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Messaggi del 01/02/2015

Il Meo Patacca, indice

Post n°1182 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Prefazione
Canto Primo (1-15) (16-30) (31-45) (46-60) (61-75) (76-90) (91-97)
Canto Secondo (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Terzo (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Quarto (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Quinto (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Sesto (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Settimo (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Ottavo (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Nono (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Decimo (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Undicesimo (1-30) (31-60) (61-90)
Canto Dodicesimo (1-30) (31-60) (61-90)

 
 
 

Il Meo Patacca 01-3

Post n°1181 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Canto Primo, ottave 31-45

Ma hercle, non poss'io non expavescere,
Quando recogitando va il pensiero,
Che tribus ab hinc annis, io splendescere
Viddi nel cielo un Cometon sì fiero,
Che dall'Oriente incominciando a crescere
Diu passeggiò sul nostro alto emisfero;
Fu poi visto svanir in Occidente,
Presago di quel mal, ch'oggi è presente.

Dalla coda lunghissima, che stese
La nuova Stella in quella striscia ignifera,
Ch'esser doveva a noi, ben si comprese,
Malefica, assai più, che salutifera.
Pur troppo da i più dotti allor s'intese
Il parlar fosco della lingua astrifera;
Profecto, inver fu questo un chiaro inditio,
Che imminebat a noi l'ultimo exitio.

Vienna cadrà; timor superlativo
Sconvolge i sensi, e gelido sudore
Va per le membra, e vix, appena io vivo
Pensando all'ottoniannico furore;
Son già essoso a me stesso, e prendo a schivo
Vitam ducere". Intanto un bell'umore,
S'accosta, e dice: "Ahimè, ci havemo dato,
L'Astrologo d'Abruzzo ha già parlato".

El Pedagogo in tel sentì lo sbeffo,
S'acciglia, increspa el collo, e si rabbuffa,
Mozzica il labro, e fa assai brutto el ceffo,
Col naso fatto a tromba, e soffia e sbuffa.
Imbraccia el pietro suo, ch'è un pò tareffo,
Par che voglia andà a fa' calche baruffa;
Tra sè e sè, un non so che ciangotta,
Va via con furia, e sempre più borbotta.

Si fa allora in tel ridere schiamazzo,
S'ogn'un di quei, che resta, glie la pista,
Chi dice: "Ha dato volta, o come è pazzo!
Ci vuò fa' el dicitor, l'indovinista;
Ne sa poi meno assai d'ogni regazzo,
Perchè propio ha un cervel di cartapista".
Ma doppo varj motti, e belle botte,
Tornano tutti a casa, perch'è notte.

L'alba del dì seguente era vicina,
E già segno ne davano i ferrari
Con battere la mazza alla fucina,
E con taglià la carne i macellari,
Con gridàne: "Acquavita soprafina"
Col lanternone in man l'acquavitari,
Con carri, e con barozze i carrettieri,
Con le some del vino i mulattieri.

Hor giusto allora, un certo tal si sveglia,
Ch'assai poco la notte havea dormito,
Sendo stato molt'hore in dormiveglia,
Irresoluto, inquieto, impenzierito.
Poi ritorna a i penzieri, e li risveglia,
Presto si schiaffa addosso un bel vestito,
Ma il miglior, bono assai pel su' disegno,
Non lo pigliò, perchè l'haveva in pegno.

Pe' fa' compariscenza non ingrata
Di tela bianca un gipponcin galante,
Una corvatta al collo merlettata
Si mette con un cappio sverzellante.
Ha neri li bigonzi, et attillata
La calza incarnatina sfiammeggiante,
Le fibbie alle fangose, el fongo bianco,
El pietro biscio, e la saracca al fianco.

Costui tra' Romaneschi è il più temuto,
S'è il capotruppa della gente sgherra,
Ben disposto di vita, e nerboruto,
Bravo alla lotta i più forzuti atterra.
Quanno poi de fa' sangue è risoluto
Fa prove cò la fionna, e con la sferra,
E ben lo sa, chi con lui buglie attacca.
Se chiama, e se ne grolia, MEO PATACCA.

Spunta sul babbio la famosa appena
Lassa un filetto a foggia di zerbino,
Figlio di mastro Titta, e monna Lena,
Conforme loro è lui trasteverino;
Cacciator, cui non manca ardir, nè lena,
Azzecca col su' schioppo in tun quatrino.
Benchè figlio di gente mammalucca
Ha spiriti guerrieri, e sale in zucca.

S'arrabbia in tel penzà, che la canaglia
Del Turco infame habbia da fa' 'sto chiasso;
Volà vorria là, dove tal marmaglia
Fa tante quellerie, tanto fragasso;
Gli spiace di non esser in battaglia,
Ch'i Turchi vorria mettere in sconquasso;
Di Vienna intanto, intento alla difesa,
Rumina col penziero un'alta impresa.

Va in cerca d'altri sgherri, e presto presto
N'ammassa una decina dei più sbarri:
A moverzi al su' fischio ogn'un è lesto,
Perchè sanno ch'in testa ha de' catarri;
Scrulla a più d'un la polvere, e per questo
Nisciun c'è proprio che con lui la sgharri;
Hor questi dieci, che pur son parecchi,
Gli fanno ad uno ad un salamelecchi.

MEO PATACCA però, ch'a un tempo stesso
Sa essere cortese, et intosciato,
A tutti fa un saluto un pò rimesso,
Che civiltà dimostra, e maggiorato:
Gli vanno questi scarpinanno appresso,
E nisciuno s'arrischia annagli al lato;
Ma bensì ogn'uno rispettoso, e queto,
Un mezzo passo e più gli va dereto.

Come fa de' soldati un caporale,
Quanno marcià alle volte gli conviene
Con la su' truppa, e lo fa in modo tale,
Ch'un tantinetto innanzi a star gli viene;
Così PATACCA, e con sussiego uguale,
Tutti un pò lontanetti se li tiene,
E se forze a chalch'un parla pian piano,
Lui crope, e l'altro sta col fongo in mano.

Si volta, e dice poi da ogn'un sentito
Con certa gravità, che non è orgoglio:
"Oggi a gran cose, o fidi miei, v'invito,
Ve voglio tutti fa' stupi' ve voglio".
Poi s'azzitta, e fu 'l viaggio proseguito
Verzo il Tarpeo, là dove è il Campidoglio,
Del quale assai la fama ha già parlato,
E parlarà, sin che ce perde el fiato.

Giuseppe Berneri
Tratto da: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.

 
 
 

Il Meo Patacca 01-2

Post n°1180 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Canto Primo, ottave 16-30

Hor questi erano i guai, questo il terrore,
Per cui s'era la gente ammuinata,
In pensà con tamanto schiattacore,
Che la povera Vienna era assediata;
E paccheta s'haveva a tutte l'hore,
Che non fusse da' Turchi rampinata,
E s'un po' di garbuglio se sentiva
A ogn'un la cacatreppola veniva.

Intanto da pertutto communelle
Si favano, e più circoli e ridutti;
A fè' più non si dava in bagattelle,
Ma a batter sodo incominzorno tutti;
Saper voleva ogn'un, s'altre novelle
Fusser venute, et insinenta i putti,
Cosa, che prima mai non succede,
Dicevano tra lor: "Che nova c'è?"

S'a cavallo garzon di vetturino
Curriva a caso, o pur capovaccaio,
Subbito alla finestra el cittadino,
E favasi alla porta el bottegaro;
Dicevano all'amico, et al vicino:
"Ecco un Curriero, non c'è più riparo;
La nova porterà, che Vienna è presa,
O almen, ch'al Turco perfido s'è resa".

Mà scacciato un timor, l'altro s'accosta.
Perchè in realtà venuta è la staffetta;
Currono molti là, dov'è la Posta,
E quel, che porta, de sentir s'aspetta.
L'intrattenè, par che sia fatto a posta,
Ogn'un di calche taccolo suspetta,
E non se po' sapè, se si misura,
Se sia più la speranza, o la paura.

Fan così giusto giusto i litiganti,
Quanno se dà in giudizio la sentenza,
Si piantano de posta tutti quanti
Dove i Giudici fanno residenza:
Aspettano de fora spasimanti,
Fann'altri certe smorfie d'impacenza,
Altri ce stanno poi col collo teso,
Co' i cigli alzati, e col penzier sospeso.

Ma poi quanno la porta s'è raprita,
Entrano in furia, e c'urtano de petto;
Vanno a sapè, come la causa è ita:
S'è vinta fanno allegri un bel ghignetto,
Par che tornati sian da morte a vita,
Sarpan via lesti con un passo stretto;
Ma colui, che l'ha perza è mezzo morto,
Fa l'occi stralunati, e 'l mucco torto.

Hor questo è propio quel, che fa' la gente,
Che vuò sapè, che porta el postiglione;
Non si cura di calca, nè di spente,
Nè manco d'abbuscà più d'un urtone;
Scatenaccia la porta alfin si sente,
Più s'affollano allora le perzone,
Poi s'azzittano, e in circolo assai stretto,
Un che drento l'havè, legge il Foglietto.

In sentì, che la Piazza se difenne,
Ch'alle batoste incoccia, e che fa testa
A quella razza sporca, e non se renne,
Fa prauso granne ogn'uno, e fa gran festa.
Va via, per raccontà l'opre stupenne
De i bravi difenzori, e là s'arresta,
Dove l'amici in communella trova,
E sciala, in daghe una sì bella nova.

Se vien l'avviso poi, che fu sfiancato
Un baloardo, o che zompò una mina,
O come presto, o come s'è mutato
Il dolce in un amaro, che ammuina!
Languidi l'occi, e 'l viso sfigurato
Mostra chi questo ha inteso, e si tapina;
Ritorna a casa sua burboro e muto
Col capo basso, e tutto pensieruto.

Così un regazzo, ch'è ghinaldo e tristo,
Che lo studia gnente gli va a fasciolo,
che dal su' Mastro a insolentà fu visto,
Facenno in te la strada el sassaiolo,
Da quello in scola havè solenne un pisto,
Ritorna a casa piagniticcio, e solo,
Va savio savio, benchè a ciò non uso,
O sfugge li compagni, o gli fà el muso.

Hor mentre da per tutto si borbotta,
E si fanno lunarii dalle genti,
E chi cruda la vuò chi la vuò cotta,
Se sentono discorzi differenti.
Chi dice: "È una canaglia assai marmotta
Quella de i Turchi, e so' poco valenti".
Chi dice: "O come restaremo brutti.
Se bignerà fuggì da Roma tutti".

