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Messaggi del 31/01/2015

Il Dittamondo (5-30)

Post n°1168 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XXX

Cosí andando e ragionando ognora, 
giungemmo al Nilo e trovammo una barca, 
dove salimmo senza piú dimora. 
Posti a sedere, io che avea carca 
la mente e grave, dimandai Solino: 5 
"Dimmi qui, mentre che ’l nocchier ci varca, 
a ciò che meno c’incresca il cammino, 
il bo’, che scrivi ch’era in questo fiume, 
chi fu e quare si li disse Apino?" 
"Fra l’altre maraviglie, ch’abbian lume 10 
di qua, rispuose, giá questa fu l’una 
e degna a dire in ogni bel volume. 
Nel destro lato avea una luna 
corniculata, bianca, e questo usciva 
de l’acqua in aire senza altra fortuna. 
Li Egizian correano in su la riva 
con ogni stormento e come saltava 
così ciascuno, cantando, saliva. 
Similemente, quando si posava, 
la gente lá, con ogni melodia 20 
sonando, in su la riva l’aspettava. 
E come ancor di novo su salia, 
danzando andavan per quella rivera 
in fin ch’al tutto da loro sparia. 
Quivi, con molta fede e grande spera 25 
ch’avean nel bo’ che desse legge al Nilo, 
d’or li gettavan dentro una patera. 
Apin fu detto, poi ch’Io, col suo stilo, 
mostrò di qua a lavorar la terra, 
lettere, a tesser lana e far lo filo. 30 
Morto Osiris da le caine ferra, 
suo buono sposo, sette giorni apresso 
lo Nilo cerca e, trovato, il sotterra. 
Nel numer de li dii costui fu messo 
e celebrato, sí com’ella volse, 35 
su per lo Nilo e in ogni tempio espresso. 
Apin da poi per marito tolse, 
che, dopo morte, iddio nominaro: 
tanto l’amaro e tanto a ciascun dolse. 
E, per onor di lui, poi adoraro 40 
il toro, come il corbo per lo sole: 
e bove Apin, quel che tu di’, chiamaro". 
Qui tacque; e io, che per le tue parole 
ingenerato avea novo pensiero, 
come uom ch’ascolta altrui talor far sole, 45 
li dissi: "Assai il tuo parlar m’è intero, 
però ch’io so chi fu Apino e Io 
e come venner qua giá lessi il vero. 
Ma qui d’udire la cagion disio 
perché il corbo o un altro animale 50 
onoravano in nome d’uno dio". 
"Se cerchi Ovidio, al qual di dir ciò cale, 
vedrai il vero, dove Calliopé 
le Pierie sforma per cantarne male": 
cotal risposta a la dimanda fe’. 55 
E io: "Dimmi quale appropiato 
era a ciascuno di quei dei per sé". 
Ed ello a me: "Questo modo trovato 
di qua fu prima e dato il leone 
a Marte, perch’è fiero e bene armato. 60 
Similmente la pecora a Giunone, 
la cicogna a Cilen, la gatta a Pluto, 
la vacca a Iside e a Giove il montone. 
Ancora avresti in quel tempo veduto 
per Priapus un asino onorare 65 
e spesse volte dimandarli aiuto; 
per Proserpina il nottol, che ’l dí spare; 
per Bacco il becco, che le piante scialpa; 
per l’aire un dio, ch’era detto A’ re. 
A le Furie infernal davan la talpa; 70 
la porca a Cere; a Nettunno il cavallo; 
la testuggin, ch’a terra grave palpa, 
a Saturno, e la scimia, senza fallo, 
veduto avresti onorar per Minerva, 
se fossi stato allora in questo stallo, 75 
e cosí ancor per la Luna la cerva; 
lo pesce per Venus; per Ganimede 
ogni orcio, dentro al qual vin si conserva. 
Per Demetra, nel Nilo ponean fede; 
onoravano il fuoco per Vulcano; 80 
per Vesta la fiamma che ne procede; 
per Esculapio, donde i fisichi hano 
quasi il principio, onoraro il serpente: 
né pare indegno a quei che ’l ver ne sano. 
Onoravano ancora quella gente 85 
e monti e valli e boschi e fiori ed acque 
in nome d’altri iddii similemente". 
E cosí detto, mi guardò e tacque, 
perché nel volto si conosce il core, 
chi non s’infinge, e, veduto, li piacque. 90 
Poi sopragiunse: "Demonio maggiore 
né con piú inganni si vedea in Egitto 
pien di lusinghe né con falso errore, 
com’era il toro Apin, del qual t’ho ditto". 
Per ch’io fra me: In Civitate Dei 95 
dice Agustin come costui diritto. 
Indi li dissi: "Volontier saprei 
se altra novitá è qui nel Nilo, 
prima che ’n su la ripa ponga i piei". 
Allor mi ragionò del coccodrilo 100 
la forma, la sua vita e come, mentre 
che dorme, in bocca li entra lo strofilo. 
Vero è che ’n prima s’immelma che v’entre; 
lusingando lo va, per fin ch’è giunto 
dove gli rode ciò ch’egli ha nel ventre. 105 
Poscia mi disse la natura a punto 
de l’ippopotam, ch’al nitrir somiglia 
cavallo e quello par di punto in punto. 
Marco Scauro per gran maraviglia 
e l’uno e l’altro, per quel che si scriva, 110 
pria li scoperse a la roman famiglia.
Cosí parlando, discendemmo a riva.
 
