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Messaggi del 21/02/2015

Il Galateo (21-24)

Post n°1242 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

21.
Un'altra maniera si truova di sollazzevoli modi pure posta nel favellare: cioè quando la piacevolezza non consiste in motti, che per lo più sono brievi, ma nel favellar disteso e continuato, il quale vuole essere ordinato e bene espresso e rappresentante i modi, le usanze, gli atti et i costumi di coloro de' quali si parla, sì che all'uditore sia aviso non di udir raccontare, ma di veder con gli occhi fare quelle cose che tu narri: il che ottimamente seppono fare gli uomini e le donne del Boccaccio, come che pure talvolta (se io non erro) si contrafacessero più che a donna o a gentiluomo non si sarebbe convenuto, a guisa di coloro che recitan le comedie. Et a voler ciò fare, bisogna aver quello accidente, o novella o istoria, che tu pigli a dire bene raccolta nella mente, e le parole pronte et apparecchiate, sì che non ti convenga tratto tratto dire: - Quella cosa... - e - Quel cotale... - o - Quel... come si chiama? - o - Quel lavorio - né - Aiutatemelo a dire - e - Ricordatemi come egli ha nome -; perciò che questo è appunto il trotto del cavalier di madonna Orretta! E se tu reciterai uno avenimento nel quale intervenghino molti, non dèi dire - Colui disse... - e - Colui rispose... -, perciò che tutti siamo «colui», sì che chi ode facilmente erra: conviene adunque che chi racconta ponga i nomi e poi non gli scambi. Et oltre a ciò, si dèe l'uomo guardare di non dir quelle cose, le quali taciute, la novella sarebbe non meno piacevole o per aventura ancora più piacevole: - Il tale, che fu figliuol del tale, che stava a casa nella via del Cocomero... no 'l conosceste voi? Che ebbe per moglie quella de' Gianfigliazzi: una cotal magretta, che andava alla messa in San Lorenzo... come, no? Anzi, non conosceste altri! Un bel vecchio diritto, che portava la zazzera... non ve ne ricordate voi? -; perciò che, se fosse tutto uno che il caso fosse avenuto ad un altro come a costui, tutta questa lunga quistione sarebbe stata di poco frutto, anzi di molto tedio, a coloro che ascoltano e sono vogliosi e frettolosi di sentire quello avenimento, e tu gli aresti fatto indugiare; sì come per aventura fece il nostro Dante:
E li parenti miei furon Lombardi
E Mantovan per patria ambidui;

perciò che niente rilevava se la madre di lui fosse stata da Gazuolo o anco da Cremona. Anzi, apparai io già da un gran retorico forestiero uno assai utile ammaestramento d'intorno a questo, cioè che le novelle si deono comporre et ordinare prima co' sopranomi e poi raccontare co' nomi; perciò che quelli sono posti secondo le qualità delle persone e questi secondo l'appetito de' padri o di coloro a chi tocca. Per la qual cosa colui che, in pensando, fu m[esser] Avaritia, in proferendo sarà messer Erminio Grimaldi, se tale sarà la generale openione che la tua contrada arà di lui, quale a Guglielmo Borsieri fu detto esser di messer Erminio in Genova. E se nella terra ove tu dimori non avesse persona molto conosciuta che si confacesse al tuo bisogno, sì dèi tu figurare il caso in altro paese et il nome imporre come più ti piace. Vera cosa è che con maggior piacere si suole ascoltare e, più, aver dinanzi agli occhi quello che si dice essere avenuto alle persone che noi conosciamo (se l'avenimento è tale che si confaccia a' loro costumi) che quello che è intervenuto agli strani e non conosciuti da noi; e la ragione è questa: che, sapendo noi che quel tale suol far così, crediamo che egli così abbia fatto, e riconosciamolo come presente, dove degli strani non avien così.

22.
Le parole, sì nel favellare disteso come negli altri ragionamenti, vogliono esser chiare, sì che ciascuno della brigata le possa agevolmente intendere, et oltre a ciò belle in quanto al suono et in quanto al significato, perciò che se tu arai da dire l'una di queste due, dirai più tosto il ventre che l'epa, e, dove il tuo linguaggio lo sostenga, dirai più tosto la pancia che il ventre o il corpo, perciò che così sarai inteso e non franteso, sì come noi Fiorentini diciamo, e di niuna bruttura farai sovenire all'uditore. La qual cosa volendo l'ottimo poeta nostro schifare, sì come io credo, in questa parola stessa, procacciò di trovare altro vocabolo, non guardando perché alquanto gli convenisse scostarsi per prenderlo in altro luogo, e disse:
Ricorditi che fece il peccar nostro
Prender Dio, per scamparne,
Umana carne al tuo virginal chiostro!

E come che Dante, sommo poeta, altresì poco a così fatti ammaestramenti ponesse mente, io non sento per ciò che di lui si dica per questa cagione bene alcuno. E certo io non ti consiglierei che tu lo volessi fare tuo maestro in questa arte dello esser gratioso, con ciò sia cosa che egli stesso non fu, anzi in alcuna Cronica trovo così scritto di lui: «Questo Dante per suo sapere fu alquanto presuntoso e schifo e sdegnoso, e quasi, a guisa di filosofo, mal gratioso, non ben sapeva conversare co' laici». Ma, tornando alla nostra materia, dico che le parole vogliono essere chiare; il che averrà, se tu saprai scegliere quelle che sono originali di tua terra, che non siano per ciò antiche tanto che elle siano divenute rance e viete, e, come logori vestimenti, diposte o tralasciate, sì come spaldoet epa et uopo e sezzaio e primaio; et oltre a ciò, se le parole che tu arai per le mani saranno non di doppio intendimento, ma semplici, perciò che di quelle accozzate insieme si compone quel favellare che ha nome «enigma» et in più chiaro volgare si chiama «gergo»:
Io vidi un che da sette passatoi
fu da un canto all'altro trapassato.

Ancora vogliono esser le parole il più che si può appropriate a quello che altri vuol dimostrare, e meno che si può comuni ad altre cose, perciò che così pare che le cose istesse si rechino in mezzo e che elle si mostrino non con le parole, ma con esso il dito: e perciò più acconciamente diremo «riconosciuto alle fattezze» che «alla figura» o «alla imagine»; e meglio rappresentò Dante la cosa detta, quando e' disse:
che li pesi
fan così cigolar le sue bilancie,

che se egli avesse detto o gridare o stridere o far romore. E più singolare è il dire «il ribrezzo della quartana» che se noi dicessimo «il freddo»; e «la carne soverchio grassa stucca» che se noi dicessimo satia; e « sciorinare i panni» e non ispandere; et i moncherini e non le braccia mozze; et all'orlo dell'acqua d'un fosso
Stan li ranocchi pur col muso fuori

e non con la bocca: i quali tutti sono vocaboli di singolare significatione, e similmente « il vivagno della tela» più tosto che l'estremità. E so io bene che, se alcun forestiero per mia sciagura s'abbattesse a questo trattato, egli si farebbe beffe di me e direbbe che io t'insegnassi di favellare in gergo overo in cifera, con ciò sia che questi vocaboli siano per lo più così nostrani che alcuna altra natione non gli usa, et usati da altri non gl'intende. E chi è colui che sappia ciò che Dante si volesse dire in quel verso:
Già veggia per mezzul perdere o lulla?

Certo io credo che nessuno altro che noi Fiorentini; ma, non di meno, secondo che a me è stato detto, se alcun fallo ha pure in quel testo di Dante, egli non l'ha nelle parole, ma (se egli errò) più tosto errò in ciò, che egli - sì come uomo alquanto ritroso - imprese a dire cosa malagevole ad isprimere con parole e per aventura poco piacevole ad udire, che perché egli la isprimesse male. Niun puote, adunque, ben favellare con chi non intende il linguaggio nel quale egli favella, né, perché il Tedesco non sappia latino, debbiam noi per questo guastar la nostra loquela in favellando con esso lui, né contrafarci a guisa di mastro Brufaldo, sì come soglion fare alcuni che per la loro sciocchezza si sforzano di favellar del linguaggio di colui con cui favellano, quale egli si sia, e dicono ogni cosa a rovescio; e spesso aviene che lo Spagniuolo parlerà italiano con lo Italiano, e lo Italiano favellerà per pompa e per leggiadria con esso lui spagniuolo: e non di meno assai più agevol cosa è il conoscere che amendue favellano forestiero che il tener le risa delle nuove sciocchezze che loro escono di bocca. Favelleremo adunque noi nell'altrui linguaggio qualora ci farà mestiero di essere intesi per alcuna nostra necessità, ma nella comune usanza favelleremo pure nel nostro, etiandio men buono, più tosto che nell'altrui migliore, perciò che più acconciamente favellerà un Lombardo nella sua lingua, quale s'è la più difforme, che egli non parlerà toscano o d'altro linguaggio, pure perciò che egli non arà mai per le mani, per molto che egli si affatichi, sì bene i proprii e particolari vocaboli come abbiamo noi Toscani. E se pure alcuno vorrà aver risguardo a coloro co' quali favellerà e perciò astenersi da' vocaboli singolari, de' quali io ti ragionava, et in luogo di quelli usare i generali e comuni, i costui ragionamenti saranno perciò di molto minor piacevolezza. Dèe oltre a ciò ciascun gentiluomo fuggir di dire le parole meno che oneste: e la onestà de' vocaboli consiste o nel suono e nella voce loro o nel loro significato, con ciò sia cosa che alcuni nomi venghino a dire cosa onesta e non di meno si sente risonare nella voce istessa alcuna disonestà, sì come rinculare (la qual parola, ciò non ostante, si usa tuttodì da ciascuno); ma se alcuno, o uomo o femina, dicesse per simil modo et a quel medesimo ragguaglio il farsi innanzi che si dice il farsi indrieto, allora apparirebbe la disonestà di cotal parola, ma il nostro gusto per la usanza sente quasi il vino di questa voce e non la muffa.

Le mani alzò con amendue le fiche,

disse il nostro Dante, ma non ardiscono di così dire le nostre donne, anzi, per ischifare quella parola sospetta, dicon più tosto le castagne, come che pure alcune, poco accorte, nominino assai spesso disavedutamente quello che se altri nominasse loro in pruova elle arrossirebbono, facendo mentione per via di bestemmia di quello onde elle sono femine. E perciò quelle che sono, o vogliono essere, ben costumate, procurino di guardarsi non solo dalle disoneste cose, ma ancora dalle parole, e non tanto da quelle che sono, ma etiandio da quelle che possono essere, o ancora parere, o disoneste o sconcie e lorde, come alcuni affermano essere queste pur di Dante:
Se non ch' al viso e di sotto mi venta;

o pur quelle:
Però ne dite ond' è presso pertugio;
Et un di quelli spirti disse: Vieni
Dirieto a noi, che troverai la buca.

E dèi sapere che, come che due o più parole venghino talvolta a dire una medesima cosa, non di meno l'una sarà più onesta e l'altra meno, sì come è a dire Con lui giacque e Della sua persona gli sodisfece, perciò che questa stessa sentenza, detta con altri vocaboli, sarebbe disonesta cosa ad udire. E più acconciamente dirai «il vago della luna» che tu non diresti il drudo, avegna che amendue questi vocaboli importino «lo amante», e più convenevol parlare pare a dire la fanciulla e l'amica che «la concubina di Titone»; e più dicevole è a donna, et anco ad uomo costumato, nominare le meretrici femine di mondo (come la Belcolore disse, più nel favellare vergognosa che nello adoperare) che a dire il comune loro nome: «Taide è la puttana», e come il Boccaccio disse, «la potenza delle meretrici e de' ragazzi»; ché, se così avesse nominato dall'arte loro i maschi come nominò le femine, sarebbe stato sconcio e vergognoso il suo favellare. Anzi, non solo si dèe altri guardare dalle parole disoneste e dalle lorde, ma etiandio dalle vili, e spetialmente colà dove di cose alte e nobili si favelli; e per questa cagione forse meritò alcun biasimo la nostra Beatrice, quando disse:
L'alto fato di Dio sarebbe rotto
Se Lethé si passasse, e tal vivanda
Fosse gustata sanza alcuno scotto
Di pentimento...,

ché, per aviso mio, non istette bene il basso vocabolo delle taverne in così nobile ragionamento. Né dèe dire alcuno «la lucerna del mondo» in luogo del sole, perciò che cotal vocabolo rappresenta altrui il puzzo dell'olio e della cucina; né alcuno considerato uomo direbbe che San Domenico fu «il drudo della teologia» e non racconterebbe che i Santi gloriosi avessero dette così vili parole come è a dire:
E lascia pur grattar dove è la rogna,

che sono imbrattate della feccia del volgar popolo, sì come ciascuno può agevolmente conoscere. Adunque, ne' distesi ragionamenti si vogliono avere le sopra dette considerationi et alcune altre, le quali tu potrai più ad agio apprendere da' tuoi maestri e da quella arte che essi sogliono chiamare retorica. E negli altri bisogna che tu ti avezzi ad usare le parole gentili e modeste e dolci, sì che niuno amaro sapore abbiano; et innanzi dirai: - Io non seppi dire - che - Voi non m'intendete - e - Pensiamo un poco se così è come noi diciamo - più tosto che dire - Voi errate! - o - E' non è vero! - o - Voi non la sapete ! -; però che cortese et amabile usanza è lo scolpare altrui, etiandio in quello che tu intendi d'incolparlo, anzi si dèe far comune l'error proprio dello amico, e prenderne prima una parte per sé, e poi biasimarlo o riprenderlo. - Noi errammo la via - e - Noi non ci ricordammo ieri di così fare -; come che lo smemorato sia pur colui solo e non tu. E quello che Restagnone disse a' suoi compagni non istette bene («Voi, se le vostre parole non mentono»), perché non si dèe recare in dubbio la fede altrui, anzi, se alcuno ti promise alcuna cosa e non te la attenne, non istà bene che tu dichi: - Voi mi mancaste della vostra fede! -, salvo se tu non fossi constretto da alcuna necessità, per salvezza del tuo onore, a così dire; ma, se egli ti arà ingannato, dirai: - Voi non vi ricordaste di così fare -; e se egli non se ne ricordò, dirai più tosto: - Voi non poteste - o - Non vi tornò a mente - che - Voi vi dimenticaste - o - Voi non vi curaste di attenermi la promessa -, perciò che queste sì fatte parole hanno alcuna puntura ed alcun veneno di doglienza e di villania; sì che coloro che costumano di spesse volte dire cotali motti sono riputati persone aspere e ruvide, e così è fuggito il loro consortio come si fugge di rimescolarsi tra' pruni e tra' triboli.

