che se beltà per morte sgombra,
quasi raggio nel sol, ritorna in Dio;
e più ch'altro è di lui vestigio ed ombra.

149

[A Costantino Ceuli]

Quasi secondo sol, fuor del mar sorge
Vinezia, e sparge rai di gloria intorno;
Ché 'l vero Dio formò suo corpo adorno
Sì ch'altri a pena il crede e pur lo scorge.

L'istesso alma è di lei, ch'ognor le porge
il moto e 'l lume: onde il suo bel soggiorno
gode d'ogni splendor perpetuo giorno,
e qual fiorì più chiara, in lei risorge.

Però, Ceuli, dal segno erra il tuo telo
Dando a bass'uom, com'io, sì altero vanto:
e 'n ciò troppo d'amor t'adombra il velo.

Spendi in lei sola il tuo pregiato canto,
ché non puoi meglio altronde alzarti al cielo:
e fia vestito il ver del proprio manto.

 
 
 

Giovanni della Casa

Post n°1049 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 
Foto di valerio.sampieri

Il Casa tiene il primo luogo nell' ordine della nostra raccolta. Fu toscano, nativo di Mugello, contado del fiorentino, e arcivescovo di Benevento. Ambiva il cardinalato; ma ne morì in desiderio, tuttochè avesse protettori sulla cattedra di san Pietro, e gli studj fossero scala agli onori al suo tempo. Alcune scostumate terzine composte in gioventù gli impedirono il conseguimento di quella dignità, se crediamo ai biografi; o forse la rigida tempera di Paolo IV, sdegnoso di aderire alle sollecitazioni della corte di Francia, e di mostrarsi troppo liberale agli amici. (Casotti, Lettere intorno alle opere del Casa). Volentieri accondiscenderei all' opinione ebe nasce spontanea dalle poesie dell' autore, dalle quali poco indizio trapela di scontentamento de' suoi giovanili poemi, bensì molto delle fatuità de' servigi e delle speranze cortigianesche. Il Casa ebbe indole d'animo generosa, e diremo anche guerriera, confessandolo egli stesso nelle sue rime, se non in quanto le gagliarde passioni erano in lui addolcite dall'amore, e dalla malinconia compagna agli studj. Fu accanito avversario al Vergerio, oltre che nei Jambi, in una lunga scrittura trovata dal Menagio nella Magliabecchiana. Sconfidato di prevalere nel favore dei principi, cercò la solitudine, ove anelava a disimparare ciò che Roma gli aveva insegnato molti anni. Nobilissima è 'la canzone in cui deplora i traviamenti amorosi del suo primo tempo, e nobilissimi tutti i sonetti in cui parla dell'arte ai più celebri fra suoi contemporanei. Resosi singolare e stimato per la diligenza con cui cercò la perfezione del verseggiare nella scelta industriosa e nella collocazione delle parole (arte censurabile nella prosa delle sue orazioni e de' suoi trattati), è mirabile per la passione che seppe mantener viva e sensibile nella sua poesia. Concorse col Bembo nell'amore di Elisabetta Quirini; e vorrei crederlo più di lui fortunato, se le fortune degli innamorati si dovessero desumere dalle facoltà dell' ingegno e dalla forza della passione. Avendosi per suoi alcuni sonetti che con incerto giudizio gli vengono attribuiti (e non saprebbesi, per verità, a chi altri meglio in quel secolo), sarebbe stato cittadino ardente e animoso, del pari che fervido innamorato. Toltosi all' imitazione del Petrarca, e fattosi per certi rispetti caposcuola, non potè fuggire all' ugne dei commentatori, che gli furono addosso numerosi e instancabili. Non li nominerò, perchè l'indole di queste Note molto succinte non concede ch' io mi giovi se non scarsamente delle loro fatiche: li ringrazio tutti in comune dell'avermi insegnato ad avvertire i luoghi più ardui del canzoniere, quando essi ordinariamente ristavano dal loro ufficio, esercitato nel resto con incredibile pertinacia. Chi peraltro amasse correre a diporto per quel pelago di citazioni e di sensi sottintesi e figurati ricorra alla veneta edizione del Pasinello, ove in quattro grossi volumi è quanto d'antico e di moderno può desiderare su questo proposito la pazienza degli eruditi. In quale stima sia da tenere il Casa s'impara, più che altro, dalle liriche di Torquato Tasso che l'imitò con assiduità di discepolo.
(Luigi Carrer, Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, pag. 299)

Signor fiorentino, che nacque ai 28 giugno 1503. La sua gioventù non si loda. I suoi vizi morali e letterarj non si dimenticarono mai dalla corte romana, in cui entrò. Dice di lui a tal proposito Durante Duranti: il Casa,
cui la Formica e 'l Forno
Fe' che il verde cappel verde rimase.
Egli stesso di se scrisse, "puer peccavi, accusant senem". Nel 1544 fu eletto arcivescovo di Benevento, e nunzio a Venezia, la qual città fu da lui volentieri eletta per suo privato soggiorno. E' celebre la sua orazione a Carlo V per la restituzione di Piacenza. Le liriche sue poesie non sono stimate che dai dotti; ma il suo "Galateo" è conosciuto anche dal popolo. Morì d'anni 53.
(Andrea Rubbi, Parnaso Italiano, Volume 10, 1785, pag. 318)

