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Messaggi del 19/02/2015

Rime del Berni 19-26

Post n°1223 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

19

A MONSIGNOR AGNOLO DIVIZI
GRIDANDO LA SUA INNOCENZA

Poiché da voi, signor, m'è pur vietato
che dir le vere mie ragion non possa,
per consumarmi le midolle e l'ossa,
con questo novo strazio e non usato,

finché spirto avrò in corpo e alma e fiato,
finché questa mia lingua averà possa,
griderò sola, in qualche speco o fossa,
la mia innocenzia e più l'altrui peccato.

E forse ch'avverrà quello ch'avvenne
della zampogna di chi vide Mida,
che sonò poi quel ch'egli ascoso tenne.

L'innocenzia, signor, troppo in sé fida,
troppo è veloce a metter ale e penne,
e quanto più la chiude altri più grida.



20

SONETTO AL DIVIZIO
MONSIGNOR ANGELO DIVIZI DA BIBBIENA

Divizio mio, io son dove il mar bagna
la riva a cui il Battista il nome mise
e quella donna che fu già di Anchise
non mica scaglia ma bona compagna.

Qui non si sa che sia Francia né Spagna,
né lor rapine ben o mal divise;
se non che chi al lor giogo si summise
grattisi 'l cul, s'adesso in van si lagna.

Fra sterpi e sassi e villan rozzi e fieri,
pulci, pidocchi e cimici a furore,
men vo a sollazzo per aspri sentieri;

ma pur Roma ho scolpita in mezzo il cuore
e con gli antichi mei pochi pensieri
Marte ho nella brachetta e in culo Amore.



21

MANDO FATTO IN ABRUZZI
CONTRO AMORE DISPETTOSO

Amor, io te ne incaco,
se tu non mi sai far altri favori,
perch'io ti servo, che tenermi fuori.
Può far Domenedio che tu consenti
che una tua cosa sia
mandata nell'Abruzzo a far quitanze
e diventar fattor d'una badia
in mezzo a certe genti
che son nemiche delle buone usanze?
Or s'a queste speranze
sta tutto il resto de' tuoi servitori,
per nostra Donna, Amor, tu me snamori.



22

SONETTO SOPRA LA BARBA DI DOMENICO D'ANCONA

Qual fia già mai così crudel persona
che non pianghi a caldi occhi e spron battuti,
impiendo il ciel di pianti e di sternuti,
la barba di Domenico d'Ancona?

Qual cosa fia già mai sì bella e buona
che invidia o tempo o morte in mal non muti,
o chi contra di lor fia che l'aiuti,
poi che la man d'un uom non li perdona?

Or hai dato, barbier, l'ultimo crollo
ad una barba la più singulare
che mai fusse descritta o in verso o in prosa;

almen gli avessi tu tagliato il collo,
più tosto che guastar sì bella cosa,
che si saria potuta imbalsimare

e fra le cose rare
poner sopra ad un uscio in prospettiva,
per mantener l'imagine sua diva.

Ma pur almen si scriva
questa disgrazia di color oscuro,
ad uso d'epitafio, in qualche muro:

"Ahi, caso orrendo e duro!
Ghiace qui delle barbe la corona,
che fu già di Domenico d'Ancona".



23

SONETTO DI SER CECCO

Ser Cecco non può star senza la corte
e la corte non può senza ser Cecco;
e ser Cecco ha bisogno della corte
e la corte ha bisogno de ser Cecco.

Chi vol saper che cosa sia ser Cecco
pensi e contempli che cosa è la corte:
questo ser Cecco somiglia la corte
e questa corte somiglia ser Cecco.

E tanto tempo viverà la corte
quanto sarà la vita di ser Cecco,
perché è tutt'uno ser Cecco e la corte.

Quando un riscontra per la via ser Cecco
pensi di riscontrar anco la corte,
perché ambi dui son la corte e ser Cecco.

Dio ci guardi ser Cecco,
che se mor per disgrazia della corte,
è ruvinato ser Cecco e la corte.

Ma da poi la sua morte,
arassi almen questa consolazione,
che nel suo loco rimarrà Trifone.



24

PER CLEMENTE VII

Un papato composto di rispetti,
di considerazioni e di discorsi,
di pur, di poi, di ma, di se, di forsi,
de pur assai parole senza effetti;

di pensier, di consigli, di concetti,
di conietture magre per apporsi,
d'intrattenerti, pur che non si sborsi,
con audienze, risposte e bei detti;

di pie' di piombo e di neutralità,
di pazienza, di dimostrazione
di fede, di speranza e carità;

d'innocenzia, di buona intenzione,
ch'è quasi come dir semplicità,
per non li dar altra interpretazione.

Sia con sopportazione,
lo dirò pur, vedrete che pian piano
farà canonizzar papa Adriano.



25

ALLA MARCHESA DI PESCARA
QUANDO PER LA MORTE DEL MARCHESE
DICEVA VOLER MORIRE

Dunque, se 'l cielo invidioso ed empio
il sol onde si fea 'l secol giocondo
n'ha tolto e messo quel valore al fondo,
a cui devea sacrarsi più d'un tempio,
voi, che di lui rimasa un vivo esempio
sète fra noi e quasi un sol secondo,
volete in tutto tòr la luce al mondo,
faccendo di voi stessa acerbo scempio?
Deh, se punto vi cal de' danni nostri,
donna gentil, stringete in mano il freno,
ch'avete sì lasciato a i dolor vostri;
tenete vivo quel lume sereno
che n'è rimaso, e fate che si mostri
al guasto mondo e di tenebre pieno.



26

SONETTO SOPRA LA MULA DELL'ALCIONIO

Quella mula sbiadata, damaschina,
vestita d'alto e basso ricamato,
che l'Alcionio, poeta laureato,
ebbe in commenda a vita masculina;

che gli scusa cavallo e concubina,
sì bene altrui la lingua dà per lato,
e rifarebbe ogni letto sfoggiato,
tanta lana si trova in su la schina;

et ha un par di natiche sì strette
e sì bene spianate che la pare
stata nel torchio come le berrette;

quella che per soperchio digiunare
tra l'anime celesti benedette
com'un corpo diafano traspare;

per grazia singulare,
al suo padron, il dì di Befanìa,
annunziò il malan che Dio gli dia,

e disse che saria
vestito tutto quanto un dì da state,
id est arebbe delle bastonate,

da non so che brigate,
che, per guarirlo del maligno bene,
gli volean far un impiastro alle rene.

Ma il matto da catene,
pensando al paracimeno duale,
non intese il pronostico fatale;

e per modo un corniale
misurò et un sorbo et un querciuolo,
che parve stat'un anno al legnaiuolo.

A me n'incresce solo
che se Pierin Carnasecchi l'intende,
no 'l terrà come prima uom da facende;

e faransi leggende
ch'a dì tanti di maggio l'Alcionio
fu bastonato come santo Antonio.

Io gli son testimonio:
se da qui inanzi non muta natura,
e' non gli sarà fatto più paura.

