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Messaggi del 20/02/2015

Rime del Berni 27-34

Post n°1227 pubblicato il 20 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

27

Prefazione al commento del capitolo della primiera

Vo' avete a saper, buone persone,
che costui c'ha composto questa cosa
non è persona punto ambiziosa
et ha dirieto la riputazione:
l'aveva fatta a sua satisfazione,
non come questi autor di versi e prosa,
che, per far la memoria lor famosa,
voglion andar in stampa a procissione.
Ma perché ogniun gli rompeva la testa,
ogniun la domandava e la voleva
et a lui non piaceva questa festa,
veniva questo e quello e gli diceva:
"O tu mi da' quel libro, o tu me 'l presta",
e se gliel dava, mai non lo rendeva,
ond'ei che s'avedeva
ch'al fin n'arebbe fatti pochi avanzi,
deliberò levarsi ogniun dinanzi;
e venutogli innanzi
un che di stampar opere lavora,
disse: "Stampatemi questo in mal'ora".
Così l'ha dato fuora,
e voi che n'avevate tanta frega
andatevi per esso alla bottega.



28

Contro l'essergli dati a forza versi e carmi

Eran già i versi a i poeti rubati
come or si ruban le cose tra noi,
onde Vergilio, per salvar i suoi,
compose quei dua distichi abbozzati.
A me quei d'altri son per forza dati,
e dicon: "Tu gli arai, vuoi o non vuoi";
sì che, poeti, io son da più che voi,
dappoi che io son vestito e voi spogliati.
Ma voi di versi restavate ignudi,
poi quegli Augusti e Mecenati e Vari
vi facevan le tonache di scudi.
A me son date frasche, a voi danari;
voi studiate, et io pago li studii
e fo che un altro alle mie spese impari.
Non son di questi avari
di nome né di gloria di poeta:
vorrei più presto aver oro o moneta;
e la gente faceta
mi vuol pur impiastrar di versi e carmi,
come se io fusse di razza di marmi.
Non posso ripararmi:
come si vede fuor qualche sonetto,
il Berni l'ha composto a suo dispetto;
e fanvi su un sguazzetto
di chiose e sensi, che rineghi il cielo
se Luter fa più stracci del vangelo.
Io non ebbi mai pelo
che pur pensasse a ciò, non che 'l facessi;
e pur lo feci, ancor che non volessi.
In Ovidio non lessi
mai che gli uomini avessen tanto ardire
di mutarsi in cornette, in pive, in lire,
e fussin fatti dire
ad uso di trombetta veniziano,
che ha dietro un che gli legge il bando piano.
Aspetto a mano a mano
che, perch'io dica a suo modo, il comune
mi pigli e leghi e dìame della fune.



29

Sonetto di Papa Chimente

Può far il ciel però, papa Chimenti,
ciò è papa castron, papa balordo,
che tu sie diventato cieco e sordo
et abbi persi tutti i sentimenti?

Non vedi tu, non odi o non senti
che costor voglion teco far l'accordo
per ischiacciarte il capo come al tordo
co i lor prefati antichi trattamenti?

Egli è universale oppenione
che sotto queste carezze et amori
ei ti daran la pace di Marcone.

Ma so ben io, gli Iacopi e' Vettori,
Filippo, Baccio, Zanobi e Simone,
e' compagni di corte e cimatori,

vogliono e lor lavori
poter mandare alle fiere e a' mercati
e non fanno per lor questi soldati.

Voi, domini imbarcati,
Renzo, Andrea d'Oria e Conte di Gaiazzo,
vi menarete tutti quanti il cazzo;

il papa andrà a solazzo
il sabbato alla vigna o a Belvedere
e sguazzarà che sarà un piacere.

Voi starete a vedere:
che è e che non è, una mattina
ci sarà fatto a tutti una schiavina.



30

Al sonetto del Bembo [...] contraffà la parodia

Né navi né cavalli o schiere armate,
che si son mosse così giustamente,
posson ancor la misera e dolente
Italia e Roma porre in libertate.

S'è speso tanto ch'è una pietate,
e spenderassi e spendesi sovente:
mi par ch'abbiamo un desiderio ardente
di parer pazzi alla futura etate.

Onde al vulgo ancor io m'ascondo e celo;
non leggo e scrivo sempre e 'n mal soggiorno
perdendo l'ore, spendo e non guadagno.

Cosa grata non ho dentro o d'intorno,
testimon m'è colui che regge il cielo;
di me sol, non d'altrui mi dolgo e lagno.



