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Messaggi del 18/02/2015

Il Meo Patacca 02-3

Post n°1218 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Fava PATACCA intanto el su' disegno,
Di prestamente accorrere al bisogno
Della Città assediata et al su' ingegno
Dava lode, perchè già inteso ha 'l sogno.
Poi s'affaccia a sentì, s'ancor lo sdegno
Della grima è fornito, e 'l su' rampogno.
E mentre alla finestra s'intrattiene,
Gli pare di vedè Nuccia che viene.

Perchè la donna è da lontano assai,
Non pò scernere ancor, se sia colei,
Guarda, riguarda, e non fornisce mai
Di riguardà; s'accorge alfin ch'è lei:
"Me viè sicuro a raccontà i su' guai,
(Dice tra sè), che vorrà mai costei?
Come treccola in prescia, e viè de trotto.
Me manca adesso de sentì' sto fiotto".

Questa è amante di MEO, ma spasimata
A seguo tal, ch'attorno a lui si stregola;
Ma 'l vero bigna dire, ch'è onorata,
E che non puzza gnente de pettegola.
Non ha altro mal, ch'è troppo innamorata,
E che l'affetto suo punto non regola.
Spera ch'un dì la faccia MEO sua sposa,
Lui manco sa, se farà mai tal cosa.

Alza el grugno all'in su la pavoncella,
Quanno ch'arriva alla finestra sotto;
Azzenna a MEO, con darglie un'occhiatella,
Che vuò salì. PATACCA intenne el motto,
Appena tira lui la cordicella,
Che prima della ciospa entra de botto
Nuccia, e mentre va sù senza aspettalla,
Fa un basciamano a MEO, che viè a incontralla.

PATACCA te glie renne la pariglia,
Facendotene un altro più sfarzoso,
Presto la sedia di cordame piglia,
Acciò, s'è gnente stracca, habbia riposo;
Viè poi la vecchia, e mentre la spomiglia,
Si leva, con ghignetto saporoso
Saluta MEO, perchè ci ha confidenza,
E a piedi pari gli fa riverenza.

Lui l'invita a sedè; ma lei ritrosa
Dice: "Questo mi par che non convenga;
Scusatimi signor, che non è cosa,
Ch'io quì tra voi a mettere mi venga".
Nuccia, che de parlane è presciolosa
Glie commanna, che più non si trattenga.
Lei risponne: "Ubbidir è mio dovere",
E si mette a sedè sopra un forziere.

Voltasi Nuccia allora a MEO PATACCA,
Così gli parla: "Embè che nova è questa,
Che di te sento dir così bislacca,
Ch'a questo cor saria troppo molesta?
Dimmi, s'è avviso vero, o nova stracca,
Ch'a te un crapiccio sia saltato in testa,
D'andar senza raggion, senza consiglio,
Ad incontrar in guerra il tuo periglio".

"E che? forzi non ho raggion da vennere",
Rispose MEO, "e non s'havrà a commattere
Contro del Turco infame, che pretennere
Ce vuò, de piglià Vienna, e i nostri abbattere?
Giuro a Baccone, che ne voglio stennere,
Quanti con io là se verranno a imbattere.
PATACCA non sarò, non sarò quello,
Se de frabutti non ne fò un macello.

Ce saranno con me, sì ce saranno,
Credi Nuccia alle cose, che dich'io,
Cinquecent'altri sgherri, e tutti havranno
Quasi quasi un valor simile al mio".
Ma lei, ch'intrattenè non può l'affanno,
"Oh quanto, - dice, - è vano il tuo desìo!
Ah, che già questo t'ha levato i senzi,
Vai la morte a incontrar, e non ci penzi!".

Da capo a' piedi io già stremir mi sento,
E già i spasimi al cor mi son venuti,
Pensando, che vuoi far combattimento
Con quella razza d'asini forzuti.
E a chi non metteriano spavento
Quei brutti ceffi d'homini baffuti?
In vederli dipinti il cor mi salta,
Per la paura, e allor tremo tant'alta".

"Pur troppo è verità! "da fianco scappa
La ciospa e dice: "Eh! date orecchio, o figlio
Alla signora Nuccia, che non sfrappa,
Ma vi dà con giudizio un bon consiglio;
Scuro quel poveraccio, che c'incappa...".
Più seguità non può, perchè un sbaviglio,
Che fece longo longo l'impedisce;
Poi cominza a tossì, nè mai finisce.

Ripiglia intanto MEO: "Non più parole!
Ciarlate proprio come sarapiche.
Un par mio non dà retta a donnicciole,
Che son di grolia, e di valor nemiche.
Sì, che ci voglio annà, (dica chi vuole),
In guerra a sbaraglià squadre nemiche:
Tu parli per amor, (vorria scusarte),
Ma quest'amor, bigna che ceda a Marte".

"Lo sò, crudel! Lo sò che tu non m'ami",
Dice allor Nuccia, "e che lasciar mi vuoi,
Lo sò, che solo idolo tuo mi chiami
Per farmi scherno dell'inganni tuoi.
Và, discortese, và dove più brami,
Godi in tradirmi, e come far lo puoi?
Dimmi, che t'ho fatt'io? Ma troppo ho errato,
Perchè amare è gran colpa un core ingrato.

Me la merito sì, me sta pur bene
Questa, ch'ai cor mi dài sì cruda stretta,
Et il gran gusto, ch'hai delle mie pene,
Se troppo nell'amarti io corzi in fretta.
Ma senti quel ch'a te operar conviene,
Prima d'andar de i Turchi a far vendetta:
Tu di te stesso vendicar ti dei,
Se con Nuccia, che t'ama, un Turco sei.

Ma se infierir non vuoi contro te stesso,
Per conservarti alle tue gran prodezze,
Già, ch'il pensiero in capo ti sei messo,
Ch'habbi a provà del tuo rigor l'asprezze,
Almen, (di dir così, mi sia concesso),
Per avvezzarti a barbare fierezze,
E di pietà per non haver più niente,
Strazji incomincia a far d'un'innocente.

Carico allor sarai di quelle lodi,
Che bastano a dar credito a un guerriero,
Per haver maltrattata in mille modi
Chi un finto cor seguì, con amor vero.
Ma forse in vita me lasciar tu godi,
Per farti allor nella pietà più fiero:
Ben sai, ch'io proverò, (dura mia sorte!)
Con viver al dolor, peggio che morte.

Viverò sì, ma cibbo mio saranno
I sospiri, ch'un barbaro alimento
Al core infelicissimo daranno
Ministrati per mano del Tormento.
La bevanda le Lagrime offriranno,
(Affogatoci dentro il mio Contento).
E farò allor, della mia vita a scorno,
Senza saziarmi mai, più pasti il giorno".

Mentre così parlava Nuccia bella
Fattoci studio, in punta di forchetta,
Per esser dottorina e saputella,
Che non par, benchè sia, romaneschetta,
Fisso la guarda MEO, che s'appuntella
La guancia con la mano, e queto aspetta
Che fornisca di dir. D'essa all'angosce,
In lui chalche pietà già si conosce.

"Quietati, - dice, - Nuccia, perchè hai torto,
A fa' con me tante frollosarìe.
Vuoi sol della partenza il disconforto,
E gnente penzi alle vittorie mie,
E non sai, ch'alla guerra, io farò 'l morto,
E buscherò delle galantarie?
Sappi, che i Turchi, (a me già par d'haverle),
A iosa ne i turbanti hanno le perle.

Bel ramaccià, che voglio fà di queste,
Quanno, che scapocciati ho quei babussi;
Maneggiarò le mescole assai preste,
Massime intorno alli Bassà, e Chiassi,
Perchè costoro, cariche le teste
Hanno di gioie, e marciano con lussi;
E come torno poi, che te regalo,
Voglio, che tu, ce pozzi fa' gran scialo".

"S'altri doni non ho, - risponne Nuccia, -
Di quei, che tu mi porti, io starò fresca!
O ritorni appoggiato a una cannuccia,
Quanno salvà la vita ti riesca,
O pur, se ricco venghi, una fettuccia
Manco mi donaresti, e non t'incresca,
Ch'il dica, perchè sò, dal duol trafitta,
Che più nel libro tuo non ci stò scritta.

Se fuor della Città un sol passo dài,
Allor di me, tu subbito ti scordi,
Come se vista non m'havessi mai,
E più del mio dolor non ti ricordi,
E mentre il sodo et il guerrier ci fai,
Forse con altra a far l'amor t'accordi.
Sarà di me più bella, io posso dirti,
Ma non di me più pronta nel servirti".

Sta attenta monna Tuzia, e manco sbatte
Le palpebre, e a parlà così si mette:
"O quante son le cose, che v'ha fatte
Signor MEO, quante notti in piedi stette,
Hora ad innamidarvi le corvatte,
Ora a turarvi i busci alle calzette;
E quante volte, e furno pur parecchie,
V'ha ripezzate le camiscie vecchie.

Non vi si dice nò, per rinfacciarvi,
Quel che fece per voi con il suo stento,
Mentre lei nel servirvi, et acconciarvi
Provò, per vostr'amore ogni contento,
Ma solo, perchè habbiate a ricordarvi,
Ch'è crudeltà di darglie 'sto tormento.
Se così la piantate, per dolore,
Questa povera figlia se ne more".

Piagneva intanto Nuccia, et il singozzo
Gli annava intrattenenno li sospiri,
E puro chalchedun glie n'esce smozzo
Tra l'affannati e languidi respiri.
Questi, (tacer la verità non pozzo),
Son della donna soliti riggiri,
Se vuò, ch'in cor d'un'homo amor rinasca,
Fa quattro lagrimuccie, e il gonzo casca.

Così succede a MEO, che intenerito
A i piantusci di lei, par che pietoso
La guardi, e di partir mezzo pentito,
Tra 'l sì, tra 'l nò, sta tutto penzieroso.
Dice: "Nuccia! Non più, tutto ho sentito,
Bigna alla mente dar chalche riposo.
Va, ch'è già tempo, e lassarne un pò stane,
Ch'io meglio penzerò quel ch'ho da fané".