 
 
 

Il Meo Patacca 03-2

Post n°1222 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ah ciafèo! che vantavi el Rodomonte,
Poi cagli, come un guitto, e un cacasotto".
E quì pe' rabbia, con la man la fronte
Si batte, e da più d'un s'intese il botto.
"Quel Fraschetta d'Amore, un Spaccamonte,
Come son'io, farà pare un merlotto?
Se da 'sto core presto non se stacca,
Glie fò vede glie fò, chi è Meo Patacca.

Vada a cuccà, 'sti gonzi, e cori afflitti
Avvezzi a sopporta malanni e doglie,
Mostri la su' potenza co' 'sti guitti,
E schiavi li riduca alle sue voglie,
Ch'in quanto a me, che son di quei più dritti,
Non me ce coglie più, non me ce coglie,
Se po' gratta, se po' 'sto Cupidetto,
E pelarzi la barba pe' dispetto".

Parlò a 'sto modo, e gnente gli sovvenne,
Per esser dalla collera infuscato,
Ch'a dire uno sproposito solenne
Pe' volè fa' el dottor, c'era cascato;
Si po' Amore strappà solo le penne,
Non pelarzi la barba, s'è sbarbato.
Così, diceva bene a maraviglia,
Perchè barba non ha: peli le ciglia!

Poi torna a tarroccà: "Va dove vuoi,
Amor! Se inzino a mò me l'hai sonata,
Un sasso in petto te pôi da te pôi,
Non me la fai più fa 'sta baronata.
Alla guerra, alla guerra! E Nuccia poi,
Che dirà, se la lasso sconsolata?
Eh, ch'alle smorfie sue non dò più fede,
Venga el cancaro a Nuccia, e a chi glie crede".

In questo mentre schiatta dalle risa,
Certa gente in t'un circolo confusa
Intorno ad un poveta, che improvisa,
E che propio ridicola ha la Musa.
S'accosta MEO, perchè il rumor l'avvisa,
Giusto s'infronta de sentì 'sta chiusa:
La tua fama anderà da Tile a Battro,
Sarai lodato più di volte quattro.

Subbito in sè PATACCA si raccoglie,
Rifrette a 'ste poetiche parole,
E dice: "O come ben costui ce coglie!
A seguì Marte stuzzicà me vuole,
Già dal penzier la dubbietà me toglie.
Mò sì, non dò più volta alle cariole,
Quel, che si canta in lode d'altri adesso,
Si dirà un giorno in lode di me stesso".

Tutto quel, che sentiva 'sto gradasso
Creder voleva, s'appricasse a lui,
Poi un tantino in là movendo el passo,
Sente discurre delli fatti sui.
Vede, ch'è gente di legnaggio basso,
Et assai ben ne ricognosce dui,
Senza fa' col fanale opera alcuna,
Se tanto quanto luccica la Luna.

Dice un di loro: "Ho inteso dir giust'oggi,
Che vônno annà 'sti sgherri romaneschi,
Benchè guida non habbiano nè appoggi
A squinternà l'esserciti turcheschi".
"Andaranno el malanno, che l'alloggi! -
Rispose un altro - O sò che stanno freschi!
Nelle sfavate hanno bravure assai,
Quel che dicono poi non fanno mai".

PATACCA in tel sentì la sbeffatura
Mastica ciodi, e rode catenacci;
Vorria lite piglià, non s'assicura,
Smania, soffia, non sa quel che si facci;
Mò par, che l'intrattenga la paura,
E mò, ch'ogni timor da sè discacci.
Troppo rischio poi stima il farzi avanti,
Per esser solo, e arrogantà con tanti.

E pur la fa da bravo, i piedi sbatte,
Sbuffa de rabbia, e dice brontolanno:
"Ce s'annarà, ce s'annarà a combatte,
E ce saranno i capi, ce saranno!
Signorzì, che gran prove se son fatte
Da i romaneschi, e più se ne faranno".
Così finge sfogasse con sè stesso,
Ma pur si fa sentì da chi gli è appresso.

"Se potrà mò sapè, se chi l'ha sciolto -
Dice un di lor - costui che si risente?
Ora mai non potrà poco, nè molto
A su' modo discorrere la gente?"
Risponne MEO con impeto rivolto:
"Chi dice mal di Roma se ne pente!
Ce so qui sgherri, e ce ne so a bizzeffe,
Che meritano lodi, e no 'ste sbeffe.

So i romaneschi giovani da farlo
Quel che dicono, et io pozzo saperlo
Meglio assai di nisciun, per questo parlo,
C'hanno valor, so dirlo, e mantenerlo.
L'occasione gli manca di mostrarlo,
Ma el modo mai non gli mancò d'haverlo,
E chi dice di no da me si sfida:
Col ferro in man la lite si decida".

Giusto, come succede a un regazzino,
Che sciala assai contento, e a casa porta,
Pe' poi metterlo in gabbia, un cardellino;
Non vede l'hora d'arrivà alla porta,
La mano, in tel bussà, rapre - un tantino,
E l'uccello va via pe' la più corta,
Il putto allora al non penzato affronto,
Guarda, stupisce, e resta come tonto.

Così coloro, quasi interezziti
Restano a 'ste chiassate, e allora in faccia
Se guardano un coll'altro, e sbigottiti
Non san chi sia costui, ch'il bravo spaccia.
In tel vedè, che so' così sbiasciti,
MEO de potenza in mezzo a lor si caccia,
E dice: "Arreto là martufi! arreto!
Tutti ve ciarirò, sangue del deto".

Si stacca allor da quegli un homo sodo
Con gravità appoggiato a un bastoncello,
Tira da parte MEO, ma con bel modo,
Gli dice poi: "Sentite, signor Quello,
È grande il vostro spirito, vi lodo,
Ma in grazia compatiteli, fratello,
Che non hanno giudizio nè creanza,
Meritariano calci nella panza".

"E io glie li darò - MEO gli rispose,
- E glie farò vede, se chi è 'sto fusto,
E se parole dissero ingiuriose,
Voglio ci habbino, voglio, poco gusto.
No, che non pozzo sopporta 'ste cose,
Adesso proprio adesso io te li aggiusto".
Ripiglia il vecchio: "Oh via! fermate, amico,
Date udienza, vi prego, a quel ch'io dico.

Il vostr'onor non c'è, se mi credete,
Che vi sia servitor; questa è gentaglia.
A pigliarcela, assai ci rimettete
Di riputazion co 'sta marmaglia,
Vi farò sodisfar, come volete,
La prudenza alla collera prevaglia:
Fecero error di non parlar a tono,
Ma voglio che vi chiedino perdono".

In sentirzi toccà su 'sto puntiglio,
Stà MEO sopra penzier, ma dice poi:
"Via su, ve fò la grazia, e 'sto consiglio
Piglià imprometto, che me date voi. Per
amor vostro io non farò scompiglio, Ma
prima el patto s'ha da fa' tra noi, Che da
costoro innanzi d'annà via, Calche
sodisfattione me si dia.