 
 

Rime del Berni 1-2

Post n°1167 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

1

CANZON D'UN SAIO

Messer Antonio, io son inamorato
del saio che voi non m'avete dato.
Io sono inamorato e vo'gli bene
proprio come se fussi la signora;
guàrdogli il petto e guàrdogli le rene:
quanto lo guardo più, più m'inamora;
piacemi drento e piacemi di fuora,
da rovescio e da ritto;
tanto che m'ha trafitto,
e vo'gli bene e sonne inamorato.
Quand'io mel veggio indosso la mattina,
mi par dirittamente che 'l sia mio;
veggio que' bastoncini a pescespina,
che sono un ingegnoso lavorio.
Ma io riniego finalmente Dio
e nolla voglio intendere,
che ve l'ho pur a rendere;
e vo'gli bene e sonne inamorato.
Messer Anton, se voi sapete fare,
potete doventar capo di parte.
Vedete questo saio, se non pare
ch'io sia con esso indosso un mezzo Marte?
Fate or conto di metterlo da parte:
io sarò vostro bravo
e servidore e schiavo,
et anch'io portarò la spada allato.
Canzon, se tu non l'hai,
tu poi ben dir che sia
fallito insino alla furfantaria.



2

CAPITOLO A SUO COMPARE

Se voi andate drieto a questa vita,
compar, voi mangierete poco pane
e farete una trista riuscita.
Seguitar dì e notte le puttane,
giucar tre ore a' billi et alla palla,
a dir il ver, son cose troppo strane.
Voi dite poi che vi duol una spalla
e che credete aver il mal franzese:
almen venisse il cancaro alla falla.
Ben mi disse già un che se ne intese
che voi mandaste via quell'uom da bene
per poter meglio scorrere il paese.
O veramente matto da catene!
Perdonatemi voi, per discrezione,
s'io dico più che non mi si conviene:
io ve lo dico per affezione,
per... non so s'io più dica fame o sete
ch'io tengo della vostra salvazione.
Che fate voi de' paggi che tenete,
voi altri gran maestri, e de' ragazzi,
se ne' bisogni non ve ne valete?
Riniego Dio se voi non siate pazzi,
che lassate la vita per andare
drieto ad una puttana che vi amazzi.
Forsi che voi v'avete da guardare
che la gente non sappia i fatti vostri
e siavi drieto a l'uscio ad ascoltare?
O che colei ad un tratto vi mostri
in su 'l più bello un palmo di novella,
da far ispaventar le furie e i mostri,
e poi vi cavi di dito l'anella
e chieggiavi la veste e la catena
e vòtivi ad un tratto la scarsella?
Forsi che non avete a dar la cena
e profumar il letto e le lenzuola
e dormir poi con lei per maggior pena?
E perché la signora non sia sola,
anzi si tenga bene intertenuta,
star tre ore appiccato per la gola?
O vergogna de gli uomini fottuta,
dormir con una donna tutta notte,
che non ha membro adosso che non puta!
Poi pianga e dica le rene son rotte
e che ha perduto il gusto e l'appetito
e gran mercé a lui s'egli la fotte.
Ringrazio Dio ch'i' ho preso partito
che le non mi daranno troppo noia,
insino a tanto ch'io ne sia pentito.
Prima mi lassarò cascar di foia
