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Messaggi del 02/02/2015

Il Meo Patacca 01-4

Post n°1187 pubblicato il 02 Febbraio 2015 da valerio.sampieri

Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Canto primo, ottave 46-60

Sta in alto la gran Frabica, et in cima
Del magnifico Monte. Da lontano
Fa 'na bella comparza, perchè prima
D'arrivacce, una Piazza è giù in tel piano.
Questa veduta si, ch'assai se stima,
Non men dal forestier, che dal romano,
Perchè a ogn'un, che di gusto è un pò capace,
Quanto si vede più, tanto più piace.

C'è una larga e una lunga scalinata.
Che forma una vistosa prospettiva,
E perchè tutta quanta è cordonata
Poco, o gnente in salirla è stentativa;
Di travertini una balaustrata,
Di qua, e di là, da capo a piede arriva;
Di pietra fina poi, ci son giù abbasso
Dui lioni, che sotto hanno un gran sasso.

Stanno un pe' parte accovacchiati, e stesa
In su le zampe reggiono la vita,
Ma tengono la testa alzata, e tesa,
Et un tantino poi la bocca aprita;
Qui c'è un cannello, e giù da questo scesa
Va l'acqua in un pozzolo, che ha l'uscita
Per una ciavichetta, et assai belle
Vengon fatte così due fontanelle.

Dove la scala ha fine, e la pianura
Incominza, ci son due piedestalli
Di marmoro, e in bizzarra positura
Sopra, con zampa in aria, dui cavalli;
Due statue di bellissima scultura
Figurano due maschi, e in osservalli
Chi di favole antiche ha un pò di luce,
Stima che siano Castore e Polluce.

Ciascun di questi ha un dei cavalli accanto,
E sta in piede. Più in là, ma pochi passi,
C'è un gruppo d'armature, e tanto, quanto
Si vede, esser trofei, sculpiti in sassi;
Due altre statuette in un biscanto
Ci son su i piedistalli un po' più bassi:
'Ste sei cose spartite con bell'arte,
Stan tre dall'una, e tre dall'altra parte.

 Poi si spiana uno spazio teatrale
Con un palazzo in faccia, c'ha il portone
In alto, e sotto a questo due gran scale,
Acciò pozzino annacce le perzone;
Stanno iscontro una all'altra in modo tale,
Che s'incontrano in cima. Un fontanone
Giù l'inframezza, e in sedia marmoruta
Ce sta sopra una statua seduta.

In larghezza la vasca assai si spanne.
E a gran quantità d'acqua dà ricetto;
Ci son due statuoni dalle banne
Mezzi colchi, barbuti inzino al petto;
Più finestre ha 'l palazzo belle granne,
Un cornicione ha poi vicino al tetto;
C'è sopra a questo una ringhiera bella,
Ch'è una cosa assai nobile a vedella.

Tutta guarnita di balaustrini
Della facciata uguaglia la lunghezza;
Sono quelli fra loro assai vicini
Con ben semitrizzata aggiustatezza;
Non son di stucco, ma di travertini,
Però nisciuno ancora se ne spezza:
Su 'sta ringhiera, pe' maggior suo vanto,
Statue messe ci son di tanto in tanto.

S'alza in mezzo alla loggia un campanile,
Che propio propio ha del magnificale:
Una sala più granne d'un cortile
C'è giù in Palazzo, che fa Tribunale;
Ce s'essercita quello del Civile,
E un pò più drento ancor del Criminale,
Che ci son le priggioni, e chi ci abbada
Le ferrate ne vede dalla strada.

Perchè a 'st'antica frabica non manchi
Galantaria delle moderne foggie,
Ha due palazzi poco men ch'a i fianchi,
Ch'in cima somiglianti hanno le loggie:
Son come novi, assai puliti, e bianchi,
Se il cornicion li salva dalle pioggie,
E in sopra, col medesimo ornamento,
Delle statue ci sta lo spartimento.

Sotto ci sono i portici, ma fatti,
Non già con archi, come è costumanza;
Ma ritti l'architravi in lunghi tratti
Si vedon qui con crapicciosa usanza;
Poggian però sopra colonne, e in fatti
Ad ogni tanto una quadrata stanza
Vanno formando; ma poi muro alcuno
Non c'è fra mezzo, e 'l portico è tutt'uno.