Voglio ch'ogn'un di loro si disdica,
D'havè li nostri sgherri sbeffeggiati,
Che quanno disse romaneschi, mica
Intese di' noi altri in Roma nati,
Che de i sgherri parlò, voglio che dica,
Forastieri, e poi qui romanescati,
E che han valore, e san menar le mani,
Quelli che sono in realtà Romani".

Subbito l'homo serio s'intromese
Co' i su' compagni, ch'erano restati,
Perchè pe' non trovarsi alle contese
N'erano via parecchi scivolati,
'Sti scioti, gente son d'altro paese
Pe' lavoranti a Roma capitati,
Hanno calche virtù nel manuale,
Del resto son cocuzze senza sale.

Ubbidiscono i gonzi, e tutti in flotta,
(Qui MEO tra sè di ridere si schiatta),
Si vengono a disdine; ogn'un ciangotta
Meglio che pò, ma poco ce s'adatta.
A beve poi l'invitano alla grotta
Pe' contrasegno della pace fatta:
"No - dice MEO - venì non vi rincresca,
A beve quattro giare d'acqua fresca".

Lo ringraziano i guitti, e la licenza
Chiedono de partì. MEO la concede,
Ma nel cerimonià, nel fa' partenza
La gonzaggine proprio ce se vede:
Gli fanno, ma alla peggio, riverenza,
E de novo el perdono ogn'un gli chiede.
PATACCA allor, che le risate ignotte,
Gli dice sodo sodo. "Bona notte...".

Poi tutto boria se la sbatte via,
Fa' gran prauso a sè stesso, e si rincora;
Gli pare già, che diventato sia
Homo da spaventà li Turchi ancora.
Nell'annà a casa una pizzicarla
Vede raperta, e si ricorda allora,
Che qui pel taffio può sborzà più penne,
Già che de giorno si vergogna a spenne.

Vorria rentrà, quanno però nisciuno
L'osservi, che da sè si crompa el vitto:
Rapre el fanal, se sbornia calcheduno,
Senza fermarsi allor passa e va ritto.
Non vuò proprio non vuò ci sia manc'uno,
Che mò gli veda fà spese da guitto;
Poi torna arreto, e quasi dissi, a volo
Rentra in bottega in tel vede ch'è solo.

Cosi chalch'un che satrapo se spaccia,
Ch'entra vuò in calche casa un pò sospetta,
E par che d'esser visto assai gli spiaccia,
Pe' fa la botta un contratempo aspetta;
Mò a 'na strada, mò a un vicolo s'affaccia,
Passa, ritorna, gira, i passi affretta,
Se nisciuno lo vede, in tun momento
Scivola lesto, e ce s'imbuca drento.

PATACCA, già provista la boccolica,
S'hora è di cena, a casa se n'annette,
E presto in sopra a un piatto de maiolica,
Prisciutto, cascio, e mortatella mette.
Penza al dolor di Nuccia, e assai ce strolica",
Mentre taffia. A sè stesso alfin promette,
D'annaglie a fà nel novo dì la scusa,
E dir che la partenza è già conclusa.

D'esser gli pare in obrigo assai stretto
Per quell'impegno, che in Navona ha preso,
D'annà senza havè dubbio nè rispetto,
A regge in guerra del commanno el peso.
Già risoluto va a colcasse a letto,
E perchè più non ha 'l penzier sospeso,
E contro Amore ha fatto un cor di sasso,
Dormì tutta la notte come un tasso.

Vedeasi già con lucido flagello
Di mattutini albori, al Ciel d'intorno,
Del Sol la messaggiera, il bel drappello
Delle stelle fugar a pro del giorno...
Ma dove, o tò!, dove me va el cervello!
Dove m'alza la Musa! Abbasso io torno,
Pe' non uscì della mi' strada fora,
Liscio liscio vi dico: "Era l'Aurora".

Calfurnia allor, che la vendetta in core
Contro PATACCA, ancor viva teneva,
Hor clamandolo infame, hor traditore
Lo voleva in ruina, lo voleva.
Era poi la su' rabbia e 'l su' rancore
Che quel, che far vorrìa, far non poteva;
Ma se il penzier fisso dell'ira ha 'l ciodo,
Trovato ha già della vendetta il modo.

Sin da quell'hora, ch'era Nuccia uscita
Dalla casa di MEO, si messe in testa,
(Per essere una vecchia assai scaltrita),
Nel vendicarzi aiuto haver da questa.
Già teneva una trappola ammannita,
Ch'a semina garbugli era assai lesta,
Da farce entrane, (e vuò provarci adesso),
E Nuccia e Meo Patacca a un tempo stesso.

Si veste in prescia, perch'a lei mill'anni
Glie pare ogn'hora de vedè tramata
L'infame tela dell'orditi inganni.
Va di Nuccia alla casa, e qui arrivata,
Vede, che stenne su la loggia i panni,
Segno, ch'haveva fatta la bucata.
Glie dice da la strada: "Siete sola?
Signora Nuccia, in grazia una parola".

Lei, che ciamarsi da lontano ascolta,
E non cognosce ancor, che voce è quella,
Subito l'occi inverso giù rivolta,
E vede sguercià in su la ciosparella.
Si ricorda che amica è d'una volta,
E te glie fa la bocca risarella,
Col capo la saluta, e con la mano,
Che salga azzenna, e lei va su pian piano.

 
 
 