Un certo Toga-lunga, e Barba-quatra,
Con panza innanzi, e con la schina arreto.
Ch'in te i circoli fa' del caposquatra,
E quanno parla, vuò ch'ogn'un stia queto,
Fece un discorzo un dì, che tanta quatra
Gli dette un tal, di genio assai faceto,
Ch'io ridirlo imprometto, e così giusto,
Ch'ogn'un tre giulii ci haverà di gusto.

Era questo un Pedante pettoruto,
Ch'a Demostene manco la cedeva,
Era in tel portamento sostenuto,
E un giorno, attorno certi scioti haveva;
Pe' fa' tra quei tavàni del saputo,
La gran falda del fongo, che penneva
Innanzi all'occi unta e bisunta, e guitta,
Su la fronte s'alzò con la man ritta.

Prima un raschio magnifico e sonoro,
Poi fece un sputo tonno, e allor pian piano
Strisciò la spasa barba, e ver coloro
Acconcia in un bel gesto alzò la mano;
Poi con gran pausa così disse a loro:
Ma ch'io tralassi, non vi para strano
Per un poco il mio stil da romanesco,
E vi parli col suo, ch'è pedantesco.

"Consocj dilettissimi che havete
Con i precordii miei stretta amicitia,
Ditemi causam quare hilari siete,
Quando affligger vi deve alta mestitia?
Forse li Turchi exterriti credete,
Perchè c'è qualche avviso di letitia?
Il temer è politica da dotto,
L'Ottomano è potente in gradu ut octo".

Giuseppe Berneri
Tratto da: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.

 
 
 

Mariotto Davanzati 36-41

Post n°1179 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

XXXVI

A Francesco Accolti. Per la donna sua che tornò a casa verso la sera.

S'or la mia spenta fantasia raccende
oltra l'usato, e se 'l valor rinfresca,
maraviglia non è ch'a sì fatta esca
sanza fucile all'acqua il fuoco apprende.

Perché 'ntorno a mia stanza un sole sprende
novamente venuto, onde che s'esca,
che' gentil cori abaglia, infiamma e 'nvesca;
pres'è chi fugge e muor chi si difende.

Che quante volte mi lampeggia intorno,
m'inchino e dico: «El tuo messer Francesco
ti racomando, che così m'impuose».

Allor refulge l'uno e l'altro corno
non con atto mortale, anzi angelesco,
gratulando con voi e vostre cose.


XXXVII

Pel nunzio fatto a te da Gabriello,
pel ventre, ove portasti el ver Messia,
pel santo parto, virgo e poi e pria,
pello amor che gli porti, e a te ello,

pel tuo della sua morte aspro coltello,
per lo resulto e per l'ascensio pia,
pe' santi e per ciascuna gerarchia,
ch'onorano el tuo corpo santo e bello,

pe' tuoi beati Giovacchino e Anna,
pelle tue sante case, e pe' devoti
che 'n tua misericordia han fatto speme,

per la cremenzia tua, e per l'osanna
del tuo Figliuolo, e come el tutto puoti,
soccorrimi in le mie miserie estreme!

XXXVIII

Ad Antonio Manetti. In morte del Burchiello.

Piangete, occhi mia lassi, perch'io temo
che, quanto dureracci el mortal vello,
più risguardiate un sì dolce Burchiello,
ch'or lascia il mondo d'ogni bene scemo.

Lui dal cielo or ci ascolta; ivi el vedremo
di lauro ornato infra 'l più bel drappello;
ivi n'accoglierà qual de' fratello,
giunti d'ogni mal nostro al punto estremo.

Piangi tu, miser mondo, che sopporti
sì inistimabil danno, e non sai donde
rïordir possa mai sì dolce tela!

Piangete Muse, amanti e lor consorti,
po' che sì car tesauro vi s'asconde;
e cantin l'alme a cui el cielo el rivela.


XXXIX

In morte di Antonio di Meglio.
Benché scontento e sol, milite mio
referendario Anton, di Danne degno,
di te mi truovi, e di tal duol sì pregno

che di due fonte ho fatto un vivo rio,
pur mi rallegro, ch'or, nel Verbo pio
tu risguardando, vedi ogni disegno
de' mondan folli e del lor cieco regno,

e quanto in basso vola el lor disio.

Ond'io suplico te per quel giubillo,
che fruisce or la tua dolce idïoma,
e che amor fra noi sempre rinfresca,

che per me impetri stato sì tranquillo
che l'alma, posta giù d'Adam la soma,
a' piè di Giove in pace requïesca.


XL

Canzona morale di Mariotto d'Arigo Davanzati mandata al magnifico re Alfonso d'Aragona l'anno 1445.

Invitto, eccelso e strenüo monarca,
o novel Cesar robusto e clemente,
magno Allessandro e Pipirio veloce,
Scipïo, Anibal franco e Pirro ardente,
Fabio e Camillo al salvar della barca,
o 'nquïeto Marcel aspro e feroce,
giusta spada che nuoce
a' rei e' buoni essalta,
e 'l fondamento smalta
a chi per modo alcun segue vertute,
o del viver uman ferma salute,
in terra vita, verità e via,
in cui son adempiute
tutte eccellenzie, a noi mortal messia!
Hatti il gran Giove infra' mortal mandato,
colla influenza di Minerva e Marte,
in ogni facultà lor fida scorta;
e per congiugner ben l'ingegno e l'arte,
di quanto puote in ciel natura o fato,
e che 'n te non ritenga muro o porta,
tuo imenso animo esorta
con bellezze celeste,
insegne manifeste
di vittoria, trïunfo, etterna fama.
Or dunque chi da te s'onora e ama
raguarda, ché tal don dal ciel si perde,
se per te non si chiama
chi d'ambo canti sotto il lauro verde.
Mille e mill'anni pria trascorre al mondo,
che la somma Potesta unica e trina
mostri segni, qual fa or per essemplo.
O sommo rege d'ogni disciplina,
al qual non so se mai sarà secondo,
se tue opere degne ben contemplo,
i' mi risolvo e stempro
di stato infimo e 'ngegno,
ch'i' non fu' fatto degno
di vivere a' tuo piedi e con tal nodo
che, come le tue laulde aprezzo e odo,
veder potessi e rigistrare in carta!
E, ciò pensando, godo
che tuo memoria mai dal mondo parta.
Quanto tuo maiestà ogn'uom prevale,
la tua alma Lucrezia in fama avanza
ogni altra donna mai fin qui famosa
d'incredibil biltate e di costanza
e di sublime ingegno naturale,
dove carità, fede e speme posa,
stella radïosa
d'onestate e clemenza,
fior di magnificenza,
prudente, giusta, temperata e forte,
qual viva sempre fu dopo la morte
ne' gentil almi di chi ci succede,
se la matura sorte
non niega a' versi miei meritar fede.
Sento levarmi al ciel, imaginando
l'angelica suo forma altera e nova,
e la mia fantasia farsi divina;
e per cantar di lei viver ne giova.
Che fare dunque, veggendo o parlando,
a chi del paradiso è cittadina?
O bella Proserpìna,
tu ti torresti a Pluto;
e tu, Titon canuto,
perderesti la tuo vaga Aurora.
I' crederei trar delle selve fora
i tigri e gli orsi con sì dolce note,
e mostrare in brieve ora
quanto in ingegno uman natura puote.
- Canzon, s'avien ch'arrivi
a quella illustra donna,
che d'ogni onor colonna,
suplica ch'ella prieghi il sacro Alfonso
che nel numer de' suoi servi m'iscriva,
ché dal cielo ho risponso
di farlo eterno, e lei star sempre viva.
XLI
El ciel, che sopra noi si mostra e gira
per tirar l'alme nostre al santo regno,
ver Parnaso ti guida, sì ch'i' tegno
che 'ntorn'al broco già sie la tuo mira.
Conosco qual ti sprona e ti martira
quell'imbendato arciere, e qual disegno
fatt'ha volger la prua del tuo bel legno
dove chi meglio arriva ognor sospira.
Questo amor di che parli sotto 'l Tauro
regge e governa, e par che 'ntorno spieghi
reti e lacci infiniti a ogni ovile;
d'ozio e lascivia nasce e da tropp'auro.
Questo invocano e matti e fan più prieghi,
ma chi lo sprezza è ver saggio e gentile.


RIME DUBBIE

I

[Sezione]

Ad Agnolo da Urbino

Serenissimo ingegno immenso e divo,
cantor soave con la dolce lira,
negli occhi di Parnaso, Nisa e Cira,
per cui versa Elicona un ampio rivo,

o cibo ameno, o licor notritivo
della bramosa mente, qual disira
quel che natura chiede, infin che spira
l'alma, tornando al Motor primitivo!

Più tempo fa, messere Agnol d'Urbino,
ch'io disiai veder l'effigia vostra,
ritegno del poetico splendore,

per esser chiar d'un dubbio: se distino,
o fato, o cielo, o stella all'alma nostra
può tôr del libro arbitrio il gran valore.


[Sezione]

Risposta di Agnolo da Urbino

El tuo bel stil, leggiadro ed accessivo,
[['n]] lodarmi tanto, troppo a terra mira,
ché quel divario v'è, chi ben rimira,
da me a te, qual sia dal morto al vivo.

Lo 'mproviso tuo dir superlativo
dolce è già noto, quanto Italia gira;
la fama tua, che 'n fino al ciel ti tira,
l'alloro in testa, e 'n man ti pon l'ulivo.

El maestro vien dunque al fantolino
per imparare e chiedegli la mostra,
ché tu sa' ben che 'l sommo Crïatore

non diede a nostro albitrio alcun domino:
al giusto merto e pena al peccatore,
e la giustizia tua chiaro tel mostra.

 
 
 

Il Meo Patacca 01-1

Post n°1178 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

CANTO PRIMO

ARGOMENTO

Nell'arrivà, ch'a Roma fa' un Curriero
Con la nova, ch'i Turchi hanno assediata
VIENNA con un Essercito assai fiero
Resta la Città tutta spaventata.
A Meo Patacca allor venì in penziero
Di soccorre la Piazza, e radunata
Una truppa di Sgherri arditi, e scaltri
L'essorta al viaggio, ma a le spese d'altri.

Del più bravo tra i Sgherri Romaneschi,
Che più d'ogn'altro mentovà se fava,
De sentì raccontà non vi rincreschi
Quel gran valor, per cui scialante annava
Solo, perchè in natali birbanteschi
Mostrava un genio nobile mostrava,
E gran machine havè in tel cocuzzólo,
Le sue grolie cantà me va a fasciolo.