31

Sonetto alla sua donna

Chiome d'argento fino, irte e attorte
senz'arte intorno ad un bel viso d'oro;
fronte crespa, u' mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amor e Morte;

occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obietto diseguale a loro;
ciglie di neve e quelle, ond'io m'accoro,
dita e man dolcemente grosse e corte;

labra di latte, bocca ampia celeste;
denti d'ebeno rari e pellegrini;
inaudita ineffabile armonia;

costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d'Amor, palese fo che queste
son le bellezze della donna mia.



32

Contra Pietro Aretino

Tu ne dirai e farai tante e tante,
lingua fracida, marcia, senza sale,
che al fin si troverà pur un pugnale
meglior di quel d'Achille e più calzante.

Il papa è papa e tu sei un furfante,
nodrito del pan d'altri e del dir male;
hai un pie' in bordello e l'altro in ospitale,
storpiataccio, ignorante e arrogante.

Giovan Mateo e gli altri che gli ha appresso,
che per grazia de Dio son vivi e sani,
ti metteran ancor un dì in un cesso.

Boia, scorgi i costumi tuoi ruffiani
e se pur vòi cianciar, di' di te stesso:
guàrdati il petto, la testa e le mani.

Ma tu fai come i cani,
che, dà pur lor mazzate se tu sai,
come l'han scosse, son più bei che mai.

Vergognati oramai,
prosontuoso, porco, mostro infame,
idol del vituperio e della fame,

ché un monte di letame
t'aspetta, manegoldo, sprimacciato,
perché tu moia a tue sorelle allato;

quelle due, sciagurato,
c'hai nel bordel d'Arezzo a grand'onore,
a gambettar: "Che fa lo mio amore?"

Di quelle, traditore,
dovevi far le frottole e novelle
e non del Sanga che non ha sorelle.

Queste saranno quelle
che mal vivendo ti faran le spese,
e 'l lor, non quel di Mantova, marchese;

ch'ormai ogni paese
hai amorbato, ogni omo, ogni animale:
il ciel, Iddio, il diavol ti vol male.

Quelle veste ducale,
o ducali, acattate e furfantate,
che ti piangon in dosso sventurate,

a suon di bastonate
ti seran tolte, avanti che tu moia,
dal reverendo padre messer boia;

che l'anima di noia
mediante un bel capestro caveratti
e per maggior favor poi squarteratti;

e quei tuoi leccapiatti
bardassonacci, paggi da taverna,
ti canteran il requiem eterna.

Or vivi e ti governa;
ben che un pugnale, un cesso, o ver un nodo
ti faranno star queto in ogni modo.



33

Sonetto al Signor D'Armini

Empio signor, che della robba altrui
lieto ti vai godendo e del sudore,
venir ti possa un cancaro nel cuore,
che ti porti di peso a i regni bui.

E venir possa un cancaro a colui
che di quella città ti fé signore;
e se gli è altri che ti dia favore,
possa venir un cancaro anche a lui.

Ch'io ho voglia de dir, se fusse Cristo
che consentisse a tanta villania,
non potrebb'esser che non fusse un tristo.

Or tiènla, col malan che Dio te dia,
quella e ciò che tu hai di mal acquisto,
che un dì mi renderai la robba mia.



34

Sonetto in descrizion d'una badia

Signor, io ho trovato una badia,
che par la dea della destruzione:
templum pacis o quel di Salomone
a petto a lei par una signoria.

Per mezzo della chiesa e' v'è una via,
dove ne van le bestie e le persone;
le navi urtano in scoglio e il galeone
si consuma per far lor compagnia.

Dove non va la strada son certi orti
d'ortica e d'una malva singulare
che son buon a tener lubrichi e morti.

Chi volesse de calici parlare
o de croci, averebbe mille torti:
non che tovaglie, non vi è pur altare.

Il campanil mi pare
un pezzo di fragmento d'acquedotto,
sdruscito, fesso, scassinato e rotto.

Le campane son sotto
un tettuccio, apiccate per la gola,
che mai non s'odon dir una parola.

La casa è una scuola
da scrima perfettissima e da ballo,
che mai non vi si mette piede in fallo;

netta come un cristallo,
leggiadra, scarca, snella e pellegrina,
che par che l'abbi preso medicina.

Ogni stanza è cantina,
camera, sala, tinello e spedale;
ma sopra tutto stalla naturale.