che già consenta che si dica mai
che una puttana sia cagion ch'io moia.
Io ne ho veduto sperienza assai
e quanto vivo più tanto più imparo,
facendomi dottor per gli altrui guai.
Or per tornare a voi, compar mio caro,
et a' disordinacci che voi fate,
guardate pur che non vi costi caro.
Io vi ricordo che gli è or di state
e che non si può far delle pazzie
che si faceano le stagion passate.
Quando e' vi vengon quelle fantasie
di cavalcar a casa Michelino,
sianvi raccomandate le badie.
Attenetevi al vostro ragazzino,
che finalmente è men pericoloso
e non domanda altrui né pan né vino.
Il dì statevi in pace et in riposo;
non giucate alla palla dopo pasto,
che vi farà lo stomaco acetoso.
Così, vivendo voi quieto e casto,
andrete ritto ritto in paradiso
e trovarete l'uscio andando al tasto.
Abbiate sopra tutto per avviso,
se voi avete voglia di star sano,
di non guardar le donne troppo in viso;
datevi inanzi a lavorar di mano.

 
 
 

Mariotto Davanzati 26-30

Post n°1166 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

XXVI

Non tien Minos in Dite alma sì ria
condannata in alcun de' nove giri,
sì carca e 'mportunata di martiri
per giugner morte al suo buon penter pria,

ch'i' non la invidi, e parmi ch'ella sia
fra rose, gigli, carbonchi e zaffiri
verso di me, che, dove io pensi o miri,
veggo colei, ch'a lagrimar ne 'nvia.

Ella sol per mio strazio al mondo nacque,
gelida, cruda, disdegnosa e fera,
che volto non cangiò giammai, né voglia.

Certo più non disira i pomi e l'acque
el misero compagno di Megera,
che io fo morte, per uscir di doglia.


XXVII

Del ciel discese un falcon pellegrino
sol per far del mio core al mondo prede,
e, quel ghermito nel suo destro piede,
sen volò presto in sun un alto pino.

Sembra la piuma sua argento fino;
ivi si sta, e per chiamar non riede,
né pianger valmi o dimandar merzede;
né difender si può da tal destino,

Onde gli spirti miei, che del lor duce
si veggon privi e soli in carcer tetro,
priegan pur l'alma che 'l lor duol raccorte.

Ella già per tornarsi all'alta luce
più volte è mossa, e poi ritorna indietro:
tant'è iniqua e disforme la mia sorte!


XXVIII

Qual mirabile fato il terzo cielo
mosse a mostrar di sé sì alte prove,
care fra noi, maravigliose e nove?
Né comprender si può pel greve velo,

se non solo io, ché, come un sottil telo
aguta vista passa e scorge altrove.
Amor, che gli occhi sua sì dolce muove,
mi mostra quel che ridir non saprêlo;

e veggo quanto al mondo è d'onestate
con divine bellezze aggiunte insieme,
col parlare amoroso e 'l vago sguardo.

Poi veggo l'arco e le saette orate
locar sì nelle parti mia supreme,
ch'i temo, bramo, spero, aghiaccio e ardo.


XXIX

Lo stato mio è sì dubbioso e fosco,
e di scuri pensier l'alma è sì 'ngombra,
ch'i' fermo e passi spesso, e 'l core adombra,
perché né me né altri ancor conosco.