Son le volte spartate fra di loro,
Larghe sì, ma con poca incurvatura;
È liscio, sodo e nobile il lavoro
Senza il tritume della stuccatura;
Anzi, per così dir, vale tant'oro
Questa, benchè sì semplice fattura;
È come un'onestissima zitella,
Che quant'ornata è men, tant'è più bella.

De fora sì, che fanno scialamento '
De 'sti palazzi novi le facciate,
E d'appoggio, et insieme d'ornamento
Gli servono pilastri, e colonnate.
Alle finestre fanno adornamento
Ringhierette, che sono inframezzate
Da balaustri, un pò più cortarelli
Dell'altri, in tutto poi simili a quelli.

In mezzo a 'ste finestre, un finestrone,
Che pur è ringhierato, de maniera
Si slarga, e slunga, che più di portone
A dire il ver, che di finestra ha cera.
Dà poi, de 'sti palazzi il cornicione
El compimento a tutta la frontiera,
E quelli stanno, perchè assai ne piaccia
La lor veduta, uno dell'altro in faccia.

Le tre machine, c'hanno un ampio sito
Mostrano in alto un spazio riquadrato;
Ma il terreno poi giù paro, e pulito
Da tre scalini in giro è circondato;
Et ecco fatto un circolo, spartito
Giù pe' longo da un marmoro segato
In varie striscie, che son larghe, e piane,
Ma però tra di loro un po' lontane.

 
 
 

Il Dittamondo (6-05)

Post n°1186 pubblicato il 02 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO V

"Veduto hai ben sí come per li stremi
di tutto l’abitato son le genti
mostruose e d’intelletti scemi.

Alte montagne e piene di spaventi, 
oscure valli truovi e folte selvi 5 
con salvatiche fiere e gran serpenti. 
E quanto piú da queste ti divelvi 
e vien ne l’abitato, piú si trova 
dimestica la terra e con men belvi. 
Dunque questo paese, lo qual cova 10 
quasi nel mezzo d’ogni regione, 
de’ far, quanto alcun altro, buona prova. 
Ma nota ancor via piú viva ragione: 
che Dio elesse questo santo loco 
per sé e per le prime sue persone. 15 
Questa è la terra che in ombra di foco, 
com’io t’ho detto, a Moisé promise; 
a mente l’hai, ben so, ch’ancora è poco. 
Ma vienne omai e farai che t’avise 
del ver con l’occhio, che fa il cuore esperto". 20 
E, cosí detto, nel cammin si mise. 
Poi, come quel che ben sapea per certo 
l’animo mio, in vèr Ierusalem 
mi trasse per sentier chiaro e aperto. 
"S’io piú vivessi che Matusalem, 25 
dissi io, meritar non ti potrei 
farmi vedere Elia o vuoi Salem. 
Ma se in tutto appagar vuoi gli occhi miei, 
menami dove io veggia il Sepolco, 
prima che in altra parte drizzi i piei". 
Lucea il sole ed era il tempo dolco 
come si vede ne la primavera, 
e rose e fior parean per ogni solco, 
quando quel caro padre, con cui era, 
in vèr settentrion mi trasse, al monte 35 
Golgota, dove in tutto avea la spera. 
Se Egeria o Ciane diventaron fonte, 
maraviglia non m’è, perché due fiumi 
mi si converson gli occhi de la fronte, 
per gran dolor, quando mostrato fumi 40 
dove fu in croce il nostro Pellicano, 
quel dí che scurò il sol con tutti i lumi. 
Ma poi ch’io fui, non molto lontano, 
dentro al Sepolco, ove fu soppellito, 
dicendo, aggiunsi l’una a l’altra mano: 45 
"O somma luce, o Padre infinito, 
a Te l’anima mia raccomando, 
sí che sia degna al fin del tuo bel sito". 
Appena cosí detto avea, quando 
un Saracin mi disse: "Oltra va’ tosto; 50 
qui non si prega e piange dimorando". 
Pur io, che ’n tutto avea lo cuor disposto 
a dire e a finir lo prego mio, 
come l’avea ne l’animo proposto, 
aggiunsi: "Fammi tanta grazia, ch’io 55 
torni a riveder quel bel paese 
d’Italia, dico, dov’è il mio disio". 
E ’l Turcomanno ancora a dir mi prese: 
"Qui non s’alberga; per l’altro uscio passa," 
con volto tal, che sol l’atto m’offese. 60 
Co’ passi lunghi e con la testa bassa 
oltra passai e dissi: "Ecco vergogna 
del Cristian, che il Saracin qui lassa". 
Poi al Pastor mi volsi per rampogna: 
"E tu ti stai, che se’ Vicar di Cristo, 65 
co’ frati tuoi a ’ngrassar la carogna". 
Similemente dissi a quel sofisto, 
che sta in Buemme a piantar vigne e fichi 
e che non cura di sí caro acquisto: 
"Che fai? Perché non segui i primi antichi 70 
o i Cesari romani e ché non segui 
dico gli Otti, Curradi e Federichi? 
A che pur tieni questo impero in triegui? 
E se non hai il cuor d’esserne Augusto, 
ché nol rifiuti o ché non ti dilegui?" 75 
Cosí dicendo, quel savio vetusto 
col quale io era, mi disse: "Che fai, 
che mormorando vai cosí combusto?" 
Rispuosi: "Io ho disdegno e onta assai 
a pensar ch’esto loco degno e santo 80 
governi il Saracin, come visto hai. 
Ancora mosse il mormorare il pianto, 
ch’i’ veggio il Cristian con quei due gladii, 
che lassò Cristo, non curarne un quanto". 
"Noi non andrem, mi disse, mille stadii, 85 
che ’l re di Cipri disperato in tutto, 
dico se ’l Ciel non tramuta i suoi radii, 
si partirá con dolore e con lutto 
da questi due, da’ baroni e da’ re, 
e fará, d’un bel, gioco sconcio e brutto, 90
per mostrar vero e guadagnar per sé".
 