Rime del Berni 16-18

Post n°1221 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

16

Capitolo di Papa Adriano

O poveri, infelici cortegiani,
usciti dalle man de' fiorentini
e dati in preda a tedeschi e marrani,
che credete che importin quelli uncini
che porta per insegna questo arlotto,
figliuol d'un cimator de panni lini?
Andate a domandarne un po' Ceccotto,
che fa profession d'imperiale,
e diravvi il misterio che v'è sotto.
Onde diavol cavò questo animale
quella bestiaccia di papa Leone?
Che li mancò da far un cardinale?
E voi, reverendissime persone,
che vi faceste così bello onore,
andate adesso a farvi far ragione;
o Volterra, o Minerva traditore,
o canaglia, diserti, asin, furfanti,
avete voi da farci altro favore?
Se costui non v'impicca tutti quanti
e non vi squarta, vo' ben dir che sia
veramente la schiuma de' pedanti.
Italia poverella, Italia mia,
che ti par di questi almi allievi tuoi
che t'han cacciato un porro dietro via?
Almanco si voltasse costà a voi
e fessevi patir la penitenza
del vostro error. Che colpa n'abbiàn noi,
che ci ha ad esser negata l'audienza
e dato su 'l mostaccio delle porte,
che Cristo non ci arebbe pazienza?
Ecco che personaggi, ecco che corte,
che brigate galanti, cortegiane:
Copis, Vincl, Corizio e Trincaforte!
Nomi da far isbigottir un cane,
da far ispiritar un cimitero,
al suon delle parole orrende e strane.
O pescator deserto di san Piero,
questa è ben quella volta che tu vai
in chiasso et alla stufa daddovero.
Comincia pur avviarti a Tornai
e canta per la strada quel versetto
che dice: "Andai in Fiandra e non tornai".
Oltre, canaglia brutta, oltre al Traghetto!
Ladri cardinalacci schericati,
date loco alla fe' di Macometto,
che vi gastighi de' vostri peccati
e levivi la forma del cappello,
al qual senza ragion foste chiamati.
Oltre, canaglia brutta, oltre al bordello!
Ché Cristo mostrò ben d'avervi a noia,
quando in conclavi vi tolse il cervello.
S'io non dic'or da buon senno, ch'i' moia,
che mi parrebbe far un sacrifizio
ad esser per un tratto vostro boia.
O ignoranti, privi di giudizio,
voi potrete pur darvi almeno il vanto
d'aver messa la chiesa in precipizio.
Basta che gli hanno fatto un papa santo,
che dice ogni mattina la sua messa
e non se 'l tocca mai se non col guanto.
Ma state saldi, non gli fate pressa,
dategli tempo un anno e poi vedrete
che piacerà anco a lui l'àrista lessa.
O Cristo, o santi, sì che voi vedete
dove ci han messi quaranta poltroni,
e state in cielo e sì ve ne ridete!
Che maledette sien quante orazioni
e quante letanie vi fur mai dette
da' frati in quelle tante processioni!
Ecco per quel che stavan le staffette
apparecchiate ad ir annunziare
la venuta di Cristo in Nazarette.
Io per me fui vicino a spiritare
quando sentii gridar quella Tortosa
e volsi cominciar a scongiurare.
Ma il bell'era ad odir un'altra cosa:
e' dubitavan che non accettasse,
come persona troppo scrupulosa;
per questo non volevan levar l'asse
di quel conclavi ladro scelerato,
se forse un'altra volta ei bisognasse.
Dopo che sepper ch'egli ebbe accettato,
incominciorno a dir che non verrìa
et aspettava ogniun d'esser chiamato.
Allora il Cesarin volse andar via
per parer diligente; e menò seco
Serapica in iscambio di Tubbia.
O sciocchi, a Ripa è sì tristo vin greco,
che non avesse dovuto volare,
se fusse stato zoppo, attratto e cieco?
Dubbitavate voi dell'accettare?
Non sapevate voi ch'egli avea letto
che un vescovato è buon desiderare?
Or su, che questo papa benedetto
venne (così non fusse mai venuto,
per far a gli occhi mei questo dispetto):
Roma è rinata, il mondo è riavuto,
la peste spenta, allegri gli uffiziali:
oh, che ventura che noi abbiamo avuto!
Non si dice più mal de' cardinali;
anzi son tutti persone da bene,
tanto franzesi quanto imperiali.
O mente umana, come spesso avviene
che un loda e danna una cosa e la piglia
in pro, in contra, come ben gli viene!
Così adesso non è maraviglia
se la brigata divien inconstante
e mal contenta di costui bisbiglia.
Or credevate voi, gente ignorante,
ch'altrimenti dovesse riuscire
un sciagurato, ipocrito, pedante?
Un nato solamente per far dire
quanto pazzescamente la fortuna
abbia sopra di noi forza et ardire?
Un che, s'avesse in sé bontate alcuna,
doverrebbe squartar chi l'ha condotto
alla sede papal ch'al mondo è una?
Dice 'l suo Teodorico ch'egli è dotto
e ch'egli ha una buona conscienza,
come colui che gliel'ha vista sotto.
L'una e l'altra gli ammetto e credo senza
che giuri; e credo ch'egli abbi ordinato
di non dar via beneficii in credenza:
più presto ne farà miglior mercato
e perderanne inanzi qualche cosa,
pur che denar contanti gli sia dato.
Questo perché la chiesa è bisognosa
e Rodi ha gran mestier d'esser soccorsa
nella fortuna sua pericolosa;
per questo si riempie quella borsa
che gli fu data vota; onde più volte
la man per rabbia si debbe aver morsa.
Ma di cui vi dolete, o genti stolte,
se per difetto de' vostri giudizii
vostre speranze tenete sepolte?
Lasciate andar l'impresa de gli uffizii
et si habetis auro et argento
spendetel tutto quanto in benefizii,
che vi staranno a sessanta per cento;
e non arete più sospizione
ch'e denar vostri se gli porti il vento.
Non dubbitate di messer Simone,
ché maestro Giovan da Macerata
ve ne farà plenaria assoluzione.
A tutte l'altre cose sta serrata
e dicesi: "Videbimus"; a questa
si dà un'audienza troppo grata.
Ogni dimanda è lecita et onesta:
e che sia il ver, benché fusse difeso,
pur al lucchese si tagliò la testa.
Io non so se sia 'l vero quel c'ho inteso,
ch'e' tasta ad un ad un tutti i denari
e guarda se' ducati son di peso;
or quei che non lo sa studii et impari,
ché la regola vera di giustizia
è far che la bilancia stia di pari.
Così si tiene a Roma la dovizia
e fannosi venir l'espedizioni
di Francia, di Polonia e di Gallizia;
queste son l'astinenze e l'orazioni
e le sette virtù cardinalesche
che mette san Gregorio ne' Sermoni.
Dice Franciscus che quelle fantesche
che tien a Belveder servon per mostra,
ma con effetto a lui piaccion le pesche;
e certo la sua cera lo dimostra,
ché gli è pur vecchio et in parte ha provato
la santa cortigiana vita nostra.
Di questo quasi l'ho per iscusato,
ché non è vizio proprio della mente,
ma difetto che gli anni gli han portato;
e credo in conscienza finalmente
che non sarebbe se non buon cristiano,
se non assassinasse sì la gente.
Pur quand'io sento dir oltramontano,
vi fo una chiosa sopra col verzino:
id est nemico al sangue italiano.
O furfante, ubbriaco, contadino,
nato alla stufa, or ecco chi presume
signoreggiar il bel nome latino!
E quando un segue il libero costume
di sfogarsi scrivendo e di cantare,
lo minaccia di far gettar in fiume:
cosa d'andarsi proprio ad annegare,
poi che l'antica libertà natia
per più dispetto non si puote usare.
San Pier, s'i' dico pur qualche pazzia,
qualche parola ch'abbia del bestiale,
fa con Domenedio la scusa mia:
l'usanza mia non fu mai di dir male;
e che sia 'l ver, leggi le cose mie,
leggi l'Anguille, leggi l'Orinale,
le Pesche, i Cardi e l'altre fantasie:
tutte sono inni, laude, salmi et ode;
guàrdati or tu dalle palinodie.
I' ho drento un sdegno che tutto mi rode
e sforza contra l'ordinario mio,
mentre costui di noi trionfa e gode,
a dir di Cristo e di Domenedio.