Né mai per fame uscì lupo di bosco,
come è carco di sdegno el petto; sgombra
levasi a volo, e io rimango un'ombra:
e' si pasce di speme, e io di tosco.

L'alma, per ritornare onde ella venne,
dal corpo stanca già prende comiato;
egli, smarrito, sì né no risponde.

Taccia Medea e l'africane penne,
ché nessun siccom'io malmeritato
né fu, né è, né fia in terra o 'n onde.


XXX

O per me lieto e fortunoso giorno,
al qual simil giammai il cielo aperse!
La divina stagione e le diverse
feste ti fêr di doppio sole addorno.

Nel sacro tempio, libero soggiorno
fe', mentre che 'n pan Giove si converse;
ma, poi che 'l fin di quel per me si scerse,
men gi', e 'l sangue al cor s'acolse intorno.

Come del suo futuro accorto e saggio
s'armò, né valse contro alle faville,
che sopra al varco accese Amor con tempre,

sull'ora sesta el dì terzo di maggio,
nel quatrocento trentasei e mille,
ch'i' arsi e ardo, e bramo d'arder sempre.

 
 
 

Della Casa 09: rime

Post n°1165 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

XLI

Ben mi scorgea quel dì crudele stella
e di dolor ministra e di martìri,
quando fur prima vòlti i miei sospiri
a pregar alma sì selvaggia e fella.

O tempestosa, o torbida procella,
che 'n mar sì crudo la mia vita giri!
donna amo io ch'Amor odia e suoi desiri,
che sdegno e feritate onore appella.

Qual dura quercia in selva antica, od elce
frondosa in alto monte, ad amar fôra,
o l'onda che Caribdi assorbe e mesce,

tal provo io lei, che più s'impetra ogniora
quanto io più piango, come alpestra selce
che per vento e per pioggia asprezza cresce.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 64
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 40 (pag. 21)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 292

Note:
Sonetto scritto per Livia Colonna in nome d'un Farnese. I terzetti così leggonsi in un manoscritto di Francesco Melchiori da Oderzo, che fu proprietà di Vincenzo Casoni, benemerito autore di alcune lettere intorno la vita e gli scritti del Casa, e da noi altra volta citato:

Ch' io non vo' dir del suo passato orgoglio;
Ma il fuggir novo quanto amaro mesce
Entro a quest'alma, e quanto aspro cordoglio!

E se pianto dal cor mi stilla ed esce,
Vie più s'impetra; come alpestre scoglio,
Che per pioggia e per vento asprezza cresce.

Altre varianti avrei potuto notare, ma di minore importanza, tratte dal codice stesso. Vedile tutte nella edizione del Pasinello, vol. I, pag. 278 e seg. Ebbe questo sonetto una Lezione di Girolamo Vecchietti, letta nell'Accademia fiorentina il 14 aprile 1583.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLII

Già non potrete voi per fuggir lunge,
né per celarvi in monte aspro e selvaggio,
tôrmi de' bei vostri occhi il dolce raggio,
ché da me lontananza no 'l disgiunge.

Nel mio cor, donna, luce altra non giunge
che 'l vostro sguardo, e sole altro non aggio;
e s'egli è pur lontan, lungo viaggio
è breve corso, ove Amor sferza e punge.

Portato da destrier che fren non have,
pur ciascun giorno ancor, sì com'io soglio,
se veder mi sapeste, a voi ne vegno:

e con la vista lacrimosa e grave
fo mesti i boschi e pii del mio cordoglio.
Sola in voi di pietà non scorgo io segno.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 64
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 41 (pag. 21)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 293

Note:
Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLIII

Vivo mio scoglio e selce alpestra e dura,
le cui chiare faville il cor m'hanno arso;
freddo marmo d'amor, di pietà scarso,
vago quanto più pò formar natura;

aspra Colonna, il cui bel sasso indura
l'onda del pianto da questi occhi sparso:
ove repente ora è fuggito e sparso
tuo lume altero? e chi me 'l toglie e fura?