S'alza in piedi, e s'avvia verzo la porta;
Fan l'istesso le donne, e Nuccia allora,
Ch'in far azzi d'amor fu sempre accorta,
Scegne il primo scalin, nè parla ancora;
Torce un pò 'l capo, e lagrimosi porta
I sguardi verzo MEO, che più s'accora.
Poi, senza rinovar altre querele,
Solo gli dice: "Ah non partir crudele".

Van così via le donne, e lui s'arresta,
Come intontito, della scala in cima,
Et a vederlo con la faccia mesta,
Più non pare lo sgherro, ch'era prima.
Quel, che poi succedè di dir mi resta,
Ma già sento che stracca è la mia rima,
Ch'il canto è divenuto e fiacco e roco,
Però è dover, ch'io mi riposi un poco.

Fine del Secondo Canto

 
 
 

Rime del Berni 9-11

Post n°1217 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

9

Capitolo dei Cardi

Poi ch'io ho detto di Matteo Lombardi,
de' ghiozzi, dell'anguille e di Nardino,
voglio dir qualche cosa anco de' cardi,
che son quasi meglior che 'l pane e 'l vino;
e s'io avessi a dirlo daddovero,
direi di sì per manco d'un quattrino.
Et anche mi parrebbe dire il vero,
ma la brigata poi non me lo crede
e fammi anch'ella rinegar san Piero;
ben che pur alla fin, quando ella vede
che i cardi son sì bene adoperati,
le torna la speranza nella fede.
E dice: "O terque quaterque beati
quei che credono altrui senza vedere!",
come dicon le prediche de i frati.
Non ti faccia, villano, Iddio sapere,
ciò è che tu non possa mai gustare
cardi, carciofi, pesche, anguille e pere.
Io non dico de' cardi da cardare,
che voi non intendessi qualche baia;
dico di quei che son buon da mangiare,
che se ne pianta l'anno le migliaia
ed attendonvi a punto i contadini
quando non hanno più facende all'aia;
fannogli anche a lor mano i cittadini
e sono oggi venuti in tanto prezzo
che se ne cava di molti fiorini.
Dispiacciono a qualch'un che non ci è avezzo,
come suol dispiacere il caviale,
che pare schifa cosa per un pezzo:
pur non di manco io ho veduto tale
che, come vi s'avezza punto punto,
gli mangia senza pepe e senza sale;
senza che sien così trinciati a punto,
vi dà né più né men drento di morso,
come se fusse un pezzo di pane unto.
A chi piaccion le foglie et a chi 'l torso;
ma questo è poi secondo gli appetiti:
ogniuno ha 'l suo giudizio e 'l suo discorso.
Costoro usan de dargli ne' conviti,
dietro, fra le castagne e fra le mele,
da poi che gli altri cibi son forniti.
Mangiansi sempre al lume di candele;
ciò è, volevo dir, mangiansi il verno,
e si comincia fatto san Michele.
Bisogna aver con essi un buon falerno
o un qualch'altro vin di condizione,
come sa proveder chi ha governo.
Chi vuol cavar i cardi di stagione,
sarebbe proprio come se volesse
metter un legno su per un bastone,
e se fusse qualch'un che li cocesse
e volesse mangiarli in varii modi,
diria ch'egli non sa mezze le messe.
I cardi vogliono esser grossi e sodi,
ma non però sì sodi che sien duri,
a voler che la gente se ne lodi;
non voglion esser troppo ben maturi,
anzi più presto alquanto giovanetti,
altrimenti non son troppo sicuri;
sopra tutto bisogna che sien netti;
e se son messi per la buona via,
causano infiniti buoni effetti:
fanno svegliare altrui la fantasia,
alzan la mente a gli uomini ingegnosi
dietro a' secreti dell'astrologia.
Quanto più stanno sotto terra ascosi,
dove gli altri cotal diventan vecchi,
questi diventan belli e rigogliosi.
Non so quel che mi dir di quelli stecchi
ch'essi hanno; ma, secondo il parer mio,
si posson comportar così parecchi,
perché, poi che gli ha fatti loro Iddio,
che fa le corna e l'unghie a gli animali,
convien ch'io m'abbia pazienza anch'io;
pur che non sien però di quei bestiali,
che come li spuntoni stanno intieri,
tanto che passarebbon gli stivali.
O Anton Calzavacca dispensieri,
che sei or diventato spenditore,
compraci questi cardi volentieri;
non ti pigliar le cose così a core,
ma attendi a spender, se tu hai denari;
del resto poi provederà il Signore.



10

Capitolo delle Pesche

Tutte le frutte, in tutte le stagioni,
come dir mele rose, appie e francesche,
pere, susine, ciriegie e poponi,
son bone, a chi le piacen, secche e fresche;
ma, s'i' avessi ad esser giudice io,
le non hanno a far nulla con le pesche.
Queste son proprio secondo il cor mio:
sàsselo ogniun ch'io ho sempre mai detto
che l'ha fatte messer Domenedio.
O frutto sopra gli altri benedetto,
buono inanzi, nel mezzo e dietro pasto;
ma inanzi buono e di dietro perfetto!
Dioscoride, Plinio e Teofrasto
non hanno scritto delle pesche bene,
perché non ne facevan troppo guasto;
ma chi ha gusto fermamente tiene
che le sien le reine delle frutte,
come de' pesci i ragni e le murene.
Se non ne fece menzion Margutte,
fu perché egli era veramente matto
e le malizie non sapeva tutte.
Chi assaggia le pesche solo un tratto
e non ne vòle a cena e a desinare,
si può dir che sia pazzo affatto affatto
e che alla scuola gli bisogni andare
come bisogna a gli altri smemorati
che non san delle cose ragionare.
Le pesche eran già cibo da prelati,
ma, perché ad ogniun piace i buon bocconi,
voglion oggi le pesche insino a i frati,
che fanno l'astinenzie e l'orazioni;
così è intravenuto ancor de' cardi,
che chi ne dice mal Dio gliel perdoni;
questi alle genti son piaciuti tardi,
pur s'è mutata poi l'oppinione
e non è più nessun che se ne guardi.
Chi vuol saper se le pesche son buone
et al giudizio mio non acconsente,
stiasene al detto dell'altre persone,
c'hanno più tempo e tengon meglio a mente,
e vedrà ben che queste pesche tali
piacciono a' vecchi più che all'altra gente.
Son le pesche apritive e cordiali,
saporite, gentil, restorative,
come le cose c'hanno gli speziali;
e s'alcun dice che le son cattive,
io gli farò veder con esse in mano
ch'e' non sa se sia morto o se si vive.
Le pesche fanno un ammalato sano,
tengono altrui del corpo ben disposto,
son fatte proprio a beneficio umano.
Hanno sotto di sé misterio ascosto,
come hanno i beccafichi e gli ortolani
e gli altri uccei che comincian d'agosto,
ma non s'insegna a tutti i grossolani;
pur chi volesse uscir di questo affanno
trovi qualche dottor che glielo spiani,
trovi qualche dottor che glielo spiani,
ché ce n'è pur assai che insegneranno
questo secreto et un'altra ricetta
per aver delle pesche tutto l'anno.
O frutta sopra l'altre egregia, eletta,
utile dalla scorza infino all'osso,
l'alma e la carne tua sia benedetta!
Vorrei lodarti e veggio ch'io non posso,
se non quanto è dalle stelle concesso
ad un ch'abbia il cervel come me grosso.
O beato colui che l'usa spesso
e che l'usarle molto non gli costa,
se non quanto bisogna averle appresso!
E beato colui che da sua posta
ha sempre mai qualch'un che gliele dia
e trova la materia ben disposta!
Ma io ho sempre avuto fantasia,
per quanto possi un indovino apporre,
che sopra gli altri avventurato sia
colui che può le pesche dare e tòrre.



11

Capitolo dell'orinale

Chi non ha molto ben del naturale
et un gran pezzo di conoscimento
non può saper che cosa è l'orinale,
né quante cose vi si faccin drento
(dico senza il servigio dell'orina),
che sono ad ogni modo presso a cento;
e se fusse un dottor di medicina
che le volesse tutte quante dire,
arìa facende insino a domattina.
Pur, chi qual cosa ne volesse udire,
io son contento, per fargli piacere,
tutto quel ch'io ne so di diffinire.
E prima inanzi tratto è da sapere
che l'orinale è a quel modo tondo
acciò che possa più cose tenere:
è fatto proprio come è fatto il mondo,
che, per aver la forma circulare,
voglion dir che non ha né fin né fondo;
questo lo sa ogniun che sa murare
e che s'intende dell'architettura
che insegna altrui le cose misurare.
Ha gran profondità la sua natura,
ma più profonda considerazione
la vesta e quel cotal con che si tura.
Quella dà tutta la riputazione,
diversamente, a tutti gli orinali,
come danno anche e panni alle persone:
la bianca è da brigate dozzinali;
quella d'altro colore è da signori;
quella ch'è rossa è sol da cardinali,
che vi vogliono a torno que' lavori,
ciò è frangie, fettuccie e reticelle,
che gli fanno parer più bei di fuori.
Vale altrui l'orinal per tre scarselle
et ha più ripostigli e più secreti
che le bisacce delle bagattelle.
Adopranlo ordinariamente i preti
e tengonlo la notte appresso al letto,
drieto a' panni di razzo ed a' tappeti;
e dicon che si fa per buon rispetto,
che s'e' si avessin a levar la notte,
verrebbe lor la punta o 'l mal di petto
e forse ad un bisogno anche le gotte,
ma sopra d'ogni cosa il mal franzese,
c'ha già molte persone mal condotte.
Io l'ho veduto già nel mio paese
esser adoperato per lanterna
e starvi sotto le candele accese;
e chi l'ha adoperato per lucerna,
e chi se n'è servito per bicchieri,
ben che questa sia cosa da taverna.
Io v'ho fatto già su mille pensieri,
avutovi di strane fantasie
e da non dirle così di leggieri.
E s'io dicessi, non direi bugie,
ch'io me ne son servito sempre mai
in tutte quante l'occorrenzie mie;
et ogni volta ch'io l'adoperai
per mia necessità, sempre vi messi
tutto quel ch'io aveva, o poco o assai;
e non lo ruppi mai né mai lo fessi
che si potesse dir per mio difetto,
ciò è che poca cura vi mettessi.
Bisogna l'orinal tenerlo netto
e ch'egli abbia buon nerbo e buona schiena
e darvi drento poi senza rispetto;
che se 'l cristallo è di cattiva vena,
chi crepa e chi si schianta e chi si fende,
et è proprio un fastidio et una pena.
E tutte queste prefate facende
dell'orinale, e parecchie altre appresso,
conosce molto ben chi se ne intende;
e chi v'ha drento punto d'interesso
giudicarà, com'io, che l'orinale
è vaso da scherzar sempre con esso,
come fanno i tedeschi col boccale.