23.
E perché io ho conosciute di quelle persone che hanno una cattiva usanza e spiacevole, cioè che così sono vogliosi e golosi di dire che non prendono il sentimento, ma lo trapassano e corrongli dinanzi a guisa di veltro che non assanni, per ciò non mi guarderò io di dirti quello che potrebbe parer soverchio a ricordare, come cosa troppo manifesta: e cioè che tu non dèi già mai favellare che non abbi prima formato nell'animo quello che tu dèi dire, ché così saranno i tuoi ragionamenti parto e non isconciatura (ché bene mi comporteranno i forestieri questa parola, se mai alcuno di loro si curerà di legger queste ciancie). E se tu non ti farai beffe del mio ammaestramento, non ti avverrà mai di dire - Ben venga, messere Agostino - a tale che arà nome Agnolo o Bernardo; e non arai a dire - Ricordatemi il nome vostro - e non ti arai a ridire, né a dire - Io non dissi bene - né - Domin, ch' io lo dica! -; né a scilinguare o balbotire lungo spatio per rinvenire una parola: - maestro Arrigo... No, maestro Arabico... O, ve' che lo dissi: maestro Agabito! -: che sono a chi t'ascolta tratti di corda. La voce non vuole esser né roca né aspera, e non si dèe stridere, né per riso o per altro accidente cigolare come le carrucole fanno, né, mentre che l'uomo sbadiglia, pur favellare. Ben sai che noi non ci possiamo fornire né di spedita lingua né di buona voce a nostro senno; chi è o scilinguato o roco non voglia sempre essere quegli che cinguetti, ma correggere il difetto della lingua col silentio e con le orecchie: et anco si può con istudio scemare il vitio della natura. Non istà bene alzar la voce a guisa di banditore, né anco si dèe favellare sì piano che chi ascolta non oda; e se tu non sarai stato udito la prima volta, non dèi dire la seconda ancora più piano, né anco dèi gridare, acciò che tu non dimostri d'imbizzarrire perciò che ti sia convenuto replicare quello che tu avevi detto. Le parole vogliono essere ordinate secondo che richiede l'uso del favellar comune e non aviluppate et intralciate in qua et in là, come molti hanno usanza di fare per leggiadria, il favellar de' quali si rassomiglia più a notaio che legga in volgare lo instrumento che egli dettò latino che ad uom che ragioni in suo linguaggio; come è a dire:
Imagini di ben seguendo false

e
Del fiorir queste inanzi tempo tempie;

i quali modi alle volte convengono a chi fa versi, ma a chi favella si disdicono sempre. E bisogna che l'uomo non solo si discosti in ragionando dal versificare, ma etiandio dalla pompa dello arringare: altrimenti sarà spiacevole e tedioso ad udire, come che per aventura maggior maestria dimostri il sermonare che il favellare; ma in ciò si dèe riservare a suo luogo, ché chi va per via non dèe ballare, ma caminare, con tutto che ogniuno non sappia danzare et andar sappia ogniuno (ma conviensi alle nozze e non per le strade!). Tu ti guarderai adunque di favellar pomposo: «Credesi per molti filosofanti...», e tale è tutto il Filocolo e gli altri trattati del nostro m[esser] Giovan Boccaccio, fuori che la maggior opera, et ancora più di quella, forse, il Corbaccio. Non voglio perciò che tu ti avezzi a favellare sì bassamente come la feccia del popolo minuto e come la lavandaia e la trecca, ma come i gentiluomini; la qual cosa come si possa fare ti ho in parte mostrato di sopra, cioè se tu non favellerai di materia né vile, né frivola, né sozza, né abominevole. E se tu saprai scegliere fra le parole del tuo linguaggio le più pure e le più proprie e quelle che miglior suono e miglior significatione aranno, sanza alcuna rammemoratione di cosa brutta, né laida, né bassa, e quelle accozza[r]e, non ammassandole a caso, né con troppo scoperto studio mettendole in filza, et, oltre a ciò, se tu procaccerai di compartire discretamente le cose che tu a dire arai, e guardera'ti di congiugnere le cose difformi tra sé, come:
Tullio e Lino e Seneca morale,

o pure:
L'uno era Padovano e l'altro laico,

e se tu non parlerai sì lento, come svogliato, né sì ingordamente, come affamato, ma come temperato uomo dèe fare, e se tu proferirai le lettere e le sillabe con una convenevole dolcezza, non a guisa di maestro che insegni leggere e compitare a' fanciulli, né anco le masticherai né inghiottiraile appiccate et impiastricciate insieme l'una con l'altra; se tu arai adunque a memoria questi et altri sì fatti ammaestramenti, il tuo favellare sarà volentieri e con piacere ascoltato dalle persone, e manterrai il grado e la degnità che si conviene a gentiluomo bene allevato e costumato.

24.
Sono ancora molti che non sanno restar di dire, e, come nave spinta dalla prima fuga per calar vela non s'arresta, così costoro trapportati da un certo impeto scorrono e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò, anzi, o ridicono le cose già dette, o favellano a vòto. Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non lasciano dire altrui; e come noi veggiamo tal volta su per l'aie de' contadini l'un pollo tòrre la spica di becco all'altro, così cavano costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi; e sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro, perciò che, se tu guardi bene, niuna cosa muove l'uomo più tosto ad ira, che quando improviso gli è guasto la sua voglia et il suo piacere, etiandio minimo: sì come quando tu arai aperto la bocca per isbadigliare et alcuno te la tura con mano, o quando tu hai alzato il braccio per trarre la pietra et egli t' è subitamente tenuto da colui che t'è dirieto. Così adunque come questi modi (e molti altri a questi somiglianti) che tendono ad impedir la voglia e l'appetito altrui ancora per via di scherzo e per ciancia sono spiacevoli e debbonsi fuggire, così nel favellare si dèe più tosto agevolare il disiderio altrui che impedirlo. Per la qual cosa, se alcuno sarà tutto in aspetto di raccontare un fatto, non istà bene di guastargliele, né di dire che tu lo sai, o, se egli anderà per entro la sua istoria spargendo alcuna bugiuzza, non si vuole rimproverargliele né con le parole né con gli atti, crollando il capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare, affermando sé non potere in modo alcuno sostener l'amaritudine della bugia; ma egli non è questa la cagione di ciò, anzi è l'agrume e lo aloe della loro rustica natura et aspera, che sì gli rende venenosi et amari nel consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. Similmente il rompere altrui le parole in bocca è noioso costume e spiace, non altrimenti che quando l'uomo è mosso a correre et altri lo ritiene. Né quando altri favella si conviene di fare sì che egli sia lasciato et abbandonato dagli uditori, mostrando loro alcuna novità e rivolgendo la loro attentione altrove: ché non istà bene ad alcuno licentiar coloro che altri, e non egli, invitò. E vuolsi stare attento, quando l'uom favella, acciò che non ti convenga dire tratto tratto: - Eh? - o - Come? -; il qual vezzo sogliono avere molti, e non è ciò minore sconcio a chi favella che lo intoppare ne' sassi a chi va. Tutti questi modi e generalmente ciò che può ritenere e ciò che si può attraversare al corso delle parole di colui che ragiona, si vuol fuggire. E se alcuno sarà pigro nel favellare, non si vuol passargli inanzi né prestargli le parole, come che tu ne abbi dovitia et egli difetto; ché molti lo hanno per male, e spetialmente quelli che si persuadono di essere buoni parlatori, perciò che è loro aviso che tu non gli abbi per quello che essi si tengono e che tu gli vogli sovenire nella loro arte medesima; come i mercatanti si recano ad onta che altri proferisca loro denari, quasi eglino non ne abbiano e siano poveri e bisognosi dell'altrui. E sappi che a ciascuno pare di saper ben dire, come che alcuno per modestia lo nieghi. E non so io indovinare donde ciò proceda, che chi meno sa più ragioni: dalla qual cosa (cioè dal troppo favellare) conviene che gli uomini costumati si guardino, e spetialmente poco sapendo, non solo perché egli è gran fatto che alcuno parli molto sanza errar molto, ma perché ancora pare che colui che favella soprastia in un certo modo a coloro che odono, come maestro a' discepoli; e perciò non istà bene di appropriarsi maggior parte di questa maggioranza, che non ci si conviene: et in tale peccato cadono non pure molti uomini, ma molte nationi favellatrici e seccatrici sì, che guai a quella orecchia che elle assannano. Ma, come il soverchio dire reca fastidio, così reca il soverchio tacere odio, perciò che il tacersi colà, dove gli altri parlano a vicenda, pare un non voler metter sù la sua parte dello scotto, e perché il favellare è uno aprir l'animo tuo a chi t'ode, il tacere per lo contrario pare un volersi dimorare sconosciuto. Per la qual cosa, come que' popoli che hanno usanza di molto bere alle loro feste e d'inebriarsi soglion cacciar via coloro che non beono, così sono questi così fatti mutoli mal volentieri veduti nelle liete et amichevoli brigate. Adunque piacevol costume è il favellare e lo star cheto ciascuno, quando la volta viene a lui.

 
 
 

Rime del Berni 38-42

Post n°1241 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

38

Sonetto a Papa Chimente

Fate a modo de un vostro servidore,
el qual vi dà consigli sani e veri:
non vi lassate metter più cristieri,
che, per Dio, vi faranno poco onore.

Padre santo, io vel dico mo' de cuore:
costor son macellari e mulattieri
e vi tengon nel letto volentieri,
perché si dica: "Il papa ha male, e' more";

e che son forte dotti in Galieno,
per avervi tenuto all'ospitale,
senza esser morto, un mese e mezzo almeno.

E fanno mercanzia del vostro male:
han sempre il petto di polizze pieno,
scritte a questo e a quell'altro cardinale.

Pigliate un orinale
e date lor con esso nel mostaccio:
levate noi di noia e voi d'impaccio.



39

[Di Papa Clemente VII malato]

"Il papa non fa altro che mangiare",
"Il papa non fa altro che dormire",
quest'è quel che si dice e si può dire
a chi del papa viene a dimandare.

Ha buon occhio, buon viso, buon parlare,
bella lingua, buon sputo, buon tossire:
questi son segni ch'e' non vuol morire,
ma e medici lo voglion amazzare,

perché non ci sarebbe il lor onore,
s'egli uscisse lor vivo delle mani,
avendo detto: "Gli è spacciato, e' more".

Trovan cose terribil, casi strani:
egli ebbe 'l parocismo alle due ore,
o l'ha avut'oggi e non l'avrà domani.

Farien morire i cani,
non che 'l papa; e alfin tanto faranno,
ch'a dispetto d'ogniun l'amazzeranno.



40

[Voto di Papa Clemente VII]

Quest'è un voto che papa Clemente
a questa Nostra Donna ha sodisfatto,
perché di man d'otto medici un tratto
lo liberò miracolosamente.

Il pover'uom non aveva niente;
e se l'aveva, non l'aveva affatto;
questi sciaurati avevan tanto fatto,
che l'amazzavan resolutamente.

Al fin Dio l'aiutò, che la fu intesa,
e detton la sentenzia gli orinali,
che 'l papa aveva avut'un po' di scesa.

E la vescica fu de' cardinali,
che per venir a riformar la chiesa
s'avevan già calzati gli stivali.

Voi, maestri cotali,
medici da guarir tigna e tinconi,
sète un branco di ladri e di castroni.



41

L'entrata dell'Imperadore in Bologna

Nomi e cognomi di parte de' gentiluomini e
cittadini bolognesi i quali andorono a
incontrare la cesarea maiestà quando entrò
in Bologna a pigliar la corona; e 'l nome
ancora, non solo della porta d'onde sua
maiestà entrò, ma di tutte le strade per
dove passò, per andare alla piazza e in
palazzo, con la nota dei presenti che li
furono fatti da' bolognesi, tutto raccolto
e notato dal Berni.

Gualterotto de' Bianchi,
Bonifazio de' Negri.
Guasparre dell'Arme,
Girolamo di Pace.
Cornelio Albergato,
Giovan Battista Pellegrino.
Marcello de' Garzoni,
Bastiano delle Donne.
Cornelio Cornazzano,
Lodovico Beccadello.
Il cavalier de' Grassi,
Vincenzio Magrino.
Anniballe de' Coltellini,
Iacopo delle Guaine.
Francesco Passerino,
Battista Panico.
Girolamo de' Preti,
Nanni del Cherico.
Anniballe de' Canonici,
Carlo delli Abati.
Lodovico del Vescovo,
Carlo della Chiesa.
Giovan Battista della Torre,
Leone delle Campane.
Girolamo della Testa,
Ippolito della Fronte.
Galeazzo Buon Nasone,
Nicolò dell'Occhio.
Achille de' Bocchi,
Vincenzio Orecchini.
Iacopo Dentone,
Lippo Mascella.
Andrea Barbazza,
Bernardo Goletto.
Carlo delle Mane,
Bartolommeo Panciarasa.
Luca Chiapparino,
Giovanni Buso.
Battista Cazzetto,
Antonio della Coscia.
Vincenzio Gambacorta,
Vergilio Gambalunga.
Francesco Calcagno,
Andrea dell'Unghia.
Battista Corto,
Lattanzio Formaiaro.
Battista della Ricotta,
Il cavalier Cacio,
Anton Butiro.
Cesar della Fava,
Cristofan Coglia.
Giovan Francesco de' Barbieri,
Petronio de' Rasoi.
Giovan Francesco delle Volpi,
Giovanni Gallina.
Pieranton dall'Olio,
Francesco dell'Aceto.
Alessandro di San Piero,
Bartolomeo di San Paolo.
Astorre del Bono.
Tomaso del Migliore.
Luigi Asinari,
Ambrogio Muletto.
Frian Turco,
Niccolò Moro.
Cristofano Marrano,
Filippo de' Cristiani.
Matteo senz'Anima,
Pier Giudeo.
Vincenzio d'Astolfo,
Iacopo d'Orlando.
Lodovico del Danese,
Tomaso di Ruggieri.
Iacopo Maria Lino,
Stefano Stoppa.
Baldassarre de' Letti,
Girolamo delle Coperte.
Pagolo Poeta,
Alfonso del Dottore.
Francesco de' Cavalli,
Vincenzio Maniscalchi.
Francesco Ciabattino,
Vincenzio Taccone.
Nicolò delle Agucchie,
Taddeo de' Ditali,
Piero Cucitura.
Giulio Berretta,
Cesare Cappello.
Nicolò Giubboni,
Giovan Francesco delle Calze.
Bastiano de' Poveretti,
Iacopo del Riccobono.
Giovanni Piacevole
Antonio Sdegnoso.
Vincenzio delli Archi,
Bastiano delle Frezze,
Stefano Bolzone.
Giovan Battista della Spada,
Lionardo de' Foderi.
Vincenzio delle Corazzine,
Carlo della Maglia.
Vincenzio da Libri,
Pier Antonio Scrittori.
Giovan Iacopo de' Savi,
il Zoppo Mattana.
Evangelista de' Nobili,
Vergilio Mezzo Villano.
Cesare Fiorino,
Iacopo Carlino.
Anton Grosso,
Matteo Baiocco.
Panfilo Quattrino,
Tomaso Moneta.
Cornelio Malvagìa,
Antonio Bevilacqua.
Cristofano delle Spezie,
Suspiro delle Bussole.
Girolamo della Luna,
Iacopo della Stella.
Anton Maria delle Ceste,
Niccola de' Basti.
Tomaso de' Cospi,
Giovanni delle Pianelle.
Francesco della Rosa,
Ercole del Giglio.
Pagolo dall'Orso,
Agnolo del Montone.
Anniballe dell'Oro,
Girolamo del Ferro.
Agnolo della Seta,
Bastiano del Garzuolo.
Nicolò Scardonio,
Giovan Battista Tencarello.
Andrea de' Buoi,
Iacopo del Carro.
Carl'Anton de' Galli,
Giulio de' Capponi.

La cesarea maiestà entrò in Bologna per
la porta di Saragozza, e camminato ch'eb-
be un pezzo per la detta strada di Sera-
gozza, si voltò per Sguazza Coie e di lì
arrivò in le Cento trecento; dipoi passò
per Paglia in culo, per il Borgo delle
ballotte, per l'Incisa, per Gierusalem,
Quartirolo, Gatta marcia, Pizza morti,
Fondazza, Bracca l'Indosso, Androna sotto,
Centoversi, Malgra, Valle de' Sorgi, Val
dei Musciolini, Bruol delli Asinin, Andro-
na di San Tomaso, Fiacca 'l collo, Truffa
il mondo, Frega Tette, che arriva in piaz-
za. E sua maiestà se n'andò in San Petro-
nio, e di poi in palazzo. Dove fu poi da'
bolognesi presentato di cuccole, salsi-
zuotti, calcinia, leccaboni. E li donaron
ancora il ritratto della Madonna del Bara-
cano e della torre delli Asinelli.



42

Sonetto contra li preti

Godete, preti, poi che 'l vostro Cristo
v'ama cotanto, ch'ei, se più s'offende,
più da turchi e concilii vi difende
e più felice fa quel ch'è più tristo.

Ben verrà tempo ch'ogni vostro acquisto,
che così bruttamente oggi si spende,
vi leverà; ché Dio ferirvi intende
col fùlgor che non sia sentito o visto.

Credete voi, però, Sardanapali,
potervi far or femine or mariti,
e la chiesa or spelonca et or taverna?

E far mille altri, ch'io non vo' dir, mali,
e saziar tanti e sì strani appetiti,
e non far ira alla bontà superna?

 
 
 

Il Meo Patacca 04-3

Post n°1240 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ma gnente poi servì 'sta diligenza,
Perchè non bisognò testimonianza,
Se poco doppo, quanno men ci penza,
Vede già Marco Pepe in vicinanza.
Se mena de birbanti una seguenza
Marcianno el primo lui con gran baldanza,
E capitale fa il dritton di questi,
Acciò a un bisogno stiano pronti e lesti.