E` donna universale
et ha la robba sua pro indivisa,
allegra, che la crepa delle risa:

in somma è fatta in guisa
che tanto è star di dentro quanto fuori.
Ahi, preti scelerati e traditori!

 
 
 

Lodovico della Vernaccia

Post n°1226 pubblicato il 20 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Nacque Lodovico in Firenze da un cotal Pasquino, e fiorì circa il 1300. Fu uomo nei maneggio delle cose civili e politiche assai riputato: e fu pure un de' primi, che cominciarono a porre in uso i versi volgari. Qui diamo il sonetto pubblicato dal Crescimbeni ne' suoi Commentarii, osservando col Crescimbeni medesimo e col Quadrio, che altre cose di lui si conservavano manoscritte presso Pier Girolamo Vernaccia di quella famiglia, che da Firenze fu trasportata nel Castello di Apecchio e poscia in Urbino.

F. Z.

Se'l subbietto preclaro, o Cittadini,
Dell' atto nostro ambizioso e onesto
Volete immaginar, chiosando il testo.
Non vi parrà che noi siamo fantini?

S'alli nostri accidenti ed intestini
Casi ripenserete, con modesto
Aspetto inchinerete il cor molesto ;
Fien radicati al cor in duri spini.

Quando ragion corregge li difetti
Del diverso inimico; e lor conturba
Non della spada il trionfar posarse.

Ma imbratta (1) con forza e' (2) sensi eretti
Se vuole usar (3) contra la falsa (4) turba
Solo la spada vuol magnificarse.

NOTE

(1) Cioè guasta, sconcia.
(2) Per i.
(3) Per osare.
(4) Corrotta, e crederei meglio ingannata secondo il primitivo significato dal Latino falsus.

Tratto da "Lirici del Secolo Primo, Secondo e Terzo cioè dal 1190 al 1500" in "Parnaso Italiano" Volume Undecimo, a cura di Francesco Zanotto, Venezia, Giuseppe Antonelli Editore, 1746, pag. 11.

Lo stesso sonetto, arricchito da ulteriori commenti, è reperibile in "Poeti del primo secolo della lingua italianna in due volumi raccolti", Volume Primo, pag. 18, a cura di Lodovico Valeriani e Urbano Lampredi, Firenze 1816.

Per una versione in inglese di tale sonetto, si può consultare il link n. 10 del sito rossettiarchive.org.

Riporto anche le notizie fornite da Crescimbeni, prima della trascrizione del sonetto:

Lodovico della Vernaccia (Famiglia Fiorentina, che poi dal Castello d'Apecchio, ove fu trasportata, passò ha circa due secoli in Urbino) Figliolo di. Pasquino, per quello, che portava l'infelice condizione delle latere umane in quei tempi, fu molto erudito, e applicato non meno alla fondazione dellla lingua volgare, che alla ristorazione della latina. Hassi memoria, che egli componesse varie orazioni, altre in quello, altre in questo linguaggio, e molti versi Volgari, delle quali cose tuttavia se ne truovano alcune scritte a penna appresso l'eruditissimo P. Pier Girolamo Vernaccia, Cherico Regolare delle Scuole Pie suo descendente, il quale insieme colle presenti notizie, ce ne ha donato il saggio, che è un Sonetto, che veramente il dimostra per uno di quelli, che cominciarono a mettere in uso i versi volgari nell' anno 1200 che, giusta le dette notizie, egli fiorì. E sebbene il suo stile, per essere affatto privo di circostanze Provenzali, e averne di quelle del secolo XV, potrebbe far sospettare, che egli fiorisse in tempi più bassi; nondimeno debbe considerarsi, che potè esser di quelli, che componevano ne'propij dialetti delle patrie loro, di molti de' quali Dante fa distinta menzione nel Trattato della Volgare Eloquenza; e per conseguente, che la lingua usata da lui, la quale di certo è antichissima, e rozzissima, fosse la propria, che in quei tempi si parlava in Urbino. Alla sufficienza nelle lettere unì Lodovico tal senno, e prudenza nel maneggio delle cose civili, e politiche, che in Patria era divenuto non poco autorevole, e dai Cittadini veniva assai volentieri ascoltato, come dimostra il saggio suddetto; e più pienamente una Canzone esistente appresso il detto P. Vernacci, col fine della quale chiuderemo il presente giudizio.