 
 
 

Il Meo Patacca 02-2

Post n°1216 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Calfurnia allor: "Questo a 'na para mia?
E questa è la mercede, che mi dai?
Forse ti par, che qualche donna io sia,
Da merita i strapazzi, che mi fai?
Perchè o crudel, tu m'usi villania
Quand'io tal civiltà con te n'usai?
O tu mantietti, qua! sin hor sei stato,
O lascia d'esser giovane garbato".

"Co' 'ste tu' ciancie no, non me la ficchi,
Co' 'ste frollosarìe non m'infinocchi"
Disse MEO. "Con ingiurie tu me picchi,
E poi non vuoi, ch'io contro te tarrocchi?
Non ci ho in testa, non ci ho grilli, nè chricchi
Nè accurre che 'sto tasto tu me tocchi:
Ch'il cancaro te venghi, e rogna, e tigna,
Vecchiaccia strega, perfida e maligna.

Più non pozzo havè flemma, già me sale
La mosca al naso, e tu qui incocci ancora?
Te dò 'no sganassone in sul guanciale,
Te fo' schizza quei pochi denti fora.
Va, che se no, te butto pe' le scale,
E d'ubbidì te verrà voglia allora".
Lei non se move, e fa di piagner finta,
E lui de posta te glie dà una spinta.

Bello stolzà fece la ciospa allora.
Da quella sedia, in dove assisa stava.
Schioppò in terra de fatto, e peggio ancora
Poteva havè, se via non scivolava.
Fece a zompi le scale, e mezza fora,
E mezza drento della porta stava,
Perch'era un po' socchiusa; alfin poi scappa
Con furia, e in tell'uscir, tutta si strappa.

S'accorge allor, ch'è un pianellon restato
A mezze scale, e che camina zoppa;
Vorria torna a pigliallo, ma infoiato
Vede Patacca, ch'all'in giù galoppa;
Vorria strilla, ma non glie serve el fiato,
E MEO la mira addrizza in su la groppa
Mentre dice: "Tò, piglia, vecchia becca".
Con la pianella in su la gobba azzecca.

Fa uno strillo Calfurnia così orrenno,
Che s'affacciano tutti li vicini,
Porta in man le pantofole currenno,
E non se cura d'imbrattà i scarpini;
Se n'entra in casa sua, sempre temenno,
Che PATACCA glie dia novi crostini.
Perchè dubbio di ciò non glie rimanga,
Serrò la porta, e ce mettè la stanga.

Va su de prescia, e in te la vesta inciampa,
Che longa glie strascina, e più la straccia,
Se su ci mette hor l'una hor l'altra zampa.
Arriva sopra, e lo scuffin si slaccia,
Il foco ha nelle guancie, e d'ira avampa
E alla finestra subbito s'affaccia.
A quella di PATACCA si rivolta,
E grida forte, e ogni vicin l'ascolta.

"Ah infame, traditor! senza creanza,
Indegno! ciurmator! bravo in credenza !
Pieno d'inganni! pieno d'arroganza!
Tutto riggiri! tutto impertinenza!
Possi per terra strascinà la panza,
Della tu' razza non ci sia semenza,
Che possi esser dal boia strangolato,
E a coda de cavallo strascinato".

Così dice, e la schiuma dalla bocca
d'esce pe' rabbia, e l'impannate sbatte,
Le serra de potenza, e ancor tarrocca,
Ma gran fischiate allor glie furno fatte.
Per non sentirne più, tacer glie tocca,
Se mette in piede certe su' ciavatte
E perchè attorno un su' cagnol glie gira,
Una ne piglia in mano, e glie la tira.

Fece MEO, pè mostra ch'era homo sodo,
A 'ste chiassate orecchia de mercante;
Stava penzanno, spasseggianno, el modo,
D'interpretà quel sogno stravagante.
Per sviluppà quell'intrigato nodo,
Stima de non havè saper bastante;
Rumina, e dice doppo ruminato:
"Ecco del sogno el fonno ho già trovato.

Laùt al campo è ver, che c'inciampai,
Ma però l'onor mio non ce perdei,
Perchè in piede assai lesto ce restai,
Gnente per questo già m'intrattenei.
Altro che Turchi non ponn'esser mai
I fonghi, che già cavoli vedei,
E l'osservalli sol, prova è bastante,
Perchè il fongo è un Turchetto col turbante.

Quel cavolo, che l'altri alla statura,
Fà parer regazzini, e lui pedante,
Giusto del gran Vissir è la figura,
Che delli Turcaccioli è il commannante.
Non voglio altro sapè, ciò m'assicura,
Che là in guerra farò prove tamante,
S'a trincia fonghi in sogno hebb'io penziero,
Questo co' i Turchi io poi farò da vero".

Tanto gusto non ha, nè si consola
A 'sto segno una donna, che smarrita
Cercò per molti giorni una cagnola,
Senza sapè, dove glie sia fuggita,
Quanno, ch'allimproviso la bestiola
Glie viene da chalchun restituita,
Quanto n'hà MEO, che crede haver trovato
Del suo gran sogno il ver significato.

Si gonfia, ci pretenne, e non la cede
Manco a un stroligo, e manco a un indovino
Nell'azzeccane a quel c'ha da succede,
Glie pare da sapè più de Merlino.
Intanto si divolga, e piglia piede
La nova, che PATACCA el su' camino
Vuò far inverso VIENNA, risoluto
De dar con i su' sgherri a quella aiuto.

Lo sa 'na certa Nuccia romanesca,
E se n'accora, quanto dir se possa,
Ma c'è calche raggion, che glie rincresca,
Perchè di lui l'amor glie va per l'ossa.
Nell'interno, a una nova così fresca,
Si sentì pe' dolor tutta commossa,
Crede e non crede, e mentre in ciò patisce,
Non è contenta, se non se ciarisce.

Se ne và al pozzo subbito de posta,
E piglia in un catin l'acqua dal secchio,
In camera lo porta, e poi s'accosta
Vicino al muro in dove sta lo specchio.
Bagna un panno di lin, che tien lì a posta,
Che bianco di bucata è un straccio vecchio;
Un certo impiastro poi sopra ci caccia,
Strufina, e lustra fa venì la faccia.

Perchè d'usà quell'armi assai s'invoglia,
Che giovano d'amor nella battaglia,
Dà de mano ad un fiasco, e te lo spoglia
Levandogli la vesta ch'è di paglia.
Lo spezza, et è sottil com'una foglia,
Si capa un di quei vetri, che più taglia,
E per armarsi allor da bella figlia,
A foggia d'arco accomoda le ciglia.

Fatta 'sta cosa, subbito si veste,
E per annà su l'amorosa vita,
Un abbito se mette delle feste,
Col quale esser glie pare insignorita.
Di più fettuccie e cuffie, ma di queste
Ne farò poi descrizion compita,
Che già in penziero mi venì de dilla,
E voi ce scialarete in tel sentilla.

D'annar a trovà MEO s'è risoluta,
Che vuò sapè, se vera è la partenza,
Perchè ha spirito granne, et è braguta,
Và per non dargli di partì licenza.
La donna d'accompagno è già venuta;
Tuzia se ciama, e non ne va mai senza;
Zerbina è Nuccia, ma se l'altra vedi,
T'accorgerai, che non ha scarpe in piedi.

Spesso in città si fanno de 'ste scene:
Comparisce un'amazzone vestita
Con drappi marlettati, con catene,
Con perle, e gioje, e tutta ingalantita.
Co' sfarzo alla damesca se ne viene,
Glie và dereto, lacera, e scuscita
Ciospa, che penne cenci, e ogni perzona
S'accorge, ch'una guitta è la patrona.

Così Nuccia ce fa' la squarcioncella,
Ma poi, si sà, ch'è rancichetta, e sbriscia.
Pur cammina alla moda, e ce sverzella,
E pe' serva, menà se vuò la griscia.
Pè soprannome è detta Nuccia bella.
Come se picca, e come entra in valiscia,
Se così non la ciamano le genti,
Guai a lor, se l'havesse fra li denti.

Ha vint'ott'anni, e dirlo non si cura,
Che fa' la pupa tra le giovanette.
Benchè li mostri al viso e alla statura,
Non ne confessa più che dicissette;
Alta è di vita, e stretta di centura,
Brunettina, ha le guancie un pò rosciette,
Riccio e bruno è il capello, il viso allegro,
Assai bianchi li denti, e l'occhio negro.

È la vesta di tela, ma incarnata,
Piena di fiori di color turchino;
Da lontano par giusto riccamata,
Benchè diverza poi sia da vicino;
Puro fa vernia, et è robba stampata.
Di donne vili è un artifizio fino,
Un'usanza trovà, che dia nell'occhi,
E che costi alla fin pochi baiocchi.

Ha un bustarel di seta, ma rigato,
Di colori diverzi, assai zachenne,
Che pochi giorni prima in tel mercato
Crompo l'haveva, e lo pagò tre penne.
Più di quel ch'era l'ha poi lei lograto,
Se in casa sempre addosso se lo tenne;
Ma non gl'importa, se sia bello o brutto,
Perchè la sciarpa glie lo crope tutto.

La sciarpa è un nero e bel faraioletto
Fatto di taffettano o d'ormisino,
Crope alle donne e schina, e braccia, e petto,
E fà più scialo assai, s'è di lustrino.
Attorno da per tutto ha un gran marletto,
E al giro ancor, ch'al collo sta vicino;
Longa è denanzi, ma s'aggruglia, e caccia,
Perchè poi penda in giù, sott'alle braccia.