17

Capitolo d'un ragazzo

I' ho sentito dir che Mecenate
dette un fanciullo a Vergilio Marone,
che per martel voleva farsi frate;
e questo fece per compassione
ch'egli ebbe di quel povero cristiano,
che non si dessi alla disperazione.
Fu atto veramente da romano,
come fu quel di Scipion maggiore,
quand'egli era in Ispagna capitano.
Io non son né poeta né dottore,
ma chi mi dessi a quel modo un fanciullo,
credo ch'io gli daria l'anima e 'l cuore.
Oh state cheti, egli è pur un trastullo
aver un garzonetto che sia bello,
da insegnarli dottrina e da condullo!
Io per me credo ch'i' fare' il bordello
e ch'io gl'insegnarei ciò ch'io sapessi,
s'egli avesse niente di cervello.
E così ancora, quand'io m'avvedessi
che mi facessi rinegare Iddio,
non è dispetto ch'io non gli facessi.
Oh Dio, s'io n'avesse un che vo' dir io,
poss'io morir come uno sciagurato,
s'io non gli dividesse mezzo il mio;
ma io ho a far con un certo ostinato,
o, per dir meglio, con quelli ostinati
c'han tolto a farmi viver disperato.
Per Dio, noi altri siam pur sgraziati,
nati ad un tempo dove non si trova
di questi così fatti Mecenati.
Sarà ben un che farà una pruova
di dar via una somma di denari;
da quello in su non è uom che si muova.
Or che diavol ha a far qui un mio pari?
Hass'egli a disperar o a gittar via,
se non v'è Mecenati o Tucchi o Vari?
Sia maladetto la disgrazia mia,
poi ch'io non nacqui a quel buon secol d'oro,
quando non era ancor la carestia!
Sappi, che diavol sarebbe a costoro
d'accomodar un pover uom da bene
e di far un bel tratto in vita loro?
Ma so ben io donde la cosa viene:
perché la gente se lo trova sano,
ogniun va drieto al caldo delle rene
et ogniun cerca di tenere in mano;
così avviene; e chi non ha, suo danno:
non val né santo Anton né san Bastiano.
Cristo, cavami tu di questo affanno;
o tu m'insegna com'io abbi a fare
aver la mala pasqua col mal anno;
e s'egli è dato ch'io abbi a stentare,
fa' almen che qualch'un altro stenti meco,
acciò ch'io non sia solo a ruinare.
Cupìdo traditor, bastardo, cieco,
che sei cagion di tutto questo male,
riniego Iddio s'io non m'amazzo teco,
quando non era ancor la carestia!
Sappi, che diavol sarebbe a costoro
d'accomodar un pover uom da bene
e di far un bel tratto in vita loro?
Ma so ben io donde la cosa viene:
perché la gente se lo trova sano,
ogniun va drieto al caldo delle rene
et ogniun cerca di tenere in mano;
così avviene; e chi non ha, suo danno:
non val né santo Anton né san Bastiano.
Cristo, cavami tu di questo affanno;
o tu m'insegna com'io abbi a fare
aver la mala pasqua col mal anno;
e s'egli è dato ch'io abbi a stentare,
fa' almen che qualch'un altro stenti meco,
acciò ch'io non sia solo a ruinare.
Cupìdo traditor, bastardo, cieco,
che sei cagion di tutto questo male,
riniego Iddio s'io non m'amazzo teco,
poi che il gridar con altri non mi vale.



18

Sonetto del bacciliero

Piangete, destri, il caso orrendo e fiero,
piangete, cantarelli, e voi, pitali,
né tenghin gli occhi asciutti gli orinali,
ché rotto è 'l pentolin del bacciliero.

Quanto dimostra apertamente il vero
di giorno in giorno a gli occhi de' mortali
che por nostra speranza in cose frali
troppo n'asconde el diritto sentiero!

Ecco, chi vide mai tal pentolino?
Destro, galante, leggiadretto e snello:
natura il sa, che n'ha perduta l'arte;

sallo la sera ancor, sallo il mattino,
che 'l vedevon tal or portar in parte
ove usa ogni famoso cantarello.

 
 
 

Il Meo Patacca 03-1

Post n°1220 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO TERZO

ARGOMENTO

Spasseggianno PATACCA pe' Navona
Turbato sta, che lo tormenta amore;
Sente discurre della su' perzona,
Attacca bugila, e n'esce con onore.
Calfurnia poi, ch'a lui non la perdona,
E il fatto affronto tiè covato in core,
Fa crede a Nuccia, ch'ha di lei sparlato;
Dice, ch'alia vendetta ha già penzato.


Stava el Sole, per essere già sera,
Facenno un capitommolo nel mare;
Stracco della su' lucida carriera
Va in quel liquido letto a riposare;
L'aria incominza a sta de mala cera
Se la luce e il calor glie vie a mancare,
E diventata poi pallida e brutta,
Pe' non farzi vede, s'oscura tutta.

Già Nuccia in casa sua s'era imbucata,
Ch'in tell'annacce, gnente s'intrattenne;
Quanno ch'uscì da MEO, l'hebbe osservata
Calfurnia, e de ciamalla umor glie venne.
Ma in vedella trotta così affannata,
E ancor per esser tardi se n'astenne,
Bensì allor a costei va pe' la mente,
D'annà a trovalla a casa il dì seguente.

PATACCA in questo mentre si straluna
Nel ripenzà di Nuccia bella a i sciatti:
Poi vede che non c'è raggion nisciuna,
Che lassi pe' costei l'impegni fatti.
Si da mezzo stordito alla Fortuna,
Che quel Frasca d'Amor così lo tratti.
Mentre penzoso sta, nè trova loco,
Vuò uscì de casa pe' svariasse un poco.

Perchè di bruno mai senza el fanale "
Non ce marcia suisci, e senza el ferro,
Per esser questo el più gran capitale,
Che pozza havè chi vuò tira de sgherro,
Mette la cinquadea sotto al bracciale,
Poi la lanterna alluma, et io non erro,
In dirvi che di cera non fa sprego,
Se spesso addropa "i moccoli di sego.

Se n'esce a piglià fresco a passo lento;
Di tanto in tanto el caminà sospenne;
Par che l'ardore del suo ardir sia spento,
E timiglioso lui sè stesso renne.
L'amor di Nuccia, ora lo fa scontento,
Ora di bilia contro lei s'accenne;
Mentr'è il penzier di quà e di là sbattuto,
Più si mostra confuso e irresoluto.

C'è tal volta chalchun, ch'alia bassetta
Giocò su la parola in t'un ridotto,
E perze assai, perch'hebbe gran disdetta,
Se sempre el punto suo gli venì sotto.
Sa, che chi vinze le monete aspetta
Pel dì che viene, a casa cotto cotto
Se ne torna, facenno el su' disegno,
Se in prestito le piglia, o se fa' un pegno.

Simile a lui PATACCA va penzanno,
E nel pensier non si risolve ancora,
S'ha da restà, i consigli seguitanno
Di Nuccia, che non vuò che vada fora,
O s'ha da dare a 'st'amoretti el banno,
Pe' fa' vede' che solo s'innamora
Di quella Grolia, che ne fa l'acquisto
Chi va alla guerra, e da a' nemici il pisto.