Quando Roma non era in tanto caro
Fo el bon Valerio al Consulato assumpto
Costui con almo prunto,
Rupti in nimici ad morte si condusse
Ne allo exeqnio funeral trovoxe
Trinta moneta, che bastar potesse
Bisongno si sopplesse
Del publico Thesoro pero Sengnuori
In questi exempli spiculati i cori.

Tratto da: "L'istoria della volgar poesia, scritta da Gio. Mario Crescimbeni" Volume Terzo, (Contenente i primi tre libri del volume secondo parte seconda, ed i primi tre del volume terzo de' Commentarj intorno alla sua Istoria della volgar Poesia) Giovan Mario Crescimbeni, Presso L. Basegio, 1730.

 
 
 

Ciullo d'Alcamo

Ciullo d'Alcamo o Cielo d'Alcamo

Di Ciullo di Alcamo non ci rimangono altre notizie, tranne le poche congetture che si possono dedurre da alcune non ben chiare allusioni della sua Canzone, unico componimento che si conosca di lui. Da queste allusioni gli storici della letteratura tolgono ragione di credere che Ciullo, nativo di Alcamo, città a trenta miglia da Palermo, fiorisse a' tempi di Saladino, cioè nell' ultimo decennio del secolo XII. È reputato il più antico de' Rimatori italiani; e dovendo credere a Dante che nel Trattato della Volgare Eloquenza afferma, la lingua volgare essersi cominciata a scrivere centocinquant' anni innanzi, il computo combina perfettamente con l'epoca di Ciullo. Questo monumento poetico, rozzo, qualora si consideri esclusivamente la sua forma, è di grandissimo interesse negli annali della nuova poesia, e degno di tutta considerazione per quel carattere peculiare che lo diversifica delle produzioni degli scrittori dell' epoca di Federigo.

Tratto da: "Florilegio dei lirici più insigni d'Italia" di Paolo Emiliani-Giudici, Poligrafia italiana, 1848 - 862 pagine