 
 

Rime del Berni 5-6

Post n°1185 pubblicato il 02 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

5

CAPITOLO DEL DILUVIO

Nel mille cinquecento anni vent'uno,
del mese di settembre a' ventidue,
una mattina a buon'otta, a digiuno,
venne nel mondo un diluvio che fue
sì ruinoso che da Noè in là
a un bisogno non ne furon due.
Fu, come disse il Pesca, qui e qua;
io, che lo viddi, dirò del Mugello:
dell'altre parti dica chi lo sa.
Vulcano, Ischia, Vesuvio e Mongibello
non fecion a' lor dì tanto fracasso:
disson le donne che gli era il fragello,
e che gli era il demonio e 'l satanasso
e 'l diavolo e 'l nemico e la versiera
ch'andavon quella volta tutti a spasso.
Egli era terza e parea più che sera;
l'aria non si potea ben ben sapere
s'ell'era persa o monachina o nera;
tonava e balenava a più potere,
cadevon le saette a centinaia:
chi le sentì non le volea vedere.
Non campò campanile o colombaia;
in modo tal che si potea cantare
quella canzona che dice: "O ve' baia".
La Sieve fece quel che l'avea a fare:
cacciossi inanzi ogni cosa a bottino,
menonne tal che non ne volea andare.
Non rimase pei fiumi un sol molino,
e maladetto quel gambo di biada
che non n'andasse al nemico del vino.
Chi stette punto per camparla a bada
arebbe poi voluto esser altrove,
ché non rinvenne a sua posta la strada.
Potria cantar cose alte e cose nove,
miracoli crudeli e sterminati,
dico più di otto e anco più di nove:
come dir bestie e uomini affogati,
quercie sbarbate, salci, alberi e cerri,
case spianate e ponti ruinati.
Di questi dica chi trovossi a i ferri;
io ne vo' solamente un riferire,
et anco Dio m'aiuti ch'io non erri.
O buona gente che state a udire,
sturatevi li orecchi della testa,
ch'io dirò cosa da farvi stupire.
Mentre che gli era in ciel questa tempesta,
si trovorno in un fiume due persone:
or udirete cosa che fu questa.
Un fossatel che si chiama il Muccione,
per l'ordinario sì secco e sì smunto
che non immolla altrui quasi il tallone,
venne quel dì sì grosso e sì raggiunto
che costor duo, credendo esser da lato,
si trovorno nel mezzo a punto a punto.
Ivi ciascun di loro spaventato
e non vedendo modo di fuggire,
come sa ch'in tal casi s'è trovato,
vollono in sur un albero salire
e non dovette darne loro il core.
Io non so ben quel che volesse dire:
eron frategli e l'un, ch'era il maggiore,
abbracciò ben quel legno e 'n su le spalle
si fé salir il suo fratel minore.
Quivi il Muccion e tutta quella valle
correvon ceppi e sassi aspri e taglienti:
tutta mattina dàlle, dàlle, dàlle.
Furno coperti delle volte venti,
e quel di sotto, per non affogare,
all'albero appoggiava il viso e' denti.
Attendeva quell'altro a confortare,
ch'era per la paura quasi perso;
ma l'uno e l'altro aveva poco a stare,
ché bisognava lor far altro verso.
Se non che Cristo mandò lor un legno
che si pose a quell'albero attraverso:
quel dette loro alquanto di sostegno,
e non bisogna che nessun s'inganni,
ché 'n altro modo non v'era disegno.
A quel di sotto non rimase panni:
uscinne pesto, livido e percosso,
et era in ordin come un san Giovanni.
Quell'altro anche devea aver poco indosso;
pur li parve aver tratto diciannove,
quand'egli fu dalla furia riscosso.
Questa è una di quelle cose nuove
ch'io m'arricordi aver mai più sentita,
né credo tal ne sia mai stata altrove.
Buone persone che l'avete udita
e pur avete fatto questo bene,
pregate Dio che vi dia lunga vita
e guardivi dal foco e dalle piene.