Dirò quel ch'hebbe in tel penziero, e in core
Quanno la nova orribile s'intese,
Che sotto VIENNA el Turco traditore
Con quel tamanto Essercito se mese;
Vi dirò ancor con quanto scialacore
Le feste d'intimà cura se prese,
Che si fecero in Roma, e con gran boria,
Quanno se pubricò calche vittoria.

Di più li gustosissimi strapazzi,
Che lui puro ordinò fussero fatti
Con ridicole forme de pupazzi
Alli Bassà, e Vissirri scontrafatti;
Che fece fa' gran scialo alli regazzi
Con zaganelle in mano, e razzi matti,
E che volse, che l'homini i più lochi,
Sparassero, ma a vento, i cacafochi.

Muse! Voi, ch'alle coste ve sedete
Del Dio canoro, c'ha sbarbato el mento,
Non ve credete no non ve credete,
Che v'invochi, perchè non me la sento;
Io sono guitto, e voi gran fumo havete,
Però ve lascio stàne, e me contento
D'una sguattara vostra e sia di quelle,
Che lava i piatti, e lecca le scudelle.

Una de 'ste sciacquette è giusto al caso
D'esserme Protettora, e non ve spiaccia,
Perchè 'sto fusto già s'è persuaso
Di gente birba seguità la traccia.
Darà costei a chi me da de naso
Un de i su' stracci unti e bisunti in faccia,
Allor, ch'io col magnifico taccone
Le corde batto del mi' calascione.

Ma già, che non ho Musa, che m'assista,
E che ben mi difenda all'occorrenza
Da gente, che ci fa la dottorista,
Che si grolia d'usa maledicenza,
Io, che 'sta mi' disgrazia ho già prevista,
Di CLEMENTE ricorro alla Clemenza,
E s'un tal Personaggio m'assicura,
De 'sti critichi allor non ho paura.

Negli anni giovanili un senno havete,
Et un saper, ch'a vecchia età non cede;
Unir al vostro merito sapete
Quello de i genitor, ch'in voi si vede.
Dell'eccelse virtù, sì, che Voi sete
Di due gran Porporati un degno Erede,
E sete, per dir tutto in poche note,
Del già NONO CLEMENTE Pronipote.

Se un germe tal de i Rospigliosi Eroi
Si degna di proteggeme, io mi rido
De 'sti sbeffieri satrapetti, e poi
Io stesso a censuramme li disfido;
S'il difenderne allor sol tocca a Voi,
Io per me farò 'l sordo a ogni lor grido.
Signor! Voi dunque invoco, e scioglio intanto
Animato da Voi la voce al canto.

Stava Roma paciosa, allor, che l'anno
Mille seicento ottanta tre curreva,
E tutto quel, ch'i spensierati fanno,
Grattannose la panza, ogn'un faceva;
D'havè vicino un perfido malanno
Nisciun propio nisciun se lo credeva;
Però senza abbadàne ad altre quelle
Al solito se dava in ciampanelle.

Chi annava a scarpinar per la Città,
Facendo un po' de vernia in due o trè,
Chi stava in chalche camera a giocà,
Chi all'osteria del Sole, o de i Tre Re;
Altri, com'oggidì spesso si fa,
Drento delle botteghe del cafè
Con un viso pacifico e sereno,
Stavano a raggionà del più e del meno.

Era quel mese, che le ventarole
Perchè bigna addroparle, hanno gran spaccio,
Se già incominza a sbruffà razzi el Sole,
Che scottano la pelle in sul mostaccio.
In 'sto tempo alza el gomito se sole,
Piace lo sciurio freddo come un giaccio,
Il mese è Luglio, e nome sì sforgiato
Gli fu da Giulio Cesare imprestato.

Quann'ecco, all'improviso tra la gente
Suscitato se vede un parapiglia;
Chi brontolà, chi schiamazzà se sente,
Si slargan l'occi, e inarcano le ciglia.
Tra le femmine ancora immantinente
Sgraffia una el viso, e l'altra se scapiglia:
Causa fu de 'sto chiasso un brutto caso,
Ch'a tutti poi fece affilàne el naso.

Un di coloro a Roma era arrivato,
Ch'a rompicollo pe' le poste vanno,
E l'avviso tremenno havea portato,
Ch'il gran Vissir del popolo Ottomanno
S'era con grosso Essercito piantato
Là dove d'Austria i Maiorenghi stanno;
Voglio dir sotto Vienna, e in foggie strane,
D'azzampalla credeva il Turco Cane.

Vienna è Città, che, bigna havè pacenza,
Poche con lei ce ponno arrogantàne:
I Cesari ce fanno residenza,
Perchè proprio ha bellezze maiorane.
Scialante è il sito, e iofa è l'apparenza,
Non lo pozzo a bastanza raccontàne:
Se chalchuno a nostròdine non crede.
Che così bella sia, la vada a vede.

 
 
 

Il Dittamondo (6-03)

Post n°1177 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO III


"Da venti quattro nazion comprende
Egitto tutto ed è partito in due,
sí che di sopra e di sotto s’intende.
Aeria prima nominato fue;
poi da Mesraim di Cam truovo scritto 5
che, ponendoli il suo, quel cadde giue.
Seguio apresso per signore Egitto, 
fratel di Danai, e da costui 
lo nome, ch’ora tiene, li fu ditto." 
Cosí parlando seguitava lui, 10 
come il discepol segue il suo maestro, 
tanto che sotto un alto poggio fui. 
"Questo monte, diss’el, fatto è silvestro, 
colpa e vergogna di quei che son ora, 
che miran solo in terra e da sinestro. 
Qua su piú volte Moises adora 
e vide il nostro sommo Adonaí 
come fiamma, ch’ardendo, s’avvalora. 
Questo è quel monte santo Sinaí, 
lá dove Caterina si glorifica 20 
per Cristian, Giudei e Canaí." 
Indarno la mia penna qui versifica, 
ché non sa dir quanto a l’anima piacque 
trovarmi dove giace e si santifica. 
Quella contrizion, che nel cuor nacque, 25 
e ’l grande amor s’accese sí, che poi 
la rimembranza dentro non vi tacque. 
Partiti da quel santo loco noi, 
pur lungo il monte prendemmo la via, 
lassando Egitto e i termini suoi. 30 
Qui, senza dimandar, la scorta mia 
mi disse: "A ciò, che men si vada in vano 
e che piú breve lo cercar ti sia, 
quanto tu vedi da la destra mano 
su, vér levante, Arabia si dice, 35 
tra Siria, Caldea e l’Oceano. 
E tanto stende al mar le sue pendice, 
ch’assai vi son che veggon l’altro polo 
per quelle scure e secrete radice. 
Arabia in loro lingua vuol dir solo 40 
qual sacra in nostra, però che qui nasce 
cinnamo, mirra, incenso in ciascun brolo, 
erbe turifer, sane a tutte ambasce, 
odorifere e sante, e qui si trova 
l’uccel fenice, che d’esse si pasce. 45 
La sua natura so che non t’è nova, 
ché da quel che ti disse non mi stolgo 
quella che sopra il Tever piange e cova". 
Dissemi poi de l’uccel cinomolgo 
la forma e dove nasce; e tu che leggi, 50 
se ’l vuoi saper, lui cerca ond’io lo tolgo. 
E se d’udirlo propio tu vagheggi 
de l’iride pietra e de la sardonica, 
similemente quivi fa che veggi; 
e troverai ancor ne la sua cronica 55 
qual v’è l’andromada, la pederonta, 
e una ed altra gentile e idonica. 
Apresso questo mi divisa e conta 
ch’aspidi e draghi con pietre vi sono 
e qui i colori e le vertú m’impronta, 60 
Ancor non lungi molto ti ragiono 
ch’una fontana ci è di questa forma: 
c’ha l’acqua chiara e ’l sapor dolce e bono. 
Se pecora ne bee, cambia e trasforma 
lo vello suo: Pitagora l’appropia; 65 
sí fa Ovidio, che la mette in norma. 
Cosí andando e dandomi copia 
di molte novitá, giungemmo al mare, 
lo quale è rosso sí, che par sinopia. 
Io n’avea tanto udito ragionare, 70 
che non mi fu, mirandol, maraviglia, 
ben che una strana cosa a veder pare. 
Scrive alcun che sí rosso somiglia 
ché, dentro a l’acqua ripercosso il sole, 
cotal color da esso propio piglia. 75 
Ed è chi da natura l’ha dir vole; 
ma i piú s’accordan dal sabbion, ch’è rosso 
d’intorno e sotto, e che tal color tole. 
Qui mi disse Solin: "Rivolgi il dorso 
in vèr settentrion, ché in ogni verso 80 
m’ingegno abbreviar la via ch’io posso. 
Questo braccio di mar, stretto in traverso, 
lungo fra terra, vien dal mezzogiorno; 
l’altro è di sopra tra l’Arabo e ’l Perso. 
Or puoi veder che ’l mar li va dintorno 
da le tre parti, come a Italia face. 
Molto è il paese di ricchezze adorno. 
Una provincia dentro a esso giace, 
a cui Saba di Cus lo nome diede, 
che prima l’abitò e tenne in pace". 90 
Apresso tutto questo, mi fe’ fede 
del fiume Euleo e de la sua natura, 
che indi passa e da Media procede. 
Poscia mi disse: "Imagina e figura 
l’ocean rosso, come questo miri, 95 
quanto il lito d’Arabia e ’l Perso dura. 
E sappi ancor che dentro a questi giri 
Catabani e Sceniti ci vedi, 
e il monte Sinolepori e Cispiri. 
Ma or dirizza al contrario i piedi". 100
Io cosí feci ed e’ prese la strada,
si come il mento a la sua spalla diedi,
per voler ritrovare altra contrada.
 