Nere sono, e puntute le scarpette,
Alto un terzo di palmo è il calcagnino,
E di legno, e a cropillo ce se mette
Pelle, ch'è di colore cremesino.
Sono alla moda, e calzano assai strette,
Così fà più comparza el bel piedino;
Sono scommode è ver, ma pur con queste
Le donne ce zampettano assai leste.

Ha i capelli all'usanza accommodati,
(Ch'a fà zerbinarìe le mani ha pronte),
Perchè all'in sù son tutti rivoltati,
Fanno restà scuperte, e guancie, e fronte.
Ricci poi sopra ricci incavalcati
Alzano in cima della testa un monte,
Pe' fallo regge in alto, e star a segno,
Di fil di ferro lo sostiè un ordegno.

C'è un bel galano in cima al zazzarino,
Ch'è largo e teso a coda di sparviero;
C'è sopra a foggia d'arco uno scuffino
Fatto de velo bianco assai leggiero;
Su questo, di colore cremissino,
Ci son più cappi, e Nuccia col cimiero,
(Perchè hà la faccia longarella e asciutta),
Benchè sia bella, comparisce brutta.

 
 
 

Rime del Berni 7-8

Post n°1215 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

7

Capitolo de' Ghiozzi

O sacri, eccelsi e gloriosi ghiozzi,
o sopra gli altri pesci egregi tanto
quanto de gli altri più goffi e più rozzi,
datemi grazia ch'io vi lodi alquanto,
alzando al ciel la vostra leggiadria,
di cui per tutto il mondo avete il vanto.
Voi sète il mio piacer, la vita mia;
per voi, quand'io vi veggio, ogni mia pena
cessa et ogni fastidio passa via.
Benedetto sia il fiume che vi mena:
o chiaro, ameno e piacevol Vergigno,
in te non venga mai tòsco né piena,
poi che tu se' sì grato e sì benigno
e te ci mostri assai meglior vicino
che quel che mena sol erba e macigno.
Sia benedetto appresso anco Nardino,
Dio lo mantenga e dìali ciò ch'e' vuole,
cacio, gran, carnesecca et olio e vino,
e facciagli le doti alle figliuole,
acciò ch'altro non facci che pigliarvi
col bucinetto e colle vangaiuole.
Io vorrei pur cominciare a lodarvi,
ma non so s'io haverò tanto cervello
ch'io possa degnamente satisfarvi.
Quando io veggio Nardin con quel piattello
venir a casa e con la sua balestra
io grido come un pazzo: "Vèllo, vèllo";
e alzando verso lui la mano destra,
tanta allegrezza mi s'avventa al core
ch'io mi son per gittar dalla finestra.
Poi mi vo verso lui con gran furore,
correndo sempre e sempre mai gridando,
come si fa d'intorno a chi si more.
Poi ch'io v'ho visti, io vo considerando
vostre fattezze tutte, a parte a parte,
come chi va le stelle astrolagando.
Certo Natura in voi mise grand'arte
per far un animal cotanto degno
da esser scritto in cento millia carte.
La prima loda vostra, il primo segno
ch'io trovo, è quel ch'avendo voi gran testa
è forza che voi abbiate un grande ingegno;
la cagion per l'effetto è manifesta:
un gran coltel vuol una gran guaina
et un grand'orinale una gran vesta.
Segue da questa un'altra disciplina,
ch'avendo ingegno e del cervello a iosa,
è forza voi abbiate gran dottrina.
A me pare un miracolo, una cosa
che 'n tutti gli animal mai non trovossi
così stupenda né maravigliosa:
questa per un miracol contar possi,
e pur si vede e tutto il giorno avviene,
che voi sète meglior quanto più grossi.
Se così fussin fatte le balene
o' ceti o' lucci o' buovi o' lionfanti,
so che le cose passarebbon bene.
O pesci senza lische, o pesci santi,
agevoli, gentil, piacevoloni,
da comperarvi a vista et a contanti!
Ma per non far più lunghi i mei sermoni,
provar vi possa chi non v'ha provati,
come voi sète in ogni modo buoni:
caldi, freddi, in tocchetto e marinati.



8

Capitolo dell'anguille

S'io avessi le lingue a mille a mille
e fussi tutto bocca, labra e denti,
io non direi le laudi dell'anguille;
non le direbbon tutti i miei parenti,
che son, che sono stati e che saranno,
dico i futuri, i passati e' presenti;
quei che son oggi vivi non le sanno,
quei che son morti non l'hanno sapute,
quei c'hanno a esser non le saperanno.
L'anguille non son troppo conosciute
e sarebbon chiamate un nuovo pesce
da un che più non l'avesse vedute.
Vivace bestia che nell'acqua cresce
e vive in terra e in acqua, e in acqua e in terra,
entra a sua posta ove la vòle et esce,
potrebbesi chiamarla Vinciguerra,
ch'ella sguizza per forza e passa via
quant'un più con la man la stringe e serra.
Chi s'intendesse di geometria
vedrebbe ch'all'anguilla corrisponde
la più capace figura che sia.
Tutte le cose che son lunghe e tonde
hanno in se stesse più perfezione,
che quelle ove altra forma si nasconde.
E`ccene in pronto la dimostrazione,
ché ' buchi tondi e le cerchia e l'anella
son per le cose di questa ragione.
L'anguilla è tutta buona e tutta bella,
e se non dispiacesse alla brigata,
potria chiamarsi buona robba anch'ella,
ché l'è morbida e bianca e delicata,
et anche non è punto dispettosa:
sentesi al tasto quando l'è trovata.
Sta nella mota il più del tempo ascosa,
onde credon alcun ch'ella si pasca
e non esca così per ogni cosa,
com'esce il barbo e com'esce la lasca
et escon bene spesso anch'i ranocchi
e gli altri pesci c'hanno della frasca.
Questo è perché l'è savia et apre gli occhi,
ha gravità di capo e di cervello,
sa far i fatti suoi me' che gli sciocchi.
Credo che se l'anguilla fusse uccello
e mantenesse questa condizione,
sarebbe proprio una fatica avéllo,
perché la fugge la conversazione
e pur con gli altri pesci non s'impaccia,
sta solitaria e tien riputazione.
Pur poi che 'l capo a qualch'una si stiaccia
fra tanti affanni, Dio le benedica
et a loro et a noi bon pro ci faccia.
Sia benedetto ciò che le nutrica:
fiumi, fossati, fonti, pozzi e laghi,
e chiunque dura a pigliarle fatica.
E tutti quei che son del pescar vaghi
Dio gli mantenga sempre mai gagliardi
e per me del lor merito gli paghi.
Benedetto sia tu, Matteo Lombardi,
che pigli queste anguille e da'le a noi;
Cristo ti leghi e sant'Anton ti guardi,
che guarda i porci e le pecore e' buoi;
dìeti senza principio e senza fine
ch'abbi da lavorar quanto tu vuoi;
e tiri a sé tre delle tue bambine,
o veramente faccia lor la dota,
et or l'allievi che le son piccine;
i pegni dalla corte ti riscuota,
disoblighiti i tuoi mallevadori
e caviti del fango e della mota,
acciò che tu attenda a' tuoi lavori
e non senta mai più doglie né pene;
paghiti i birri, accordi i creditori
e facciati in effetto un uom da bene.

 
 
 

Il Meo Patacca 02-1

Post n°1214 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO SECONDO

ARGOMENTO
Stracco MEO si riposa, e addormentato
Fa' un sogno stravagante, e non l'intenne.
Cerca sentirne el ver significato
Da Calfurnia, ch'assai saper pretenne;
Ma perchè non l'ha bene interpretato,
Con ingiurie, e percosse lui l'offenne;
Nuccia amante lo prega, che non voglia
Lassarla e andà alla guerra, e lui s'imbroglia.

Era quell'hora, ch'i pizzicaroli
Con le pertiche aggiustano le tenne
Innanzi alle lor mostre, e i fruttaroli,
E ogn'un, che robba magnaticcia venne;
Perchè pe' fa' servizio ai nevaroli
E 'l caldo insopportabbile se renne,
E allora il Sol, se non ci son ripari,
Scalla le robbe, e scotta i bottegari.

Quest'era il mezzo dì, già irrìntennete,
Allorchè MEO, c'hebbe un tantin di scanzo
Da i su' compagni, perchè havea gran sete,
Voleva annà nella taverna a pranzo.
Quì spesso lui scioglieva le monete,
Senza curasse de fa' in casa avanzo,
Ma perchè spera far di grolia acquisto,
Già se vergogna d'esserci più visto.

Gnente però pe' prima havea crompato
Da sbattere col dente, se il penziero
Era tutto alle guerre rivoltato,
E in casa c'era sol zero via zero.
Trovò doppo d'havè rimuscinato,
Un tozzo secco, e non gli parè vero,
Si messe poi, pe' non magnallo asciutto,
A rosicane un osso di presciutto.

Ma, tra ch'era salato e pizzichente,
Tra, che lui si scalmò pe' ciarla tanto,
Tra 'l Sole, che fu troppo impertinente
In tel fagli provà caldo tamanto,
Era così assetato, che pe' gnente
Havuto havria de beve giusto, quanto
Fa un cacciator che rotta la bottiglia
Girò, senza mai bevere, più miglia.

Teneva in casa sotto un capo scala
Un caratel di vino romanesco,
E spesso coll'amici lui ce sciala,
Se tanto quanto se gli mantiè fresco;
Con un boccal maiuscolo giù cala,
Pe' dà presto alle viscere rinfresco,
E riempito, che l'ha perchè è assetato,
Se l'ingavaccia quasi tutto a un fiato.

Fatta 'na solennissima bevuta
Fornito de magnà, se mette MEO
Sopra 'na sedia, che gli fu vennuta
Per un briccolo e mezzo da un ebreo.
Questa è d'appoggio, ma sì mal tenuta,
Che non ce sederìa manco un ciafeo;
Ma PATACCA però ce sta con gusto,
E pur de bono altro non ha, che il fusto.