6

CAPITOLO DEL CORNACCHINO O LAMENTO DI NARDINO
CANATTIERE, STROZZIERE E PESCATORE ECCELLENTISSIMO

O buona gente che vi dilettate
e piaccionvi i piacer del Magnolino,
pregovi in cortesia che m'ascoltiate.
Io vi dirò el Lamento di Nardino,
che fa ogn'or con pianti orrendi e fieri
sopr'al suo sventurato Cornacchino.
Quest'era un bello e gentil sparavieri
ch'e' s'avea preso e acconcio a sua mano
et avutone già mille piaceri;
egli era bel, grazioso e umano,
sicuro quant'ogn'altro uccel che voli,
da tenersel per festa a ignuda mano.
Avea fatto a' suoi dì mille bei voli;
avea fra l'altre parti ogni buon segno,
e prese già quarant'otto assiuoli.
Non avea forza, ma gli aveva ingegno,
o, come dicon certi, avea destrezza,
e 'n tutte le sue cose assai disegno;
tornava al pugno, ch'era una bellezza;
aspettava il cappell com'una forma:
in fine, gli era tutto gentilezza.
O Dio, cosa crudel fuor d'ogni norma,
che quando e' venne il tempo delle starne
e che n'apparse fuora alcuna torma,
appena ebb'ei comminciato a pigliarne,
che gli venne un enfiato sott'il piede,
appunto ov'è più tenera la carne,
sì come tutto dì venir si vede
a gli uccei così vecchi come nuovi,
che per troppa caldezza esser si crede.
Quel che si sia, comunque tu gli provi,
e' vien subitamente loro un male,
che questi uccellator chiamano i chiovi.
O umana speranza ingorda e frale,
quant'è verace il precetto divino
che non si debba amar cosa mortale!
Comminciò indi a sospirar Nardino
e star pensoso e pallido nel volto,
dicendo dì e notte: "O Cornacchino,
o Cornacchin mio buon, chi mi t'ha tolto?
Tu m'hai privato d'ogni mio sollazzo,
tu sarai la cagion ch'io verrò stolto.
Impiccato sia io s'io non m'amazzo,
s'io non mi metto al tutto a disperare".
Così gridava che pareva pazzo.
E come spesso avvien nell'uccellare,
che qualche uccel fantastico e restio
così 'n un tratto non volea volare,
e' s'adirava e bestemmiava Dio
e mordeasi per rabbia ambo le mani,
gridando: "Ove sei tu, Cornacchin mio?".
Di poi ha preso adirarsi co' cani,
e gli chiama e gli sgrida e gli minaccia
e dà lor bastonate da cristiani.
Ond'un ch'è suo (né vo' che vi dispiaccia),
c'ha nome Fagianin, ch'è un buon cane,
èssi adirato e non ne vuol più caccia,
e spesso spesso a drieto si rimane;
dicono alcuni che 'l fa per dolore:
un tratto e' va più volentieri al pane.
Vedete or voi quanta forza ha l'amore,
che insino a gli animali irrazionali
hanno compassion del lor signore:
queste son cose pur fiere e bestiali,
chi le discorre e chi le pensa bene,
che 'ntervengon nel mondo a gli animali.
Però, s'alcuna volta c'interviene
cosa ch'al gusto non ci vadi troppo,
bisogna tòrne al fin quel che ne viene;
ché si dà spesso in un peggiore intoppo
et è con danno altrui spesso insegnato
che gli è meglio ir trotton che di galoppo.
O buona gente ch'avete ascoltato
con sì divota e pura attenzione
questo lamento ch'io v'ho raccontato,
abbiate di Nardin compassione,
sì ch'e' non s'abbi al tutto a disperarne:
Dio lo cavi di questa tentazione.
Io voglio in cortesia tutti pregarne
che voi preghiate Dio pel Cornacchino;
dico a chi piace uccellare alle starne,
ch'è proprio un de' piacer del Magnolino.