 
 

Il Meo Patacca

Post n°1176 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ill.mo et Eccell.mo Signore
Signore e Padrone Colendissimo

Al merito sublime dell'Ecc. V. non per motivo di libera elezione, ma solo per dovuti riguardi afferisco il picciol dono del presente giocoso Poema. Le mie molte obbligazioni così richiedono, il mio pronto volere così esseguisce, e l'innata benignità di V. Eccell. ne promette un generoso Gradimento. Provengono i miei doveri dall'ossequiosa Servitù da me professata ai suoi gloriosissimi Antenati, fino dai tempo, in cui regnava il gran Pontefice Clemente Nono, di cui basta solo rammentare il nome, per autenticare le sue glorie, al Mondo tutto già note, allora quando si compiacquero, i di lui Eccellentissimi Nipoti e Figli del Sig. Bali D. Camillo Rospigliosi, Germano Fratello di Sua Santità, che unir seppe in tal guisa alle secolari Grandezze una Pietà religiosa, che sinchè visse fu la vera Idea delle Virtù Cristiane, e dopo morte un vivo Essempio di quell'Eroiche Azioni, che qualificar possono un Principe Regnante, allora dico che si compiacquero, d'esser eletti successivamente Principi dell'antica e celebre Accademia degli Infecondi di Roma, di cui, sotto il Loro autorevole Patrocinio, fui, fino da quel tempo, conforme sono anche presentemente, Segretario, benchè affatto immeritevole d'una tal carica. Ne compartì i primi Onori l'Eccellentissimo Signor D. Tommaso, che da immatura Morte a Noi fu rapito, per renderne privi d'un soggetto odorno di quell'alte Prerogative, che render possono riguardevole ogni Anima grande.
Più compensata la perdita d'un tanto Principe coll'acquisito dell'Eccellentissimo Sig. D. Felice, Suo Germano fratello, cui dopo breve Tempo convenne lasciarci, sendo stato assunto alla Sacra Porpora, perchè n'havesse condegno Premio la sua Virtù, che obbligò anche l'Invidia a commendarne una tal essaltazione. Non lasciò Egli per tanto ne i Residui della sua Vita, che via più breve, via più meritevole si rese perpetua memoria, d'assisterci con la sua benignissima Protezione, conforme antecedentemente fatto haveva l'Eminentissimo Signor Cardinal Giacomo, cui mancò solo il Tempo, non il merito di sormontare all'Altezze Maggiori.
Fu dopo acclamato Principe di detta nostra Accademia l'Eccellentissimo Sig. Duca di Zagarolo Degnissimo Genitore dell'E. V., che anche di presente ci continua le sue Grazie con dimostrazioni di sì benigno Affetto, che ha con dolce violenza forzati gli Animi degli Accademici tutti, a tributar ad esso gli atti della Loro riverentissima Divozione, et ad implorargli dal Cielo con incessanti Voti lunga serie d'anni di Vita, a dispetto di quell'empio Malore, che tentò, non è guari, con Pietre radicateli nel seno lapidar la Sua salute. Chi potrà dunque negarmi che per sì fatti motivi, sia da me dovuta all'Eccell. V. l'umil offerta di questo Poetico mio Componimento? Qual gloria maggiore conseguirne io poteva, che di vederlo decorato del pregiatissimo Nome di V. Eccell. che non degenera punto dall'Eroico Genio de' Suoi Maggiori? Un indole sì retta, una maturità di senno ne gli anni, anche teneri, l'Acquisto già fatto delle Scienze più virili, la Singolarità de g'innocenti Costumi, la Grandezza dell'Animo, la Suavità delle maniere, quale aumento di merito non promettono ne gli anni più adulti? Quale speranza non porgono, anzi certezza, che ben saprà l'Eccell. V. render più pregiabili le ricche Doti dell'Animo e de i molti Beni della fortuna? Et oh quanto mi resterebbe a dire, se inoltrarmi volessi nelle lodi dovute all'Eccellentissima Signora D. Maria Pallavicini Rospigliosi degnissima Genitrice di V. Eccellenza, che non ha punto che invidiare a gli antichi Pregi delle Romane Eroine, sotto la cui essemplarissima direzione, quasi candide Colombe, si vanno educando le Tre dilettissime sue Figlie, germane Sorelle di V. Eccell. si ben incaminate nell'età più florida, per lo Sentiero di virtuose applicazioni, all'acquisto di una fama perenne.
Se aggiunger poi volessi gli Encomii, di cui si è reso meritevole l'Eccellentissimo Signor D. Nicolò Suo minor Fratello, Che sì gloriosamente sa imitare gli Eccelsi meriti di Vostra Eccellenza, recar potrei, con dir Puoco, pregiudizio a quel Molto che dirne dovrei, e perciò solo con un riverente Silenzio, mi protesto, che stimerò sempre mia Gloria, l'essere di Vostra Eccellenza, e di tutta la Sua Eccellentissima Casa con ogni maggior Venerazione.
Di Casa lì 8 luglio 1695
Di V. Eccell.
Umiliss. Devotiss. Servitor Obligatiss.
Giuseppe Berneri.



Avvertimento dell'Autore a chi legge.

Non ti sia discaro, Gentilisismo lettore, che Io t'avvertisca in primo luogo, che il Linguaggio Romanesco, non è (come suppongono Alcuni) notabilmente diverso da quello che s'usa dalla Gente volgare di Roma, eccettuatene alcune parole ed Idiotismi, che inventarono i Romaneschi a loro Capriccio, e bene spesso con Etimologie non affatto improprie, quali riescono assai piacevoli. Ma in realtà consiste principalmente il detto Linguaggio in alcune repliche d'un'istessa Parola in un periodo, che danno forza al Discorso, come per cagion d'essempio: "La vuoi finì, la vuoi?" "Ne sai fà più, ne sai?" e simili. Consiste ancora in alcune parole tronche, cioè Verbi nell'Infinito, dicendosi sedè, camminà, parlà invece di sedere, camminare, parlare; et alle volte in qualche Articolo, E. G. (exempli gratia) invece di dire nel viaggio, dicono in tel viaggio; spesso anche nelle parole accorciate, dicendo 'sta tu' bravura in cambio di questa tua bravura. Procuri per tanto Chi Legge, quando da Altri è inteso, d'imitar, più che può la Pronunzia di detti Romaneschi, e particolarmente in quei Periodi, ne i quali (come si è accennato) si dice l'istessa parola due volte. Che però ne i precitati essempi, "La vuoi finì, la vuoi?", "Ne sai fa più, ne sai?" è necessario il pronunziare ciascuno di essi, (come si suol dire) tutto ad un fiato, e presto, poichè se si facesse pausa con dire: "La vuoi finì... la vuoi?" "Ne sai far più... ne sai?" si toglierebbe il Garbo all'Energia Romanesca, che però detti e simili Periodi si devono pronunziare nel modo accennato; e per facilitare una tal Pronunzia si è posto ne i casi delle sudette Repliche il presente Asterisco *, nel qual segno s'ha da fermare la voce, e non prima di giungere ad esso. Se ne pone l'essempio nel seguente Verso.
"Se po' sape' se po' * se con chi l'hai?"
Il che servirà di regola in altri simili casi. Avvertiscasi ancora di calcar la Voce nell'ultima Sillaba delle Parole tronche, su le quali si troverà l'accento, Exempli Gratia nelle Parole dette sopra: sedè, camminà, parlà, poichè in tal guisa riuscirà la Pronunzia più dialettale e propria.
Perchè il significato di qualche parola inventata da' Romaneschi, non sarebbe forse da Tutti inteso, se n'è posta nel Margine la dichiarazione, per maggior facilità di Chi legge, e per rendere il Componimento intellegibile anche ai Forastieri, che non hanno pratica d'un tal modo di parlare. Se poi nel leggere troverai Barbarismi e Sconcordanze, non attribuir ciò all'inavvertenza dell'Autore, ma solo alla proprietà d'un tal Linguaggio, che richiede alle volte tali scorrezioni; così anche trovando Virgole poste dove non andrebbero, sappi che ciò s'è fatto per aggiustar la Pronuncia nelle Pause della Voce e renderla Romanesca, più che sia possibile. Piacciati in oltre ch'io t'avvertisca, che l'istesse parole Romanesche hanno talvolta diversi significati, e però diversamente si spiegano nelle annotazioni fatte nel Margine. Perchè poi alcune di dette Parole in qualche caso potrebbero cagionar Equivoco, e render confuso il senso del Periodo, coll'Articolo Romanesco, si sono espresse senza detto Articolo. Et è anche da sapersi, circa l'Elocuzione, che questa non ha Regola precisa, perchè i Romaneschi, quando sono adirati, si servono di parole turgide, e di frequenti Repliche, e quando discorrono piacevolmente, di Parole meno ampollose. E in tutto si è procurato di imitare, quanto più s'è possuto, il Costume di Essi, e si è havuto riguardo, quando si introduce a parlare persona, che non è Romanesca, d'adattarle il proprio Linguaggio, il che non credo sia per riuscire dispiacevole.
Venendo hora al Soggetto del Poema, debbo dirti, che il fine primario d'un tal Componimento è stato di voler descrivere le curiose Feste che si ferono in Roma dalla Plebe, per contrassegno d'una interna e straordinaria Allegrezza, quando si udì la tanto desiderata Nuova della Liberazione dell'Augusta Città di Vienna, allora che dall'Armi Ottomane fu sì strettamente assediata, e molte di dette Feste, che si descrivono, sono l'istesse che si ferono allora.
E altre sono inventate, conforme richiede la Poesia. Gli Intrecci antecedenti, servono d'introduzione al racconto delle medesime, così anche l'altre Feste più Nobili della Città.
Soggiungo per fine ch'io m'indussi al Componimento del presente Poema, per compiacere a gli Amici, che me ne ferono istanza, e per soddisfar al proprio Genio, non già per riportarne alcuna lode. Fu breve il Tempo da me impiegato nella struttura di esso, et a puoca fatica non è dovuto alcun Premio. Compiacendoti lodarmi, sarai discreto e cortese, volendomi biasmare, ti mostrerai mal saggio, perchè un'opera, che s'espone al Publico e vale a dire al Giudizio de' Letterati, o da questi s'approva et allora il Critico incorre nella Taccia d'Invidioso e Maligno, o vien disapprovata da gl'istessi, et allora l'affaticarsi, per voler con le Crittiche porla in Discredito è superfluo, et è perciò espediente migliore d'ogni Altro l'astenersi dalla Maldicenza. Se poi t'aggrada contro me essercitarla, per secondar il tuo Genio, piacciati almeno sospenderne l'essecuzione, fino che legger mi fai qualche tuo giocoso Poema, à fin che possa io da Tè apprendere il vero modo di comporre in questo Genere, che resterò assai tenuto alla tua Gentilezza, e vivi felice.

Giuseppe Berneri

[L'avvertimento è stao da me citato in un precedente post].



Nulla osta della autorità ecclesiastica .

Con gran sodisfatione ho letta l'Opera intitolata "Il Meo Patacca, overo Roma in feste ne i trionfi di Vienna, Poema giocoso ecc.".
Niente in essa ho trovato contrario alla Santa Fede, o buoni Costumi, anzi una somma modestia e vivezza, dote propria dell'Autore, per ciò, è per le altre parti assai celebre. Onde giudico possa permettersene la Stampa.
- Nella Casa di S. Maria in Portico in Campitelli, questo dì 6 decembre 1695.

Francesco Maria Campione
della Congregazione della Madre di Dio



Prefazione all'Edizione del 1821.