Posa la coscia dritta in sul bracciolo,
Va in giù la gamba, e resta pendolona,
Alla spalletta appoggia el cocuzzolo,
Verzo la parte manca l'abbandona;
Slarga la man sinistra, e un piumacciolo
Fa con quella alle guancie, e la perzona
Sta più commoda qui, che forzi a letto,
Perchè il braccio fa al capo un scabbelletto.

La ventarola tiè coll'altra mano,
E caccianno le mosche va bel bello,
Facennose un po' vento; ma pian piano,
Gli vie su le lanterne un sonnarello;
Poi gli esce un fiato mezzo grossolano
Dalle froscie sonoro, e fortarello,
E stà, sentite un verzo da mastrone,
Dolcemente ronfanno il bel garzone.

In dormì così placido e pacifero,
Con quel ronfo suave e saporito,
Par, che stato gli sia dato un sonnifero,
Che te l'habbia de posta addormentito;
Si rinforza dal naso il son di pifero,
E il più armonico mai non fu sentito;
S'apre intanto la man, se 'l naso pivola,
E allor la ventarola in terra scivola.

In questo mentre, ch'era MEO PATACCA
Così dal sonno iofamente oppresso,
Fece un'insognatura assai bislacca,
Che si raccontarà poi da lui stesso.
Si sveglia all'improviso, e alla saracca
Darìa di piccio, se l'havesse appresso;
S'alza, sbalza da sede, e infuriato
Curre, ma poi s'accorge, c'ha sognato.

E pur gli da fastidio un cert'imbroglio,
Che ronfeggiando di vedè gli parze,
Di non poter intennere ha cordoglio
Che sia quello, ch'in sogno gli comparze.
Tra sè poi dice: "Hor io sapè lo voglio,
La mi' curiosità vuò sodisfarze;
No, che non pozzo sta', mo' mo' la spiccio,
Quanno me vie, lo so cavà un crapiccio".

C'era una ciospa, un po' gobbetta e lusca.
Longa di naso, e corta assai di vista,
Crespa in fronte, e di faccia alquanto brusca,
Si spacciava una brava gabbalista.
Annava spesso di merlotti in busca,
Che d'una volpe veccia era più trista;
I sogni ad altri interpretare ardiva,
E lei manco sapeva, s'era viva.

Stava questa di Meo nel vicinato,
E benissimo lui la cognosceva,
Se quanno a chalche lotto hebbe giocato,
Lei li nomi da uscì ditti gli haveva.
Benchè mai non ci haveva indovinato,
Lui puro alle su' frottole credeva;
Hor da costei che tanto glie da' retta,
Dell'interpretatura i senzi aspetta.

Ecco la ciama da 'na finestrella,
Che stava iscontro alle finestre sue,
Calfurnia è il nome della vecchiarella;
Lui strillò forte più di volte due.
S'affaccia lei, glie dice MEO: "Sorella
Ho di bisogno delle grazie tue,
O t'hai da contentà ch'io da te sia
O tu viettene presto a casa mia".

Stava costei con la conocchia al lato,
E giusto allora haveva col lenguino
El deto grosso e l'indice bagnato.
Con questi annava attorcinanno el lino,
E doppo d'havè 'l fuso arrotolato
Si ferma, e fa' a Patacca un po' d'inchino.
Poi dice: "Ho inteso, e gnente me trattengo,
Tu non te scommodà, ch'adesso vengo".

Lassa el lavoro, e subbito se caccia
In sul capo una scuffia lograticcia,
Sotto la gola presto se l'allaccia,
Con una pezza el viso se stropiccia;
Così fa colorita un po' la faccia,
Di MEO verso la casa se l'alliccia;
Ha neri i pianelloni e il casacchino,
La veste biscia, et il zinal turchino.

Tira la corda MEO, spegne la porta
La ciospetta, che viè rinfazzonita,
Così in prescia salì, che mezza morta
Era, quanno la scala hebbe fornita.
Lui la riceve, e subbito glie porta
La sedia, ch'a i su' sogni era servita;
Lei, perchè stracca, sede giù de botto,
E lui se piglia uno scabbello rotto.

"Scusame, dice, se t'ho scommodata;
Devi sapè, ch'un certo sogno ho fatto
Che m'ha la mente tutta stralunata,
E non l'intenno, e ce divento matto.
Perchè hai la verità spesso azzeccata,
Tante volte spiegannoli ad un tratto,
Ho preso de ciamatte confidenza,
Però bigna, però, ch'habbi pacenza".

Fece allora Calfurnia un bel ghignetto,
Dicendo: "Sei, PATACCA, un tristarello;
Per servirti, altre volte io te l'ho detto,
Ch'andarìa lambiccandomi il cervello,
E perchè adesso, vuoi tu havè sospetto,
Ch'io contradir ti voglia? Oibò fratello:
So gli obblighi, che t'ho, quanno quel giorno
Desti a colui, che mi veniva attorno".

"Sempre sarà nostrodine in difesa
Della perzona tua, - disse PATACCA,
- Ciama 'sto fusto, se vuoi fa' contesa,
E vederai, se come i grugnì ammacca;
Perchè pe' fa' calche famosa impresa
Io la mi' vita non la stimo un acca,
E la metto a sbaraglio e pronto e lesto.
Ma tornanno al discorzo, el sogno è questo.

Me pareva de sta' nel mezzo a un campo,
Che poi me diventava horto e giardino,
Et ecco allora da lontano allampo
Fiorite piante, et io più m'avvicino.
In t'uno sterpo all'improviso inciampo,
E quasi cascà volzi a capo chino,
Mi ritengo, e m'accorgio, e fo' stupori,
Ch'eran quei, ch'io vedei, cavoli fiori.

Ci ho gusto a 'sta comparza, e ce n'è uno,
Che pare tra li cavoli un gigante;
Nisciun di questo al paragon, nisciuno
Ce n'è, che non sia cavolo birbante.
Voglia me vie d'haverne calcheduno,
Ma sopra tutti, questo più scialante;
In giù, pe' sradicallo el braccio io slongo,
E all'improviso me diventa un fongo.

Così fan tutti l'altri e si rannicchia
Ogni cavolo in fongo, e giù s'appiatta;
Allora la vendetta al cor mi picchia,
E vuò, che sia la fongarìa disfatta.
El sangue in te le vene me salticchia,
E pe' sfongar la cavolesca schiatta,
Al ferro, che sta' al fianco, do' de piglio,
Voglio taglià; ma intanto, ecco mi sviglio".

"Non più. Già sò, quel che saper tu vuoi",
Disse la ciospa, e qui penzosa stette.
Strinze mano con mano, e restò poi
Con l'occi larghi, e con le labra strette.
Ciamò a consiglio li riggiri suoi,
Alfine a MEO questa risposta dette;
Ma prima assai pietosa a lui si volze
Con un sospiro, poi la lingua sciolze.

"Figlio! per te c'è na cattiva nova,
E ti sarà, in sentirla, dolorosa;
Dir vuò il campo, ch'in horto si rinova,
Ch'una ne penzi, e poi fai 'n'altra cosa;
Senti questo di più, ch'ogni tua prova
T'habbia da riuscì pericolosa,
È segno certo, e assai però m'accora,
Quell'inciampà, che tu facesti allora.

I cavoli, che scambiano apparenza,
E fanno in fonghi subbito mutanza,
Dimostrano per dirla in confidenza,
C'hanno i negozii tui gran incostanza;
Che mentre assai, da te acquistà si penza,
Alfin poi ci sarà poca sustanza,
E cercanno verdura, e ricche piante,
Troverai solo robba da birbante.

Mi spiego meglio. Tu ci sei cascato
A fa' l'amor con qualche brighinella,
E ti sei nella mente figurato,
Perchè vista non l'hai, ch'assai sia bella;
Per esserne poi meglio assicurato,
Tu vuoi far viaggio, e andar verso di quella;
La stimi un sole, e dirtelo bisogna,
Sarà una schifosissima carogna".

Più dir volea, ma te glie dà un urtane
MEO, ch'allora con impeto s'arrizza,
E poco manca, non glie dia un sgrugnone,
E che del naso non ne faccia pizza.
In tel sentì già gli venì el foione,
E dice tutto rabbia, e tutto stizza:
"Ah razza indegna tra le razze sporche!
Va in malora se vuoi, va su le forche".

 
 
 

Tune ... audes occidere

Post n°1213 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Tune, re, audes occidere Valerium Sampierum!?!?!? Te possinammazzattent!!!!". Così ho detto giorni or sono a quella cosa lì, a quella vecchiaccia vestita di nero, che era venuta a cercare di rompermi le scatole.

Gli storici devono aver apprezzato tali mie parole famose, al punto da inventarsi un aneddoto -che viene piazzato attorno all'anno 87-86 a.c.- in cui analogo motto viene attribuito niente di meno che a Caio Mario.

Narra la storia che, inseguito e raggiunto in una palude, sita nei pressi di Minturno, da un sicario inviato da Silla, Mario, con sguardo gelido ed impassibile, apostrofò il gallo che lo aveva scoperto con le parole "Tune, homo, audes occidere Caium Marium!": e tu, uomo, avresti l'ardire di uccidere Caio Mario? Il sicario rimase talmente colpito dalle parole e dallo sguardo di Mario che, gettata la spada, si dileguò.

 
 
 

L’impinitente

L’impinitente

Confessamme! e de che? per che ppeccato?
Perché ho spidito all’infernaccio un Conte?
Perché ho vvorzuto scancellà (1) l’impronte
De l’onor de mi’ ffijja svergoggnato?

Bbe’, una vorta che mm’hanno condannato
Nun je rest’antro che pportamme a Pponte. (2)
È mmejjo de morí ddecapitato,
Che avé la testa co una macchia in fronte.

Ma ssi (3) ddoppo er morí cc’è un antro monno,
Nò, sti ggiudisci infami e sto [sovrano]
Nun dormiranno ppiú ttranquillo un zonno;

Perché oggni notte che jje lassi Iddio
Je verrò avanti co la testa in mano
A cchiedeje raggion der zangue mio.