 
 
 

Della Casa 12: sonetti

Post n°1184 pubblicato il 02 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

LVI

Or pompa e ostro, e or fontana ed elce
cercando, a vespro addutta ho la mia luce
senza alcun pro, pur come loglio o felce
sventurata, che frutto non produce.

E bene il cor, del vaneggiar mio duce,
vie più sfavilla che percossa selce,
sì torbido lo spirto riconduce
a chi sì puro in guardia e chiaro dielce,

misero; e degno è ben ch'ei frema e arda,
poi che 'n sua preziosa e nobil merce
non ben guidata, danno e duol raccoglie.

Né per Borea giamai di queste querce,
come tremo io, tremar l'orride foglie:
sì temo ch'ogni amenda omai sia tarda.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 52 (pag. 27)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 318

Note:
Ritorna ai sentimenti espressi nel sonetto antecedente; ma non si sa a chi diretto, e forse a nessuno.
(Carrer, cit., pag. 311)



LVII

Doglia, che vaga donna al cor n'apporte
piagandol co' begli occhi, amare strida
e lungo pianto, e non di Creta e d'Ida
dittamo, signor mio, vien che conforte.

Fuggite Amor: quegli è ver' lui più forte
che men s'arrischia ov'egli a guerra sfida;
colà 've dolce parli, o dolce rida
bella donna, ivi presso è pianto e morte.

Però che gli occhi alletta e 'l cor recide
donna gentil che dolce sguardo mova:
ahi venen novo, che piacendo ancide!

Nulla in sue carte uom saggio antica o nova
medicina have, che d'Amor n'affide:
ver' cui sol lontananza e oblio giova.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 53 (pag. 27)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 319

Note:
Anche questo è tra quelli a cui il Garigliano diede di becco. E lungamente ne scrisse Alsssandro Guarini in una sua lezione per l'accademia degl'Invaghiti di Mantova, l'anno 1599. E nojosamente, commentando, e abborracciando citazioni melense non conchiude con certezza a chi fosse scritto il sonetto; ma il sappiamo dal Quattromani che il dice diretto a Girolamo Correggio (v. il son. LV), preso delle bellezze di Girolama Colonna da noi testè ricordata. La punteggiatura da noi seguita è quella del Bevilacqua, stranetta se vuolsi. E tutto il sonetto, con molte bellezze, ha più d'una parte da non essere intieramente lodata.
(Carrer, cit., pag. 311)



LVIII

Signor mio caro, il mondo avaro e stolto
in procurar pur nobiltade e oro
fatto è mendico e vile, e 'l bel tesoro
di gentilezza unito ha sparso e sciolto.

Già fu valore e chiaro sangue accolto
inseme, e cortesia; or è tra loro
discordia tal, ch'io ne sospiro e ploro,
secol mirando in tanto errore avolto.