Per commissione del Rmo P. Maestro del S.P.A. ho riveduto il Poema giocoso "Il Meo Patacca, ossia, Roma in feste ne' trionfi di Vienna", tratto da altra edizione, che ritrovai parimenti riveduta ed espurgata. Codesto Poema ebbe motivo dalla liberazione dell'assedio di Vienna, avvenuta sotto il Pontefice Innocenzo XI, con la direzione del Gen. Sobieski, che spedì in Roma lo stendardo di Maometto, e perciò furono fatte delle feste e coniate delle medaglie, come narra minutamente il P. Bonanni Numismata Rom. Pont. tom. II pag. 776 e seg. Si avvicina questo poema allo stile di Merlin Coccai, del Tasso Napolitano, della Secchia Rapita, e di simil genere di Poemi, che descrivono le abitudini, l'umore e il dialetto della Plebe. È cosa meravigliosa come questo Poema giocoso scritto nel 1683, mantenga lo stesso dialetto della plebe Romana ed Ebraica, gli stessi usi ed abitudini che vediamo a' nostri giorni, prova evidente che non bastano i secoli per rimuovere di un sol punto le abitudini e superstizioni che siansi insinuate nella Plebe. Egli è anche osservabile, che il Meo Patacca protagonista del Poema, rappresenta uno di quegli uomini popolari, o Capo-popoli dello stesso genere plebeo; e perciò unicamente apprezzato dalla plebe: e di questi uomini popolari appunto, e di questi capi-popolo si servono talvolta i saggi Governi, per isgridare ed anco correggere l'insolenza e velleità del basso popolo. Anche il filosofo può trarre da questo poema delle utili lezioni, e giudico perciò che possa essere riprodotta con le stampe la sua pubblicazione.
Roma questo dì 31 agosto 1821.
Avv. Giuseppe Gaetano Martinetti
Accademico di Religione Cattolica

 
 
 

Il Dittamondo (6-02)

Post n°1175 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO II

Sí come ’l ragno per la tela passa 
col filo a che s’appicca e, poi ch’è giunto, 
col tatto in su l’ordito il ferma e lassa, 
cosí con le parole mie appunto 
i versi filo e tesso in su l’ordito 5 
e ’l piú bel da notar fermo e appunto. 
"Ben hai, disse Solin vèr me, udito 
ciò ch’io t’ho detto; ma seguita ancora 
di dir sí come il regno poi è ito. 
Settecento e cinque anni e piú dimora 10 
sotto gl’imperador, che poi seguiro, 
che, come sai, viveano in Grecia allora. 
Ma propio in quel secol, se ben miro; 
che Macometto fu, levar lo niffo 
e da lo ’mperio in tutto si partiro. 15 
Un signor fen, nominato Califfo, 
dal quale ogni lor papa il nome ha preso: 
grande ebbe il cuore e il corpo corto e ’l niffo. 
Questo dominio, ch’io dico testeso, 
trecento quaranta anni stette e piue, 20 
che non si vide in alcun modo offeso. 
Ma non creda né pensi alcun né tue 
ch’ogni stato quaggiú non si maturi 
sí come il pomo e che non caggia giue: 
ché quando qui si stavan piú sicuri, 25 
nel mille con quaranta sette, dico, 
funno rubati e arsi in fino a’ muri. 
E ciò fenno i Cristian con Almerico; 
onde il Califfo mandò in Alappia 
per soccorso al Soldan, come ad amico. 30 
Ozaracon vi venne e vo’ che sappia 
che la terra difese e per cattivo 
prese il Califfo e in pregion l’accappia. 
Lo regno tenne in fin che el fu vivo; 
apresso, per Soldan rimase il figlio: 35 
Saladino me ’l noma e tal lo scrivo. 
Costui, per sua franchezza e gran consiglio, 
tolse la Terra santa ai Cristiani, 
vincendo quelli e dando lor di piglio. 
Lo fratello e ’l nipote fun Soldani 40 
apresso lui e ciascun per sé solo 
ben si guidò coi suoi e con gli strani. 
Melechsalem seguio: col grande stuolo 
de’ Cumani comprò molto tesoro, 
dai quali al fin sostenne mortal duolo. 45 
Signor fen Turqueman, ch’era di loro, 
e questo è quel che ’l re di Francia e Carlo 
di carcer trasse, ove facean dimoro. 
Non molto poi dal tempo, ch’io ti parlo, 
un altro Cumano uccise costui: 50 
sí si fidava in lui, che potea farlo. 
Melechmes si udio nomar da altrui 
e, Soldan fatto, Bondogar l’uccise 
e cosí prese il dominio per lui. 
Costui è quel ch’Antiocia conquise 55 
e al suo tempo il buon re Adoardo 
passò il mare e da’ suoi si divise. 
Il tosco fu a lui quel mortal dardo 
che gli trafisse il cuor senza ritegno: 
e tal gliel dié, che non ne avea riguardo. 
Melechzaich, lo figliuolo, disegno 
Soldano dopo lui; ma durò poco, 
ch’Alfi l’uccise e tolsegli il regno. 
Vero è che men costui tenne il loco: 
ché un altro, che pensò di farsi re, 65 
e che non fu, rifece a lui quel gioco. 
Qui puoi veder chi fa quel che non de’, 
come tu sai che dice il proverbo, 
che spesso gliene avièn quel che non cre’. 
Melcaseras tenne il nome e il verbo 70 
del padre Alfi e cacciando fu morto 
da tal, che ne perdé la carne e ’l nerbo. 
Melechnaser, un giovinetto accorto, 
rimase del Soldan, ché Guidoboga 
lui prese e ’l regno; ma ’l tempo fu corto: 75 
ché i Cumani, che allora erano in foga, 
grandi e temuti, morte a costui dienno: 
e cosí la sua vita poi fu poga. 
Lachin signore, un di lor gente, fenno: 
costui fu morto ove a scacchi giocava; 80 
e tal di chi l’uccise ancor t’impenno. 
Melechnaser, che ’mpregionato stava, 
com’io t’ho detto, di carcer fu tratto 
e Soldan fatto, in che poco sperava. 
Or puoi vedere in che nuovo baratto 85 
ben trecento anni questo regno è stato, 
ché ’l piú savio signor paruto è matto". 
"Certo, diss’io, a quel che m’hai contato 
qual ci è Soldan, dee star sempre confesso 
e aspettare che ’l colpo ognor sia dato". 90 
Cosí andando e ragionando adesso, 
cercai il Caro e fui in Babilona: 
formicar pare il popol, sí v’è spesso. 
E secondo ch’ancor la fama sona, 
al tempo del morbo un milione e mezzo 95 
quivi morí d’una e d’altra persona. 
Quando l’udio, me ne venne un riprezzo; 
poi dissi: "Esser ben può, poi che ’n Fiorenza 
ben cento milia ne fun posti al rezzo". 
Io bramava d’avere esperienza 100 
se piú vi fosse da notare strano, 
quando colui, ch’era ogni mia credenza, 
mi ragionò del fico egiziano 
la forma e quanto al frutto s’argomenta, 
come lo scrisse giá con la sua mano. 105 
Una fontana ci è, che quando spenta 
vi metti una facella, tosto accende 
e, s’è accesa, morta vi diventa. 
Allor pensai: Questa quasi s’intende 
con quella che in Epirro fa dimora; 110 
ma tacqui, sí come uom ch’ad altro intende. 
E dissi: "Dimmi se tu sai ancora 
chi diede il nome a questo paese
e com si parte tra le genti d’ora".
Ond’ello allora cosí a dir mi prese. 115

 
 
 

Il Dittamondo 6, Indice

Post n°1174 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Indice de "Il Dittamondo" di Fazio degli Uberti.

Libro 6

Cap. 01   Cap. 02   Cap. 03   Cap. 04   Cap. 05   Cap. 06 
Cap. 07   Cap. 08   Cap. 09   Cap. 10   Cap. 11   Cap. 12 
Cap. 13   Cap. 14

 
 
 

Della Casa 11: sonetti

Post n°1173 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

LI

Sì lieta avess'io l'alma, e d'ogni parte
il cor, Marmitta mio, tranquillo e piano,
come l'aspra sua doglia al corpo insano,
poi ch'Adria m'ebbe, è men noiosa in parte.

Lasso, questa di noi terrena parte
fia dal tempo distrutta a mano a mano,
e i cari nomi poco indi lontano
(il mio col vulgo, e 'l tuo scelto e 'n disparte),

pur come foglia che col vento sale
cader vedransi. O fosca, o senza luce
vista mortal, cui sì del mondo cale,

come non t'ergi al ciel, che sol produce
eterni frutti? Ahi vile augel su l'ale
pronto, ch'a terra pur si riconduce!

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 47 (pag. 24)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 313

Note:
Anche questo è diretto al Marmitta che rispose alla sua volta con uno che incomincia: Io mi veggio or da terra alzato in parte. Era il poeta afflitto di podagra quando venne a Venezia; ma da indi se ne sentia liberato.
(Carrer, cit., pag. 309)



LII

Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero,
e per ornar la scorza anch'io di fore,
molto contesi; or langue il corpo, e 'l core
paventa, ond'io riposo e pace chero.

Coprami omai vermiglia vesta, o nero
manto, poco mi fia gioia o dolore:
ch'a sera è 'l mio dì corso, e ben l'errore
scorgo or del vulgo che mal scerne il vero.

La spoglia il mondo mira. Or non s'arresta
spesso nel fango augel di bianche piume?
Gloria non di virtù figlia, che vale?

Per lei, Francesco, ebb'io guerra molesta;
e or placido, inerme, entro un bel fiume
sacro ho mio nido, e nulla altro mi cale.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 48 (pag. 25)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 314

Note:
Sonetto gravissimo, ov'è ritratto l'animo del Poeta, e le fallaci speranze e i pentimenti della sua vita. E' scritto a Francesco Nasi, gentiluomo fiorentino.
V. 4. Chero, voce d'origine spagnuola, e straniera a noi, dice il Tasso., Disc. Poet. Il Bembo la vuole provenzale, vedi le Prose. Il Castelvetro nelle Giunte le accorda derivazione latina.
V. 5-6. Vermiglia veste, o nero-Manto. Qui si pare apertissima l'affannosa bramosia del pappello cardinalizio: vermiglia veste, accenna alla porpora; nero manto è abito di prete.
V. 12. A questo verso allude un sonetto del Varchi al Casa, che incomincia: Bembo toscano, a cui la Grecia e Roma. Cito volentieri questo sonetto, perchè si vegga in qual conto fosse tenuto il Bembo da'toscani stessi, a tale che credevano onorare i loro compatriotti intitolandoli dal nome di lui. Né certo il Varchi era allevato alla scuola del Perticari e di Vincenzo Monti.
V. 13. Entro un bel fiume. Quando fosse scritto, come sembra, in Venezia, calzerebbe la citazione fatta dal Quattromani del tibulliano:
Jam nox aethereum, nigris emersa quadrigis,
Mundum caeruleo laverat amne rotas.
E l'Oceano fu chiamato fiume dai Greci. Meglio però parmi che si debba intendere del Sebeto, fiume presso Benevento, sede arcivescovile al Poeta. Senza ciò il bel fiume non sarebbe da torre ad esempio, ch' io creda. Anche questo sonetto venne esposto dal Garigliano.
(Carrer, cit., pag. 309)



LIII

Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga
che 'n Adria mise le sue eterne piume,
a la cui fama, al cui chiaro volume
non fia che 'l tempo mai tenebre asperga.