O verdi poggi, o selve ombrose e folte,
le vaghe luci de' begli occhi rei,
che 'l duol soave fanno e 'l pianger lieto,

a voi concesse, lasso, a me son tolte;
e puro fele or pasce i pensier miei,
e 'l cor doglioso in nulla parte ho queto.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 42 (pag. 22)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 294

Note:
Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLIV

Quella, che lieta del mortal mio duolo,
ne i monti e per le selve oscure e sole
fuggendo gir come nemico sòle
me, che lei come donna onoro e colo;

al penser mio, che questo obietto ha solo
e ch'indi vive e cibo altro non vòle,
celar non pò de' suoi begli occhi il sole,
né per fuggir, né per levarsi a volo.

Ben pote ella sparire a me dinanzi,
come augellin che 'l duro arciero ha scorto
ratto ver' gli alti boschi a volar prende:

ma l'ali del penser chi fia ch'avanzi?
cui lungo calle e aspro è piano e corto,
così caldo desio l'affretta e stende.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 63
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 43 (pag. 22)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 295

Note:
Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLV

Amor, i' piango, e ben fu rio destino
che cruda tigre ad amar diemmi, e scoglio
sordo, cui né sospir né pianto move,
e come afflitto e stanco peregrino,
che chiuso a sera il dolce albergo trove,
pur costei prego, e pur con lei mi doglio;
né perché sempre indarno il mio cordoglio
al vento si disperga
sì come nebbia suol che 'n alto s'erga,
men dolermi con lei, né pianger voglio.
E così tinge e verga
ben mille carte omai l'aspro mio duolo:
però che 'l cor quest'un conforto ha solo,
né trova incontra gli aspri suoi martìri
schermo miglior che lacrime e sospiri.

Qual chiuso albergo in solitario bosco
pien di sospetto suol pregar talora
corrier di notte traviato e lasso,
tal io per entro il tuo dubbioso e fosco
e duro calle, Amor, corro e trapasso
fin là 've 'l dolce mio riposo fôra:
ivi pregando fo lunga dimora.
Né perch'io pianga e gridi,
le selve empiendo d'amorosi stridi,
lasso, le porte men rinchiuse ancora
del mio ricetto vidi;
né per lacrime antiche o dolor novo
posa, o soccorso, o refrigerio trovo.
Così fe' 'l mio destin, la stella mia,
sorda pietate in lei ch'udir devria.

O fortunato chi sen gìo sotterra,
e col suo pianto fea benigna Morte,
sì temprar seppe i lacrimosi versi:
se non che gran desio trascorre ed erra.
A me non val ch'i' pianga e 'l mio duol versi,
quanto m'è dato, in dolci note e scorte;
né del martiro che mi duol sì forte
in quei begli occhi rei
ancor venne pietade. E ben torrei
senza mirar la cruda mia consorte
girmen per via con lei,
fin ch'io scorgesse il ciel sereno e 'l die.
Poi che non ponno altrui parole, o mie,
impetrar dal bel ciglio atti men feri,
fa' tu, signor, almen sì ch'io no 'l speri.

Ch'io pur m'inganno, e 'n quelle acerbe luci,
per cui del mio dolor giamai non taccio,
dico le rime mie pietà desta hanno;
e forse (o desir cieco ove m'adduci?)
lacriman or sovra 'l mio lungo affanno,
e noia è lor quant'io mi struggo e sfaccio.
Così corro a madonna, e neve e ghiaccio
le trovo il cor, e 'nvano
di quel nudrirmi, ond'io son sì lontano,
col penser cerco; anzi più doglia abbraccio,
qual poverel non sano
cui l'aspra sete uccide e ber gli è tolto,
or chiaro fonte in vivo sasso accolto,
e ora in fredda valle ombroso rio
membrando, arroge al suo mortal desio.