Ecco superbi li due sgherri a fronte,
E l'uno all'altro con gran brio s'accosta;
Marco Pepe, che fa da Spaccamonte,
"Olà, - dice, - nostrisci è quì a tua posta".
"A sodisfatte io già le voglie ho pronte".
MEO gli risponne, e ogn'un di lor si scosta.
Vengono, pe' menà presto le mani,
Giusto un tiro di fionna a star lontani.

Subbito le perzone si slargorno,
Che già con Marco Pepe eran venute,
E quelle ancor, ch'a caso capitorno
Da curiosità quì trattenute.
Fecer l'istesso quelle, ch'arrivorno,
Che da MEO queste cose havean sapute,
El campo largo e libero si lassa,
E in tel mezzo nisciun proprio ce passa.

Ogn'un delli due sgherri el posto ha preso,
Fatta de rocci in berta un'adunata,
Sul braccio manco el pietro è in giù disteso,
Che poi fa alla perzona una parata:
Impaziente già 'l popolo s'è reso,
Di vede questa gran sassaiolata;
Ciasch'uno poi di lor, conforme è il patto,
Alla su' fionna dà de piccio a un tratto.

La fionna è un braccio e più di cordicella
Di canapa assai forte e fatta a treccia,
Ne i due capi è sottil, ma grossicella
Inverzo el mezzo, e sempre più s'intreccia;
Qui come rete c'è una ferratella
In dove ce se mette o sasso o breccia;
Ma qual poi sia, più granne è della maglia,
Nè resce, se no, allor quanno se scaglia.

E l'una e l'altra punta accompagnata
Stringon le dete della dritta mano,
Ma poi drento la fionna ripiegata
La manca il sasso tiè dal sen lontano;
A quella si da allora una stirata,
Si piglia poi la mira, e non invano,
Perchè 'sti nostri sgherri, così bene,
Ci azzeccano, che fanno stravedene.

Tutto fecer costoro, e al primo tiro
Ogn'un tiè la su' fionna apparecciata;
Cominza Marco Pepe, e più d'un giro
A quella dà, sopra el cotogno alzata.
Lassa un dei pezzi, e in meno d'un rispiro
Vie la breccia con impeto scagliata:
PATACCA non si scanza, e non s'abbassa,
Perchè assai da lontan quella gli passa.

Ma poi dà al fongo una calcata in testa,
Due passi innanzi rivoltato in costa,
Vuò trova modo de spiccia 'sta festa.
Fa prima una sbracciata, e poi s'imposta,
Piglia la mira dritta dritta, e in questa
Non falla mai se nol facesse a posta;
Ma perchè fa da vero, a fè' non sbaglia,
Giusto in dove ha mirato, el selcio scaglia.

Frulla e fischia per aria, e azzeccaria
Di Marco Pepe appunto in tel mostaccio,
Se lì propio Patacca glie l'avvia,
Ma si para col pietro, alzanno el braccio.
Pur lo scotola a segno, che darìa
In terra un solennissimo crepaccio,
Se non si fusse a caso ritrovato
Co' i piedi in sul terren forte piantato.

S'infuria allor costui, perchè mostrarzi
Vorria propio una bestia inferocita;
Si sbraccia in fionnolà, per vendicarzi
Di quella botta c'ha lui ben sentita,
Ma perchè i colpi, o arrivano assai scarzi,
O perchè MEO sa fa' scanzi di vita,
Non serve no, ch'in tel fa' sciarra incocci,
Che sempre a voto han da cascà i su' rocci.

Mò se scioglie Patacca, e un capo sotto
Fa con impeto granne, e non sta queto.
Dice de i sgherri al solito, quel motto:
"Arreto là, Dì Serenella, arreto!".
Poi piglia inverzo el su' nemico un trotto,
Pare il diavolo giusto in tun canneto,
Spara saioccolate a più potène,
E l'avversario tozzola assai bene.

Va costui pe' le fratte, e spaurito
Batte la ritirata, e MEO s'acclama,
Che fà vedà, s'è giovane agguerrito,
Se corrisponne all'opere la fama.
Ridotto è Marco Pepe a mal partito,
Ma pe' ripiego sfoderò la lama;
Potrìa MEO rifibbiagli un roccio in petto,
O in testa, e non lo fa' per un rispetto.

Non vuò parè d'usà superchieria
Con chi lassa de sta' su la difesa,
Mentre (la fionna già buttata via)
Di quella in scammia, la saracca ha presa.
Fa l'istesso ancor MEO: con presciaria
El pietro in terra posa, e a fa' st'impresa
Tanto è 'l gusto, che ci ha, che par si gonfi
Nella grolia, ch'havrà de i su' trionfi.

Eccolo già allestito, et in farzetto,
Dereto annoda a li capelli un laccio;
Calcato è il fongo a mezza fronte, e stretto
Attillato è il gippon, libero il braccio.
Ha un par di calzoncini di droghetto,
E perchè nel tira non diano impaccio,
Assai succinti sono, e giù serrati,
Sul ginocchio da fianco abbottonati.

Ha un paro di fangose, e bianche e piane
Senza calcagno a foggia di lacchène;
Sciala pur Marco Pepe, ma non fàne
La su' compariscenza così bene.
Allor le genti allor a caravane
S'accostano, e nisciuno s'intrattiene,
È pe' meglio vedè 'sta gran custione
Fanno un circolo folto 'ste perzone.

PATACCA pe' mostra, ch'è duellista,
Pratico delle cose della guerra,
Fa delle due saracche la rivista,
E le misura con la punta in terra.
S'accorge allor, c'ha quella razza trista
Di Marco Pepe, longa più la sferra,
Ma MEO, fidato in te la su' bravura,
D'havè questo svantaggio non si cura.

Guarda, se il Sole po' la vista offennere,
Pe' spartirzelo poi con uguaglianza:
Come se pozza de 'ste cose intennere
Un homo vil, non para stravaganza.
L'ha inteso dir, ch'il Sole col risplennere
abbaglia el vede, e che però si scanza,
O si divide in modo, in tel cimento,
Che sia tanto per un l'impedimento.

Ma c'è de bono, che non c'è st'impiccio,
Nè accurre proprio a fa' 'sta spartitura,
Mentre, per esse 'l tempo nuvoliccio,
Non c'è bisogno de 'st'architettura;
Perchè alla fine MEO, vuò dar lo spiccio
A 'sta facenna, messo in positura,
Si sbottona el gippone, e sfarzosetto
Nudo fa vede a Marco Pepe el petto.

Immantinente allor si slaccia anch'esso,
E mostra l'apertura, e un vestitello
Stretto alla vita, puro lui s'è messo,
Che bono sia da potè fa' duello.
Poi si piantano in guardia a un tempo stesso
Con un ceffo superbo, e questo e quello,
Ma sta MEO con tal brio, con tal lindura,
Che pare giusto pare una pittura.

Largo è il passo a dovere, et è incurvato
El ginoccio mancino, il dritto è teso,
Un tantino però solo è piegato,
Per esser assai pronto a un passo steso.
La vita sta in profilo, et è guardato
El petto, ch'è cuperto, e ben difeso
Dal braccio dritto, che si slunga, e il ferro
Tiè dritto al petto del nemico sgherro.

Questo pure sta in guardia, e va naspanno,
S'hora stenne la mano, hor la ritira;
Par, che vada, un gran colpo disegnanno,
E che voglia piglià giusta la mira.
Gnente MEO si scompone, e stà osservanno,
Se Marco Pepe il primo colpo tira.
Se tanto ardisce con la su' perzona,
Glie la sona pel verzo glie la sona.

Ma prima di tirà, quel farinello Di
guadagnarsi il debbole cercava
Della sferra di MEO; però bel bello
La va attastanno, e quello sfugge e cava.
Torna di nuovo a fa' 'sto giocarello,
E MEO da sgherro pratico, ricava.
Hor di fora, hor di drento ci riprova,
E le cavate allor l'altro rinova.

PATACCA s'intrattiè de fa' sconfitta;
Gli scappa alfin gli scappa la pacenza,
Tira de furia una stoccata dritta,
Che l'havaria sfonnato de potenza.
Ma giusto, come fa la gente guitta
Fece colui, perchè non ha sperienza:
Pe' conto de parà, non c'è sustanza,
Ma con un zompo arreto, il colpo scanza.

L'altro lo va incalzanno, e più l'investe,
E lui più si ritira, e non resiste.
Quello stoccate avvia gagliarde e preste,
Si vede questo annà già pe' le piste.
Allor, (cosa, che mai non credereste),
Perchè già le su' coccole ha previste,
Perchè resta non ci vorria sbusciato,
Un ripiego pigliò da disperato.

Pe' vedè s'un bel colpo gli viè fatto,
Mentre cognosce, ch'è a fuggir costretto,
La sferra addrizza, e poi si mette in atto
De tira di PATACCA inverzo el petto.
Ma una fintiva fu, ch'un brutto tratto
Penzò di fa', come seguì in effetto.
Acciò pe' dritto a trapassarlo vada,
Tutta verzo di lui lanciò la spada.

Col forte de la sua MEO si ripara,
E quella, ch'è scagliata in fora schizza,
Ma però allora a inbestialirzi impara,
E pe' la rabbia el naso glie s'arrizza.
In vedè, che nel colpo ha fatto zara,
Pepe inverzo la gente il corzo addrizza,
E MEO, benchè habbia in man le du' saracche,
Lo seguita, e gli va quasi alle tacche.

Quello in sentirzi il calpestìo vicino
Di MEO, che pare scatenato un orzo,
La su' vita darìa per un quatrino,
E allora a più potè raddoppia il corzo.
Spera però, perch'è ghinaldo fino,
Solo dalle sue astuzie havè soccorzo:
Un selcio in sacca havea, fora lo caccia,
Si volta, e tira a MEO verso la faccia.

Lesto abbassa suisci el cocuzzolo,
El sasso ritto passa, e non l'offenne.
Allor sì, che s'infoia, e curre a volo
E se l'arriva, certo giù lo stenne!
Ma con gran forza el birbantesco stuolo
Che guidò Marco Pepe l'intrattenne,
E fece ben, che se così non fava,
Restava freddo quel ciafèo restava.

Fermatosi allor MEO, s'è di già accorto,
Che pigliarzi non deve più cicoria.
E che in tel fà più smargiassate ha torto,
Se del nemico havè già la vittoria.
Ciò assai lo placa, e gli dà gran conforto
Il sentirzi lodane, e de 'sta boria
Se ne fa 'na panzata, e più ce sciala,
Più che ogn'un gli dà prausi con la pala.

Al su' nemico el pietro fece rennere,
Che havea lassato, e addosso il suo se messe,
E da uno sgherro poi gli fece intennere,
Che d'haverla finita non credesse;
Che dell'ardire havuto, in tel pretennere
Che con lui, ch'è un tavano, si battesse,
Un MEO PATACCA, un capo compagnia,
Fatto l'havrìa pentì fatto l'havrìa.

Gli fece dir di più che si portava
La su' sferra in trionfo, e no sperasse,
Se col valor non se la riabbuscava,
Ch'in mano sua più quella ritornasse.
Così dicenno il vincitor marciava,
E non mancò chi allor l'accompagnasse,
E lui perchè già l'aria s'imbruniva,
Venir li lassa, e gli dà ognun el viva!

Appena al su' tugurio fu arrivato
PATACCA, che Calfurnia un gran rumore
Sentì d'apprausi e grolie, et acclamato
Dalli vicini MEO pe' vincitore.
Pel gran dolor, (quasi che perzo el fiato),
Glie venne un sbiascimento e un languicore,
Quel, che poi succede doppo svenire,
Nel Canto che verrà, vel saprò dire.

Fine del Quarto Canto.

 
 
 

Rime del Berni 35-37

Post n°1239 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

35

CAPITOLO A MESSER FRANCESCO MILANESE

Messer Francesco, se voi sète vivo
(perch'i' ho inteso che voi sète morto),
leggete questa cosa ch'io ve scrivo;
per la qual vi consiglio e vi conforto
a venir a Venezia, ch'oggimai
a star tanto in Piacenza avete torto;
e quel ch'è peggio, senza scriver mai,
ché pur, s'aveste scritto qualche volta,
di voi stariamo più contenti assai.
Qui è messer Achille dalla Volta,
e 'l reverendo monsignor Valerio,
che dimanda di voi volta per volta
e mostra avere estremo desiderio;
né pur sol egli, ma ogni persona
n'ha un martel ch'è proprio un vituperio;
lasciamo andar monsignor di Verona,
nostro padron, che mai né dì né notte
con la lingua e col cuor non v'abbandona.
Se voi aveste, non vo' dir le gotte,
ma il mal di santo Antonio e 'l mal franzese
e le gambe e le spalle e l'ossa rotte,
doveresti esser stato qua già un mese,
tanto ogniun si consuma di vedervi
e d'alloggiarvi e quasi far le spese.
Ma non dissegni già nissun d'avervi,
ch'i' vi vogl'io; e per Dio starei fresco,
se' forestieri avessino a godervi.
Venite via, il mio messer Francesco,
ché vi prometto due cose eccellenti,
l'un'è 'l ber caldo e l'altra il magnar fresco.
E se voi arrete mascelle valenti,
vi gioverà, ché qui si mangia carne
di can, d'orsi, di tigri e di serpenti.
I medici consiglion che le starne
quest'anno, per amor delle petecchie,
farebbon mal, chi volesse mangiarne;
ma de questi lavori delle pecchie,
(o ape, a modo vostro) vi prometto
che n'avem co i corbegli e con le secchie.
Io parlo d'ogni sorte di confetto:
in torte, in marzapani e 'n calicioni
vo' sotterrarvi insin sopra el ciuffetto;
capi di latte santi, non che buoni
(io dico capi, qui si chiamon cai),
da star proprio a magnarli in ginocchioni;
poi certi bozzolai impeverai,
alias berlingozzi e confortini:
la miglior cosa non magnasti mai.
Voi aspettate che l'uom ve strascini;
venite, ché sarete più guardato
che 'l doge per la Sensa da i facchini;
sarete intratenuto e corteggiato,
ben visto da ogniun com'un barone,
chi v'oderà se potrà dir beato;
parrete per queste acque un Anfione,
anzi un Orfeo, che sempre avea dirieto
bestie in gran quantità d'ogni ragione.
Se sète, com'io spero, sano e lieto,
per vostra fe' non mi fate aspettare,
né star tanto con l'animo inquieto.
E`cci onestamente da sguazzare,
secondo il tempo; ècci il Valerio vostro
ch'in cortesia sapete è singulare.
Ciò ch'è di lui possiam riputar nostro,
e pane e vin: pensate ch'adess'io
scrivo con la sua carta e col suo inchiostro.
Stemo in una contrada et in un rio,
presso santa Trìnita e l'arzanale,
incontro a certe monache d'Iddio,
che fan la pasqua come il carnovale,
id est che non son troppo scropulose,
ché voi non intendeste qualche male.
Venite a scaricar le vostre cose
et a diritto; e venga Bernardino,
ché faremo armonie miracolose.
Poi alla fin d'agosto o lì vicino,
se si potrà praticare el paese,
verso el patron pigliarem il camino,
che l'altr'ier se n'andò nel veronese.