 
 
 

Rime di Celio Magno (137)

Post n°1048 pubblicato il 14 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

137

Deus

Del bel Giordano in su la sacra riva
solo sedeami, ed al pensoso volto
stanco i' facea de la mia palma letto;
quand'ecco tra splendor che d'alto usciva
un dolce suon: ver cui lo sguardo volto,
e pien di gioia e meraviglia il petto,
scorsi dal cielo in rilucente aspetto
bianca nube apparir d'angioli cinta,
ch'in giù calando al fin sopra me scese
e in aria si sospese.
Restò tutta a que' rai confusa e vinta
l'alma;e, certa che nume ivi s'asconda,
le divote ginocchia a terra inchina.
rotta la nube allor tosto s'aperse
e nel suo cavo sen tre dee scoperse,
tutte in vista sì vaga e pellegrina,
e tanto nel mio cor dolce e gioconda
ch'uman pensier non è ch'a lei risponda;
ma la prima che sparse in me sua luce,
parea de l'altre due reina e duce.
Questa in gonna d'un vel candido e puro
coronato di stelle il crine avea,
co' lumi bassi e tutta in sé romita;
l'altra in verde e bel manto un cor sicuro
mostrando, le man giunte al ciel tenea
con gli occhi e col pensiero in lui rapita;
d'ostro ardente la terza era vestita,
e frutti e fiori ond'avea colmo il seno
spargea con larga e con mai stanca mano.
La prima in sovrumano
parlar disciolse a la sua lingua il freno,
e: — O cieca — a me disse, — o stolta mente
di voi mortali, o miserabil seme,
mentre lunge da Dio ve n' gite errando
ed a' vostri desir pace sperando
ove tra guerra ognor si piange e geme.
Quel sommo eterno amor tanto fervente
in tua salute, or grazia a te consente
che 'l vero ben da noi ti si dimostri:
tu nel cor serba attento i detti nostri.
Apre nascendo l'uom pria quasi al pianto
ch'a l'aria gli occhi: e ben quinci predice
gravi tormenti a' suoi futuri giorni;
né qua giù vive altro animal che tanto
sia di cibo e vestir privo e infelice,
né ch'in corpo più fral di lui soggiorni.
l'accoglie poi tra mille insidie e scorni
il mondo iniquo; e 'n labirinto eterno
di travagli e d'error l'intrica e gira:
ch'ognor brama e sospira
oltra il suo stato, e sente un verme interno
che le midolle ognor consuma e rode.
Chi d'or la sete o di diletti appaga?
Chi mai d'ambizion termine trova?
e se pur dolce in tanto amaro prova,
di soave veleno unge la piaga
e di mortal sirena al canto gode:
ché quel ben torna a maggior danno e frode.
ancor ch'ei ben non sia ma sogno ed ombra,
che non sì tosto appar, che fugge e sgombra.
Ma che dirò de la tremenda e fera
falce onde morte ognor pronta minaccia,
sì ch'aver sol dal cielo un cenno attende?
Ahi quante volte allor ch'altri più spera
la sua man lungi e che più lenta giaccia,
giunge improvisa e 'l crudo ferro stende!
Voi, le cui voglie sazie a pena rende
il mondo tutto, e quasi eterni foste
monti ognor sopra monti in aria ergete,
voi, voi tosto sarete
vil polve ed ossa in scura tomba poste.
E tu ancor che m'ascolti, e 'l fragil vetro
del viver tuo saldo diamante credi,
egro giacendo e di rimedio casso
ti vedrai giunto al duro ultimo passo;
e gli amici più cari e i dolci eredi
con ogni tuo desir lassando adietro,
fredda esangue n'andrai soma in ferètro.
Oltra che spesso avien ch'uom moia come
fera, senza sepolcro e senza nome.
Misera umana vita ove per altra
miglior, nata non fosse; e un sospir solo
de l'aura estrema in lei spegnesse il tutto.
Suo peggio fora aver mente sì scaltra:
ché 'l conoscer il mal raddoppia il duolo,
e buon seme daria troppo reo frutto.
Ma questo divin lume in voi ridutto
giamai non more; in voi l'anima regna,
che del corporeo vel si veste e spoglia.
La qual, s'ogni sua voglia
sprona a virtù, del ciel si rende degna;
e quanto prova al mondo aspro ed acerbo
spregiando fa parer dolce e soave.
Ma com'uom possa a tanta speme alzarsi,
m'ascolta, o figlio; e benché siano scarsi
tutti umani argomenti, ove a dar s'have
luce de l'alto incomprensibil Verbo,
quando umiltà non pieghi il cor superbo,
tu però che di sete ardi a' miei raggi,
vo' che 'l fonte del ver nei rivi assaggi.
Mira del corpo universal del mondo
il vago aspetto e l'animate membra,
e qual han dentro occulto spirto infuso;
mira de l'ampia terra il sen fecondo
quante cose produce e quanto sembra
ricco del bello intorno a lui diffuso;
e teco dì: “Questo mirabil chiuso