«Rosa fresca aulentis[s]ima, - c'apari inver la state
le donne ti disïano - pulzell' e maritate;
tra[ji]mi de ste focora - se t'este a bolontate;
per te non aio abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia».
«Se di mevi trabagliti, - follia lo ti fa fare,
lo mar potresti arompere, - avanti, a semenare,
l'abere de sto secolo - tut[t]o quanto asembrare,
avereme non poteri a esto monno,
avanti li cavelli m'aritonno».
«Se li cavelli arton[n]iti, - avanti foss'io morto,
[donna], c'aisì mi perdera - lo sol[l]acc[i]o e 'l diporto.
Quando ci passo e veioti, - rosa fresca de l'orto,
bono conforto donimi tut[t]ore:
poniamo che s'aiunga il nostro amore».
«Che 'l nostro amore aiungasi - non boglio m'atalenti.
Se ci ti trova paremo - co gli altri miei parenti!
Guarda non s'ar[i]colgano - questi forti cor[r]enti!
Como ti seppe bona la venuta,
consiglio che ti guardi a la partuta».
«Se i tuoi parenti trova[n]mi, - e che mi pozon fari?
Una difensa met[t]oci - di dumili' agostari:
non mi toc[c]àra pàdreto - per quanto avere ambari.
Viva lo 'mperadore graz[i]' a Deo !
Intendi, bella, che ti dico eo?»
«Tu me no lasci vivere - nè sera, nè maitino.
Donna mi son di perperi - d'auro massamotino.
Se tanto aver donassemi - quanto à lo Saladino
e per aiunta quant'à lo Soldano
toc[c]areme non poteri a la mano».
«Molte sono le fem[m]ine - c'ànno dura la testa,
e l'omo con parabole - l'adimina e amonesta,
tanto intorno procaz[z]ale - fin che l'à in sua podesta.
Fem[m]ina d'omo non si può tenere:
guardati, bella, pur de ripentere».
«Ch'eo ne [ri]pentesseme? - Davanti foss'io aucisa!
ca nulla bona fem[m]ina - per me fosse riprisa.
[A]ersera passastici - cor[r]enno a la distisa.
Aquetiti, riposa, canzoneri,
tue parabole a me non pìa[c]ion gueri».
«Quante sono le schiantora - che m'à[i] mis' a lo core!
E solo purpenzannome - la dia quanno vo fore,
fem[m]ina de sto secolo - tanto no amai ancore
quant'amo teve, rosa invidïata.
Ben credo che mi fosti distinata».
«Se distinata fosseti, - caderia de l'alteze,
chè male messe forano - in teve mie belleze.
Se tut[t]o adivenissemi, tagliarami le treze
e consore m'arenno a una magione
avanti che m'artoc[c]hi 'n la persone».
«Se tu consore arenneti, - donna col viso cleri,
a lo mostero venoci - e rennomi confleri:
per tanta prova vencerti - faralo volonteri.
Con teco stao la sera e lo maitino;
besogn'è ch'io ti tegna al meo dimino».
«Boimé, tapina misera, - com'ao reo distinato!
Gieso Cristo l'altissimo - del tut[t]o m'è airato:
concepistimi a abattere - in omo blestiemato.
Cerca la terra ch'este gran[n]e assai,
chiù bella donna di me troverai».
Cercat'aio Calabr[ï]a, - Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, - Genova, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa - [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te p[r]ese».
«Poi tanto trabagliasti[ti], - fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi adoman[n]imi - a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano, - menami a lo mosteri
e sposami davanti da la jenti;
e poi farò li tuo' comannamenti».
«Di cio che dici, vitama, - neiente non ti bale,
ca de le tuo parabole - fatto n'ò ponti e scale.
Penne penzasti met[t]ere, - sonti cadute l'ale,
e dato t'aio la botta sot[t]ana;
dunque, se po[t]i, teniti, villana».
«En paura non met[t]ermi - di nullo manganiello:
istomi 'n esta grorïa - de sto forte castiello;
prezo le tuo parabole - meno che d'un zitello.
Se tu no levi e vàtine di quaci,
se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».
Dunque vor[r]esti, vitama, - ca per te fosse strutto?
Se morto essere deboci - od intagliato tut[t]o,
di quaci non mi mosera - se no ai[o] de lo frutto,
lo quale staci ne lo tuo jardino:
disïolo la sera e lo matino».
«Di quello frutto no ab[b]ero - conti, nè cabalieri;
molto lo disïa[ro]no - marchesi e justizieri,
avere no nde pottero - gironde molto feri.
Intendi bene ciò che bol[e] dire?
Men' este di mill'onze lo tuo abire».
Molti son li garofani, - ma non che salma nd'ài;
bella, non dispregiaremi - s'avanti non m'assai.
Se vento in proda girasi - e giungeti a le prai,
a rimembrare t'ao ste parole,
ca de[n]tra sta animella assai mi dole!»
«Macari se doles[s]eti - che cadesse angosciato!
la gente ci cor[r]es[s]oro - da traverso e da lato,
tut[t]'a meve dicessono - "ac[c]or[r]i a sto malnato!"
non ti degnara porgere la mano
per quanto avere à 'l Papa e lo Soldano».
«Deo lo volesse, vitama, - te fosse morto in casa!
L'arma n'anderia consola, - ca dì e notte pantasa.
La jente ti chiamarano: - "Oi periura malvasa,
c'à[i] morto l'omo in casata, traita!"
Sanz'onni colpa levimi la vita».
«Se tu no levi e vatine - co la maladizione,
li frati miei ti trovano - dentro chissa magione
[ . . ] ben lo mi sofero - perdici la persone;
c'a meve se' venuto a sormonare,
parente o amico non t'ave aitare».
«A meve non aitano - amici, nè parenti;
istrani[u] mi son, carama, - enfra esta bona jenti.
Or fa un anno, vitama, - che 'ntrata mi se' '[n] menti;
di canno ti vestisti lo maiuto,
bella, da quello jorno son feruto».
«Ai, tando 'namorastiti, - [oi] Iuda lo traito?
como se fosse porpore, - iscarlat[t]o o sciamito!
S'a le Va[n]gele iurimi - che mi sia a marito,
avereme non poter' a sto monno,
avanti in mare [j]it[t]omi al perfonno».
«Se tu nel mare git[t]iti, - donna cortese e fina,
dereto mi ti misera - per tut[t]a la marina,
[ e, da ] poi ca 'n[n]egas[t]eti, - trobareti a la rina,
solo per questa cosa ad impretare:
con teco m'aio agiungere a pec[c]are».
«Segnomi in Patre e 'n Filio - ed i[n] Santo Mat[t]eo!
so ca non se' tu retico - [o] figlio di giudeo,
e cotale parabole - non udì' dire anch'eo!
Morta si [è] la fem[m]ina a lo 'ntutto,
perdeci lo saboro e lo disdutto».
«Bene lo saccio, carama: - altro non poz[z]o fare.
Se quisso non arcomplimi, - lassone lo cantare.
Fallo, mia donna, plaz[z]ati, - che bene lo puoi fare.
Ancora tu no m'ami, molto t'amo
sì m'ài preso come lo pesce a l'amo».
«Saz[z]o che m'ami, [e] amoti - di core paladino.
Levati suso e vat[t]ene, - tornaci a lo matino.
Se ciò che dico facemi, - di bon cor t'amo e fino:
[eo] quisso ti 'mprometto sanza faglia,
te' la mia fede che m'ài in tua baglia».
«Per zo che dici, carama, - neiente non mi movo;
inanti prenni e scannami, - tolli esto cortel novo.
Sto fatto fare potesi - inanti scalfi un uovo.
Arcompli mi' talento, [a]mica be]la,
che l'arma co lo core mi si 'nfella».
«Ben saz[z]o l'arma doleti - com'omo c'ave arsura.
Sto fatto [far] non potesi - per null'altra misura
se non a le Vangel[ï]e - che mo ti dico iura,
avereme non puoi in tua podesta;
inanti, prenni e tagliami la testa».
«Le Vangel[ï]e, carama? - ch'io le porto in sino!
A lo mostero presile, - non ci era lo patrino.
Sovr'esto libro iuroti - mai non ti vegno mino.
Arcompli mi' talento in caritate,
che l'arma me ne sta in sut[t]ilitate».
«Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno;
sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno.
S'eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m'arenno.
A lo letto ne gimo a la bon'ura,
chè chissà cosa n'è data in ventura».