36

CAPITOLO A MESSER MARCO VENEZIANO

Quant'io vo più pensando alla pazzia,
messer Marco magnifico, che voi
avete fatto e fate tuttavia,
d'esservi prima imbarcato e da poi
para pur via, sappiate che mi viene
compassion di voi stesso e di noi,
che dovevamo con cento catene
ligarvi stretto; ma noi siamo stati
troppo da poco e voi troppo da bene.
Quel monsignor da gli stival tirati
poteva pure star dui giorni ancora,
poi che dui mesi ce aveva uccellati
con dire: "Io voglio andar; io andrò ora",
ché pur veniva da monsignor mio
la risposta, la qual è venuta ora;
e dice ch'è contento e loda Iddio
venga con voi e stia e vada e torni
e facci tanto quanto v'è in disio,
pur che la stanza non passi otto giorni.
Ma Dio sa poi quel che sarebbe stato:
al pan si guarda inanzi che s'inforni,
poi non importa quand'egli è infornato.
Or basta; io son qui solo come un cane
e non magno più ostreghe né fiato;
e per disperazion vo via domane,
in loco ov'io v'aspetto e vi scongiuro
che siate almen qui fra tre settimane,
perch'i' altrimenti non sarei sicuro;
ciò è avrei da far... voi m'intendete,
che sapete il preterito e 'l futuro.
Diranno: "Noi vogliam che tu sia prete";
"Noi vogliam che tu facci e che tu dica":
io starò fresco se voi non ci sète.
Senza che più ve lo scriva o ridica,
venite via: che volete voi fare,
fra cotesti orti di malva e d'ortica,
che son pei morti cosa singulare,
come dice el sonetto di Rosazzo?
Io vo' morir se ci potrete stare.
E per mia fe', ch'è pur un bel solazzo
l'avere scelta questa vostra gita!
E` stato quasi un capriccio di pazzo.
Per certo egli era pur un'altra vita
Santa Maria di Grazie e quelle torte,
delle quali io mi lecco ancor le dita;
quelle, vo' dir, che 'n così varia sorte
ci apparecchiava messer Pagol Serra;
che mi vien ora el sudor della morte,
a dir ch'io m'ho a partir di questa terra
et andarmi a ficcar in un paese
dove si sta con simil cose in guerra;
di quella graziosa, alma, cortese,
che vive come vivono i cristiani,
parlo della brigata genovese,
Salvaghi, Arcani e Marini e Goani,
che Dio dia a' lor cambi e lor faccende
la sua benedizion ad ambe mani.
Era ben da propor, da chi s'intende
di compagnie e di trebbii, a coteste
generazion salvatiche et orrende,
che paion sustituti della peste.
Or io non voglio andar moltiplicando
in ciance che vi son forte moleste,
e 'n sul primo proposito tornando,
dico così, che voi torniate presto.
A vostra signoria mi raccomando
e mi riserbo a bocca a dire il resto.



37

A GIOVAN MARIANI
CONGRATULANDOSI CHE SIA VIVO

Io ho sentito, Giovan Mariani,
che tu sei vivo e sei pur anco a Vico:
io n'ho tanto piacer (ve' quel ch'io dico)
quant'io avessi mai 'l dì de' cristiani.

Le carestie, le guerre e i tempi strani,
c'hanno chi morto e chi fatto mendico,
fan che di te non arei dato un fico:
tu m'eri quasi uscito delle mani.

Or vi sei, non so come, ritornato;
sia ringraziato Benedetto Folchi,
che questa buona nuova oggi m'ha dato!

Dimmi, se' tu nimico più de' solchi,
come solevi? Ché v'eri impacciato
più che colui ch'arò quel campo a Colchi.

A questi tempi dolchi,
che stan così fra dua, che seme getti?
Attendi a far danari o pur sonetti?

Vo' che tu m'imprometti
ch'io ti rivegga prima che si sverni.
Mi raccomando, tuo Francesco Berni.

 
 
 

Il Galateo (18-20)

Post n°1238 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

18.
D'altrui né delle altrui cose non si dèe dir male, tutto che paia che a ciò si prestino in quel punto volentieri le orecchie, mediante la invidia che noi per lo più portiamo al bene et all'onore l'un dell'altro; ma poi alla fine ogniuno fugge il bue che cozza, e le persone schifano l'amicitia de' maldicenti, facendo ragione che quello che essi dicono d'altri a noi, quello dichino di noi ad altri. Et alcuni, che si oppongono ad ogni parola e quistionano e contrastano, mostrano che male conoscano la natura degli uomini, ché ciascuno ama la vittoria e lo esser vinto odia, non meno nel favellare che nello adoperare: sanza che il porsi volentieri al contrario ad altri è opera di nimistà e non d'amicitia. Per la qual cosa colui che ama di essere amichevole e dolce nel conversare non dèe aver così presto il - Non fu così - e lo - Anzi sta come vi dico io -, né il metter sù de' pegni, anzi si dèe sforzare di essere arrendevole alle openioni degli altri d'intorno a quelle cose che poco rilevano. Perciò che la vittoria in sì fatti casi torna in danno, con ciò sia che vincendo la frivola quistione si perde assai spesso il caro amico e diviensi tedioso alle persone, sì che non osano di usare con esso noi, per non essere ogni ora con esso noi alla schermaglia; e chiamanci per sopranome «M[esser] Vinciguerra», o «Ser Contraponi», o «Ser Tuttesalle», e talora «il Dottor Sottile». E se pure alcuna volta aviene che altri disputi invitato dalla compagnia, si vuol fare per dolce modo e non si vuol essere sì ingordo della dolcezza del vincere che l'uomo se la trangugi, ma conviene lasciarne a ciascuno la parte sua; e, torto o ragione che l'uomo abbia, si dèe consentire al parere de' più o de' più importuni e loro lasciare il campo, sì che altri e non tu sia quegli che si dibatta e che sudi e trafeli: che sono sconci modi e sconvenevoli ad uomini costumati, sì che se ne acquista odio e malavoglienza; et, oltre a ciò, sono spiacevoli per la sconvenevolezza loro, la quale per sé stessa è noiosa agli animi ben composti, sì come noi faremo per aventura mentione poco appresso. Ma il più della gente invaghisce sì di sé stessa, che ella mette in abbandono il piacere altrui: e, per mostrarsi sottili et intendenti e savii, consigliano e riprendono e disputano et inritrosiscono a spada tratta, et a niuna sentenza s'accordano, se none alla loro medesima. Il proferire il tuo consiglio non richiesto niuna altra cosa è che un dire di esser più savio di colui cui tu consigli, anzi un rimproverargli il suo poco sapere e la sua ignoranza. Per la qual cosa non si dèe ciò fare con ogni conoscente, ma solo con gli amici più stretti e verso le persone il governo e regimento delle quali a noi appartiene, o veramente quando gran pericolo soprastesse ad alcuno, etiandio a noi straniero; ma nella comune usanza si dèe l'uomo astenere di tanto dar consiglio e di tanto metter compenso alle bisogne altrui: nel quale errore cadono molti, e più spesso i meno intendenti. Perciò che agli uomini di grossa pasta poche cose si volgon per la mente, sì che non penano guari a diliberarsi, come quelli che pochi partiti da essaminare hanno alle mani; ma, come ciò sia, chi va proferendo e seminando il suo consiglio mostra di portar openione che il senno a lui avanzi et ad altri manchi. E fermamente sono alcuni che così vagheggiano questa loro saviezza che il non seguire i loro conforti non è altro che un volersi azzuffare con esso loro, e dicono: - Bene sta; il consiglio de' poveri non è accettato - et - Il tale vuol fare a suo senno - et - Il tale non mi ascolta -; come se il richiedere che altri ubidisca il tuo consiglio non sia maggiore arroganza che non è il voler pur seguire il suo proprio. Simil peccato a questo commettono coloro che imprendono a correggere i difetti degli uomini et a riprendergli; e d'ogni cosa vogliono dar sentenza finale, e porre a ciascuno la legge in mano: - La tal cosa non si vuol fare - e - Voi diceste la tal parola - e - Stoglietevi dal così fare e dal così dire - [e] -'l vino che voi beete non vi è sano, anzi vuole esser vermiglio - e - Dovereste usare del tal lattovaro e delle cotali pillole -; e mai non finano di riprendere, né di correggere. E lasciamo stare che a talora si affaticano a purgare l'altrui campo, che il loro medesimo è tutto pieno di pruni e di ortica; ma egli è troppo gran seccaggine il sentirgli. E sì come pochi o niuno è cui soffera l'animo di fare la sua vita col medico o col confessore e molto meno col giudice del maleficio, così non si truova chi si arrischi di avere la costoro domestichezza, perciò che ciascuno ama la libertà, della quale essi ci privano, e parci essere col maestro. Per la qual cosa non è dilettevol costume lo esser così voglioso di correggere e di ammaestrare altrui; e dèesi lasciare che ciò si faccia da' maestri e da' padri, da' quali pure perciò i figliuoli et i discepoli si scantonano tanto volentieri quanto tu sai che e' fanno!

19.
Schernire non si dèe mai persona, quantunque inimica, perché maggior segno di dispregio pare che si faccia schernendo che ingiuriando, con ciò sia che le ingiurie si fanno o per istizza o per alcuna cupidità, e niuno è che si adiri con cosa (o per cosa) che egli abbia per niente, o che appetisca quello che egli sprezza del tutto: sì che dello ingiuriato si fa alcuna stima e dello schernito niuna o picciolissima. Et è lo scherno un prendere la vergogna che noi facciamo altrui a diletto sanza pro alcuno di noi, per la qual cosa si vuole nella usanza astenersi di schernire nessuno: in che male fanno quelli che rimproverano i difetti della persona a coloro che gli hanno, o con parole, come fece messer Forese da Rabatta, delle fattezze di maestro Giotto ridendosi, o con atti, come molti usano, contrafacendo gli scilinguati o zoppi o qualche gobbo. Similmente chi si ride d'alcuno sformato o mal fatto o sparuto o picciolo, o di sciocchezza che altri dica fa la festa e le risa grandi, e chi si diletta di fare arrossire altrui: i quali dispettosi modi sono meritamente odiati. Et a questi sono assai somiglianti i beffardi, cioè coloro che si dilettano di far beffe e di uccellare ciascuno, non per ischerno, né per disprezzo, ma per piacevolezza. E sappi che niuna differenza è da schernire a beffare, se non fosse il proponimento e la intentione che l'uno ha diversa dall'altro, con ciò sia che le beffe si fanno per sollazzo e gli scherni per istratio, come che nel comune favellare e nel dettare si prenda assai spesso l'un vocabolo per l'altro: ma chi schernisce sente contento della vergogna altrui e chi beffa prende dello altrui errore non contento, ma sollazzo, là dove della vergogna di colui medesimo, per aventura, prenderebbe cruccio e dolore. E come che io nella mia fanciullezza poco innanzi procedessi nella grammatica, pur mi voglio ricordare che Mitione, il quale amava cotanto Eschine che egli stesso avea di ciò maraviglia, non di meno prendea talora sollazzo di beffarlo, come quando e' disse seco stesso: - Io vo' fare una beffa a costui. - Sì che quella medesima cosa a quella medesima persona fatta, secondo la intention di colui che la fa, potrà essere beffa e scherno: e perciò che il nostro proponimento male può esser palese altrui, non è util cosa nella usanza il fare arte così dubbiosa e sospettosa. E più tosto si vuol fuggire che cercare di esser tenuto beffardo, perché molte volte interviene in questo come nel ruzzare o scherzare, che l'uno batte per ciancia e l'altro riceve la battitura per villania, e di scherzo fanno zuffa; così quegli che è beffato per sollazzo e per dimestichezza si reca talvolta ciò ad onta et a disonore e prendene sdegno, sanza che la beffa è inganno, et a ciascuno naturalmente duole di errare e di essere ingannato. Sì che per più cagioni pare che chi procaccia di esser ben voluto et avuto caro non debba troppo farsi maestro di beffe. Vera cosa è che noi non possiamo in alcun modo menare questa faticosa vita mortale del tutto sanza sollazzo né sanza riposo: e perché le beffe ci sono cagione di festa e di riso e, per conseguente, di ricreatione, amiamo coloro che sono piacevoli e beffardi e sollazzevoli. Per la qual cosa pare che sia da dire in contrario, cioè che pur si convenga nella usanza beffare alle volte e similmente motteggiare. E sanza fallo coloro che sanno beffare per amichevol modo e dolce sono più amabili che coloro che no 'l sanno né possono fare; ma egli è di mestiero avere risguardo in ciò a molte cose; e, con ciò sia che la intention del beffatore è di prendere sollazzo dello errore di colui di cui egli fa alcuna stima, bisogna che l'errore nel quale colui si fa cadere sia tale che niuna vergogna notabile né alcun grave danno gliene segua: altrimenti mal si potrebbono conoscere le beffe dalle ingiurie. E sono ancora di quelle persone con le quali, per l'asprezza loro, in niuna guisa si dèe motteggiare, sì come Biondello poté sapere da messer Filippo Argenti nella loggia de' Caviccioli. Medesimamente non si dèe motteggiare nelle cose gravi, e meno nelle vituperose opere, perciò che pare che l'uomo, secondo il proverbio del comun popolo, si rechi la cattività a scherzo, come che a madonna Filippa da Prato molto giovassino le piacevoli risposte da lei fatte intorno alla sua disonestà! Per la qual cosa non credo io che Lupo degli Uberti alleggerisse la sua vergogna, anzi la aggravò, scusandosi per motti della cattività e della viltà da lui dimostrata, ché, potendosi tenere nel castello di Laterina, vedendosi steccare intorno e chiudersi, incontinente il diede, dicendo che nullo Lupo era uso di star rinchiuso; perché, dove non ha luogo il ridere, quivi si disdice il motteggiare et il cianciare.

20.
E dèi oltre a ciò sapere che alcuni motti sono che mordono et alcuni che non mordono; de' primi voglio che ti basti il savio ammaestramento che Lauretta ne diede, cioè che i motti come la pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come il cane: perciò che, se come il cane mordesse, il motto non sarebbe motto ma villania; e le leggi quasi in ciascuna città vogliono che quegli che dice altrui alcuna grave villania sia gravemente punito; e forse che si conveniva ordinar similmente non leggieri disciplina a chi mordesse per via di motti oltra il convenevole modo; ma gli uomini costumati deono far ragione che la legge che dispone sopra le villanie si stenda etiandio a' motti, e di rado e leggiermente pungere altrui. Et oltre a tutto questo, sì dèi tu sapere che il motto, come che morda o non morda, se non è leggiadro e sottile gli uditori niuno diletto ne prendono, anzi ne sono tediati, o, se pur ridono, si ridono non del motto, ma del motteggiatore. E perciò che niuna altra cosa sono i motti che inganni, e lo ingannare, sì come sottil cosa et artificiosa, non si può fare se non per gli uomini di acuto e di pronto avedimento, e spetialmente improviso, perciò non convengono alle persone materiali e di grosso intelletto, né pure ancora a ciascuno il cui ingegno sia abondevole e buono, sì come per aventura non convennero gran fatto a messer Giovan Boccaccio; ma sono i motti spetiale prontezza e leggiadria e tostàno movimento d'animo. Per la qual cosa gli uomini discreti non guardano in ciò alla volontà, ma alla disposition loro, e, provato che essi hanno una e due volte le forze del loro ingegno invano, conoscendosi a ciò poco destri, lasciano stare di pur voler in sì fatto essercitio adoperarsi, acciò che non avenga loro quello che avenne al cavaliero di madonna Orretta. E se tu porrai mente alle maniere di molti, tu conoscerai agevolmente ciò che io ti dico esser vero: cioè che non istà bene il motteggiare a chiunque vuole, ma solamente a chi può. E vedrai tale avere ad ogni parola apparecchiato uno, anzi molti, di quei vocaboli che noi chiamiamo bisticcichi, di niun sentimento; e tale scambiar le sillabe ne' vocaboli per frivoli modi e sciocchi; et altri dire o rispondere altrimenti che non si aspettava, sanza alcuna sottigliezza o vaghezza: - Dove è il signore ? - Dove egli ha i piedi! - e - Gli fece ugner le mani con la grascia di San Giovan Boccadoro - e - Dove mi manda egli? - - Ad Arno! -; - Io mi voglio radere - - E' sarebbe meglio rodere! -; - Va chiama il barbieri - - E perché non il barba ... domani?! -: i quali, come tu puoi agevolmente conoscere, sono vili modi e plebei; cotali furono, per lo più, le piacevolezze et i motti di Dioneo. Ma della più bellezza de' motti e della meno non fia nostra cura di ragionare al presente, con ciò sia che altri trattati ce ne abbia, distesi da troppo migliori dettatori e maestri che io non sono, et ancora perciò che i motti hanno incontinente a larga e certa testimonianza della loro bellezza e della loro spiacevolezza, sì che poco potrai errare in ciò, solo che tu non sii soverchiamente abbagliato di te stesso, perciò che dove è piacevol motto ivi è tantosto festa e riso et una cotale maraviglia. Laonde, se le tue piacevolezze non saranno approvate dalle risa de' circonstanti, sì ti rimarrai tu di più motteggiare, perciò che il difetto fia pur tuo, e non di chi t'ascolta, con ciò sia cosa che gli uditori, quasi solleticati dalle pronte o leggiadre o sottili risposte o proposte, etiandio volendo, non possono tener le risa, ma ridono mal lor grado; da' quali, sì come da diritti e legitimi giudici, non si dèe l'uomo appellare a sé medesimo, né più riprovarsi. Né per far ridere altrui si vuol dire parole né fare atti vili né sconvenevoli, storcendo il viso e contrafacendosi, ché niuno dèe, per piacere altrui, avilire sé medesimo, che è arte non di nobile uomo, ma di giocolare e di buffone. Non sono adunque da seguitare i volgari modi e plebei di Dioneo («madonna Aldruta, alzate la coda...»), né fingersi matto, né dolce di sale, ma, a suo tempo, dire alcuna cosa bella e nuova e che non caggia così nell'animo a ciascuno, chi può, e chi non può, tacersi: perciò che questi sono movimenti dello 'ntelletto, i quali, se sono avenenti e leggiadri, fanno segno e testimonianza della destrezza dell'animo e de' costumi di chi gli dice, la qual cosa piace sopra modo agli uomini e rendeci loro cari et amabili, ma, se essi sono al contrario, fanno contrario effetto, perciò che pare che l'asino scherzi, o che alcuno forte grasso e naticuto danzi o salti spogliato in farsetto.