Ma io palustre augel, che poco s'erga
su l'ale, sembro, o luce inferma e lume
ch'a leve aura vacille, e si consume:
né pò lauro innestar, caduca verga

d'ignobil selva. Dunque i versi, ond'io
dolci di me ma false udì'novelle,
amor dettovvi e non giudicio: e poi

la mia casetta umil chiusa è d'oblio.
Quanto dianzi perdeo Venezia e noi
Apollo in voi restauri e rinovelle.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 49 (pag. 25)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 315

Note:
In morte del Bembo, e riscontra uno del Varchi che incomincia: Casa gentile, ove altamente alberga.
V. 3-4. Al cui chiaro volume - Non fia che il tempo mai tenebre asperga. Frase consimile a quella notata nel son. XXXIV.
V. 8. Anche qui l'uso del verbo innestare è notabile.
V. 12. La mia casetta. Freddura inopportuna in grave componimento, com'è questo. E chiosi pure il Quattromani, che qui il Poeta scherza felicemente col suo nome. Luogo opportuno a scherzare un sonetto per la morte d'un amico! Non mi ricorda ben quale, ma v'è una lettera del Caro, ove si parla di simili scherzi.
(Carrer, cit., pag. 310)



LIV

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de' mortali
egri conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi ond'è la vita aspra e noiosa;

soccorri al core omai che langue e posa
non have, e queste membra stanche e frali
solleva: a me ten vola o sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.

Ov'è 'l silenzio che 'l dì fugge e 'l lume?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?

Lasso, che 'nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo. O piume
d'asprezza colme! o notti acerbe e dure!

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 50 (pag. 26)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 316

Note:
Al Sonno: lodatissimo sonetto, e a buon diritto. L'amplificazione de'primi quattro versi non nuoce all'effetto; e la giudiziosa collocazione delle parole, frequenti di vocali, ti fa sentire un non so che di mestamente languido, proprio di chi cerca riposo e nol trova. Nella prima terzina hai qualche tinta virgiliana. L'esclamazione ultima mette il colmo all'evidenza. S'impari in somma dai giovani, ch'esso entra innanzi di lungo tratto all' altro della Gelosia. Anche questo ha l'esposizione del Garigliano.
(Carrer, cit., pag. 310)



LV

Mendico e nudo piango, e de' miei danni
men vo la somma tardi omai contando
tra queste ombrose querce, e obliando
quel che già Roma m'insegnò molti anni.

Né di gloria, onde par tanto s'affanni
umano studio, a me più cale; e quando
fallace il mondo veggio, a terra spando
ciascun suo dono, acciò più non m'inganni.

Quella leggiadra Colonnese e saggia
e bella e chiara, che co' i raggi suoi
la luce de i Latin spenta raccende,

nobil poeta canti e 'n guardia l'aggia:
ché l'umil cetra mia roca, che voi
udir chiedete, già dimessa pende.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 48
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 51 (pag. 26)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 317

Note:
Vo' credere composti questo e il seguente sonetto a Narvesa; e credo che le querce qui ricordate, siano il bosco del Montello, densissimo fino a pochi anni addietro, e atto a proteggere dal sole d'ogni stagione, e inspirare malinconici e sublimi pensieri. Colà entro è l'Abbazia, famosa per l'interdetto di Paolo III, e una bella Certosa, ma questa poco meno che a terra. Da Narvesa trovo scritte alcune lettere del Casa degli ultimi anni, quando appunto è probabile che col presagio della morte imminente si raccogliesse nella solitudine a meditare la vanità di tutte le cose.
V. 3-4. Intende gl'inutili servigi prestati a quella corte, non sempre, come sembra, secondo coscienza.
V. 9, e seg. La Colonnese qui ricordata è Girolama Colonna, figliuola di Giovanna d'Aragona; e il sonetto, indiritto a Ranuccio Farnese che lo aveva eccitato a comporre in lode di quella. Il manoscritto Melchiori reca la variante: Quella leggiadra alma reale e saggia. E cosi si legge a pag. 381 del l'empio di donna Giovanna Colonna.
(Carrer, cit., pag. 311)

 
 
 

Rime del Berni 3-4

Post n°1172 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

3

SONETTO DELLE PUTTANE

Un dirmi ch'io gli presti e ch'io gli dia
or la veste, or l'anello, or la catena,
e, per averla conosciuta a pena,
volermi tutta tòr la robba mia;

un voler ch'io gli facci compagnia,
che nell'inferno non è maggior pena,
un dargli desinar, albergo e cena,
come se l'uom facesse l'osteria;

un sospetto crudel del mal franzese,
un tòr danari o drappi ad interesso,
per darli, verbigrazia, un tanto al mese;

un dirmi ch'io vi torno troppo spesso,
un'eccellenza del signor marchese,
eterno onor del puttanesco sesso;

un morbo, un puzzo, un cesso,
un toglier a pigion ogni palazzo
son le cagioni ch'io mi meni il cazzo.



4

SONETTO CONTRA LA MOGLIE

Cancheri e beccafichi magri arrosto,
e magnar carne salsa senza bere;
essere stracco e non poter sedere;
aver il fuoco appresso e 'l vin discosto;

riscuoter a bell'agio e pagar tosto,
e dar ad altri per dover avere;
esser ad una festa e non vedere,
e de gennar sudar come di agosto;

aver un sassolin nella scarpetta
et una pulce drento ad una calza,
che vadi in su in giù per istaffetta;

una mano imbrattata ed una netta;
una gamba calzata ed una scalza;
esser fatto aspettar ed aver fretta:

chi più n'ha più ne metta
e conti tutti i dispetti e le doglie,
ché la peggior di tutte è l'aver moglie.

 
 
 

Il Dittamondo (6-01)

Post n°1171 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO I
 
"Qui si conviene andar con gli occhi attenti, 
qui si conviene aver la mente accorta, 
qui si convien fuggir tutti i spaventi": 
cosí a dire prese la mia scorta; 
"noi siamo in Asia, lá dove si vede 5 
ogni pericol ch’acqua e terra porta". 
E io a lui: "Quel Padre, in cui ho fede, 
spero che mi allumi e che mi guidi 
come l’animo mio lo prega e chiede. 
E spero in te, che mi conduci e fidi, 10 
col quale lungo tempo giá son ito, 
che mai palpar né temer non ti vidi. 
Con gli occhi attenti e col pensier sentito 
mi troverai a le tue spalle, ognora 
sicur, pur che non veggia te smarrito". 15 
"La fede che hai buona, disse allora, 
mi piace: ché colui va senza intoppo 
che spera in Dio, che ’l crede e che l’adora". 
Tu dèi saper, lettor, che s’io aggroppo 
le mie parole omai, piú che non soglio, 20 
che il fo ché il tempo è poco e ’l cammin troppo. 
Ma se tu vuoi veder dove le coglio, 
Plinio cerca, Livio e Isidero 
e piú autor, col mio, da cui le toglio. 
Non far sí come molti, ch’io considero, 25 
che braman di sapere e, per pigrizia 
o vanità, raffreddano il desidero. 
Per un sentiero, che ’l nocchier c’indizia, 
segnato per la riva del bel fiume, 
seguia colui, ch’era ogni mia letizia. 30 
Io avea preso, andando, per costume
addimandarlo, per non perder tempo 
e per trar del suo dire frutto e lume. 
E però, come io vidi luogo e tempo, 
li dissi: "Dimmi, s’altro mi sai dire 
dentro a quest’acqua, notato al tuo tempo". 
E quel, ch’era disposto al mio disire, 
mi ragionò come il delfino a ’nganno 
il coccodril conduce e fa morire; 
e come quivi, in un’isola, stanno 40 
uomin di piccolissima statura, 
ch’ancor la morte a’ coccodrilli dánno. 
"Li senici ci son, d’altra figura; 
l’ippotamo, c’ha forma di serpente, 
crudel ne l’opra e ne la vista scura. 45 
E, se ben ti ricorda e hai a mente, 
di qua dal lito di Canopitano, 
dove intanata sta la trista gente, 
quando volgemmo a la sinistra mano, 
quivi, tra l’Etiopia e l’Egitto, 50 
leonipardi, leonze e tigri stano. 
Piú lá è l’animal ch’aucefa è ditto, 
simile al badalischio nel rimiro; 
ma va per terra piú grave e affitto. 
Altri animali sono per quel giro 55 
con tante orribil voci e sí diverse, 
che sol l’udirle altrui è gran martiro". 
Cosí andando per le ripe sperse 
e ragionando, l’occhio mio da lungi 
con un gran muro piú torri scoperse. 60 
"O luce mia, che mi speroni e pungi 
per questa strada, diss’io, fammi chiaro 
che terra è quella, prima che lá giungi". 
"Due cittá son, diss’el, che fan riparo 
sopra quest’acqua: quella di lá noma 65 
Babilonia; l’altra, di qua, il Caro. 
Tra l’una e l’altra son maggior che Roma: 
quivi è il real palagio del Soldano, 
che tutto Egitto signoreggia e doma". 
E io a lui: "Per non andare invano, 70 
de’ re e de’ signori udir vorrei, 
che regnar qui nel tempo piú lontano". 
"Figliuol, rispuose, i primi, saper dèi, 
poi ’l diluvio, che tennero il paese, 
fun molto accorti e nominati dei. 75 
Festus Sol, Osiris prima lo prese, 
Orontoloteo e Tifone apresso, 
da’ quai la gente qui vivere apprese. 
Seguitâr, dopo quei ch’io dico adesso, 
i Dinaste e Cineo, che fu il primo, 80 
di Cam disceso e parente ben presso. 
Seguirono i Pastor di questo vimo; 
seguiron similmente i Faraoni 
e i Tolomei, secondo ch’io stimo. 
Ma or la mente a quel ch’io dico poni: 85 
durarono i Dinaste in fin che tenne 
Amosis tutte queste regioni. 
Pastor costui si disse e allora venne 
di qua Ioseppo che, col suo gran senno, 
questo paese condusse e sostenne. 90 
Apresso Amram e Ioachabet dienno 
Moises allora in man de la fortuna 
e marinaro innanzi tempo il fenno, 
per tema, quando egli era ne la cuna; 
ma pria poco fu detto Faraone 95 
Amenofis per la gente comuna. 
Non molto poi, come il Genesis pone, 
lo mar s’aperse al popolo di Dio, 
per fuggir morte, danno e quistione: 
io dico quando Chencres lo seguio, 100 
sí come è manifesto a tutto il mondo 
che l’acqua lui e tutti i suoi sorbio. 
Orosio scrive sí come nel fondo 
quale il miracol fu si vede ancora, 
pur che ’l mar posi e ’l tempo sia giocondo. 
Saba reina tra questi s’onora; 
ma l’ultimo Natanabo si dice, 
che col Magno Alessandro poi dimora. 
Tolomeo Lago fu l’alta radice 
de’ Tolomei e certo, se ben miro, 110 
degno ne parve, tanto fu felice. 
Alfin colei, che l’uno e l’altro tiro
abbeverò del sangue del suo busto,
lo regno tenne e, dopo tal martiro,
rimase in man del buon Cesare Augusto". 115