E perché in te dal sangue non discorda
virtute, a te, Cristoforo, mi vòlgo,
che mi soccorra al maggior uopo mio;

e sì porterai tu Cristo oltra il rio
di caritate, colà dove il volgo
cieco portarlo più non si ricorda.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 54 (pag. 28)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 320

Note:
Il Salvini lo dice scritto a Cristoforo Madruzio, vescovo e principe di Trento. Pare al Quattromani, che sia dei men belli del Casa, ma forse ch' egli s'inganna.
V. 12-13. Qui i commentatori son muti,o parlano ciò che non fa al caso. Cristoforo significa portatore di Cristo: di qui la tradizione che il santo di questo nome portasse Cristo sulle proprie spalle; e poichè patì per la fede, dicesi che portasse Cristo oltre l'acque, ossia che varcasse per amore di lui un mare d'affanni. Girolamo Vida in un suo epigramma ti dà tutto questo con eleganza di stile virgiliano. Il rio di carità può riferirsi a quello della Cantica: Aquae multae non potuerunt extinguere charitatem, nec flumina obruent illam, cap. VIII, v. 7.
(Carrer, cit., pag. 312)



LIX

Correggio, che per pro mai né per danno
discordar da te stesso non consenti,
contra il costume de le inique genti,
che le fortune adverse amar non sanno;

mentre quel ch'i' seguìa fuggir m'affanno,
e fuggol, ma con passi corti e lenti,
le due latine luci chiare ardenti,
Alessandro e Ranuccio tuoi, che fanno?

È vero che 'l cielo orni e privilegi
tuo dolce marmo sì, che Smirna e Samo
perde e Corinto, e i lor maestri egregi?

Per questa e per quei due, di quel ch'io bramo
obliar mi sovien; per tai suo pregi
Roma, che sì mi nocque, onoro e amo.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 55 (pag. 28)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 321

Note:
A Girolamo Correggio, che fu poi cardinale. Ed è scritto a domandargli novelle di Alessandro e Ranuccio cardinali di casa Farnese. Mostra di aver Roma nel cuore, tuttochè in altri versi se ne chiami dimenticato. Pensando però meglio al sesto verso, parrebbemi che volesse parlare con galanteria delle sue fiamme ancor vive per Girolama Colonna, la leggiadra Colonnese del son. LI. A ciò allude il dolce marmo del decimo verso, che pare al Quattromani vaghezza poetica; ed io direi freddura di brutta stampa, benchè molto in uso a quel tempo. E quasi fossero poche le freddure palesi, ce ne aggiunge un'altra del proprio Mario Colonna, dicendo con acume di commentatore, che il Correggio del primo verso s'intenda come fosse Cor regio; e malmena l' ortografia per far grazia allo scherzo.
(Carrer, cit., pag. 312)



LX

S'egli averrà, che quel ch'io scrivo o detto
con tanto studio, e già scritto il distorno
assai sovente, e come io so l'adorno
pensoso in mio selvaggio ermo ricetto,

da le genti talor cantato o letto,
dopo la morte mia viva alcun giorno,
bene udirà del nostro mar l'un corno
e l'altro, Rota, il gentil vostro affetto,

che 'l suo proprio tesoro in altri apprezza,
e quel che tutto a voi solo conviene
per onorarne me, divide e spezza.

Mio dever già gran tempo a le tirrene
onde mi chiama; e or di voi vaghezza
mi sprona: ahi, posi omai chi mi ritiene!

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 56 (pag. 29)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 322

Note:
A Bernardino Rota, ed è risposta a un sonetto di lui che incomincia: Parte dal suo natio povero tetto. Vedi circa al Rota, a pag.227, la nostra raccolta, e le note a quel luogo. È professione poetica del suo modo di comporre, e insieme ammaestramento ai Luca fa presto. Riporrei questo sonetto fra' più belli del Casa; e notabile, oltre al resto, mi sembra il passare dagli studj alle affezioni proprie, come si vede chiaro nell'ultima terzina. Nelle Tirrene onde v'è allusione alla sede arcivescovile di Benevento, e chi ritenesse Monsignore per la falda del rocchetto non è forse "scuro" per altri che pel Salvini, se già questo valentuomo non volle esser cieco a disegno.
(Carrer, cit., pag. 313)

 
 
 

Il Dittamondo (6-04)

Post n°1183 pubblicato il 02 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO IV