 
 
 

Il Galateo (15-17)

Post n°1237 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

15.
Per la qual cosa è da aver consideratione che le cirimonie si fanno o per utile o per vanità o per debito; et ogni bugia che si dice per utilità propria è fraude e peccato e disonesta cosa, come che mai non si menta onestamente; e questo peccato commettono i lusinghieri, i quali si contrafanno in forma d'amici, secondando le nostre voglie, quali che elle si siano, non acciò che noi vogliamo, ma acciò che noi facciamo lor bene, e non per piacerci, ma per ingannarci. E quantunque sì fatto vitio sia per aventura piacevole nella usanza, non di meno, perciò che verso di sé è abominevole e nocivo, non si conviene agli uomini costumati, però che non è lecito porger diletto nocendo: e se le cirimonie sono, come noi dicemmo, bugie e lusinghe false, quante volte le usiamo a fine di guadagno, tante volte adoperiamo come disleali e malvagi uomini: sì che per sì fatta cagione niuna cirimonia si dèe usare.

16.
Restami a dire di quelle che si fanno per debito e di quelle che si fanno per vanità. Le prime non istà bene in alcun modo lasciare che non si facciano, perciò che chi le lascia non solo spiace, ma egli fa ingiuria; e molte volte è occorso che egli si è venuto a trar fuori le spade solo per questo, che l'un cittadino non ha così onorato l'altro per via, come si doveva onorare, perciò che le forze della usanza sono grandissime, come io dissi, e voglionsi avere per legge in simili affari. Per la qual cosa chi dice «voi» ad un solo, purché colui non sia d'infima conditione, di niente gli è cortese del suo, anzi, se gli dicesse «tu», gli torrebbe di quello di lui e farebbegli oltraggio et ingiuria, nominandolo con quella parola con la quale è usanza di nominare i poltroni e i contadini. E se bene altre nationi et altri secoli ebbero in ciò altri costumi, noi abbiamo pur questi, e non ci ha luogo il disputare quale delle due usanze sia migliore, ma convienci ubidire non alla buona, ma alla moderna usanza, sì come noi siamo ubidienti alle leggi etiandio meno che buone per fino che il Comune o chi ha podestà di farlo non le abbia mutate. Laonde bisogna che noi raccogliamo diligentemente gli atti e le parole con le quai l'uso et il costume moderno suole e ricevere e salutare e nominare nella terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d'uomini, e quelle in comunicando con le persone osserviamo. E non ostante che l'Ammiraglio, sì come il costume de' suoi tempi per aventura portava, favellando col re Pietro d'Aragona gli dicesse molte volte «tu», diremo pur noi a' nostri re «Vostra Maestà» e «La Serenità V[ostra]», così a bocca come per lettere: anzi, sì come egli servò l'uso del suo secolo, così debbiamo noi non disubidire a quello del nostro. E queste nomino io cirimonie debite, con ciò sia che elle non procedono dal nostro volere né dal nostro arbitrio liberamente, ma ci sono imposte dalla legge, cioè dall'usanza comune; e nelle cose che niuna sceleratezza hanno in sé, ma più tosto alcuna apparenza di cortesia, si vuole, anzi si conviene ubidire a' costumi comuni e non disputare né piatire con esso loro. E quantunque il basciare per segno di riverenza si convenga dirittamente solo alle reliquie de' santi corpi e delle altre cose sacre, non di meno, se la tua contrada arà in uso di dire nelle dipartenze: - Signore, io vi bascio la mano - o - Io sono vostro servidore - o ancora - Vostro schiavo in catena -, non dèi esser tu più schifo degli altri, anzi, e partendo e scrivendo, dèi e salutare et accommiatare non come la ragione, ma come l'usanza vuole che tu facci; e non come si soleva o si doveva fare, ma come si fa. E non dire: - E di che è egli signore? - o - È costui forse divenuto mio parrochiano, che io li debba così basciar le mani? -; perciò che colui che è usato di sentirsi dire «signore» dagli altri, e di dire egli similmente «signore» agli altri, intende che tu lo sprezzi e che tu gli dica villania, quando tu il chiami per lo suo nome, o che tu gli di' «messere» o gli dài del «voi» per lo capo. E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell'acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini, sì che non si deono abominare, come alcuni rustici e zotichi fanno, i quali vorrebbon che altri cominciasse le lettere che si scrivono agl'imperadori et ai re a questo modo, cioè: «Se tu e' tuoi figliuoli siate sani, bene sta; anch'io son sano», affermando che cotale era il principio delle lettere de' latini uomini scriventi al Comune loro di Roma, alla ragion de' quali chi andasse drieto, si rincondurrebbe passo passo il secolo a vivere di ghiande. Sono da osservare etiandio in queste cirimonie debite alcuni ammaestramenti, acciò che altri non paia né vano né superbo. E prima si dèe aver risguardo al paese dove l'uom vive, perciò che ogni usanza non è buona, in ogni paese, e forse quello che s'usa per li Napoletani, la città de' quali è abondevole di uomini di gran legnaggio e di baroni d'alto affare, non si confarebbe per aventura né a' Lucchesi né a' Fiorentini, i quali per lo più sono mercatanti e semplici gentiluomini, sanza aver fra loro né prencipi né marchesi né barone alcuno. Sì che le maniere di Napoli, signorili e pompose, trapportate a Firenze, come i panni del grande messi indosso al picciolo sarebbono soprabondanti e superflui, né più né meno come i modi de' Fiorentini alla nobiltà de' Napoletani - e forse alla loro natura - sarebbono miseri e ristretti. Né perché i gentiluomini Vinitiani si lusinghino fuor di modo l'un l'altro per cagion de' loro ufficii e de' loro squittini, starebbe egli bene che i buoni uomini di Rovigo o i cittadini d'Asolo tenessero quella medesima solennità in riverirsi insieme per nonnulla; come che tutta quella contrada (s'io non m'inganno) sia alquanto trasandata in queste sì fatte ciancie, sì come scioperata o forse avendole apprese da Vinegia, loro donna, imperò che ciascuno volentieri sèguita i vestigii del suo signore, ancora sanza saper perché. Oltre a ciò, bisogna avere risguardo al tempo, all'età, alla conditione di colui con cui usiamo le cirimonie et alla nostra, e con gli infaccendati mozzarle del tutto o almeno accorciarle più che l'uom può, e più tosto accennarle che isprimerle (il che i cortigiani di Roma sanno ottimamente fare), ma in alcuni altri luoghi le cirimonie sono di grande sconcio alle faccende e di molto tedio. - Copritevi - dice il giudice impacciato, al quale manca il tempo; e colui, fatte prima alquante riverenze, con grande stropiccio di piedi, rispondendo adagio, dice: - Signor mio, io sto ben così. - Ma pur dice il giudice: - Copritevi! - E quegli, torcendosi due e tre volte per ciascun lato e piegandosi fino in terra con molta gravità, risponde: - Priego V[ostra] S[ignoria] che mi lasci fare il debito mio...-, e dura questa battaglia tanto, e tanto tempo si consuma, che 'l giudice in poco più arebbe potuto sbrigarsi di ogni sua faccenda quella matina. Adunque, benché sia debito di ciascun minore onorare i giudici e l'altre persone di qualche grado, non di meno, dove il tempo no 'l sofferisce, divien noioso atto e dèesi fuggire o modificare. Né quelle medesime cirimonie si convengono a' giovani, secondo il loro essere, che agli attempati fra loro; né alla gente minuta e mezzana si confanno quelle che i grandi usano l'un con l'altro. Né gli uomini di grande virtù et eccellenza soglion farne molte, né amare o ricercare che molte ne siano fatte loro, sì come quelli che male possono impiegar in cose vane il pensiero. Né gli artefici e le persone di bassa conditione si deono curare di usar molto solenni cirimonie verso i grandi uomini e signori, che le hanno da loro a schifo anzi che no, perciò che da loro pare che essi ricerchino et aspettino più tosto ubidienza che onore. E per questo erra il servidore che proferisce il suo servigio al padrone, perciò che egli se lo reca ad onta e pargli che il servidore voglia metter dubbio nella sua signoria, quasi a lui non istia l'imporre et il commandare. Questa maniera di cirimonie si vuole usare liberalmente, perciò che quello che altri fa per debito è ricevuto per pagamento e poco grado se ne sente a colui che 'l fa; ma chi va alquanto più oltra di quello che egli è tenuto pare che doni del suo et è amato e tenuto magnifico. E vammi per la memoria di avere udito dire che un solenne uomo greco, gran versificatore, soleva dire che chi sa carezzar le persone con picciolo capitale fa grosso guadagno: tu farai adunque delle cirimonie come il sarto fa de' panni, che più tosto gli taglia vantaggiati che scarsi, ma non però sì che, dovendo tagliare una calza, ne riesca un sacco né un mantello. E se tu userai in ciò un poco di convenevole larghezza verso coloro che sono da meno di te, sarai chiamato cortese; e se tu farai il somigliante verso i maggiori, sarai detto costumato e gentile; ma chi fosse in ciò soprabondante e scialacquatore, sarebbe biasimato, sì come vano e leggiere, e forse peggio gli averrebbe ancora, ché egli sarebbe avuto per malvagio e per lusinghiero e (come io sento dire a questi letterati) per adulatore: il qual vitio i nostri antichi chiamarono, se io non erro, piaggiare, del qual peccato niuno è più abominevole né che peggio stia ad un gentiluomo. E questa è la terza maniera di cirimonie, la qual procede pure dalla nostra volontà e non dalla usanza. Ricordiamoci adunque che le cirimonie, come io dissi da principio, naturalmente non furono necessarie, anzi si poteva ottimamente fare sanza esse, sì come la nostra natione, non ha però gran tempo, quasi del tutto faceva, ma le altrui malatie hanno ammalato anco noi e di questa infermità e di molte altre. Per la qual cosa, ubidito che noi abbiamo all'usanza, tutto il rimanente in ciò è superfluità et una cotal bugia lecita; anzi, pure da quello innanzi non lecita, ma vietata, e perciò spiacevole cosa e tediosa agli animi nobili, che non si pascono di frasche e di apparenze. E sappi che io, non confidandomi della mia poca scienza, stendendo questo presente trattato, ho voluto il parere di più valenti uomini scientiati; e truovo che un re il cui nome fu Edipo, essendo stato cacciato di sua terra, andò già ad Atene al re Teseo, per campare la persona (ché era seguitato da' suoi nimici), e dinanzi a Teseo pervenuto, sentendo favellare una sua figliuola et alla voce riconoscendola (perciò che cieco era), non badò a salutar Teseo, ma, come padre, si diede a carezzare la fanciulla; e, ravedutosi poi, volle di ciò con Teseo scusarsi, pregandolo gli perdonasse. Il buono e savio re non lo lasciò dire, ma disse egli: - Confortati, Edipo, perciò che io non onoro la vita mia con le parole d'altri, ma con le opere mie -: la qual sentenza si dèe avere a mente; e come che molto piaccia agli uomini che altri gli onori, non di meno, quando si accorgono di essere onorati artatamente, lo prendono a tedio, e più oltre lo hanno anco a dispetto. Perciò che le lusinghe (o adulationi che io debba dire) per arrota alle altre loro cattività e magagne hanno questo difetto ancora: che i lusinghieri mostrano aperto segno di stimare che colui cui essi carezzano sia vano et arrogante et, oltre a ciò, tondo e di grossa pasta e semplice sì che agevole sia d'invescarlo e prenderlo. E le cirimonie vane et isquisite e soprabondanti sono adulationi poco nascose, anzi palesi e conosciute da ciascuno, in modo tale che coloro che le fanno a fine di guadagno, oltra quello che io dissi di sopra della loro malvagità, sono etiandio spiacevoli e noiosi.

17.
Ma ci è un'altra maniera di cirimoniose persone, le quali di ciò fanno arte e mercantatia, e tengonne libro e ragione: alla tal maniera di persone un ghigno, et alla cotale un riso; et il più gentile sedrà in su la seggiola et il meno su la panchetta: le quai cirimonie credo che siano state trapportate di Spagna in Italia, ma il nostro terreno le ha male ricevute e poco ci sono allignate, con ciò sia che questa distintione di nobiltà così appunto a noi è noiosa e perciò non si dèe alcuno far giudice a dicidere chi è più nobile o chi meno. Né vendere si deono le cirimonie e le carezze a guisa che le meretrici fanno, sì come io ho veduto molti signori fare nelle corti loro, sforzandosi di consegnarle agli sventurati servidori per salario. E sicuramente coloro che si dilettano di usar cirimonie assai fuora del convenevole, lo fanno per leggierezza e per vanità, come uomini di poco valore, e perciò che queste ciancie s'imparano di fare assai agevolmente, e pure hanno un poco di bella mostra, essi le apprendono con grande studio; ma le cose gravi non possono imparare, come deboli a tanto peso, e vorrebbono che la conversatione si spendesse tutta in ciò, sì come quelli che non sanno più avanti e che sotto quel poco di polita buccia niuno sugo hanno e a toccarli sono vizzi et mucidi, e perciò amerebbono che l'usar con le persone non procedesse più adentro di quella prima vista: e di questi troverai tu grandissimo numero. Alcuni altri sono che soprabondano in parole et in atti cortesi per supplire al difetto della loro cattività e della villana e ristretta natura loro, avisando, se eglino fossero sì scarsi e salvatichi con le parole come sono con le opere, gli uomini non dovergli poter sofferire. E nel vero così è, che tu troverai che per l'una di queste due cagioni i più abondano di cirimonie superflue, e non per altro: le quali generalmente noiano il più degli uomini, perciò che per loro s'impedisce altrui il vivere a suo senno, cioè la libertà, la quale ciascuno appetisce innanzi ad ogni altra cosa.