vigor ch'in tante e sì diverse forme
tutto crea, tutto avviva e tutto pasce,
onde move? Onde nasce?
Qual fu 'l maestro a tanta opra conforme?
Qual man di questo fior le foglie pinse,
e gli aperse l'odor, la grazia e 'l riso?
Chi l'urna e l'onde a questo fiume presta
e 'l volo e 'l canto in quel bel cigno desta?
Chi dai lidi più bassi ha 'l mar diviso
e per quattro stagion l'anno distinse?
Chi 'l ciel di stelle e chi di raggi cinse
la luna e 'l sole, e con perpetuo errore
sì constante lor diè moto e splendore?”
Non son, non sono il mar, la terra e 'l cielo
altro che di Dio specchi e voci e lingue,
che Sua gloria cantando innalzan sempre;
e ne sia certo ognun che squarci il velo
che degli occhi de l'alma il lume estingue,
e che l'orecchie a suon mortal non stempre.
Ma l'uom più ch'altri in chiare e vive tempre
dee risonar l'alta bontà superna,
se de' suoi propri onor grato s'accorge;
e in sé rivolto scorge
quanto ha splendor de la bellezza eterna.
Ei di questo mondan teatro immenso
nobil re siede in più sublime parte,
anzi del mondo è pur teatro ei stesso,
e del gran re del ciel che mira in esso
la sua sembianza e tante grazie sparte,
tutto ver lui d'amor benigno accenso.
Ahi mal sano intelletto, ahi cieco senso!
com'esser può che sì continua e fosca
notte v'ingombri e 'l sol non si conosca?
Che benché fuor di queste nebbie aperto
scorgerlo invan procuri occhio mortale,
tanto splende però, che giorno apporta.
Questo in ogni camin più oscuro ed erto
è fido lume, e giunge ai piedi l'ale,
e d'ineffabil gioia i cor conforta;
questo ebber già per solo duce e scorta
mille lingue divine e sacri spirti
che 'l fero in voci e 'n carte altrui sì chiaro,
e che 'l mondo spregiaro
tra boschi e grotte in panni rozzi ed irti.
E voi ch'in tanta copia, alme beate,
palma portaste di martirio atroce,
o di che ferma in Dio fede splendeste,
mentr'or sott'empia spada il collo preste
porgete e di tiranno aspro e feroce
col mar del vostro sangue i piè bagnate,
or di gemiti invece inni cantate
fra l'aspre rote e fra le fiamme ardenti,
stancando crudeltà ne' suoi tormenti.
Noi fummo allor vostra fortezza e vostre
dolci compagne in quei supplici tanti:
ché frale e vano ogni altro schermo fora.
Così son giunte ognor le voglie nostre
d'un foco accese in desir giusti e santi:
né l'una senza l'altra unqua dimora.
Dio c'inviò per fide scorte ognora
de l'uom, sì caro a lui diletto figlio:
onde seco per noi si ricongiunga
e in sua patria giunga.
Ma quella i' son ch'al ver gli allumo il ciglio,
e d'aperto mirarlo il rendo degno,
ove cieco salir per sé non basta
e ove giunto ogni altro ben disprezza.
Tu meco dunque a contemplar t'avezza
ed a lodar con mente pura e casta
l'alto Signor di quel celeste regno
dietro a me per la via ch'ora t'insegno;
ma mentre le mie voci orando segui,
fa che 'l mio cor più che la lingua adegui.
O di somma bontate ardente sole,
a par di cui quest'altro è notte oscura!
Vera vita del mondo e vero lume!
Tu, ch'al semplice suon di tue parole
il producesti e n'hai paterna cura;
tu, c'hai il poter quanto il voler presume:
o fonte senza fonte, o immenso fiume
che stando fermo corri e dando abondi
e senza derivar da te derivi!
Tu, ch'eterno in te vivi,
e quanto più ti mostri e più t'ascondi;
tu, che quand'alma ha di tua luce vaghi
i suoi desir, le scorgi al cielo il volo,
rinovata fenice a' raggi tuoi!
Se nulla è fuor di te, che solo puoi
esser premio a te stesso, e se tu solo
dai 'l ben, l'obligo avvivi e 'l merto paghi,
s'ogni opra adempi, ogni desire appaghi,
dal ciel benigno nel mio cor discendi,
e gloria a te con la mia lingua rendi. —
Mentre così cantava e del suo foco
divin m'ardea la bella duce mia,
l'altre ancor la seguian col canto loro
e degli angioli insieme il sacro coro:
del cui concento intorno il ciel gioìa,
sembrando un novo paradiso il loco.
Conobbi allor che 'l saper nostro è un gioco,
e che quel che di Dio si tien per fede
certo è via più di quel che l'occhio vede.

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

Chevalier54_Zforco1gnaccolinocamaciotizianarodelia.marinoamorino11Talarico.Francoantonio.caccavalepetula1960frank67lemiefoto0giorgio.ragazzinilele.lele2008sergintprefazione09
 
 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963