La versione qui riportata del brano Contrasto (di Amante e Madonna) è tratta da "Rimatori della scuola siciliana", a cura di Panvini, Olschki, Firenze 1962 e 1964

Una interessantissima pagina, ricca di notizie critiche e di diverse versioni del contrasto è sul sito di Giuseppe Bonghi.

 
 
 

Il Meo Patacca 03-3

Post n°1224 pubblicato il 20 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Sale Calfurnia, e subbito arrivata,
Così, giusto così, Nuccia saluta:
"Figlia bon dì, siate la ben trovata".
"E voi - risponde lei - la ben venuta".
"Io v'haverò sicuro scommodata,
Povera me! - disse la vecchia astuta -
Vi vedo star così tutta in facenne...
Figlia! Volete che v'aiuti a stenne?".

"Ringrazio assai la vostra cortesia, -
Nuccia rispose, - è un pò di bagattella,
Si spiccia mo', cosa credete sia?
Quattro pannucci son da poverella.
Io me li fo' da me, sciocca saria,
Se li dassi a lavar, perchè, sorella,
A darle a queste nostre lavandare,
Troppo le biancherie costano care".

"Quant'è bene a operà con le su' braccia, -
Dice Calfurnia, - benchè giovanetta,
Io perch'è vero, ve lo dico in faccia:
Parete donna d'un'età provetta.
Non so a bastanza dir, quanto me piaccia
Una zitella, ch'a stentà si metta.
Io, ragazza, ch'ancor andavo a scola,
Facevo la bucata da me sola".

"Lo so, lo so, che sempre stata sete
Donna di gran ricapito e cervello -
Repricò Nuccia - e compatir sapete,
Se fò da me le cose mie bel bello.
Ma in piedi io non vi voglio, oh via, sedete,
Ch'io starò accanto a voi su 'sto murello,
E faremo la guardia in compagnia,
Ch'il vento i panni non mi porti via".

Sede la griscia, e assai pietoso l'occhio
Rivolta in Nuccia, il capo scotolanno,
Batte la destra man sopra 'l ginocchio,
E par che stia come tra sé, penzanno.
(Mò mò costei farà sentì lo scrocchio,
Co' 'ste su' smorfie, a Nuccia, dell'inganno).
Poi con cert'atti di gran meraviglia,
A dire incominzò: "Povera figlia!

E che vi giova l'esser faccenduta,
Spirito haver, bontà, bellezza e grazia?
Se sete così mal riconosciuta
Da chi di sbeffeggiarvi non si sazia.
E poi? chi vi maltratta? e chi rifiuta
Il vostr'amor sincero? Un malagrazia,
Un, che finge d'amarvi a più non posso,
Poi con altri vi taglia i panni addosso".