 
 
 

Mariotto Davanzati 31-35

Post n°1170 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

XXXI

Amore ha sì mutato sua natura
ver me, ch'a ciaschedun mi fa disforme;
di libertà m'ha privo, or cerca tôrme
la vita, ch'anco pur per mio mal dura.

Io fuggo di Medusa la figura,
né posso gir che lui non truovi l'orme
e la presenti a me qual siede e dorme,
o ride o canta, e d'altro non ha cura.

In me ogni sua ira sfoga e preme
come a prigion che non può far difesa,
incarcerato e di catene carco.

Ma lei, che me non ama e lui non teme,
lusinga sempre, ch'a sì alta impresa
non pur lui dubbia, ma gli strali e l'arco.

XXXII

L'ultimo giro della folle rota
voltò per me la mobile Fortuna,
con Amore e con Morte insieme a una,
per far lor maggior forza al mondo nota,

nel punto che da noi si fé remota
quella che 'nvidia mai non ebbe alcuna,
e che 'l sommo Fattor, ch'a sé l'aduna,
al ciel donò, e 'l cielo ha lei per dota.

Onde Dante n'arrossa e 'l mio Petrarca,
veggendo or posto alle lor donne un velo
per lei, che fama ha tolto all'universo;

quant'elle varcan l'altre, ella lor varca,
e, crescendo al Batista lume e zelo,
el mondo cieco in caos ha converso.


XXXIII

Tolto v'ha morte il più leggiadro oggetto,
occhi mia, che già mai fussi creato,
qual vi parve dal cielo sì esaltato
che 'ntagliato el lasciasti dentro al petto.

Onde levato avea nostro intelletto
a cantar già d'amor tutto infiammato,
con un sì dolce stile e sì ornato,
che colla voglia s'aggiugnea l'effetto.

Tal che piangere a voi bisogna sempre,
privi rimasti di quel chiaro lampo,
che ne 'nsegnava di farsi immortale.

Ma tu, cor tristo, come non ti stempre,
sicché l'alma si fugga d'esto vampo,
poi che forza né 'ngegno a morte vale?


XXXIV

Io porto sempre Troia agli occhi avante
conversa in fiamme e 'n sanguinoso pianto,
la ruina di Tebe, e sotto un manto
Iocasta con Ecùba in un sembiante.

Veggo Dario, Ligurgo e Attamante,
po' Giugurta e Teseo dall'altro canto,
Anniballe a Canosa in sangue tanto,
che l'anella ne fêr pruova bastante.

Veggo turbato, fra Nerone e Silla,
Cirro di sangue disïoso e tinto,
e' giganti da' dèi morti e disparsi.

E tutto accolto insieme una favilla
non è del foco, che 'l mio core ha cinto;
e sol con morte può da morte atarsi.


XXXV

[Sezione]

A Francesco Accolti

Sopra a natural corso o di ciel segno
produtto fusti al mondo in ascendente
mirabil sì, che dal primo parente
parto uman non fu mai fin qui più degno.

Di Calïope e Clio fatto, ritegno,
coll'altre suore, e stil tanto eminente
che, quale in vetro o 'n acqua sol fulgente,
consegue la memoria a ratto ingegno.

Ond'è ch'io benedico a ciascun'ora
el tempo, el modo, el loco e la cagione
che di vostra notizia mi fé parte.

Spirto che l'età nostra e 'l mondo onora,
se vertù fusse in me qual è affezione,
verghere' vostra fama in mille carte.

[Sezione]

Risposta di Francesco Accolti

Ornatissimo spirto e chiaro ingegno,
onde 'l sacro furor fra noi si sente
in tal modo sonar, che nostra mente
serìa debile e stanca al suo disegno,

quanto più ti dimostri eccelso e degno
ne' tua versi leggiadri, amica mente,
tanto più ne sospiro e son dolente;
lasso, troppo lontan dal tuo bel segno!

Ma se tempo miglior succeda ancora,
dopo 'l secol maligno, il qual s'oppone
a chi segue virtute in ogni parte,

po' che fama e valor sì ben s'onora
per te, forse darò qualche cagione,
degna mente, a vergar tue rime in carte.

 
 
 

Della Casa 10: rime

Post n°1169 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

XLVI

Come fuggir per selva ombrosa e folta
nova cervetta sòle,
se mover l'aura tra le frondi sente,
o mormorar fra l'erbe onda corrente,
così la fera mia me non ascolta;
ma fugge immantenente
al primo suon talor de le parole
ch'io d'amor movo: e ben mi pesa e dole,
ma non ho poi vigor, lasso dolente,
da seguir lei, che leve
prende suo corso per selvaggia via,
e dico meco: or breve
certo lo spazio di mia vita fia.

Ella sen fugge, e ne' begli occhi suoi
gli spirti miei ne porta
nel suo da me partir, lasciando a' venti
quant'io l'ho a dir de' miei pensier dolenti:
né già viver potrei, se non che poi
ritorna, e ne' tormenti,
onde questa alma in tanta pena è torta,
quasi giudice pio mi riconforta.
Non che però 'l mio grave duol s'allenti;
ma spero, e ragion fôra,
pietà trovar in quei begli occhi rei;
ond'io le narro allora
tutte le insidie e i dolci furti miei.

Né taccio ove talor questi occhi vaghi
sen van sotto un bel velo,
s'avien che l'aura lo sollevi e mova,
e come il dolce sen mirar mi giova
(non che l'ingorda vista ivi s'appaghi),
e qual gioia il cor prova
dove 'l bel piè si scopra, anco non celo:
così gli inganni miei conto e rivelo,
né questo in tanta lite anco mi giova.
Deh chi fia mai che scioglia
ver' la giudice mia sì dolci prieghi,
ch'almen non mi si toglia
dritta ragion, se pur pietà si nieghi?

Donne, voi che l'amaro e 'l dolce tempo
di lei già per lungo uso
saper devete, e i benigni atti e i feri,
chiedete posa a i lassi miei pensieri,
i quai cangiando vo di tempo in tempo;
né so s'io tema o speri,
già mille volte in mia ragion deluso:
sì m'ha 'l suo duro variar confuso,
e 'l dolce riso, e quei begli occhi alteri
vòti talor d'orgoglio,
ch'altrui prometton pace e guerra fanno.
Né già di lei mi doglio,
che 'n vita tiemmi con benigno inganno.

Pietosa tigre il cielo ad amar diemmi,
donne, e serena e piana
procella il corso mio dubbioso face:
onde talora il cor riposa e tace,
talor ne gli occhi e ne la fronte viemmi
pien di duol sì verace,
ch'ogni mia prova in acquetarlo è vana.
Allor m'adiro, e con la mente insana
membrando vo che men di lei fugace
donna sentìo fermarsi
a mezzo il corso, e se 'l buon tempo antico
non mente, arbore farsi,
misera, o sasso; e lacrimando dico:

Or vedess'io cangiato in dura selce,
come d'alcuna è scritto,
quel freddo petto; e 'l viso e i capei d'oro,
non vago fior tra l'erbe o verde alloro,
ma quercia fatti in gelida alpe, od elce
frondosa, e 'l mio di loro
penser, dolce novella al core afflitto,
contra quel che nel ciel forse è prescritto,
recar potesse. Ahi mio nobil tesoro,
troppo inanzi trascorre
la lingua e quel ch'i' non detto ragiona:
colpa d'Amor, che porre
le devria freno, ed ei la scioglie e sprona.

Canzon, tra speme e doglia
Amor mia vita inforsa, e ben m'avveggio
che l'altrui mobil voglia
colpando, io stesso poi vario e vaneggio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 3 (pag. 37)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 301

Note:
Se continuasse come incomincia, non avrebbe uguale in vaghezza.
St. 2, v. 7. Onde quest' alma in tanta pena è torta. Qui torto per tormentato, dal latino. Il vocabolario della Crusca non lo ammise, sebbene, come notarono il Quattromani e il Menagio, si legga nel lib. VIII, capo 1, della Guerra di Troja di Guido Giudice, il seguente passo: E quando Agamennone vide il suo fratello Menelao torto di tanto dolore, ec. (Venezia, 1481, in foglio). Ma gli Accademici leggevano forse nell'edizione napolitana del 1665, ove "il torto di" è fatto "involto in". Ad ogni modo basterebbe questo esempio del Casa per autorizzarne l'ammissione nel vocabolario. Vedi anche qui, dopo la nota alla st. 3, della canz. IV.
St. 3.1 primi cinque versi di questa strofa hanno forse inspirato al Tasso una delle ottave più voluttuose del suo poema; veggasi, da chi ama i confronti, la Gerusalemme, c. IV, st. 32.
St. ult, v. 6-7. E 'l mio di loro - Penser dolce. Come altrove, son. II, il mio di voipensier fido e soave.
(Carrer, cit., pag. 315)

La metafisica della Canzone è degna dei riflessi d'un genio, che ama la poesia dell'intelletto. E' permesso con queste due righe richiamare il lettore a una lentezza necessaria sopra i versi d'un grande poeta, che scrivea più spesso colla meditazione, che colla penna.
(Rubbi, cit., 301)



XLVII

Errai gran tempo, e del camino incerto
misero peregrin molti anni andai
con dubbio piè, sentier cangiando spesso,
né posa seppi ritrovar giamai
per piano calle o per alpestro ed erto,
terra cercando e mar lungi e da presso:
tal che 'n ira e 'n dispregio ebbi me stesso,
e tutti i miei pensier mi spiacquer poi
ch'i' non potea trovar scorta o consiglio.
Ahi cieco mondo, or veggio i frutti tuoi
come in tutto dal fior nascon diversi!
Pietosa istoria a dir quel ch'io soffersi,
in così lungo esiglio
peregrinando, fôra:
non già ch'io scorga il dolce albergo ancora,
ma 'l mio santo Signor con novo raggio
la via mi mostra, e mia colpa è s'io caggio.