Così sopra pensier, con passo tale,
Qual fa una donna gravida pedona,
Arriva al foro MEO, detto Agonale,
Che ciamano i plebei piazza Navona.
Qui la state, c'è un fresco badiale,
Ce se ricrea de notte la perzona:
È così bella che me so già accorto,
Che se non la descrivo, io glie fò torto.

Questa è una piazza, che fra l'altre tutte
Giusto una dama par tra le petine;
A piglialla con lei ce restan brutte
L'altre piazze vistose e pellegrine.
Son alfin queste a confessà ridutte,
Che son di quella al paragon meschine:
Se in tutta Roma, poi, ce n'è chalchuna,
Più sfarzosa di lei, sarà sol una.

Di questa pe' rispetto io non ne parlo,
Che la mente in penzacce se confonne;
Il loco in dove sta, pozzo accennarlo,
Ch'è in fin dei Borghi, e questo sol dironne,
Che teatro da sempre mentovarlo
Glie fanno centinara di colonne.
Ma ritorno a Navona, che di questa,
Non d'altra ho da cantà, quello che resta.

È longa giusto passi quattrocento
Di quelli ch'uno fa quanno scarpina,
Com'è il solito suo, ma larga è cento,
E solo ce ne manca una dozzina.
Glie fanno in più d'un loco adornamento
Fabriche di bellezza soprafina.
Oltre a queste, ce stanno intorno spase,
Tutte a un paro però, botteghe, e case.

C'è una fontana in cima, e un'altra in fonno
Che a dir la verità senza sfavate,
Sin da coloro, che han girato el monno,
Vengono con ragion magnificate;
Son le vasche maiuscole, ma tonno
Non hanno el giro, perchè son'ovate,
E sopra l'orlo poi, di tratto in tratto,
Ce s'alluma un cantone assai ben fatto.

Tutte due somiglianti hanno i Vasconi
Di marmoro, ma c'è 'sta differenza:
Quella de sotto ha quattro Mascheroni,
Che fan su l'orlo gran compariscenza;
Altri e tanti ridicoli Tritoni
Ci son più arreto, con tal avvertenza
Messi, che tutti sparpagliati stanno,
E un concerto bellissimo pur fanno.

In mezzo della vasca, ritta ritta
Ce sta una statua sopra un travertino;
Par che figuri una perzona guitta,
Perchè giusto el su' grugno è di burrino,
Verzo el fianco sinistro la man dritta
Con la manca, la coda ad un Delfino
Tiè con gran forza, e par ch'habbia el tavano
Paura che gli scivoli di mano.

Poi tra le gamme di quest'hom di sasso,
Dereto attorcinatosi el gran pesce,
Cava fora la testa, e con fragasso
Un capo d'acqua dalla bocca gli esce;
Con quella poi, che for dell'orlo abbasso
Buttano i Mascheroni, non si mesce,
Et ecco, qual de 'sta fontana è l'opra,
Ma liscia liscia è poi quella di sopra.

E pur son tutte due scialose e belle,
Ma poi manco pe' sogno, hanno che fàne
Con la fontana, che pe' dritto a quelle
In mezzo della piazza vien a stane.
La fà parè fontane ciumachelle
Chi a quest'altra le vuò rassomigliàne,
Benchè chi de scoltura se rintenne,
Le metta in tra le cose più stupenne.

Ha la gran vasca un giro, ch'è perfetto,
De fora attorno, poi, mattoni in costa
Formano una platea larga un pochetto
Con tantin di pendiva fatta a posta:
Se mai l'acqua rescisse dal su' letto,
Scola subbito via giù pe' 'sta costa;
Basse colonne stanno attorno, e c'è
Tra l'una e l'altra un ferro da sedè.

Di pietre appiccicate una gran massa
Forma quasi uno scoglio, et aperture,
Ch'una di qua, l'altra di là trapassa,
Ci son di sotto, e in alto più sfissure.
Su certi sassi, in dove l'acqua passa,
Nascettero insinenta le verdure;
L'occhio se gabba, e lo faria el penziero,
Ma questo sa che non è scoglio vero.

Par che voglia slamà, 'sta gran montagna,
Che sia stupor, che già non si sfragassi,
Che ce se veda più d'una magagna,
E ch'assai crepature habbiano i sassi.
Se chalche forastier pappallasagna
Capita qui, ferma intontito i passi,
E tra sè dice: "Pah! che bella cosa!
Ma troppo è de cascà pericolosa".

Così i scioti, ch'intennere non sanno
L'astuzie de 'sta bella architettura,
Guardan lo scoglio, e maraviglie fanno,
E quasi che tracolli, hanno paura.
Tanto ciarvello de capì non hanno,
Che spesso l'arte scontrafà natura,
Come succede a questo gran disegno:
Pare il caso architetto, e fu l'ingegno.

Ce so' poi sopra quattro cantonate,
Et altrettante statue, una pe' parte;
Ce stanno iofamente qui assettate,
Se i posti da sedè glie fece l'arte.
Questi so' fiumi con le foggie usate,
Assai famosi in tell'antiche carte:
Nilo, Gange, Danubio, e c'è di più,
Detto rio della Piatta, il gran Pegù.

Estatico un di loro si strabilia,
E un altro iscontro a lui pe' meraviglia,
Reggenno con la man l'arme PANFILIA,
Arme d'eccellentissima famiglia:
A questa già la Musa mia s'umilia,
E lei puro inarcanno va le ciglia,
Et a raggion di venerà glie tocca
La gran Colomba c'ha l'olivo in bocca.

Pensà noi altri tutti doveressimo,
Che della sorte pe' favor grannissimo,
In drento a questa alma città nascessimo,
Ch'a 'sta gran Casa è ogn'un obligatissimo:
'Sta bella vista a fè non goderessimo,
Se il bel penziero, e il genio nobilissimo
Stato non fusse, che noi già ammirassimo
Di quel signor, che fu tre volte Massimo.

Ma fratanto a chiarirzi io ciamo i secoli,
E qui si, che c'invito i bell'ingegni,
Ogn'un di questi, quanto po' ce specoli,
Dica, se vede mai sì bei disegni:
Chi ha comprendoria, bigna che strasecoli,
E passi ancor di maraviglia i segni,
Perchè stupir fa' lo stupore istesso
La machina, ch'a voi descrivo adesso.

Benchè sotto 'sto scoglio sia scavato,
E che non para a sostenè bastante
Un peso, ancor che fusse moderato,
S'ha cera d'anticaglia già cascante;
Pur ci sta sopra un obelisco alzato,
Che ciama guglia el popolo ignorante:
Alto, grosso, e sta saldo, e ci vuò stàne,
Ch'a ogn'altra cosa penza, ch'a cascàne.

Questo è quel, ch'i due fiumi, come tonti
Guardano in su voltati, e stanno in atto,
Con mani alzate, et increspate fronti
Di chi vede stupori, e resta astratto.
Da i quattro seditori escono fonti,
E ancor dalle sfissure, et in un tratto,
Mentre ch'in larghe striscie in furia casca
L'acqua di qua e di là, s'impe la vasca.