Note:
1 Ho voluto cancellare.
2 Ponte S. Angiolo, stato fino a questi ultimi tempi uno de' luoghi di esecuzioni capitali.
3 Se.

Giuseppe Gioachino Belli
10 novembre 1834
(Sonetto 1346)

 
 
 

Della Casa (app.3)

Post n°1211 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

8.

Io nol vo' più celar com'io soleva,
Dio 'l sa, se m'offendeva un tanto scorno,
Lungo è stato il soggiorno; or sia più presto
Spento 'l fetor che quell'arpia spargeva,
Che d'or in or cresceva d'ogn'intorno.
Venuto è pur il giorno, ov'altri è desto;
Ch'omai faccia del resto è giusta cosa
La fera obbrobbiosa; e al mondo aggrada,
Ch'a terra cada; sì gli è odiosa.
Altera e disdegnosa
Ne vien sopra di lei vindice spada.
Tropp'errat'ha la strada per l'addietro;
Ond'anch'è onesto, se or se stessa perde,
E se restando al verde
Manca ogni speme sua come di vetro.

L'accostarsi a San Pietro, or non più vo'.
Giovar più non gli può, ch'io m'intend'io;
Temp'è che gli paghi il fio, e forza è berlo;
Ogni voce è feretro, or basta mo,
Se gli varrà io nol so campagna o rio
Contro l'ira di Dio , fosso , arco, o merlo:
Ma come ognun, vederlo ancor io voglio,
E fracassarsi in scoglio fuor de l' onde,
Se 'l ver risponde a quel di ch' io mi doglio;
L'ardir, l' enorme orgoglio,
Tiranno empio crudel che in te s'asconde,
Il termin che 'l confonde, ti richiama:
E per se stesso ogni saper ti fugge,
Ed ogni buon si strugge,
Che 'l precipizio tuo dì e notte brama.

Già cresce fama a fama il tuo nemico.
Tu sai ben quel ch'io dico; or lasci andare;
Ch'anco l'è per mostrar a le tue spese,
E segual chi non ama il gioco antico.
Di già maturo è il fico, e come pare,
Temp' è da vendicare tante offese,
E far nel mio paese buona stanza,
Che di questa speranza è visso altrui.
Se ben io fui e son con gli altri in danza,
Talchè non più ci avanza
Che'l sangue, e quel forz'era darlo a lui.
Seco or nosco è colui, che seco regge
Quel ch' anco i rei, quanto gli piace, alberga.
E con l'irata verga
Torran di guardia al lupo il pover gregge.

Facilmente chi legge ben m'intende:
Chi'l braccio troppo stende il suo mal piglia;
Ed invan s assottiglia e si scavezza,
Chi de l'ingiusto legge farsi attende.
Con ruina discende a grosse miglia
Chi in aere s'appiglia, e Dio non prezza.
Una tarda dolcezza è più soave;
Più dolce è quella chiave ch' al fin sciolse;
Ma tardar volse poi che messo un core
Di catena aspra e grave
In quella libertà ch'altri gli tolse;
S' alcun già mai si dolse, o ancor si dole,
Or sarà men l'altrui col suo dolore
Quest' empio, non signore,
Che dov' egli è, è peggio ch'ei non suole.

Con fatti e con parole accorte e saggie
Veggio or chi ne sottragge ogni gran cura,
Ed a prigion sì oscura un presto lume:
Fiorir gigli e viole per le piaggie,
E due fere selvaggie intra le mura.
Correr senza paura, e d' altre spume
Gioir il vicin fiume in pace volto;
Poi che'l gran lezzo accolto, qual ei fia
De l'empia tiranna, via sarà tolto:
Veggio con chiaro volto
A le due fiere agevolar la via
Benigna l'una e pia ne'costui danni;
E quella che 'l leon s' amica e segue,
Non voler pace o tregue,
Fin che con lui la brutta bestia azzanni.

Vestita d'altri panni,
Canzon, s'egli cercasse di me orma,
Daglien sol questa norma: ancor ei nacque,
Come al ciel piacque, sotto la tua insegna,
Ch' or d'uman sangue pregna, non più salda;
Né che'n ogni atto rio piantata e retta
In piè star debba, aspetta;
Ma che 'n breve ti sia di foco falda.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 346



9.

Vivo mio scoglio, e felce alpestre e dura,
le cui chiare faville il cor m'hanno arso,
freddo marmo, d'amor, di pietà scarso,
vago, quanto più può formar natura:

Aspra COLONNA, il cui bel sasso indura
l'onda del pianto da questi occhi sparso,
ove repente hora è fuggito, e sparso
tuo lume altero, e chi mel toglie, e fura?

O' verdi poggi, ò selve ombrose, e folte,
le dolci luci di begli occhi rei,
che 'l duol soave fanno, e 'l pianger lieto,

a' voi concesse, à me lasso son tolte,
et puro fele hor pasce i pensier miei,
e 'l cor' doglioso in nulla parte ho queto.

Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 63



10.

A pandolfo Rucellai, a Murano

Non lasciate quel baccellon nell' orto,
Perchè la nebbia gli farebbe danno;
Fate che dica a' suoi, se lo rifanno,
Ch' abbia l' occhio a tenerlo un po' più corto.

E dite a messer Stefan, ch' egli ha il torto
A inviluppar 'n un pelliccion di panno
Quel suo fardel, che i raffi gliel terranno,
E pagheranno la gabella e 'l porto.

Benché questo pensier tocca a Anniballe,
Che deverebbe far ch' il suo maestro
Non portassi il sacchetto in su le spalle:

Al qual direte, che rompa il balestro
Con che ei suol uccellare alle farfalle,
Perch' ei ne deve aver pieno il canestro.

E se vi verrà destro,
Con ambedue le man dite a Marina,
Che mastr' Anton la chiama ogni mattina.

Ed alla barbierina
Potrete dir, se 'l vostro amor gli aggrada,
Che la vi può tosar, ma non vi rada.

Tutta questa contrada
Abbiam chiamato per farvi un sonetto,
Noi di Venezia, e non c' è Benedetto.

E vogliam con effetto
Farvi veder, che senza Raffaello
Non eri buon per torci quell' agnello;

Il qual muor di martello,
E molto prega, e molto si riscalda ,
Che maestr' Anton non baci la castalda.

Ed Enrico ha la falda,
Che lo assalisce, e non già da caleffo,
L' amor di una magnifica nel ceffo.

(Poesie Italiane inedite di Dugento Autori, pag. 196)

Note:

Estratta dal codice 658 magliabecchiano
Il sonetto del Casa sta in un codice magliabechiano, in folio, scritto di mano del calligrafo Ghirardello, che fiorì intorno il mezzo del cinquecento; e sta sotto nome di "Monsignor Giovanni dalla Casa di Venezia a Pandolfo Rucellai a Murano", indicando ancora dove il sonetto fu composto, e dove e a chi mandato .

(Trucchi, pag. 174)

 
 
 

Della Casa (app.2)

Post n°1210 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

6.

Ben veggio, donna, omai che più non sono
Sdegni amorosi quei ch' al mio desire
Oltraggio fanno; ma son sdegni ed ire,
Di ch'io tremo qualor più ne ragiono.
Ecco il lampo apparir; già s'ode il tuono,
E'I folgore discende,
Che l'atra nube fende;
Nè difesa per me trovo o perdono.
Anzi di alzar la vista
Più non ardisco in quell'altero ciglio,
Che fredda gelosia turba e contrista;
Ma sol chiedendo vo pace e consiglio;
E lagrimando il giorno,
La notte a' miei penfier' tristi ritorno.

Come tosto, o me misero e infelice,
Due diversi vapori al cielo ascesi
Del vostro ardente core, e quivi accesi,
An mia speranza svelta da radice?
Per cui là dove io mi vivea felice,
Or son condotto a tale,
Che morte è minor male,
Se'l vero dir di mia sventura lice:
Che trovandomi privo
De l'amor vostro, in via più gravi pene
Che qualsivoglia alma perduta io vivo;
Ch' io son vivo al desio, morto a la spene;
Nè colpa mi condanna,
Ma quell' error che 'l veder vostro appanna;

Ch' io non volsi già mai pur un sol guardo
In parte ove non foste o vera o finta
Dal pensier mio, da cui siete dipinta,
Anzi viva formata ovunque io sguardo;
E se bene a seguirvi ebbi il pie tardo,
Questi ratto vi giunse,
Nè da voi si disgiunse;
Ch' è più veloce assai che damma o pardo,
Così vi fosse dato
Poterlo udire, e ragionar con lui,
Ch'or vi direbbe il mio doglioso stato:
Quanto cangiato son da quel ch'io fui:
Poich' a torto mi veggio
Scacciato del mio antico amato seggio.

Son queste le parole dolci umane
Che m'innalzar' sovra di me tant'alto,
Ch'acceso avrian un freddo e duro smalto.
Ahi promesse d'amor come son vane!
Non sia già mai, dicea, ch'io m'allontane
Del tuo valore un punto:
Quello strale che ha punto
Lo cor ad ambo noi, quel Io risane.
O perduti guadagni!
Mostro d'inferno, ministro di doglia,
Che di Cocito ove t'attuffi e bagni
Partendo, entrasti in così bella spoglia!
Ma voi, perchè la via
Sì tosto apriste a la nemica mia?

Qual chi col ciel sereno in piana strada
Cammina il giorno, e per verde campagna;
Se poi si trova innanzi erta montagna,
Ove convien che poi la notte vada;
Salir non può, nè rimaner gli aggrada:
Ma paventoso stassi,
Mirando i duri passi,
Onde a lui par che già trabocchi e cada:
Tal avend'io col raggio
De'bei vostri occhj assai felice corso
Il mal per me d'Amor piano viaggio;
Or privo di sì chiaro almo soccorso,
Di non poter mi doglio
L' aspro monte passar del vostro orgoglio.