 
 
 

Il Galateo (12-14)

Post n°1236 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

12.
Male fanno ancora quelli che tratto tratto si pongono a recitare i sogni loro con tanta affettione e facendone sì gran maraviglia che è uno isfinimento di cuore a sentirli; massimamente ché costoro sono per lo più tali che perduta opera sarebbe lo ascoltare qualunque s'è la loro maggior prodezza, fatta etiandio quando vegghiarono! Non si dèe adunque noiare altrui con sì vile materia come i sogni sono, spetialmente sciocchi, come l'uom gli fa generalmente. E come che io senta dire assai spesso che gli antichi savi lasciarono ne' loro libri più e più sogni scritti con alto intendimento e con molta vaghezza, non perciò si conviene a noi idioti, né al comun popolo, di ciò fare ne' suoi ragionamenti. E certo di quanti sogni io abbia mai sentito riferire (come che io a pochi soffera di dare orecchie), niuno me ne parve mai d'udire che meritasse che per lui si rompesse silentio, fuori solamente uno che ne vide il buon messer Flaminio Tomarozzo, gentiluomo romano, e non mica idiota né materiale, ma scientiato e di acuto ingegno. Al quale, dormendo egli, pareva di sedersi nella casa di un ricchissimo spetiale suo vicino, nella quale poco stante, qual che si fosse la cagione, levatosi il popolo a romore, andava ogni cosa a ruba, e chi toglieva un lattovaro e chi una confettione, e chi una cosa e chi altra, e mangiavalasi di presente; sì che in poco d'ora né ampolla né pentola né bossolo né alberello vi rimanea che vòto non fosse e rasciutto. Una guastadetta v'era assai picciola, e tutta piena di un chiarissimo liquore, il quale molti fiutarono, ma assaggiare non fu chi ne volesse. E non istette guari che egli vide venire un uomo grande di statura, antico e con venerabile aspetto, il quale, riguardando le scatole et il vasellamento dello spetial cattivello e trovando quale vòto e quale versato e la maggior parte rotto, gli venne veduto la guastadetta che io dissi: per che, postalasi a bocca, tutto quel liquore si ebbe tantosto bevuto, sì che gocciola non ve ne rimase; e dopo questo se ne uscì quindi, come gli altri avean fatto: della qual cosa pareva a m[esser] Flaminio di maravigliarsi grandemente. Per che, rivolto allo spetiale, gli addimandava: - Maestro, questi chi è? e per qual cagione sì saporitamente l'acqua della guastadetta bevve egli tutta, la quale tutti gli altri aveano rifiutata? - A cui parea che lo spetiale rispondesse: - Figliuolo, questi è messer Domenedio; e l'acqua da lui solo bevuta, e da ciascun altro, come tu vedesti, schifata e rifiutata, fu la Discretione, la quale, sì come tu puoi aver conosciuto, gli uomini non vogliono assaggiare per cosa del mondo -. Questi così fatti sogni dico io bene potersi raccontare e con molta dilettatione e frutto ascoltare, perciò che più si rassomigliano a pensiero di ben desta che a visione di addormentata mente o virtù sensitiva che dir debbiamo; ma gli altri sogni sanza forma e sanza sentimento, quali la maggior parte de' nostri pari gli fanno (perciò che i buoni e gli scientiati sono, etiandio quando dormono, migliori e più savi che i rei e che gl'idioti), si deono dimenticare e da noi insieme col sonno licentiare.

13.
E quantunque niuna cosa paia che si possa trovare più vana de' sogni, egli ce n'ha pure una ancora più di loro leggiera, e ciò sono le bugie: però che di quello che l'uomo ha veduto nel sogno pure è stato alcuna ombra e quasi un certo sentimento, ma della bugia né ombra fu mai né imagine alcuna. Per la qual cosa meno ancora si richiede tenere impacciati gli orecchi e la mente di chi ci ascolta con le bugie che co' sogni, come che queste alcuna volta siano ricevute per verità; ma a lungo andare i bugiardi non solamente non sono creduti, ma essi non sono ascoltati, sì come quelli le parole de' quali niuna sustanza hanno di sé, né più né meno come s'eglino non favellassino, ma soffiassino. E sappi che che tu troverai di molti che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro utile, né di danno o di vergogna altrui, ma perciò che la bugia per sé piace loro, come chi bee non per sete, ma per gola del vino. Alcuni altri dicono la bugia per vanagloria di sé stessi, milantandosi e dicendo di avere le maraviglie e di essere gran baccalari. Puossi ancora mentire tacendo, cioè con gli atti e con l'opere; come tu puoi vedere che alcuni fanno, che, essendo essi di mezzana conditione o di vile, usano tanta solennità ne' modi loro e così vanno contegnosi e con sì fatta prorogativa parlano, anzi parlamentano, ponendosi a sedere pro tribunali e pavoneggiandosi, che egli è una pena mortale pure a vedergli. Et alcuni si truovano, i quali (non essendo però di roba più agiati degli altri) hanno d'intorno al collo tante collane d'oro e tante anella in dito e tanti fermagli in capo e su per li vestimenti appiccati di qua e di là, che si disdirebbe al Sire di Castiglione: le maniere de' quali sono piene di scede e di vanagloria, la quale viene da superbia, procedente da vanità; sì che queste si deono fuggire come spiacevoli e sconvenevoli cose. E sappi che in molte città - e delle migliori - non si permette per le leggi che il ricco possa gran fatto andare più splendidamente vestito che il povero, perciò che a' poveri pare di ricevere oltraggio quando altri, etiandio pure nel sembiante, dimostra sopra di loro maggioranza; sì che diligentemente è da guardarsi di non cadere in queste sciocchezze. Né dèe l'uomo di sua nobiltà né di suoi onori né di ricchezza e molto meno di senno vantarsi; né i suoi fatti o le prodezze sue o de' suoi passati molto magnificare, né ad ogni proposito annoverargli, come molti soglion fare: perciò che pare che egli in ciò significhi di volere o contendere co' circonstanti, se eglino similmente sono o presumono di essere gentili et agiati uomini e valorosi, o di soperchiarli, se eglino sono di minor conditione, e quasi rimproverar loro la loro viltà e miseria: la qual cosa dispiace indifferentemente a ciascuno. Non dèe adunque l'uomo avilirsi, né fuori di modo essaltarsi, ma più tosto è da sottrarre alcuna cosa de' suoi meriti che punto arrogervi con parole; perciò che ancora il bene, quando sia soverchio, spiace. E sappi che coloro che aviliscono sé stessi con le parole fuori di misura e rifiutano gli onori che manifestamente loro s'appartengono, mostrano in ciò maggiore superbia che coloro che queste cose, non ben bene loro dovute, usurpano. Per la qual cosa si potrebbe per aventura dire che Giotto non meritasse quelle commendationi che alcun crede per aver egli rifiutato di essere chiamato maestro, essendo egli non solo maestro, ma, sanza alcun dubbio, singular maestro, secondo quei tempi. Ora, che che egli o biasimo o loda si meritasse, certa cosa è che chi schifa quello che ciascun altro appetisce mostra che egli in ciò tutti gli altri o biasimi o disprezzi; e lo sprezzar la gloria e l'onore, che cotanto è dagli altri stimato, è un gloriarsi et onorarsi sopra tutti gli altri, con ciò sia che niuno di sano intelletto rifiuti le care cose, fuori che coloro i quali delle più care di quelle stimano avere abondanza e dovitia. Per la qual cosa né vantare ci debbiamo de' nostri beni, né farcene beffe, ché l'uno è rimproverare agli altri i loro difetti, e l'altro schernire le loro virtù; ma dèe di sé ciascuno, quanto può, tacere, o se la oportunità ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume è di dirne il vero rimessamente, come io ti dissi di sopra. E perciò coloro che si dilettano di piacere alla gente si deono astenere ad ogni poter loro da quello che molti hanno in costume di fare, i quali sì timorosamente mostrano di dire le loro openioni sopra qual si sia proposta, che egli è un morire a stento il sentirgli, massimamente se eglino sono per altro intendenti uomini e savi. - Signor, V[ostra] S[ignoria] mi perdoni se io no 'l saprò così dire: io parlerò da persona materiale come io sono e, secondo il mio poco sapere, grossamente, e son certo che la S[ignoria] V[ostra] si farà beffe di me; ma pure, per ubidirla... -; e tanto penano e tanto stentano che ogni sottilissima quistione si sarebbe diffinita con molto manco parole et in più brieve tempo: perciò che mai non ne vengono a capo. Tediosi medesimamente sono e mentono con gli atti nella conversatione et usanza loro alcuni che si mostrano infimi e vili; et essendo loro manifestamente dovuto il primo luogo et il più alto, tuttavia si pongono nell'ultimo grado; et è una fatica incomparabile a sospingerli oltra, però che tratto tratto sono rinculati a guisa di ronzino che aombri. Perché con costoro cattivo partito ha la brigata alle mani qualora si giugne ad alcuno uscio, perciò che eglino per cosa del mondo non voglion passare avanti, anzi sì attraversano e tornano indrieto, e sì con le mani e con le braccia si schermiscono e difendono che ogni terzo passo è necessario ingaggiar battaglia con esso loro e turbarne ogni sollazzo e talora la bisogna che si tratta.

14.
E perciò le cirimonie, le quali noi nominiamo, come tu odi, con vocabolo forestiero, sì come quelli che il nostrale non abbiamo, però che i nostri antichi mostra che non le conoscessero, sì che non poterono porre loro alcun nome; le cirimonie, dico, secondo il mio giudicio, poco si scostano dalle bugie e da' sogni, per la loro vanità, sì che bene le possiamo accozzare insieme et accoppiare nel nostro trattato, poiché ci è nata occasione di dirne alcuna cosa. Secondo che un buon uomo mi ha più volte mostrato, quelle solennità che i cherici usano d'intorno agli altari e negli ufficii divini e verso Dio e verso le cose sacre si chiamano propriamente cirimonie: ma, poi che gli uomini cominciaron da principio a riverire l'un l'altro con artificiosi modi, fuori del convenevole, et a chiamarsi «padroni» e «signori» fra loro, inchinandosi e storcendosi e piegandosi in segno di riverenza, e scoprendosi la testa e nominandosi con titoli isquisiti, e basciandosi le mani come se essi le avessero, a guisa di sacerdoti, sacrate, fu alcuno che, non avendo questa nuova e stolta usanza ancora nome, la chiamò «cirimonia», credo io per istratio, sì come il bere et il godere si nominano per beffa «trionfare». La quale usanza sanza alcun dubbio a noi non è originale, ma forestiera e barbara, e da poco tempo in qua, onde che sia, trapassata in Italia: la quale, misera, con le opere e con gli effetti abbassata et avilita, è cresciuta solamente et onorata nelle parole vane e ne' superflui titoli. Sono adunque le cirimonie, se noi vogliamo aver risguardo alla intention di coloro che le usano, una vana signification di onore e di riverenza verso colui a cui essi le fanno, posta ne' sembianti e nelle parole, d'intorno a' titoli et alle proferte. Dico vana, in quanto noi onoriamo in vista coloro i quali in niuna riverenza abbiamo, e talvolta gli abbiamo in dispregio; e non di meno, per non iscostarci dal costume degli altri, diciamo loro «lo Ill[ustrissi]mo signor tale» e «lo Ecc[ellentissi]mo signor cotale», e similmente ci proferiamo alle volte a tale per deditissimi servidori, che noi ameremmo di diservire più tosto che servire. Sarebbono adunque le cirimonie non solo bugie, sì come io dissi, ma etiandio sceleratezze e tradimenti; ma, perciò che queste sopra dette parole e questi titoli hanno perduto il loro vigore, e guasta, come il ferro, la tempera loro per lo continuo adoperarli che noi facciamo, non si dèe aver di loro quella sottile consideratione che si ha delle altre parole, né con quel rigore intenderle. E che ciò sia vero lo dimostra manifestamente quello che tutto dì interviene a ciascuno, perciò che, se noi riscontriamo alcuno mai più da noi non veduto, al quale per qualche accidente ci convenga favellare, sanza altra consideratione aver de' suoi meriti, il più delle volte, per non dir poco, diciamo troppo, e chiamiamolo gentiluomo e signore a tal ora che egli sarà calzolaio o barbieri, solo che egli sia alquanto in arnese. E sì come anticamente si solevano avere i titoli determinati e distinti per privilegio del Papa o dello 'mperadore (i quai titoli tacer non si potevano sanza oltraggio et ingiuria del privilegiato, né per lo contrario attribuire sanza scherno a chi non avea quel cotal privilegio), così oggidì si deono più liberalmente usare i detti titoli e le altre significationi d'onore a' titoli somiglianti, perciò che l'usanza, troppo possente signore, ne ha largamente gli uomini del nostro tempo privilegiati. Questa usanza adunque, così di fuori bella et appariscente, è di dentro del tutto vana, e consiste in sembianti sanza effetto et in parole sanza significato, ma non pertanto a noi non è lecito di mutarla: anzi, siamo astretti, poiché ella non è peccato nostro, ma del secolo, di secondarla; ma vuolsi ciò fare discretamente.

 
 
 

Il Meo Patacca 04-2

Post n°1235 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Stando su 'sto penzier, tonto rimane,
Non sa che far, non si risolve intanto,
Fa giusto come quanno vede un cane
Il tozzo in terra, et il bastone accanto;
Ha voglia d'addentallo, e non lo fane
Perchè le botte non vorria fra tanto;
Si stenne, si trattiè, non s'assicura,
Contrastano la fame, e la paura.

Così fa Marco Pepe; Amor l'invita,
A far con MEO da bravo, e disfidano,
Ma quel mettere a risico la vita,
Gli fa venì el penziero di non fallo:
"Eccola - dice poi - bella e fornita,
'Sto ferro, al par d'ogn'un so maneggiallo,
E se a spadaccinà tra noi si viene,
Gli darò a fè da pettinà assai bene".

Ma prima de fa' sciarra, e venì al quia
Lo vuò sapè lo vuò se veramente
'Sta disfida penzier di Nuccia sia,
O se la griscia l'ha impicciata gnente.
Alla fin poi dice a Calfurnia: "Oh via!
La voglio fa' la voglio da valente:
Ciamerò Meo nel campo, ma con questo,
Ch'io me pozza servì d'altro pretesto.

Se lo vò a disfida perchè ha sparlato
Di Nuccia, e dice lui che non è vero,
E incoccia, in tel negà quello ch'è stato,
Resto in asso, e va a monte el mi' penziero;
Però un riggiro ho già riccapezzato,
Che se vuò fa' da giovane guerriero,
Come si vanta, co' 'sti su' sgherretti,
Bignerà certo, ch'il duello accetti".

"Voi, signor Pepe, a fè' dite benissimo,
Penzar male, assai ben, credo, che sia",
Gli risponne Calfurnia. "Et è verissimo,
Che MEO, quel che dice, negar potria.
Certo, che s'a 'sto risico venissimo,
La sfida a spasso subbito andaria.
Orsù, non vi bisogna el mio conseglio:
Fate pur quello, che vi pare meglio".

Così d'accordo tutti due rimasero,
E poi subitamente si divisero;
Presto presto vede' si persuasero
Steso giù freddo di vedè quel misero.
A più potè le cirimonie spasero,
E in tel partire tra di lor sorrisero;
Li saluti a vicenna allor si resero,
Et un gran che, già fatto haver, si cresero.

Intanto Marco Pepe assai galoppa,
E se in tel viaggio in chalche amico incappa,
Pe' non s'intrattenè volta la groppa,
Dall'incontro di lui subbito scappa;
Vuò annà a sapè, s'allor che Meo s'accoppa,
Ci ha gusto Nuccia, o se la vecchia sfrappa,
E se 'sta verità da lei non scippa
A PATACCA sbuscià non vuò la trippa.

Alla casa arrivato, ecco la vede
Butta dalla finestra la monnezza,
Allor per accostarzi apprescia el piede,
E la fa' da par suo 'sta bona pezza.
Raschia un tantino, fin che lei s'avvede
Ch'è lui questo, che passa e con destrezza
Guardanno in su, ma senza salutarla,
Sotto voce, in passà, così glie parla.

"Schiavo suo, gnora Nuccia! Se volete
Vi servo adesso adesso, e di bon core
In quel negozio, che voi già sapete".
Lei dice: "Sarà questo un gran favore".
(Co' 'ste poche parole, e assai segrete
Fornì la cosa senza fa' rumore),
Lei si levò, lui seguitò el camino,
E non se n'accorgè nisciun vicino.

Allor si, che fa cor da Lionfante
Marco Pepe, ch'in fatti si ciarisce.
Che Nuccia già scortese, hora è galante,
Mentre dice che lui la favorisce:
Va Patacca a trovà tutto brillante
Et a fagli la sfida s'ammannisce.
Se di sbusciallo gli riesce a caso,
Chi la punta toccà gli vuò del naso?.

Con camminata poi da squarcioncello,
Va penzanno tra sè le smargiassate,
Che intenne fa', quanno sarà in duello:
Prova col braccio di tirà stoccate.
Chi l'osserva, lo crede un mattarello,
E ne fa solennissime risate.
Allor lui se n'astiè, ma quanno stima
Non esser visto, peggio fa di prima.

Co' 'ste su' sciornarie, bel bello arriva
Alla casa di MEO, di dove ancora,
Di tanto in tanto calche sgherro usciva,
E d'annarsene su non vede l'hora.
Sale, saluta Meo, perchè lo scriva
Solo fa istanza, e gnente più l'onora.
Lui dice: "Adesso, adesso", e perchè tarda,
Pepe s'imposta, e burboro lo guarda.