Come fa in tel pantano un'anatrozza,
Così appunto un Delfin quì a noto sguazza,
E un'altro pesce, e ogn'un di loro ingozza
L'acqua, che spasa è già nella gran tazza;
Questa resce de sotto, e poi l'impozza
La ciavica, ch'in mezzo è della piazza.
Un cavallo sguazzà puro s'allampa,
Ch'alta denanzi ha l'una e l'altra zampa.

Da cupa tana, ch'è pur quìi sculpita
Assetato Lion se n'esce in fora,
Sta in sopra a i sassi, e regge lì la vita,
Piega le spalle, e abbassa il collo ancora.
L'arida lingua dalle fauci uscita
Al pian dell'acqua non arriva, e allora
Si slonga quanto po', non quanto deve,
Tocca e non tocca, e lui beve e non beve.

Un arboro di palme sta appoggiato
Allo scoglio, e in tel tronco è brozzoloso;
C'è un coccodrillo poi, mezzo arrizzato,
E dereto a un canton quasi nascosto.
Et ecco, che già tutto v'ho mostrato,
Sol resta a dirvi, che fu autor famoso
Di quest'opera granne, (et io m'inchino
Alle sue grolie), il Cavalier BERNINO.

Quest'è il loco, pe' dove ce spasseggia
Chi vuò godè un po' d'aria inzeffirita;
Più d'ogn'altra 'sta piazza si corteggia,
Quanno la staggion calla è inferocita.
Hor dunque Meo, ch'ai par dell'acqua ondeggia
Con la su' mente incerta e impenzierita,
Gira qui attorno si, ma più che mai,
Senza riposo havè, si trova in guai.

Così tra sè poi sotto voce parla:
"Non me credevo Amor! non me credevo,
Che pretendessi ad un par mio sonarla:
A Nuccia un pò di bene glie volevo,
Ma che m'havesse da bruscià il lassarla
Non lo sapevo a fe', non lo sapevo;
Che s'a 'sto brusciacore io ce pensavo,
Priopio con lei, non favo amor, non favo.

 
 
 

Rime del Berni 12-15

Post n°1219 pubblicato il 19 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

12

Capitolo della gelatina

E' non è mai né sera né mattina,
né mezzo dì né notte ch'io non pensi
a dir le laudi della gelatina,
e mettervi entro tutti quanti e sensi
e' nervi e le budella e 'l naturale
per iscoprir li suoi misteri immensi.
Ma veggo che l'ingegno non mi vale,
ché la natura sua miracolosa
è più profonda assai che l'orinale.
Pur, perché nulla fa quel che nulla osa,
s'io dovessi crepare, io son disposto
di dirne ad ogni modo qualche cosa;
e s'io non potrò gir così accosto,
né entrar ne' suoi onor affatto drento,
farò il me' che potrò così discosto.
La gelatina è un quinto elemento
e guai a noi se la non fusse l'anno
di verno quando piove e tira il vento,
ché la val più d'una veste di panno
e presso ch'io non dissi anche del foco,
che tal volta ci fa più tosto danno.
Io non la so già far, che non son cuoco,
e non mi curo di saper; ma basta
ch'ancor io me ne intendo qualche poco.
E s'io volessi metter mano in pasta,
farei forse vedere alla brigata
che ci è chi acconcia l'arte e chi la guasta.
La gelatina scusa l'insalata
e serve per finocchio e per formaggio
da poi che la vivanda è sparecchiata.
Et io che ci ho trovato un avantaggio,
quando m'è messa gelatina inanzi,
vo pur di lungo e mio danno s'i' caggio;
e non pensi nessun che me ne avanzi,
ché s'io ne dessi un boccone a persona,
ti so dir ch'io farei di belli avanzi.
Chi vuole aver la gelatina buona
ingegnisi di darli buon colore;
quest'è quel che ne porta la corona:
dice un certo filosofo dottore
che se la gelatina è colorita,
è forza ch'ella n'abbia il buon sapore.
Consiste in essa una virtude unita
della forza del pepe e dell'aceto,
che fa che l'uom se ne lecca le dita.
Io vi voglio insegnare un mio secreto,
che non mi curo ch'ei mi reste a dosso:
io per me la vorrei sempre dirieto.
Un altro ne vo' dire a chi è grosso:
la gelatina vuol esser ben spessa
e la sua carne vuol esser senza osso,
ché qualche volta, per la troppa pressa
che l'uomo ha di ficcarvi dentro i denti,
un sen trae, poi dà la colpa ad essa.
O gelatina, cibo delle genti
che sono amiche della discrezione,
sien benedetti tutti i tuoi parenti,
come dir gelatina di cappone,
di starna, di fagiano e di buon pesce
e di mille altre cose che son buone!
Io non ti potrei dir come m'incresce
ch'io non posso dipingerti a pennello
né dir quel che per te di sotto m'esce.
Pur vo fantasticando col cervello
che diavol voglia dir quel poco alloro,
che ti si mette in cima del piattello;
e trovo finalmente che costoro
vanno alterando le sentenzie sue,
tal che non è da creder punto loro.
Ond'io, ch'intendo ben le cose tue,
come colui che l'ho pur troppo a core,
al fin concludo l'una delle due,
che tu sei o poeta o imperatore.