"Monna Calfurnia mia stordita resto -
Nuccia l'interrompe - chi mi tradisce?
Non me fate penar, ditelo presto,
Troppo nell'incertezza il cor patisce".
"Lo dirò - lei rispose - e sol per questo
Io vi venni a trovar. Già s'ammannisce
Il pianto a scivolar giù pe' 'ste guancie,
Solo in penzà, ch'un tristo vi dà ciancie.

Quel MEO PATACCA, quel che jeri al tardi
Andaste a ritrovà, (gran traditore!)
Quello, che par che languido vi guardi,
E che spasimi poi, per vostr'amore,
(Vatti a fidà de st'homini busciardi,
Ch'altr'hanno in su la lingua, altro nel core),
In faccia lui vi fa delle monine,
Peggio vi tratta poi delle sgualtrine".

Non sta Nuccia alle mosse, ma con furia
Vorria parlà. La ciospa la ritenne:
"Sentite, disse, - quanto poi v'ingiuria
Quando partiste, ch'a trovà vi venne:
Non hebbe no di chiacchiare penuria
Per maltrattarvi, e a forza mi convenne
Star salda, perchè stavo in casa mia,
Ch'il diascoci del resto io fatto havria.

Con rascia se ne viè lo sciagurato,
E una voglia grandissima dimostra,
Ch'io gli stimi un marletto, c'ha comprato
Per farsi una corvatta, e me lo mostra;
Io doppo, che gli ho 'l prezzo giudicato,
Gli dico: "L'ha veduto Nuccia vostra?"
Lui, solo a questo nome s'infierì,
E come un tigro, mi parlò così:

"Che ho da fa' con costei, ch'appunto jeri
Co' le su' smorfie, e co' li su' piantusci
A infesta me venì? Credo, che speri,
Che del su' amore, 'sto mi' core abbrusci.
Piglia un grancio la gonza, e i su' penzieri
Ben presto a lei riusciranno busci;
Non sa, sciorna, non sa se chi è 'sto fusto,
Ch'in tel cuccalla, ce se piglia gusto.

Altro ce vuò, che fà la bocca stretta,
Rimenà el capo, e havè la parlantina!
A infinocchiamme no, non ci si metta,
Perchè nostrisci è della Cappellina.
Si spacci pur con altri giovanetta,
Ch'io già so, che s'accosta alla trentina,
E quel, ch'è peggio, ci vuò fa la bella,
E accorge non si vuò, ch'è bruttarella".

"Ah lingua, lingua fracida, ch'in pezzi
Ti caschi! - disse Nuccia, - acciò che tutta
Te la magnino i cani, e 'sti disprezzi
Havrò da sopportane? Io vecchia? Io brutta?
Ah infame! A maltrattar così t'avvezzi
Nuccia, che per tuo amor sempre s'è strutta?
E chi dirà che crudeltà non sia?
Brutta a me? Vecchia ad una para mia?".

Spasseggia intanto in prescia. Hor coglie i panni,
Hor li ristenne, hor sul terren li getta,
Non sa occultà, non sa sfogà l'affanni,
Smania, gira, sta in piedi, e poi s'assetta:
"Che gli possan venir mille malanni
Tra capo e collo, razza maledetta! -
Dice, - perchè così mi fai? perchè?
A me donna attempata? Brutta a me?".

Tanto non soffia bufola infojata
Quanno che glie fu tolto el bufalino,
Che gira da per tutto, et infuriata
Urta e calpestra ciò, che gli è vicino,
Quanto fa Nuccia mò, ch'è stuzzicata
Da furor maschio, e sdegno femminino.
Butta foco pe' l'occhi, e ne fa tante,
Che par, che giusto sia Furia o Baccante.

Ci ha i su' gusti la grima, et è contenta,
Più d'una gatta, che rubbato ha l'onto;
Par che ringalluzzi' tutta si senta,
Perchè sì bell'inganno havuto ha in pronto.
Così spera di far, che MEO si penta
Di quel, che stima lei sì grave affronto,
Quanno glie dette un urto, e tanto, e tale,
Che la fece zompa' giù pe' le scale.

Tutto finge costei, che pe' penziero
Non ha PATACCA mai tal cosa detta,
Ma un inganno trovò simile al vero.
Pe' fa del su' nemico la vendetta
Sa coglier lei, quanno maturo è il pero,
Pe' fa 'na bella botta el tempo aspetta.
Quanno s'accorge tra le genti sciote,
Che morbido è il terren, pianta carote.