Dogliomi ancor ch'io non ritrovo albergo
U'si ricovri il mio desire ardente;
E par che morte ognor mi s' appresente,
Se per tornar pur mi rivolgo a tergo.
Così di amaro pianto il viso aspergo:
Così gir oltre il piede
Lasso non può, nè riede:
Così tristi pensier' nel petto albergo:
E da la dura pietra
Odo uscir voce minacciosa e fera
Del vostro cor, che gelosia v' impetra:
Del tuo sereno dì giunta è la sera.
Ond' io m'agghiaccio quale
Chi sente colpo al fianco aspro e mortale.

Se sì grand' ali Amore
Ti darà, che tu giunger possa innanzi,
Canzon, a la mia donna; dille: il core
Del fedel vostro onde partii pur dianzi,
Umil vi chiede aita,
In cui poco lasciai spirto di vita.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 338



7.

Caro, se 'n terren vostro alligna Amore,
sterpalo, mentr'è ancor tenera verga;
né soffrir che distenda i rami ed erga;
che sono i pomi suoi pianto e dolore;

anzi ove Cauro trema, e spunta fuore
gelo che i monti e le campagne asperga;
ove il dì monta in sella, ov'egli alberga,
ove cavalca in compagnia de l'ore;

e credo ancor su nel bell'orto eterno,
ove si gode per purgate genti
d'altro diletto, che di piume o rezzo;

e giù nel ventre de la terra interno,
ov'è 'l pastor de gli scabbiosi armenti;
e la puzza d'Amor venuta, e 'l lezzo.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 345

 
 
 

Della Casa (app.1)

Post n°1209 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Aggiunte alle Rime (tratte da me da varie fonti)

1.

O chi m'adduce al dolce natio speco,
ov'io, deposte le mie amare pene,
e volte l'atre mie notti in serene,
possan talor le muse albergar meco!

Sì m'appresserei forse al giogo, u' teco
altro nessun, che 'l maggior Tosco, viene,
col Bembo, al qual nulla è che 'l corso affrene,
sì ch'egli a par a par non poggi seco.

Or che lunge mi tien rea sorte acerba
da quelle Dive e dal mio nido, e 'n ombra,
ch'adugge il seme di mia gioja, posto;

con l'alma, non d'Amor né d'ira sgombra,
te inchino, albergo a Febo alto e riposto,
e segno in umil pian col vulgo l'erba.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 328



2.

Né l'Alba mai, poi che 'l suo strazio rio
Progne ritorna, o selve, a pianger vosco,
quando il ciel fosse in sul mattin men fosco,
di braccio al Vago suo sì bionda uscìo;

né 'n riva di corrente e largo rio
chiome spiegò d'april tenero bosco
sì belle; com il sol, ch'io sol conosco,
sparger tra noi le sue talor vid'io.

Ed or le tronca empio destino acerbo,
e 'mpoverisce Amor del suo tesoro,
e a noi sì cara vista invidia e toglie.

Deh chi il mio nodo rompe, e me non scioglie?
Avess'io parte almen di quel dolce oro,
per mitigar il duol che nel cor serbo.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 329



3.

Altri, oimè, del mio sol si fa sereno:
del mio sole ond'io vivo altri si gode
la luce e 'l vero; io sol tenebre e frode
n'ho sempre, ed arso il core, e molle il seno:

e di tema e di duol misto veleno
la debil vita mia distringe e rode;
né spero, on'ella si risaldi e snode,
o speranza o pietate o morte almeno.

Iniquo Amor, dunque un leal tuo servo
Ardendo, amando, sia di morir degno,
e i freddi altrui sospir' saran graditi?

Ma se per mio destin empio e protervo
quel ch'è de gli altri misero sostegno,
perch' almen di speranza non m'aiti?

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 333



4.

Io non posso seguir dietro al tuo volo,
pensier che sì leggiero e sì spedito
battendo l'ali vai verso il gradito
mio chiaro sol, che come te non volo;

ma passo passo, Amor, pregando solo
che mi sostenga, me medesmo aito
con la speranza del veder finito
tosto il mio esilio; e in quello io mi consolo.

Il tuo non può stancar veloce corso
monte fiume né mare; e gli occhj hai sempre
non men presti al veder, ch'al volar l'ale.

Ma tu 'l sai, ch'otto lustri omai son corsi
de la mia vita in dolorose tempre.
Fa troppo ir grave questo incarco frale.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 336



5.

Questi palazzi e queste logge or colte
d'ostro di marmo e di figure elette,
fur poche e basse case insieme accolte,
diserti lidi, e povere isolette.

Ma genti ardite d'ogni vizio sciolte
premeano il mar con picciole barchette;
che qui non per domar provincie molte,
ma fuggir servitù s'eran ristrette.

Non era ambizion ne' petti loro;
ma 'l mentire aborrian più che la morte,
né vi regnava ingorda fame d'oro.

Se 'l ciel v'ha dato più beata sorte,
non sien quelle virtù che tanto onoro
da le nove ricchezze oppresse e morte.

Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 337
Scelta di Sonetti con varie Critiche osservazioni, ed una dissertazione intorno al sonetto in generale, Teobaldo Ceva, in Venezia, Presso Domenico Occhi, 1737, pag. 72

Note:
Benché questo sonetto sia attribuito a Monsignor della Casa, io non giurerei che fusse di lui: tanto è differente questo placido stile dal suo, che ordinariamente ha dell'aspro, e del disdegnoso. Di fatto io nol ritruovo tra le sue rima stampate, se non in una sola edizione, ove nulladimeno è posto indisparte fra que' versi, de' quali c'è dubbio, o certezza, che non ne sia padre il Casa. Ma nulla a noi dee importare di sapere chi sia l'Artefice, bastandoci d'intendere, se sia buono il lavoro. E di questo se non è Autore il Casa, certo egli meritava d'esserlo. Al mio giudizio forse non sottoscriveranno cervelli gagliardi, i quali amano solamente di palleggiar sulle nuvole a cavallo di Pegaso, e mireranno probabilmente questo Sonetto con occhio sprezzante, qual cosa smunta, mediocre e per poco da nulla. Ma chiunque ha ottimo discernimento del Bello della Natura, non avrà difficultà di confessare che questo è uno dei più gentili, squisiti, e dilicati Componimenti, che qui si leggano. Ammirerà egli un'aurea semplicità, una nobile ed impareggiabile purrità e chiarezza in tutti questi versi, che non hanno pompa, ma però soavemente rapiscono con secreta forza chi legge. Questa dilicatezza è non tanto nelle parole, e frasi, quanto ne' sensi, i quali con natural vaghezza conducono ad una non aspettata Chiusa. Non è da tutti il sentir la finezza di sì fatte opere. Ma pruovi chi non la sente, o la sprezza, s'egli sa farne altrettanto.
(Ceva, pag. 72,73)

 
 
 

Il Dittamondo (6-14)

Post n°1208 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO XIV

"Apresso di Ochozias il regno tenne
Athalia, Ioas e Amasia,
Ozias poi e Ioathan ne venne. 

In questo tempo ti dico che pria 
lo numer de le Olimpiadi si disse: 5 
Ifito Prassonide a’ Greci il cria. 
Achaz signore dopo costor visse, 
poi Ezechias, che ne l’amor di Dio 
per sua vertute parve che fiorisse. 
Al prego suo, de’ nemici morio 10 
cento quaranta milia dico e piú, 
dove Senacharibo si fuggio. 
Lo qual fuggito, odi che ne fu: 
dentro a un tempio li dienno la morte 
i suoi figliuoi, come s’uccide un bu’. 15 
Tanto fu dolce il priego e ’l pianto forte 
ch’a Dio fe’ Ezechias, che quindici anni 
gli allungò il tempo e tenne regno e corte. 
O tu che regni, o cieco, a che t’inganni, 
se da Dio non ricevi quel che hai? 
Ché nudo ci venisti e senza panni. 
Pensa s’è degno che sentisse guai 
Senacharib ingrato, che non volse 
il ben ch’ebbe da Dio conoscer mai. 
E pensa se fu giusto se gli dolse 25 
d’Ezechia, sí che la vita gli accrebbe, 
che ’l cuor giammai da lui pregar non tolse. 
Ma poi che ’l tempo aggiunto finito ebbe, 
rimase il regno a Manasses, lo quale, 
piú che lodar, biasmare si potrebbe. 30 
Amon seguio e, se li prese male 
del suo mal fare, assai li stette bene: 
da’ servi suoi prese il colpo mortale. 
Iosias qui ricordare si convene, 
lo qual fu giusto e di santa vita, 35 
tanto che d’Ezechia mi risovene. 
E secondo ch’io truovo e che s’addita, 
Olda d’Ain, una femina, allora 
era come profeta al mondo udita. 
Ioachaz dopo costui dimora; 40 
ma signor poco visse e ciò fu degno, 
perché fu reo e poco Dio onora. 
Seguio Ioachim, che tenne il regno, 
e Ieconia, apresso di costui, 
solo tre mesi, e non piú, re disegno. 45 
Sedechias fu che venne dopo lui, 
lo quale Ieremia in pregion mise, 
per dire il ver, non per mal fare altrui. 
In quel tempo Ierusalem conquise 
Nabuchodonosor e il regno tutto, 50 
lo qual partio come volse e divise. 
Sedechias prese e con pianto e con lutto 
gli occhi li trasse e poi lo ’mpregiona 
con molti piú e in Caldea fu condutto. 
Qui la trasmigrazion di Babilona, 55 
qui venne meno il regno de’ Giudei 
e qui Ierusalem sí s’abbandona. 
Eran passati, come saper dèi, 
da Roboam in fin a questo punto 
quattrocento anni diciesette e sei. 60 
E cosí sono, abbreviando, giunto 
del regno d’Israel a quel di Giuda, 
come udisti fin qui di punto in punto. 
Ma ora segue che qui si conchiuda 
d’alcun profeta, a ciò che la lor fama 65 
in questa parte non rimanga nuda. 
Con gli occhi tristi e con la mente grama 
si compiangea Ieremia, lamentando 
che ’l fior vedea del male in su la rama. 
Baruch fe’ sacrificio a Dio, orando 70 
per Nabuchodonosor e per lo figlio, 
secondo il suo volere e il suo comando. 
Iddio allumò gli occhi e ’nfiammò il ciglio 
a Ezechiel e mostrogli la gloria 
sopra Chobar appien del suo consiglio. 75 
E se deggio seguir la dritta storia, 
come spianò Daniele dir bisogna 
lo sogno al re, che non l’avea in memoria; 
e l’altro poi che de l’albero sogna 
e de le bestie, che ’ntorno vedea: 80 
ch’assai fu bel, ben che qui non si spogna; 
e come disse la sventura rea 
a Baltasar, che di sé scriver vide 
ch’alcuno interpretar non gliel sapea. 
Sempre la ’nvidia dolorosa uccide 85 
l’uom, c’ha vertú, con bugiadre cagioni, 
benché talor da sé l’alma divide. 
Gettato fu Daniele tra i leoni 
per molta invidia; ma ne la fin scampa 
e quei, che ve ’l gettâr, provâr gli unghioni. 90 
Oh quanto è bestia l’uomo, in cui s’avampa 
lo vizio di lussuria, e quanto è giusto 
se, offendendo altrui, offeso inciampa! 
Due s’accordâr, l’uno e l’altro vetusto, 
di sentenziare a la morte Susanna, 95 
che negò loro il suo leggiadro busto, 
quando spirato fu dal sommo Osanna 
Daniele sí, ch’al popol mostrò chiaro: 
ond’ella scampa e i due giudici danna. 
Non parve a Iona, credo, tanto amaro 100 
l’esser gettato in mar, quanto vedersi 
nel corpo del gran pesce far riparo. 
Lettor, ben vo’ che noti questi versi: 
Iona, che al voler di Dio fuggia, 
si vide in luoghi sí scuri e diversi. 105 
In questo tempo vivea Azaria, 
Sidrach, Misach e Abdenago, dico, 
Osea, Ioel, Misael, Anania. 
Abacuch in codesto tempo antico, 
da l’angelo portato, il cibo porta 110 
a Daniel, di Dio fedele amico,
e tra’ leon, morto ’l drago, il conforta".
 