13

Capitolo dell'ago

Tra tutte le scienze e tutte l'arti,
dico scienze et arti manuali,
ha gran perfezion quella de' sarti;
perché a chi ben la guarda senza occhiali,
ell'è sol quella che ci fa diversi
e differenti da gli altri animali,
come i frati da messa da i conversi.
Per lei noi ci mettiam sopra la pelle
verdi panni, sanguigni, oscuri e persi,
e facciam cappe, mantelli e gonnelle
e più maniere d'abiti e di veste
che non ha rena il mar né il cielo stelle,
e mutiànci a vicenda or quelle or queste,
come anche a noi si mutan le stagioni
e i dì son di lavoro o dì di feste.
Ci mangiarebbon la state i mosconi
e le vespe e i tafan, se non fuss'ella;
di verno aremo sempre i pedignoni.
Essendo adunque l'arte buona e bella,
convien che gl'instrumenti ch'ella adopra
delle sue qualità prendin da quella;
e perché fra lor tutti sotto sopra
quel ch'ella ha sempre in man par che sia l'ago,
di lui ragionarà tutta quest'opra.
Di lui stato son io sempre sì vago
e sì m'è ito per la fantasia,
che sol del ricordarmene m'appago.
Dissi già in una certa opera mia
che le figure che son lunghe e tonde
governan tutta la geometria.
Chi vòl sapere il come, il quando e il donde,
vada a legger l'istoria dell'Anguille,
ché quivi a chi domanda si risponde.
Queste due qualità fra l'altre mille
nell'ago son così perfettamente,
che sarebbe perduto il tempo a dille.
....................................
Questa dell'ago è sua peggior fortuna:
si posson tòr tutte l'altre in motteggio,
a questo mal non è speranza alcuna.
Le donne dicon ben c'hanno per peggio
quando si torce nel mezzo o si piega;
ma io quella con questa non pareggio,
perché quando egli è guasta la bottega,
rotta la toppa e spezzati i serrami,
si può dire al maestro: "Vatti annega".
Sono alcuni aghi c'hanno due forami,
et io n'ho visti in molti luoghi assai,
e servon tutti quanti per farne ami.
Non gli opran né i bastier né i calzolai,
né simili altri, perché e' son sottili
quanto può l'ago assottigliarsi mai;
son cose da man bianche e da gentili,
però le donne se gli hanno usurpati,
né voglion ch'altri mai che lor gl'infili.
E non gli tengon punto scioperati,
anzi la notte e 'l dì sempre mai pieni,
e fan con essi lavori sfoggiati:
sopra quei lor telai fitte co i seni
sopra quei lor cuccin tutt'el dì stanno,
ch'io non so com'ell'han la sera reni.
Quando l'ago si spunta, è grande affanno;
pur perché al male è qualche medicina
si ricompensa in qualche parte il danno:
tanto sopra una pietra si strofina
e tanto si rimena inanzi e 'n dreto,
ch'aconciarne qualch'un pur s'indovina.
Quando si torce ha ben dell'indiscreto;
e se poi ch'egli è torto un lo dirizza,
vorrei che m'insegnasse quel secreto.
Questo alle donne fa venire stizza;
e ciò intervien perch'egli è un ferraccio
vecchio d'una miniera marcia e vizza.
Però quei da Damasco han grande spaccio
in ciascun luoco e quei da San Germano:
il resto si può dir carta di straccio.
Questi tai non si piegano altrui in mano,
temperati alla grotta di Vulcano.
.......................................
Chi la vista non ha sottile e pronta
questo mestier non faccia mai la sera,
ch'a manco delle quattro ella gli monta,
ché spesso avvien che v'entra dentro cera
o terra o simil altra sporcheria,
che inanzi ch'ella n'esca un si dispera.
.......................................
E così l'ago fa le sue vendette:
s'altri lo infilza et egli infilza altrui
e rende ad altri quel ch'altri gli dette.
.......................................
Opra è d'amor tener le cose unite:
questo fa l'ago più perfettamente,
che per unirle ben le tien cucite.
.......................................
Caminando tal volta pel podere,
entra uno stecco al villano nel piede,
che le stelle di dì gli fa vedere;
ond'ei si ferma e ponsi in terra e siede,
e poi che in su 'l ginocchio il pie' s'ha posto,
cerca coll'ago ove la piaga vede;
e tanto guarda or d'appresso or discosto,
ch'al fin lo cava, e s'egli indugia un pezzo,
pare aver fatto a lui pur troppo tosto.
Infilzasi coll'ago qualche vezzo...
......................................
Godete con amor, felici amanti;
state dell'ago voi, sarti, contenti;
ché, per dargli gli estremi ultimi vanti,
è l'instrumento de gli altri instrumenti.



14

Capitolo della primiera

Tutta l'età d'un uomo intera intera,
se la fusse ben quella di Titone,
non basterebbe a dir della primiera;
non ne direbbe affatto Cicerone,
né colui ch'ebbe, come dice Omero,
voce per ben nove millia persone:
un che volesse dirne daddovero,
bisognere' ch'avesse più cervello
che chi trovò gli scacchi e 'l tavoliero.
La primiera è un gioco tanto bello
e tanto travagliato, tanto vario,
che l'età nostra non basta a sapello;
non lo ritroverebbe il calendario
né 'l messal ch'è sì lungo, né la messa,
né tutto quanto insieme il breviario.
Dica le lode sue dunque ella stessa,
però ch'un ignorante nostro pari
oggi fa ben assai se vi s'appressa;
e chi non ne sa altro, almanco impari
che colui ha la via vera e perfetta
che gioca a questo gioco i suoi danari.
Chi dice egli è più bella la bassetta
per esser presto e spacciativo gioco,
fa un gran male a giocar se gli ha fretta.
Questa fa le sue cose a poco a poco;
quell'altra, perché ell'è troppo bestiale,
pone ad un tratto troppo carne a foco,
come fanno color c'han poco sale
e que' che son disperati e falliti
e fanno conto di capitar male.
Nella primiera è mille buon partiti,
mille speranze da tenere a bada,
come dire "carte a monte" e "carte e 'nviti",
"chi l'ha" e "chi non l'ha", "vada" e "non vada",
star a flusso, a primiera e dire: "A voi",
e non venir al primo a mezza spada:
ché, se tu vòi tener l'invito, puoi;
se tu no 'l vuoi tener, lasciarlo andare,
metter forte e pian pian, come tu vuoi;
puoi far con un compagno anche a salvare,
se tu avessi paura del resto,
et a tua posta fuggire e cacciare.
Puossi far a primiera in quinto e 'n sesto,
che non avvien così ne gli altri giochi,
che son tutte novelle a petto a questo;
anzi son proprio cose da dapochi,
uomini da niente, uomini sciocchi,
come dir messi e birri et osti e cuochi.
S'io perdessi a primiera il sangue e gli occhi
non me ne curo; dove a sbaraglino
rinnego Dio s'io perdo tre baiocchi.
Non è uom sì fallito e sì meschino,
che s'egli ha voglia di fare a primiera,
non truovi d'accattar sempre un fiorino.
Ha la primiera sì allegra cera
che la si fa per forza ben volere
per la sua grazia e per la sua maniera.
Et io per me non truovo altro piacere
che, quando non ho il modo da giocare,
star dirieto ad un altro per vedere;
e stare'vi tre dì senza mangiare,
dico bene a disagio, ritto ritto,
come s'io non avessi altro che fare;
e per suo amore andrei fin in Egitto
et anche credo ch'io combatterei,
defendendola a torto et a diritto.
Ma s'io facessi e dicessi per lei
tutto quel ch'io potessi fare e dire,
non arei fatto quel ch'io doverei;
però, s'a questo non si può venire,
io per me non vo' innanzi per sì poco
durar fatica per impoverire:
basta che la primiera è un bel gioco.



15

Sonetto contra la primiera

Può far la Nostra Donna ch'ogni sera
i' abbia a star a mio marcio dispetto
in fin all'undeci ore andarne al letto,
a petizion de chi gioca a primiera?

Dirà forse qualch'un: "Ei si dispera,
et a' maggior di sé non ha rispetto".
Potta di Jesu Cristo (io l'ho pur detto!),
hassi a giocar la notte intera intera?

Viemmene questo per la mia fatica
ch'io ho durato a dir de' fatti tuoi,
che tu mi se', Primiera, sì nemica?

Ben che bisognaria voltarsi a voi,
signor; che se volete pur ch'io 'l dica,
volete poco ben a voi et a noi.

Et inanzi cena e poi
giocate e giorno e notte tuttavia,
senza sapere che restar si sia.

Questa è la pena mia:
ch'io veggio e sento, e non posso far io;
e non volete ch'i' rineghi Dio?

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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