Sacciuta è Neccia è ver, ma scelonita
L'ha fatta già quel mattarel d'Amore,
E la ciospa, da che la vidde uscita
Dalla casa di MEO di mal umore,
S'immaginò, che nell'amor tradita,
Havesse in petto calche struggicore.
Stette allor pe' chiamarla, ma in quell'atto
Penzò de fà, quello, ch'adesso ha fatto.

Così poi parla: "Gnora Nuccia! oh via!
Quietativi, non giova il tapinarsi,
Ma partito miglior, credo che sia,
La collera sfogar col vendicarsi.
Trovar il modo, sarà cura mia,
E si farà per voi quanto può farsi.
O ve lo fò ammazzar, quando vi piaccia,
O con più sfresci almen, segnarlo in faccia".

"Per me vorria tolto gli fusse il fiato -
Nuccia esclamò - nè più vederlo mai,
Ma s'innanzi mi capita l'ingrato,
Voglio che venga ad incontrà i su' guai.
Diverso è adesso il cor da quel ch'è stato,
E ricordarmi sol, che tanto amai
Un traditor, ch'il galant'homo spaccia,
Per rabbia mi daria de i pugni in faccia".

"Non dovemo no, no, l'error altrui, -
Disse Calfurnia, - gastigar in noi.
Se nel tradirvi, il mal fece colui,
A farvi rea, come c'entrate voi?
Un sgherro c'è più bravo assai di lui
Spadaccino, animoso, e giusto è poi
Come il carbon, che sempre tegne, o scotta:
Or questo è quello, che ha da far la botta.

Io v'imprometto, e statene sicura,
Perchè so, ch'a costui fuma il cervello,
Che per opera mia senza paura
MEO PATACCA mo' mo' sfida a duello.
In quattro colpi pe' la su' bravura
La spiccia, e di colui ne fa macello,
Et un ripiego tal chiara vi mostra
A spese d'altri la vendetta vostra".

"A rischio di morir dunque s'espone, -
Allora Nuccia sospiranno disse, -
Lo sfortunato MEO per mia cagione?
E che saria, se lui per me perisse?
È ver, che se lo merita il barone,
Ma non vorria per questo, che morisse.
Ch'io l'amo ancor, benchè così mi tratti...
A me vecchia? A me brutta? Eh crepi e schiatti!".

"Così proprio va detta! Oh mo' azzeccate
Nel darmi gusto, Gnora Nuccia mia!"
Co' 'ste parole tenere e melate
De posta l'abbordò la vecchia ria:
"Lasciate pur con libertà lasciate,
Che quell'indegno gastigato sia.
Non occorr'altro, solo dir mi resta,
Che Marco Pepe gli ha da far la festa.

So molto bene, che lo conoscete,
Se v'amoreggia, benchè poca udienza
Gli diate voi, che modestuccia sete;
Ma per adesso, s'ha d'haver pacenza.
Se di qua passa a sorte, almen fingete
Di fargli qualche poco d'accoglienza.
Così sarà più nel servirvi audace,
Farete poi quel che ve pare e piace".

"Si si, - Nuccia rispose, - io vi prometto,
Se bè non m'ha costui garbo, nè grazia,
Che finger voglio di portargli affetto
Fin che vendetta fa di chi mi strazia.
Poi co 'st'ingrati più non me ci metto,
Che l'amarli sarìa mia gran disgrazia.
Se ne perda per me, puro la razza:
Homini! Oibò, chi se ne fida è pazza".

Tanto basta a Calfurnia, e non si cura
Altro sentir, così va via contenta,
Nè si vuò intrattenè, perchè ha paura,
Che di tal volontà Nuccia si penta.
Nel partì, per annassene a drittura
A trovà Marco Pepe, non è lenta;
Ma allora, ad uso delle donnicciole,
Fanno a vicenna un scorzo di parole.

Horsù vi lascio, ch'hora è d'andar via.
È tempo si, m'havete già sentita.
Bacio le mani di Vossignoria.
Io mi fido di voi. Sarà servita.
In somma sete tutta cortesia.
Anzi lei è una giovane compita.
Per grazia vostra. Lei mi fa favore:
Orsù buon giorno. Serva sua di core.

Così questa partì, quella rimase
Pe' rivede le biancherie già stese.
Perchè, quelle ch'ai sole erano spase
Già sono asciucche, a coglierle se mese.
Quel che Calfurnia oprò, se persuase
Marco Pepe, e se poi costui glie crese,
Se sfidò MEO, racconterovvi io istesso,
S'haverete pacenza, adesso adesso.

Fine del Terzo Canto.

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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