 
 

Il Dittamondo (6-13)

Post n°1207 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO SESTO

CAPITOLO XIII

"Di rado avièn che giovane signore 
sia cosí temperato ne la vita, 
ch’a’ suoi sia pro e a lui torni onore. 
Colui, che ora qui per me s’addita, 
fu Roboam, che per consiglio acerbo 5 
d’altrui e suo, co’ suoi si vide in lita. 
Nota costui, tu che vivi superbo: 
che de’ dodici tribi perdé i diece, 
fuggendo senza colpo e senza verbo. 
Un vitel d’oro fabbricar poi fece; 10 
questo adorando, un santo uom lo riprese 
del gran peccato e de le opere biece. 
La man, dicendo, in contro a’ suoi distese: 
– Colui prendete –; e come l’atto fe’,
odi miracol bel che ne li prese: 15
che ’l braccio non poteo tirare a sé, 
sí dir convenne, pentendo, a quel giusto: 
– Io ti prego che preghi Dio per me –.
E se ’l suo padre giovane e vetusto 
si vide temperato e d’alto ingegno, 20 
costui cattivo, bestiale e robusto. 
Ora, come di sopra ti disegno, 
Ieroboam del tribo d’Efraí 
le diece parti tenne del suo regno. 
Nadab, Baasa, Ela, Zambri e Amrí 25 
Achab, Ochozia, Ioram e piú molti 
nel regno d’Israel di poi seguí. 
Quaranta soli e dugento eran volti, 
quando Salmanasar Samaria vinse 
e prese Osea con quei che vi fun colti. 30 
Poi tutto questo popolo costrinse 
in Hala e in Habor di lá da Media, 
dove col monte e con Gozan li cinse. 
E per ben prender del regno la sedia, 
partio la terra a’ suoi di Babilonia 35 
e cosí d’abitarlo si remedia. 
Qui puoi veder come talor si conia 
e translata la gente in su la terra 
per modo tal, ch’uom nol pensa né sonia. 
Ma perché molte volte avièn che s’erra, 40 
per dilungarsi da la tema troppo, 
onde il parlar col proposto non erra, 
intendo qui appuntare e fare groppo, 
e ritornar dove lassai colui, 
che di dattaro venne in tristo pioppo. 45 
Sette e diece anni visse re costui; 
ma poi che morte a la terra il diede, 
Abia rimase signor dopo lui. 
Apresso di costui, segue e procede 
ch’io ti ricordi il suo figliuolo Asa, 50 
lo qual fu giusto e pien di bona fede. 
Guerra fe’ grande costui con Baasa, 
re d’Israel, che di sopra ti nome, 
e fel tornare alcuna volta a casa. 
Se ’l ver ne vuoi saper e ’l dove e ’l come, 55 
nel libro de’ Proverbi fa’ che veggi, 
ché quivi coglierai d’ogni suo pome. 
Iosafat segue e vedrai, se tu leggi, 
che fece compagnia con Achab, 
per far piú forti e securi i suoi seggi. 
Achab poi combatté con Benadab 
e lui con trenta re vinse in sul campo, 
figliuol d’Amri e sceso di Nadab. 
Poi dopo Iosafat disegno e stampo 
Ioram, che de’ Giudei il regno tenne, 65 
quando con pace e quando con inciampo. 
Morto costui, re dopo lui venne 
Ochozias che da Dio si disvia; 
infermo visse e gran pene sostenne. 
E se tu cerchi ove leggi d’Elia, 70 
troverai come scese dal ciel foco 
sopra i suoi messi e la sua morte ria. 
Ma perché giunto son, parlando, al loco 
che dir d’alcun de’ profeti s’aspetta, 
intendo qui tacer de’ re un poco. 75 
Cercando Elia digiuno in Saretta, 
ebbe de la farina, onde apresso 
del suo ben far godeo la feminetta. 
Se questa allegra fu, ben ti confesso 
che quella troppo piú si vide lieta, 80 
di cui il figliuolo suscitò adesso. 
Sopra il fiume Cison quei mal profeta 
di Baal fe’ morire ed Eliseo 
levò dai buoi col palio de la seta. 
Di santa vita fu e molto feo 85 
di miracoli belli; al fin sul carro 
del foco il suo discepol lui perdeo. 
Ben vo’ che noti quel che or ti narro: 
come Maria d’Egitto il fiume passa 
senza burchiello, bestia o tabarro; 90 
similemente Eliseo trapassa 
Giordan col mantel suo, ch’allor era, 
al modo veronese, grosso massa. 
Per dar da bere a tutta l’oste intera, 
di Iosafat, orò e, al prego, loro 95 
apparir fece una bella rivera. 
Oh, cieco quel ch’è si vago de l’oro, 
che mente al suo signor, come Giezi, 
che tolse da Naaman robe e tesoro! 
Io non ti conto apertamente qui 100 
come Eliseo resuscitò un morto 
col santo prego, che Dio di lui udí. 
Io non ti conto, poi che li fu scorto 
quel pargoletto, a cui die’ luce e lume, 
quanto ai parenti fu grazia e conforto; 105
né sí come Isaia nascose il fiume".

 
 
 

Meo Patacca 01-7

Post n°1206 pubblicato il 18 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Disse poi Cencio: "Hor me sentite adesso;
So chalche poco maneggia el rasoro,
E là, tra i zizzi, come fo a me stesso,
Accosinto farò la barba a loro".
Altri in confuso poi dissero appresso:
- Io di ciufoli, e pifari lavoro;
Io canticchio un tantino, e farò el musico;
Da medico io far voglio; io da cerusico. -

L'ultimo, che parlò fu Meo Fanello:
"Ch'accurre, disse, a fa' tant'apparecchi
D'arti, e ripieghi? Io so' un po' farinello,
Sentite, se ve pare, che ci azzecchi:
Pe' trova modo di riempì 'l budello
A spese d'altri, là ne i catapecchi,
Dove stanno villani e gente griscia,
Ogn'un s'ingegni de tira de miscia".

Sente PATACCA un tal discorso appena,
Che s'alza su dalla colonna in furia,
E dice: "Oibò, mi dà el sentir gran pena,
Ch'al romanesco onor se faccia ingiuria;
Con più leciti modi a pranzo e a cena
Procuraremo non havè penuria:
Barona è la proposta, e reo sei tu"
Fanello s'azzittò, nè parlò più.

PATACCA allor: "Manco me piace, manco
Che da noi s'habbia a intrattenè 'l camino
Con far el lavorante, o 'l salt'in banco;
Tempo non c'è da fane el mattaccino.
E già, che VIENNA è assai lontana, almanco
Annamo con prestezza a lei vicino,
E senza havè da far opre da guitto
Pensato ho il modo d'abuscacci el vitto.

Come haveremo el numero compito
Di cinquecento, e si farà la mostra,
Voglio qui proprio voglio fa' un invito
Di chi venga a vedè la gente nostra.
Ogni Signor ci resterà stupito,
E con noi generoso allor si mostra,
Che non può esser, che pe' cortesia,
Chalche ajuto de costa non ce dia.

Come arrivati poi semo in battaglia,
Allora sì, che non ce dà fastidio
Di trovà chi ci dia la vettovaglia,
Che più non c'è bisogno de sussidio,
Perchè, mentre el nemico si sbaraglia,
E che si fa el famoso turchicidio,
Bel ramaccià, che voi con me farete
Giubbe, sciable, turbanti, ori e monete".

Dissero tutti allora: "O bene, o bene",
Ma poi MEO ripigliò: "Non più dimore,
De fa' quant'io v'imposi ormai conviene,
Tempo solo ve dò vintiquattr'ore:
Su a ritrovà compagni, e chi mi viene
Più presto a fa' sapè, più me fa onore,
Che da lui, giusto trenta sono stati,
Pe' marcia verzo VIENNA, incaparrati".

Fornì di dire, e a casa sua pian piano
Coll'altri s'avviò. Di novo ascese
Sul Campidoglio, e poi calò in tel piano;
Fu pè la strada con ogn'un cortese,
Gli fecero alla porta un basciamano,
E PATACCA il saluto a tutti rese;
Poi salì sopra a riposarsi, e intanto
Pur io piglio riposo, e lascio il canto.

 
 
 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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