Lassando Egitto e Arabia a le spalle, 
e Pelusio da lato e Cassio monte, 
era il nostro cammin sopra una valle. 
E quel, che m’era innanzi da la fronte, 
mi ragionava e segnava col dito 5 
piú cose, che vi fun giá belle e conte. 
"Quivi è, mi disse, ove fu soppellito 
quel gran Roman, che ne la navicella 
dinanzi a’ suoi fu morto e tradito". 
E cosí fui, di novella in novella, 10 
oltra il braccio del mar, ch’Arabia bagna, 
a Idomea che Edom cosí appella. 
Forte è il paese, che tien di montagna, 
ed èvi tanto grande la calura, 
che, ’l sol quand’è in Leon, ciascun si lagna. 15 
Non vi son casamenti d’alte mura; 
per le spilonche e sotterra vi stanno, 
cercando quanto posson la freddura. 
"Tra loro e Palestina gran selve hanno; 
però, disse Solino, il cammin nostro 20 
di vèr sinistra fie con meno affanno. 
Ma vienne e nota ben ciò ch’io ti mostro". 
Indi mi trasse, ove Andromade fue 
incatenata dove stava il mostro. 
Ancor nel sasso le vestige sue 25 
li piacque ch’io vedessi, a ciò ch’io fusse 
del miracolo grande esperto piue. 
Poi disse: "Scauro a Roma condusse 
del mostro la costa e per maraviglia 
fu misurata, quando ve l’addusse". 30 
Di lá partiti, la sua strada piglia 
dirittamente a una fontana, 
che come sangue ci parea vermiglia. 
"Guarda la sua natura quanto è strana! 
Tre mesi sta che tal color non perde 35 
e tre polvere par che s’impantana, 
e altrettanti sí com’erba verde; 
poi l’avanzo de l’anno è qual Tesino: 
e ’n questo modo si trasforma e sperde". 
Mostrommi poi, andando, nel cammino 40 
monte Seir – è chi ’l chiama Esaú – 
pien di caverne e tien molto alto il crino. 
E questo in prima abitato fu 
dal Correo, che Codorlaomor uccise, 
come nel Genesi trovar puoi tu. 45 
Ma quando Edom ad abitar si mise 
co’ suoi qua su, gli Oregi giganti 
per forza del paese fuor divise. 
E se passassi al monte piú avanti, 
vedresti d’Idomea le mura prope, 
ch’esso fondò co’ figliuoi tutti quanti. 
A dietro lassi la cittá di Iope. 
Omai è buon partir, ché piú non veggio, 
per trovar novitá, che qui si scope". 
E io: "Va pur, ché quanto prego e cheggio 55 
al Sommo Bene, è sol che tosto sia 
nel bel paese ch’io bramo e vagheggio". 
Misesi allor per tanto alpestra via, 
come sarebbe andar pel Genovese, 
a chi uscisse fuor di Lombardia. 60 
Mostrommi un monte al fin di quel paese: 
Hor mel noma e apresso mi disse: 
"Aron la morte, stando lá su, prese; 
e ’l suo figliuol, per quel che io udisse, 
i’ dico Eleazar, ver sacerdoto, 65 
lá tenne principato e quivi visse". 
Cosí, per quel cammino aspro e rimoto, 
passammo nel paese di Giudea, 
che molto fu e pare ancor divoto. 
"Questo si disse, in prima, Cananea 70 
da un figliuolo di Cam e alcun dice 
da diece, per li quai si possedea. 
Questo per lungo stende la pendice 
da vico Arfa a Iuliade vico, 
lá dove quei di Tiro han la radice. 75 
La sua larghezza da Libano, dico, 
al Tiberiade lago scrivi e poni, 
ché cosí si notava al tempo antico. 
Nel mezzo del paese ancor componi 
la cittá Ierosolima e puoi dire 80 
bellico quasi a tutte regioni. 
E perché ’l possi ancora altrui ridire, 
t’accerto che non son quattro province 
miglior di questa in quanto il mondo gire". 
E io: "Dimmi prima che tu schince 85 
altrove, perché poni questo sito. 
che quasi ogni altro in su la terra vince". 
Rispuose: "Io penso ben che l’hai udito, 
ma che, per piú chiarezza, il vogli ancora
saper da me; e però dove addito 90
l’animo poni". E incominciò allora.
 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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