Doppo che Meo Patacca ogn'un ha scritto
Di quei, che prima vennero, si volta,
Verso costui; ma perchè sa ch'è un guitto.
Mal volentiere le sue istanze ascolta;
Si ricorda assai ben, ch'in un conflitto,
Che si fece in Trastevere una volta,
Pe' fa' da bravo, innanzi a ogn'un si caccia,
Fu poi tra tutti il primo a voltà faccia.

Perchè non habbia da resà affrontato,
Se be' gusto non ci ha, puro l'accetta.
Vuò sapè, chi dei dieci l'ha impegnato,
Perchè sotto al commanno glie lo metta,
Lui gli dice: "Fanello m'ha pregato,
Ch'io de fa' scialo in guerra gl'imprometta".
Rispose allora MEO: "Te scrivo adesso
In te la squatra del Fanello istesso".

Qui Marco Pepe: "Piano patron mio,
De grazia co' 'sto scrivere, bel bello:
Intennemoci prima, non venn'io
Mica pe' guerreggià sotto a Fanello!
Chalche malanno a fè', che glie l'avvio
A chi me vuò tratta da soldatello:
Credevo, ma 'l contrario me succede,
Che ce fusse altro modo de procede".

Ecco il pretesto, che penzò costui
De mette in campo, pe' sfida Patacca;
Stupido questo ali or si volta a lui,
E l'occhiate da dosso non gli stacca.
Seguita Marco Pepe: "Io gonzo fui,
A veni' a corteggià gente vigliacca.
Stanno a vede, la testa io ce deposito,
Ch'oggi me bigna fa' calche sproposito".

Tanta stizza non ha, nè si' feroce
El toro, che scappò, muggir si sente
Quanno un mastin fa di lui strazio atroce,
Ch'in tell'orecchio ha conficcato el dente,
Quanto s'arrabbia MEO, ch'alza la voce,
Nè alle mosse può sta' coll'inzolente,
Che se fa' tanta puzza e sverniarìa,
Gli sa el capo lavà senza liscìa.

"Cos'è 'sto sbravicchià? Che se pretenne?
Se parla chiaro, e non si vie' co' rascia;
C'è qui chi la pariglia te po' renne,
Però invano da te tanto se sbrascia.
Di' puro il fatto tuo, c'è chi t'intenne,
Che mica hai da tratta con gente pascia".
Chi te la gratterà, dillo bisogna,
Tu trovarai, se vai cercanno rogna".

"Me la gratti chi pò! Chè non ce prova
Calch'uno con nostrisci? ", sbravicchianno
Esclamò l'altro. "A fè', che me ce trova,
Chi me va gnente gnente stuzzicanno.
Io sott'altri nel campo? O ve' che nova!
Io voglio in guerra, e l'haverò il commanno,
E tu stesso sarai, te lo dich'io,
Prima d'ogn'altro, soldatello mio".

"Puff! Una palla!", co' 'sta smorfia in faccia
MEO gli risponne, in tel sentirne tante:
"Vai proprio vai de i tu' malanni a caccia,
Nel volerti mostra così rugante!
O che bel suggettin de carta straccia,
Che vuò fa' sopra l'altri el commannante!
Eh vatte a inzala, che co' 'ste pastocchie
Capitanio sarai delle ranocchie".

Marco Pepe, che va, come suol dirzi,
Col moccolo cercanno de fa' chiasso,
Pe' dimostrà c'ha petto a risentirzi,
Una risposta dette da smargiasso:
"Ch'a te s'habbia 'sto fusto a preferirzi
Come nega me vuoi? se manco un passo
Desti mai for di Roma, e ben sai tu,
Ch'io so' stato alla guerra un anno e più".

"Fa pur conto, ch'un tasto m'hai toccato,
Da potè ben sonattela assai presto",
Disse MEO. "Già me l'ero imaginato,
Ma il solo modo di ciaritte è questo:
In guerra, è vero si, che ce sei stato,
Ma non te vergognà de dire il resto,
Tu, ch'adesso ti spacci un Paladino,
Ch'in guerra solo hai fatto el tamburrino".

"Oh, sfògate così, dì quel che vuoi",
L'altro rispose. "Men di me, ne sai:
Io almen, so cos'è guerra, ma non pòi
Tu dir così, se non l'hai vista mai.
Hor non ci vònno chiacchiare. Su, a noi'!
A duello io te sfido, e vederai,
Se te viè fatta, o te riesce buscia,
Se il tamburrino poi le panze sbuscia.

S'addropà vuoi la fionna, o la saracca
Fa' puro a modo tuo, capa te tocca".
Prima lo guarda tutto, e poi PATACCA
Te gli fa 'na risata a piena bocca.
"L'invito accetto, - disse, - e chi si smacca
Sarà su' danno, ch'a 'sta gente sciocca,
Allor, ch'allo sproposito si picca,
Fà quel che fatto và, chi glie la ficca.

S'incominzi el duello co' la fionna,
Si faccia poi si faccia lama fora;
Alla prima baruffa, o alla seconna,
S'ha da vedè, se chi ce resta allora.
Se c'è difficoltà, me si risponna,
Che tempo io non te dò, se non d'un'hora.
Non ce voglio Secondo, nè Patrino,
E il campo, appunto, sia Campo Vaccino".

"Io ci acconsento, - subbito rispose
Marco Pepe, - e tra un'hora, là me pianto.
Verrò solo a combatte, ma du' cose
Bigna tra noi bigna accordà fratanto:
La prima, che perzone numerose
Stieno a vedè, pe' dà a chi vince el vanto;
L'altra, che s'habbia a sbaraglià la vita,
E che la nostra sia guerra finita".

"Propio m'inviti a nozze! Altro non voglio,
Che fatte vede, chi di noi si sbaglia",
Dice PATACCA. "'Sto tu' gran orgoglio
Sfumerà, come fa' foco de paglia.
Rescirai presto rescirai d'imbroglio,
Ma senti, non portà giacco, nè maglia,
Ch'il valor solo ha da servì de scudo;
Però vedè si faccia el petto ignudo",

"Forzi te credi, ch'un cialtrone io sia
Da tene el pettorale foderato",
Lui disse. "Io non farò 'sta guittaria,
Che me picco de giovane onorato:
Ma tempo è già de sbattesela via,
Viettene puro, dove s'è appuntato,
E ch'io te dica, non te para strano,
Che venghi a fa' sbusciatte el cordovano".

Così pien d'albascìa pigliò lo spiccio
Colui, che pare Orlando alle parole;
Ma in realtà d'havè calche stropiccio,
Ha paccheta assai granne, e se ne dole.
Ma in un certo riggiro, in cert'impiccio
Si fida sol, che pratica lui sole,
Quanno vede il nemico, ch'è assai forte,
Quanto gli basta de scampà la morte.

Per questo MEO, che sà quanto lui pesca,
E che nel fa da spadaccino è un frasca,
Non vuò che chalche astuzia gli riesca,
E che ingiaccato sia non gli ricasca.
Però gli disse, ch'a duellà non s'esca,
S'a ogn'uno el petto nudo non s'ammasca.
Vuò, che così la lite si fornisca,
E chi meno ne sa, quello sbiascisca.

Taffia un boccone alla disdossa, e in fretta,
Perchè di già l'hora del pranzo è andata,
Et è un gran pezzo ancor, se danno retta
A tanti, consumò mezza giornata.
Ma tempo è già, ch'in ordine si metta,
Mentre de fa' gli bigna 'sta sgherrata;
Ma qual'il modo sia del su' vestire,
Quanno il campo sarà, lo serbo a dire.

S'avvia fratanto, e va penzanno MEO,
E quanto penza più, più gli dispiace,
Ch'un tozzola tamburri, uno sciotèo
Sia de fa 'sto proposito capace.
Che con valor gigante, un cor pigmèo
Se la voglia piglià, non si dà pace;
Ma si consola, e più non si querela,
Perchè vedè glie la farà in cannela.

Arriva al campo, e fa' 'na spasseggiata,
Da capo a piedi, e tutto si rincora,
Mentre, ch'intorno da più d'un'occhiata,
Ch'il su' nemico, non si vede ancora.
Già gli pare d'havegliela sonata,
In tel venì prima che passi un'hora;
Va da due bottegari, e li richiede,
Che dell'arrivo suo faccino fede.

 
 
 

Sonetti in lode del Casa

L'edizione del 1558 delle Rime di Giovanni della Casa riporta diversi sonetti scritti in suo onore da vari celebri poeti.

Sonetto di M. Bernardo Capello, a M. Gio. della Cafa.

Casa gentil; che con si colte rime
Scrivete i casti, & dolci affetti vostri,
Ch'elle già ben di quante a tempi nostri
Si leggon, vanno al cielo altere, & prime;

Acciò che'l mondo alquanto pur mi stime,
Prego, ch'a me per voi si scopra, & mostri,
Com'io possa acquistar si puri inchiostri,
Strada si piana, & mente si sublime:

Se questo don non mi negate; anchora
Tentare ardito il monte mi vedrete,
Nel qual voi Phebo degnamente honora:

Phebo, & le Muse; a quai punto non sete
Men caro del gran Thosco: che talhora
Mentre il cercate pareggiar, vincete.

Al quale M. Gio. risponde con quello, che incomincia
Mentre fra valli paludose &ime
(sonetto 26)


Risposta del detto Capello al Sonetto che incomincia: Solea per boschi il di fontana o speco, (sonetto 25)

O chi m'adduce al dolce natio speco;
Ov' io, deposte le mie amare pene,
Et volte l'atre mie notti in serene,
Possa talhor le Muse albergar meco:

Si m'appresserei forse al giogo ù teco;
Altro nessun che'l maggior Thosco vene,
Col Bembo; alqual nulla è, che'l corso affrene
Si, ch'egli a par a par non poggi seco.

Hor che lunge mi tien rea forte acerba
Da quelle Dive, & dal mio nido; e'n ombra,
Ch'adugge il seme di mia gioia, posto;

Con l'alma non d'Amor, ne d'ira sgombra
Te inchino , albergo a Phebo alto, & riposto:
Et segno in humil pian col vulgo l'herba.



Sonetto del detto Capello a M. Gio. della Cafa.

Casa, che'n versi, od in sermone sciolto
Nel antico idioma, & nel moderno
Quei pareggiate, onde col grido eterno
D'alta lode a tutt'altri il pregio è tolto;

Poscia ch'io son ne vostri scritti accolto
A che temer ira di tempo, o scherno?
Già quinci scemo lui di forze io scerno;
Et me sempre honorato essere ascolto.

Vivrommi dunque nel perpetuo fuono
Del voftro colto, & ben gradito stile,
L'alme vaghe d'honor d'invidia empiendo.

Hor tante a voi, quanti ha fioretti Aprile,
Et stelle il cielo, e 'l mar arene, io rendo
Gratie Signor di così largo dono.



Sonetto di M. Pietro Bembo a M. Gio. della Casa.

Casa; in cui le virtuti han chiaro albergo;
Ef pura fede, & vera cortesia;
Et lo stil, che d'Arpin si dolce uscia,
Risorge, e i dopo forti lascia a tergo:

S' io movo per lodarvi, & charte vergo;
Presontuoso il mio penser non fia:
Che mentre e viene a voi per tanta via;
Nel voftro gran valor m'affino & tergo.

Et forse anchora un amoroso ingegno
Ciò leggendo dirà; più felici alme
Di quelle il tempo lor certo non hebbe.

Duè città senza pari & belle & alme
Le diero al mondo; & Roma tenne, & crebbe:
Qual po coppia sperar destin più degno?



Al quale M. Gio. risponde con quello, ch'incomincia.
L'altero nido; ov'io si lieto albergo.


Sonetto di M. Iac. Marmitta a M. Gio. della Cafa.

Se l'honesto desio, che'n quella parte,
Ch'al mar d'Adria pon freno, a noi lontano,
Signor vi trasse, il ciel non faccia vano,
Che'n voi cotante gratie ha infuse & sparte;

Ma senza oprar d'humano ingegno, od arte,
Sgombro di quell'humor maligno, & strano,
Homai vi renda; & l'honorata mano
Libera lasci, a uergar dotte charte;

Piacciavi, prego, di mostrarmi quale
Sia il dritto, & bel sentier, che l'huom conduce
Al poggio, ov'ei si fa chiaro, e immortale:

Ch'altra per me non trovo scorta, o duce:
E'l tempo vola, come d'arco strale,
Che ne l'eterno oblio, lasso, m'adduce.


Al quale M. Gio. risponde con quelli che incominciano
Curi le paci sue chi vede Marte.
Si lieta havess'io l'alma & d'ogni parte.



Replica del Marmitta

I mi veggio hor da terra alzato in parte,
Ove il mio antico error, m'è chiaro & piano:
Et quanto basso, anzi pur cieco, e 'nsano
Sia il desir mio, conosco a parte a parte;

Onde l'alma da se lo scaccia; & parte;
E'ncomincia a ritrarsi a mano a mano
Su verfo'l cielo, ond'io son si lontano;
Et dal errante volgo irne in disparte;

Ch'ella scorgendo che si poco sale
Humana gloria, a l'alta, eterna luce
Si volge; & di nulla altro homai le cale.

Questo bel frutto in lei, Casa, produce
Il Vostro alto consiglio; & con queste ale
Al vero, & sommo ben si riconduce.



Sonetto di M. Benedetto Varchi a M. Giovan.
della Casa.

Casa gentile; ove altamente alberga
Ogni virtute ogni real costume:
Casa, onde vien, che questa etate allume,
Et le tenebre nostre apra & disperga:

A l'Austro dona fiori, in rena verga;
Suoi penfier scrive in ben rapido fiume,
Chi d'agguagliarsi a voi stolto presume,
In cui par ch'ogni buon si specchi & terga.

Quanto alhor, che'l gran Bembo a noi morio,
Perderò in lui le tre lingue più belle,
Tutto ritorna & già fiorisce in voi:

Per voi l'altero nido voftro & mio,
Che gli rendete i pregi antichi suoi
Risonar s'ode in fin sopra le stelle.



Al quale M. Gio. risponde con quello che incomincia
Varchi ; Hippocrene il nobil Cigno alberga.



Sonetto dei Signor Bernardino Rota a M. Gio. della Casa.

Parte dal suo natio povero tetto
Da pure voglie accompagnato intorno
Contadin rozzo, & giugne a bel soggiorno,
Da chiari Regi in gran diporto eletto:

Ivi tal maraviglia have & diletto,
In veder di ricche opre il luogo adorno,
Che gli occhi, e 'l pie non move,& noia & scorno,
Prende del dianzi suo caro alberghetto,

Tale aven al penfer se la bassezza
Del mendico mio stil lascia, & ne vene
Del voftro a contemplar l'alta ricchezza.

Casa, vera magion del primo bene;
In cui per albergar Phebo disprezza
Lo ciel, non che Parnaso, & Hippocrene.

Al quale M. Giovan. risponde con quello che
incomincia
S'egli averrà, che quel ch'io scrivo , o detto

 
 
 

Sonetti del Casa

Post n°1233 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

L'edizione del 1558 delle Rime di Giovanni della Casa contiene 59 sonetti, 4 canzoni ed una sestina. Tutti e 64 i componimenti li ho pubblicati in precedenti post. Qui di seguito riporto l'indice dei capiversi di tali opere.