Lasso, e ben femmi e assetato e 'nfermo
febre amorosa, e un penser nudrilla,
che gioia imaginando ebbe martiro.
Così m'offende lo mio stesso schermo,
non pur mi val; ché s'io piango e sospiro
incominciando al primo suon di squilla,
già non iscema in tanto ardor favilla:
anzi il mio duol mortale
cresce piangendo e più s'infiamma, quale
facella che commossa arde e sfavilla.
Fero destin fatale,
quando fia mai che la mia fonte viva,
perch'io pur lei nel cor formi e descriva
e per lei mi consumi e pianga e prieghi,
le sue dolci acque un giorno a me non nieghi?

Forse (e ben romper suol fortuna rea
buono studio talor) ne la dolce onda
ch'i' bramo tanto, almen per breve spazio
dato mi fia ch'un dì m'attuffi, e bea
fin ch'io ne senta il cor, non dico sazio,
però che nulla riva è sì profonda
qualora il verno più di piogge abonda,
ma sol bagnato un poco.
O fortunato il dì, beato il loco,
ben potrei dire, adversità seconda
mi diede Amore, e foco
m'accese il cor di refrigerio pieno,
s'un giorno sol, non avampando io meno,
la grave arsura mia, la sete immensa,
larga pietà consperge e ricompensa.

Che parlo? o chi m'inganna? a tanta sete
le dolci onde salubri indarno spera
il cor, che morta ha presso e mercé lunge.
Ma tu, signor, ché non più salda rete
omai distendi? e qual più adentro punge
quadrello, aventi a questa alpestra fera?
sì ch'ella caggia sanguinosa e pèra,
e quel selvaggio core
ne le sue piaghe senta il mio dolore;
e biasmando l'altrui cruda e guerrera
voglia, il suo proprio errore
e la sua crudeltà colpi e condanni:
e fia vendetta de' miei gravi affanni
veder ne' lacci di salute in forse
l'acerba fera, che mi punse e morse.

Già non mi cal s'in tanta preda parte,
canzon, non arò poi;
e so che raro i dolci premi suoi
con giusta lance Amor libra e comparte:
pur ch'ella, che di noi
sì lungo strazio feo, con le sue piaghe
la vista un giorno di questi occhi appaghe.
Ma, lasso, a la percossa ond'io vaneggio
vendetta indarno e medicina cheggio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 2 (pag. 34)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 296

Note:
Bella canzone, da anteporsi a quante il Casa ne scrisse, se non fosse la quarta; e quantunque frequente di lambiccature petrarchesche, calda a quando a quando di vera passione.
St. 3. Allude in tutta questa strofa alla nota favola di Orfeo. Pieno di forza e di verità è il concetto dell'ultimo verso, e, benchè accennato da altri e prosatori e poeti, non mai con tanta efficacia, e tanto a proposito quanto qui dal Casa.
St. 6, v. 1-2. "Romper suol fortuna rea - Buono studio talor". È modo proverbiale d'antico filosofo. V. Gio. Villani, lib. VII, cap. 3; e Matteo, lib. IV, cap. 33. Proverbio che, fosse pure non vero, conforta e nobilita la natura umana togliendola alla cieca soggezione della Fortuna.
V. 4. È voto più che discreto. E ricorda un consimile del Petrarca, parte I, sestina 1, v. 31-33.
(Carrer, cit., pag. 315)

 
 
 

Il Dittamondo (5-29)

Post n°1164 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XXIX

"Io veggio ben, diss’io, come m’hai ditto,
che questi sono quei termini appunto
che l’Africa dividon da l’Egitto. 