Nova mi nacque in prima al cor vaghezza,
sì dolce al gusto in su l'età fiorita,
che tosto ogni mio senso ebro ne fue;
e non si cerca o libertate o vita,
o s'altro più di queste uom saggio prezza,
con sì fatto desio com'i' le tue
dolcezze, Amor, cercava; e or di due
begli occhi un guardo, or d'una bianca mano
seguìa le nevi, e se due trecce d'oro
sotto un bel velo fiammeggiar lontano,
o se talor di giovenetta donna
candido piè scoprìo leggiadra gonna
(or ne sospiro e ploro),
corsi, com'augel sòle
che d'alto scenda e a suo cibo vole.
Tal fur, lasso, le vie de' pensier miei
ne' primi tempi, e camin torto fei.

E per far anco il mio pentir più amaro,
spesso piangendo altrui termine chiesi
de le mie care e volontarie pene,
e 'n dolci modi lacrimare appresi,
e 'n cor piegando di pietate avaro
vegghiai le notti gelide e serene,
e talor fu ch'io 'l torsi; e ben convene
or penitenzia e duol l'anima lave
de' color atri e del terrestre limo,
ond'ella è per mia colpa infusa e grave:
ché se 'l ciel me la diè candida e leve,
terrena e fosca a lui salir non deve.
Né pò, s'io dritto estimo,
ne le sue prime forme
tornar giamai, che pria non segni l'orme
pietà superni nel camin verace,
e la tragga di guerra e ponga in pace.

Quel vero Amor dunque mi guidi e scorga
che di nulla degnò sì nobil farmi;
poi per sé 'l cor pure a sinistra volge,
né l'altrui pò né 'l mio consiglio aitarmi,
sì tutto quel che luce a l'alma porga
il desir cieco in tenebre rivolge.
Come scotendo pure alfin si svolge
stanca talor fera da i lacci e fugge,
tal io da lui, ch'al suo venen mi colse
con la dolce esca ond'ei pascendo strugge,
tardo partimmi e lasso, a lento volo;
indi cantando il mio passato duolo,
in sé l'alma s'accolse,
e di desir novo arse
credendo assai da terra alto levarse:
ond'io vidi Elicona, e i sacri poggi
salii, dove rado orma è segnata oggi.

Qual peregrin, se rimembranza il punge
di sua dolce magion, talor se 'nvia
ratto per selve e per alpestri monti,
tal men giv'io per la non piana via
seguendo pur alcun ch'io scorsi lunge,
e fur tra noi cantando illustri e conti.
Erano i piè men del desir mio pronti,
ond'io del sonno e del riposo l'ore
dolci scemando, parte aggiunsi al die
de le mie notti anco in quest'altro errore,
per appressar quella onorata schiera.
Ma poco alto salir concesso m'era.
Sublimi elette vie,
onde 'l mio buon vicino
lungo Permesso feo novo camino,
deh come seguir voi miei piè fur vaghi!
Né par ch'altrove ancor l'alma s'appaghi.

Ma volse il penser mio folle credenza
a seguir poi falsa d'onore insegna,
e bramai farmi a i buon di fuor simile:
come non sia valor, s'altri no 'l segna
di gemme e d'ostro, o come virtù senza
alcun fregio per sé sia manca e vile.
Quanto piansi io, dolce mio stato umile,
i tuoi riposi e i tuoi sereni giorni
vòlti in notti atre e rie, poi ch'i' m'accorsi
che gloria promettendo angoscia e scorni
dà il mondo, e vidi quai pensieri e opre
di letizia talor veste e ricopre.
Ecco le vie, ch'io corsi,
distorte: or vinto e stanco,
poi che varia ho la chioma, infermo il fianco,
volgo, quantunque pigro, indietro i passi,
ché per quei sentier primi a morte vassi.

Picciola fiamma assai lunge riluce,
canzon mia mesta, e anco alcuna volta
angusto calle a nobil terra adduce.
Che sai, se quel pensero infermo e lento
ch'io mover dentro a l'alma afflitta sento,
ancor potrà la folta
nebbia cacciare, ond'io
in tenebre finito ho il corso mio,
e per secura via, se 'l ciel l'affida,
sì com'io spero, esser mia luce e guida?

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 4 (pag. 40)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 305

Note:
Bellissima fra le canzoni del Casa, da competere colle più belle del Petrarca e di tutta la poesia italiana. Il Tasso, oltre le lodi amplissime date a questa canzone nel dialogo altra volta citato della Cavalletta, ne imitò visibilmente il cominciamento nell' ottantesimoterzo sonetto de' suoi amorosi: Arri gran tempo e del mio foco indegno, ec.
St. 2, v. 9, e segg. E se due treccie d'oro, ec. Ricalca l'idee con cui è principiata la stanza terza della canz. antecedente, ma con più modestia.
Si 3, v. 5. E 'n cor piegando, ec. E 'n cor pregando leggesi nel più delle recenti edizioni, ma senza conforto d'autorità o di ragioni. Il codice Melchiori ha piangendo. Ho lasciato correre piegando perchè sta nelle antiche stampe, e risponde al "torsi" del settimo verso. Il Casa ama ripetersi nelle frasi, e ciò darebbe nuovo soggetto a pensare sulla vera intenzione del poeta nell'uso del torta notato nella st. 2, v. 7, della canz. III.
St. 4, v. 3. Poi per poichè, usato da altri poeti. Petrarca, fra gli altri: Ma poi vostro destino a voi pur vieta (parte I, son. XLI, v. 12).
St. 5, v. 5. Seguendo pur alcun, per alcuni; troncamento da notare.
V. 14. Onde 'l mio buon vicino. Intendi il Petrarca nato in Arezzo, ossia nella stessa Toscana dov' era nato il Casa. E il Petrarca aveva detto in morte di Cino:
Pianga Pistoia, e i cittadin perversi,
Che perdut'hanno sì dolce vicino.
Dopo il Casa, il Tasso, in un sonetto a Gio. Donato Cuchetti, parlando del Sannazzaro:
Ciò che ammirò già Manto e Siracusa
Ne' due famosi, e ciò che al mio vicino
Dettò già spirto di celeste Musa.
St. 6, v. 4-5. "Come non sia valor s'altri nol segna - Di gemme e d'ostro". Con piccola mutazione, vedi qui addietro il principio del sonetto XLIV.
(Carrer, cit., pag. 316)



XLVIII

Come splende valor, perch'uom no 'l fasci
di gemme o d'ostro, e come ignuda piace
e negletta virtù pura e verace,
Trifon, morendo esempio al mondo lasci.

E col ciel ti rallegri, e 'n lui rinasci
come a parte miglior translato face
lieto arboscel talora, e 'n vera pace
ti godi e di saper certo ti pasci.

Né di me, credo, o del tuo fido e saggio
Quirino unqua però ti prese oblio,
ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo:

ei dritto e scarco e pronto in suo viaggio,
io pigro ancor, pur col tuo specchio amendo
gli error che torto han fatto il viver mio.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 44 (pag. 23)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 310

Note:
In morte di Trifon Gabriele veneziano, uomo dottissimo, e detto il Socrate de'suoi tempi. E diretto a Girolamo Quirini. A questo Gabriele medesimo indirizzò il Bembo quel suo che incomincia, Trifon, che 'n vece di ministri e servi; e il Varchi l'altro, La riposata vostra e lieta vita. Vedi anche l'Ariosto nell' enumerazione de'begli ingegni del suo tempo. Orlando furioso, canto ultimo.
(Carrer, cit., pag. 308)



XLIX

Poco il mondo giamai t'infuse o tinse,
Trifon, ne l'atro suo limo terreno,
e poco inver' gli abissi onde egli è pieno
i puri e santi tuoi pensier sospinse.

E or di lui si scosse in tutto e scinse
tua candida alma, e leve fatta a pieno
salìo, son certo, ov'è più il ciel sereno,
e quanto lice più ver' Dio si strinse.

Ma io rassembro pur sublime augello
in ima valle preso, e queste piume
caduche omai pur ancor visco invoglia,

lasso; né ragion pò contra il costume:
ma tu del cielo abitator novello
prega il Signor che per pietà le scioglia.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 45 (pag. 23)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 311

Note:
Ha lo stesso argomento dell'antecedente. Pompeo Garigliano l' espose in una delle cinque Lezioni recitate nell'accademia degli Umoristi in Roma, e quindi stampate in Napoli nel 1616.
(Carrer, cit., pag. 309)



L

Curi le paci sue chi vede Marte
gli altrui campi inondar torbido insano,
e chi sdruscita navicella invano
vede talor mover governo e sarte,

ami, Marmitta, il porto. Iniqua parte
elegge ben chi il ciel chiaro e sovrano
lassa, e gli abissi prende: ahi cieco umano
desir, che mal da terra si diparte!

Quando in questo caduco manto e frale,
cui tosto Atropo squarcia e no 'l ricuce
giamai, altro che notte ebbe uom mortale?

Procuriam dunque omai celeste luce,
ché poco a chiari farne Apollo vale,
lo qual sì puro in voi splende e riluce.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 46 (pag. 24)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 312

Note:
È scritto il presente sonetto in risposta ad uno del Marmitta, che incomincia: Se l'onesto desio che 'n quella parte. Di Jacopo Marmitta vedi la nostra raccolta a pag. 112, e le note a quel luogo. Sopra questo sonetto compose una lezione il dottor Giuseppe Bianchini, e la lesse nell'Accademia fiorentina il 5 giugno 1711: è stampata nell'ultimo volume dell' edizione del Pasinello. Cito quanti più mi cadono sott'occhio di tali lavori composti intorno le rime del Casa, perchè si vegga il gran conto che in ogni tempo e da ogni ordine di letterati si fece di questo poeta.
V. 5-6. Iniqua parte- Elegge ben. E frase evangelica: Maria optimam partem elegit.
(Carrer, cit., pag. 309)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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