Ma io ti prego, poi che qui son giunto, 
che mi dimostri dove nasce il Nilo 5 
e la natura sua di punto in punto, 
a ciò che, se di lui versi compilo, 
ch’io abbia il moto suo e la natura 
disegnato col tuo discreto stilo". 
Ed ello a me: "La tua dimanda è oscura, 10 
perché da molti e per modi diversi 
trovar ne puoi una e altra scrittura. 
Ma, nondimen, ciò che giá ne scopersi 
qui ti dirò e tu cosí lo spiana, 
se mai avièn ch’altrui ne scriva versi. 15 
Questo è Geon, che de l’alta fontana 
e santa scende per molte caverne 
sotto Atalante, presso a Mauritana: 
quivi si mostra e quivi si dicerne 
non lungi a l’Oceano e poi fa un lago 20 
del qual gran gente par che si governe. 
E come per paura e per ismago 
lo coniglio s’intana e si nasconde, 
costui sotterra corre come un drago. 
Nilides costui è detto e per profonde 25 
vene ne va, e non par che si scopra, 
fino a Cesaria, dove spande l’onde. 
Bagnato Delta e Cesaria di sopra, 
come hai udito, di nuovo s’attuffa, 
sí che la terra in tutto par che ’l copra. 30 
E tanto per gran tuffi si rabuffa, 
che surge in Etiopia e quivi rompe 
ed esce fuor coi piedi e con le ciuffa. 
Isole bagna assai, ma di piú pompe 
Meroe si crede, e per le strane lingue, 35 
che ’l fiume truova, il nome suo corrompe: 
onde passammo, il Negro si distingue; 
Astisapes e Astabores altrove 
e quando giro tra gente piú pingue. 
E che questo sia vero, che si move 40 
di Mauritana, il pruova ch’esso cresce 
qui verso Egitto, quando di lá piove. 
La natura de l’acqua e cosí il pesce, 
che lá si truova, chiaro tel disegna: 
ché tal, qual vedi a questo, di quello esce. 45 
Iuba lo scrive, il quale di qua regna, 
Sesostris, Dario e Cambise ancora, 
che ne volson cercar le vere segna, 
e Tolomeo Filadelfo, che allora 
li fe’ un fosso di cinquecento miglia, 50 
cento pié largo e trenta il fondo fora. 
E se vedessi il cammin che si piglia 
da Tolemaide al castel di Latano, 
ben ti parrebbe una gran maraviglia 
come d’Egitto navicando vano 55 
li mercatanti, a far mercatanzia, 
dove Etiopi e Trogoditi stano. 
Or, per mostrarti in tutto la sua via, 
poi ch’è in Egitto, si divide in sette 
e, quindi, in verso Arabia si disvia. 60 
Alfin lo piú nel mar Rosso si mette; 
l’altro di verso il Caro rizza il rostro, 
dove Carisio l’onde sue son dette. 
E questo è quello, che t’insegno e mostro, 
che l’Asia da l’Africa divide, 65 
il qual ne vien diritto nel Mar nostro. 
E sappi, dove la terra ricide, 
che tutto insiem dodici mila passi 
si fa il traverso, per chi meglio il vide. 
Or hai udito dove e di quai sassi 70 
nasce e come due volte si annega 
e due di nuovo sopra terra fassi. 
A la seconda parte che mi priega 
la tua dimanda, in breve ti rispondo 
come per me e per altrui si spiega. 75 
Quel sommo Ben, che move i ciel, secondo 
che girar vedi, con vertú e con lume, 
e che ha dato legge a tutto il mondo, 
vuole che, per natura, questo fiume 
si spanda semel l’anno per Egitto 80 
e che allaghi il paese, per costume. 
Dico nel tempo poi, che ’l sole è fitto 
nel segno de la luna, ch’esso ingrossa 
a dí a dí, come altrove t’è ditto; 
e, poi ch’entra nel suo, prende tal possa, 85 
che la contrada allaga sí del tutto, 
che senza barca non so chi ir vi possa. 
La gente, che di lá fanno ridutto, 
a certi segni c’hanno pongon cura 
e sanno se la terra fará frutto. 90 
Però gli antichi onoravan Mensura 
e i sacerdoti, a’ tredici di agosto, 
lui celebrando, ch’era in sua altura, 
come si va di qua, e non piú tosto, 
a le letane, giano e, per piú lodo, 95 
natalem mundi nome gli avean posto. 
E sí come nel crescer suo tien modo, 
cosí, scaldando il sole a Virgo il petto, 
discrescere si vede a nodo a nodo. 
Per questa forma appunto, ch’i’ t’ho detto, 100 
in fin che ’l sole a le Bilance giunge, 
di grado in grado è tornato al suo letto. 
Ma qui so bene che un pensier ti punge. 
Tu di’: com’è che questo fiume ingorga 
tanto, che spanda quanto par da lunge? 105 
Crede alcuno che tanta rena porga 
il mare in contro, che gli faccia rete, 
sí che a dietro ritorni e che non corga. 
E altri vuole che cosí reflete 
per Etesie ne’ dí canicolari, 110 
forse perché ’l paese ha di lui sete. 
Ed è chi dice che a dietro ripari 
e ingorghi, per gran piova che vi scende. 
Cotali opinion fun ne’ piú chiari
e qual le due e qual tutte le prende". 115
 
 
 

Mariotto Davanzati 21-25

Post n°1163 pubblicato il 31 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

XXI

Se non hai, o non sai, altr'arme usare,
Amor, di più tentarmi omai rimanti,
ché negli più fedel suggetti amanti
usi sempre ira e crudeltà mostrare.

Chi 'n te no spera o tem, né vuole amare,
e di scacciarti par che si millanti,
lusinghi, prieghi e t'inginocchi avanti,
per tua e nostra ispoglia in preda dare.

Ond'io non so se stral d'oro o di piombo
saetti o serbi, o che faretra o arco,
o chi governi o tenga esto tuo stato;

ma 'mbendato se' pinto, e getti a prombo:
però d'ogni tuo peso or mi discarco,
cercando el mio signor, se m'è più grato.


XXII

L'ira di Dio sopra 'l mie capo caggia
s'i' 'l feci, o dissi oppure unque el pensai,
Tesifone e Megera e' tristi lai
caggino in me, ed Antropos selvaggia

tronchi l'acervo filo, e Cloto traggia
la 'nconocchiata rocca e' lunghi guai,
s'i' dissi o feci cosa, per che mai
cotanta nimistà fra noi accaggia.

Ma se sanza cagion l'ira e gli sdegni
e' velenosi crucci sono apparsi
nell'animo gentil cu' io tant'amo,

i' priego el sole e la suo stella e' segni,
gli alti pianeti, che costringa a farsi
piatosi gli occhi, ch'i' disio e bramo.


XXIII

Il fiero sguardo e 'l non dovuto sdegno,
che madonna ver me ha sempre usato,
son cagion che sì spesso in questo lato
con voi, driadi e fauni, a pianger vegno.

Voi, che vedete el mio esilio indegno
e a che morte Amor m'ha condannato,
fatel sentire a chi cagion n'è stato
per Ecco, abitator del vostro regno.

Fate che le discopra il pianto e 'l foco,
gl'infiniti sospiri e 'l crudo scempio,
ch'arien forza di far pietoso Silla.

E ben che in lei piatà non abbia loco,
forse che nel suo cor gelato e empio
s'accenderà d'amor qualche favilla.


XXIV

Tanta alta groria spesso al cor m'accende
l'esser da sì begli occhi preso e morto,
che nel nostro vïaggio ombroso e corto
non so s'alcun giammai maggior la prende.

Allor l'alma s'adira e mi riprende
di mia doglienza e porgene conforto,
dicendo: «Or puo' tu ben vedere scorto
quanta superna grazia in te discende;

ché fra cotanto numer di mortali,
dopo sì lunga età, n'ha dato il cielo
questa sola fenice del suo regno.

Ella già da volar t'ha dato l'ali
per seguir lei, e tolto agli occhi il velo,
che già ti fé d'etterna vita indegno.


XXV

Io vidi in mezzo di vermiglio e bianco
campeggiar perla coronata d'oro,
data per sorte a noi dal sommo coro,
per mostrar quel che non si vide unquanco,

mirabil sì che 'n vista verrie manco
ciascuno occhio aquileo, e al lavoro
sarebbe il nostro Giotto ignoto e soro,
e la natura avrebbe il corso stanco.

D'essa surgevan due fulgide stelle
e una melodia tanto soave
che ne stupiva il ciel, non che la plebe.

Più riverenti note, né più belle,
fece quel messo ch'a Maria disse: «Ave» ;
non dico Orfeo o quel che chiuse Tebe.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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