Poi ch'ogni esperta, ogni spedita mano,
Si cocente penser nel cor mi siede;
Affliger chi per voi la vita piagne,
Amor per lo tuo calle a morte vassi;
Gli occhi sereni e 'l dolce sguardo onesto,
Nel duro assalto, ove feroce e franco
Io mi vivea d'amara gioia e bene
Cura, che di timor ti nutri e cresci,
Danno (né di tentarlo ho già baldanza)
Dolci son le quadrella ond'Amor punge,
Sagge, soavi, angeliche parole;
Il tuo candido fil tosto le amare
Fuor di man di Tiranno a giusto regno,
Cangiai con gran mio duol contrada e parte,
Quella, che del mio mal cura non prende,
Tempo ben fôra omai, stolto mio core,
Io, che l'età solea viver nel fango,
S'io vissi cieco, e grave fallo indegno
Sperando, Amor, da te salute invano,
Ben foste voi per l'armi e 'l foco elette,
Già nel mio duol non pote Amor quetarmi,
Né quale ingegno è 'n voi colto e ferace,
Sotto 'l gran fascio de' miei primi danni,
Nessun lieto giamai, né 'n sua ventura
Solea per boschi il dì fontana o speco
Mentre fra valli paludose e ime
Gioia e mercede, e non ira e tormento,
Certo ben son quei due begli occhi degni
Soccorri, Amor, al mio novo periglio,
Le chiome d'or, ch'Amor solea mostrarmi
Le bionde chiome, ov'anco intrica e prende
Arsi; e non pur la verde stagion fresca (canzone)
Ben veggo io, Tiziano, in forme nove
Son queste, Amor, le vaghe trecce bionde,
L'altero nido, ov'io sì lieto albergo
La bella Greca, onde 'l pastor Ideo
Or piagni in negra vesta, orba e dolente
Vago augelletto da le verdi piume,
Quel vago prigionero peregrino,
Come vago augelletto fuggir sòle
Ben mi scorgea quel dì crudele stella
Già non potrete voi per fuggir lunge,
Vivo mio scoglio e selce alpestra e dura,
Quella, che lieta del mortal mio duolo,
Amor, i' piango, e ben fu rio destino (canzone)
Come fuggir per selva ombrosa e folta (canzone)
Errai gran tempo, e del camino incerto (canzone)
Come splende valor, perch'uom no 'l fasci
Poco il mondo giamai t'infuse o tinse,
Curi le paci sue chi vede Marte
Sì lieta avess'io l'alma, e d'ogni parte
Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero,
Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga
O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
Mendico e nudo piango, e de' miei danni
Or pompa e ostro, e or fontana ed elce
Doglia, che vaga donna al cor n'apporte
Signor mio caro, il mondo avaro e stolto
Correggio, che per pro mai né per danno
S'egli averrà, che quel ch'io scrivo o detto
Di là, dove per ostro e pompa e oro (Sestina)
Già lessi, e or conosco in me, sì come
O dolce selva solitaria, amica
Questa vita mortal, che 'n una o 'n due

 
 
 

Il Galateo (8-11)

Post n°1232 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

8.
Sono poi certi altri che più oltra procedono che la sospettione, anzi vengono a' fatti et alle opere sì che con esso loro non si può durare in guisa alcuna, perciò che eglino sempre sono l'indugio, lo sconcio et il disagio di tutta la compagnia, i quali non sono mai presti, mai sono in assetto né mai a lor senno adagiati. Anzi, quando ciascuno è per ire a tavola e sono preste le vivande e l'acqua data alle mani, essi chieggono che loro sia portato da scrivere o da orinare o non hanno fatto essercitio, e dicono: - Egli è buon'ora! - - Ben potete indugiare un poco sì - - Che fretta è questa stamane? - e tengono impacciata tutta la brigata, sì come quelli che hanno risguardo solo a sé stessi et all'agio loro, e d'altrui niuna consideratione cade loro nell'animo. Oltre a ciò, vogliono in ciascuna cosa essere avantaggiati dagli altri, e coricarsi ne' miglior letti e nelle più belle camere, e sedersi ne' più comodi e più orrevoli luoghi, e prima degli altri essere serviti et adagiati; a' quali niuna cosa piace già mai, se non quello che essi hanno divisato, a tutte l'altre torcono il grifo, e par loro di dovere essere attesi a mangiare, a cavalcare, a giucare, a sollazzare. Alcuni altri sono sì bizzarri e ritrosi e strani, che niuna cosa a lor modo si può fare, e sempre rispondono con mal viso, che che loro si dica, e mai non rifinano di garrire a' fanti loro e di sgridargli, e tengono in continua tribolatione tutta la brigata: - A bell'ora mi chiamasti stamane! - - Guata qui, come tu nettasti ben questa scarpetta! - Et anco: - Non venisti meco alla chiesa; bestia, io non so a che io mi tenga che io non ti rompa cotesto mostaccio! -; modi tutti sconvenevoli e dispettosi, i quali si deono fuggire come la morte, perciò che, quantunque l'uomo avesse l'animo pieno di umiltà, e tenesse questi modi non per malitia, ma per trascuraggine e per cattivo uso, non di meno, perché egli si mostrerebbe superbo negli atti di fuori, converrebbe ch'egli fosse odiato dalle persone, imperò che la superbia non è altro che il non istimare altrui, e (come io dissi da principio) ciascuno appetisce di essere stimato, ancora che egli no 'l vaglia. Egli fu, non ha gran tempo, in Roma un valoroso uomo e dotato di acutissimo ingegno e di profonda scienza, il quale ebbe nome m[esser] Ubaldino Bandinelli. Costui solea dire che qualora egli andava o veniva da palagio, come che le vie fossero sempre piene di nobili cortigiani e di prelati e di signori e parimente di poveri uomini e di molta gente mezzana e minuta, non di meno a lui non parea d'incontrar mai persona che da più fosse, né da meno, di lui: e sanza fallo pochi ne potea vedere che quello valessero che egli valea, avendo risguardo alla virtù di lui, che fu grande fuor di misura; ma tuttavia gli uomini non si deono misurare in questi affari con sì fatto braccio, e deonsi più tosto pesare con la stadera del mugnaio che con la bilancia dell'orafo; et è convenevol cosa lo esser presto di accettarli non per quello che essi veramente vagliono, ma, come si fa delle monete, per quello che corrono. Niuna cosa è adunque da fare nel conspetto delle persone alle quali noi desideriamo di piacere, che mostri più tosto signoria che compagnia, anzi vuole ciascun nostro atto avere alcuna signification di riverenza e di rispetto verso la compagnia nella quale siamo. Per la qual cosa, quello che fatto a convenevol tempo non è biasimevole, per rispetto al luogo et alle persone è ripreso: come il dir villania a' famigliari e lo sgridargli (della qual cosa facemmo di sopra mentione) e molto più il battergli, con ciò sia cosa che ciò fare è un imperiare et essercitare sua giuridittione; la qual cosa niuno suol fare dinanzi a coloro ch'egli riverisce, sanza che se ne scandaleza la brigata e guastasene la conversatione, e maggiormente se altri ciò farà a tavola, che è luogo d'allegrezza e non di scandalo. Sì che cortesemente fece Currado Gianfigliazzi di non moltiplicare in novelle con Chichibio per non turbare i suoi forestieri, come che egli grave castigo avesse meritato, avendo più tosto voluto dispiacere al suo signore che alla Brunetta; e se Currado avesse fatto ancora meno schiamazzo che non fece, più sarebbe stato da commendare, ché già non conveniva chiamar messer Domenedio che entrasse per lui mallevadore delle sue minaccie, sì come egli fece. Ma, tornando alla nostra materia, dico che non istà bene che altri si adiri a tavola, che che si avenga; et adirandosi no 'l dèe mostrare, né del suo cruccio dèe fare alcun segno, per la cagion detta dinanzi, e massimamente se tu arai forestieri a mangiar con esso teco, perciò che tu gli hai chiamati a letitia, et ora gli attristi; con ciò sia che, come gli agrumi che altri mangia, te veggente, allegano i denti anco a te, così il vedere che altri si cruccia turba noi.

9.
Ritrosi sono coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, sì come il vocabolo medesimo dimostra; ché tanto è a dire «a ritroso» quanto «a rovescio». Come sia adunque utile la ritrosia a prender gli animi delle persone et a farsi ben volere, lo puoi giudicare tu stesso agevolmente, poscia che ella consiste in opporsi al piacere altrui, il che suol fare l'uno inimico all'altro, e non gli amici infra di loro. Per che, sforzinsi di schifar questo vitio coloro che studiano di essere cari alle persone, perciò che egli genera non piacere né benivolenza, ma odio e noia: anzi conviensi fare dell'altrui voglia suo piacere, dove non ne segua danno o vergogna, et in ciò fare sempre e dire più tosto a senno d'altri che a suo. Non si vuole essere né rustico né strano, ma piacevole e domestico, perciò che niuna differenza sarebbe dalla mortine al pungitopo, se non fosse che l'una è domestica e l'altro salvatico. E sappi che colui è piacevole i cui modi sono tali nell'usanza comune, quali costumano di tenere gli amici infra di loro, là dove chi è strano pare in ciascun luogo «straniero», che tanto viene a dire come «forestiero»; sì come i domestici uomini, per lo contrario, pare che siano ovunque vadano conoscenti et amici di ciascuno. Per la qual cosa conviene che altri si avezzi a salutare e favellare e rispondere per dolce modo e dimostrarsi con ogniuno quasi terrazzano e conoscente. Il che male sanno fare alcuni che a nessuno mai fanno buon viso e volentieri ad ogni cosa dicon di no e non prendono in grado né onore né carezza che loro si faccia, a guisa di gente, come detto è, straniera e barbara: non sostengono di essere visitati et accompagnati e non si rallegrano de' motti né delle piacevolezze, e tutte le proferte rifiutano. - Messer tale m'impose dianzi che io vi salutassi per sua parte - - Che ho io a fare de' suoi saluti? - e - Messer cotale mi dimandò come voi stavate - - Venga, e sì mi cerchi il polso! -: sono adunque costoro meritamente poco cari alle persone. Non istà bene di esser maninconoso né astratto là dove tu dimori; e come che forse ciò sia da comportare a coloro che per lungo spatio di tempo sono avezzi nelle speculationi delle arti che si chiamano, secondo che io ho udito dire, liberali, agli altri sanza alcun fallo non si dèe consentire: anzi, quelli stessi, qualora vogliono pensarsi, farebbono gran senno a fuggirsi dalla gente.

10.
L'esser tenero e vezzoso anco si disdice assai, e massimamente agli uomini, perciò che l'usare con sì fatta maniera di persone non pare compagnia, ma servitù: e certo alcuni se ne truovano che sono tanto teneri e fragili, che il vivere e dimorar con esso loro niuna altra cosa è che impacciarsi fra tanti sottilissimi vetri: così temono essi ogni leggier percossa, e così conviene trattargli e riguardargli. I quali così si crucciano, se voi non foste così presto e sollecito a salutargli, a visitargli, a riverirgli et a risponder loro, come un altro farebbe di una ingiuria mortale; e se voi non date loro così ogni titolo appunto, le querele asprissime e le inimicitie mortali nascono di presente: - Voi mi diceste «messere» e non «signore»! - e - Perché non mi dite voi «V[ostra] S[ignoria]»? Io chiamo pur voi il «signor tale», io! - et anco - Non ebbi il mio luogo a tavola - et - Ieri non vi degnaste di venir per me a casa, come io venni a trovar voi l'altr'ieri: questi non sono modi da tener con un mio pari -. Costoro veramente recano le persone a tale che non è chi gli possa patir di vedere, perciò che troppo amano sé medesimi fuor di misura et, in ciò occupati, poco di spatio avanza loro di potere amare altrui. Sanza che, come io dissi da principio, gli uomini richieggono che nelle maniere di coloro co' quali usano sia quel piacere che può in cotale atto essere; ma il dimorare con sì fatte persone fastidiose, l'amicitia delle quali sì leggiermente, a guisa d'un sottilissimo velo, si squarcia, non è usare, ma servire, e perciò non solo non diletta, ma ella spiace sommamente: questa tenerezza adunque e questi vezzosi modi si voglion lasciare alle femine.

11.
Nel favellare si pecca in molti e varii modi, e primieramente nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme. Non si dèe anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito, perciò che con fatica s'intende da i più. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta. Né di alcuna bruttura si dèe favellare, come che piacevole cosa paresse ad udire, perciò che alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose. Né contra Dio né contra' Santi, né dadovero né motteggiando si dèe mai dire alcuna cosa, quantunque per altro fosse leggiadra e piacevole: il qual peccato assai sovente commise la nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne' suoi ragionamenti, sì che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona. E nota che il parlar di Dio gabbando non solo è difetto di scelerato uomo et empio, ma egli è ancora vitio di scostumata persona, et è cosa spiacevole ad udire: e molti troverai che si fuggiranno di là dove si parli di Dio sconciamente. E non solo di Dio si convien parlare santamente, ma in ogni ragionamento dèe l'uomo schifare quanto può che le parole non siano testimonio contra la vita e le opere sue, perciò che gli uomini odiano in altrui etiandio i loro vitii medesimi. Simigliantemente si disdice il favellare delle cose molto contrarie al tempo et alle persone che stanno ad udire, etiandio di quelle che, per sé et a suo tempo dette, sarebbono e buone e sante. Non si raccontino adunque le prediche di frate Nastagio alle giovani donne, quando elle hanno voglia di scherzarsi, come quel buono uomo che abitò non lungi da te, vicino a San Brancatio, faceva. Né a festa né a tavola si raccontino istorie maninconose, né di piaghe né di malatie né di morti o di pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione o ricordo: anzi, se altri in sì fatte rammemorationi fosse caduto, si dèe per acconcio modo e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto. Quantunque, secondo che io udii già dire ad un valente uomo nostro vicino, gli uomini abbiano molte volte bisogno sì di lagrimare come di ridere: e per tal cagione egli affermava essere state da principio trovate le dolorose favole che si chiamarono tragedie, acciò che, raccontate ne' teatri (come in quel tempo si costumava di fare), tirassero le lagrime agli occhi di coloro che aveano di ciò mestiere; e così eglino, piangendo, della loro infirmità guarissero. Ma, come ciò sia, a noi non istà bene di contristare gli animi delle persone con cui favelliamo, massimamente colà dove si dimori per aver festa e sollazzo, e non per piagnere: ché, se pure alcuno è che infermi per vaghezza di lagrimare, assai leggier cosa fia di medicarlo con la mostarda forte, o porlo in alcun luogo al fumo. Per la qual cosa in niuna maniera si può scusare il nostro Filostrato della proposta che egli fece piena di doglia e di morte a compagnia di nessuna altra cosa vaga che di letitia: conviensi adunque fuggire di favellare di cose maninconose, e più tosto tacersi. Errano parimente coloro che altro non hanno in bocca già mai che i loro bambini e la donna e la balia loro: - Il fanciullo mio mi fece ieri sera tanto ridere! Udite: - Voi non vedeste mai il più dolce figliuolo di Momo mio! - - La donna mia è cotale... - - La Cecchina disse... Certo voi no 'l credereste del cervello ch'ella ha! -. Niuno è sì scioperato che possa né rispondere né badare a sì fatte sciocchezze, e viensi a noia ad ogniuno.

 
 
 

Il Galateo (4-7)

Post n°1231 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

4.
E sappi che in Verona ebbe già un Vescovo molto savio di scrittura e di senno naturale, il cui nome fu messer Giovanni Matteo Giberti, il quale fra gli altri suoi laudevoli costumi si fu cortese e liberale assai a' nobili gentiluomini che andavano e venivano a lui, onorandogli in casa sua con magnificenza non soprabondante, ma mezzana, quale conviene a cherico. Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui, la quale era per lo più di costumati uomini e scientiati. E perciò che gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo commendarono et apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne' suoi modi; del quale essendosi il Vescovo - che intendente signore era - aveduto et avutone consiglio con alcuno de' suoi più domestichi, proposero che fosse da farne aveduto il Conte, come che temessero di fargliene noia. Per la qual cosa, avendo già il Conte preso commiato e dovendosi partir la matina vegnente, il Vescovo, chiamato un suo discreto famigliare, gli impose che, montato a cavallo col Conte, per modo di accompagnarlo, se ne andasse con esso lui alquanto di via; e, quando tempo gli paresse, per dolce modo gli venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare uomo già pieno d'anni, molto scientiato et oltre ad ogni credenza piacevole e ben parlante e di gratioso aspetto, e molto avea de' suoi dì usato alle corti de' gran signori: il quale fu (e forse ancora è) chiamato m[esser] a petition del quale e per suo consiglio presi io da prima a dettar questo presente trattato. Costui, cavalcando col Conte, lo ebbe assai tosto messo in piacevoli ragionamenti; e di uno in altro passando, quando tempo gli parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il Conte et accommiatandolo, con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: - Signor mio, il Vescovo mio signore rende a V[ostra] S[ignoria] infinite gratie dell'onore che egli ha da voi ricevuto; il quale degnato vi siete di entrare e di soggiornar nella sua picciola casa. Et oltre a ciò, in riconoscimento di tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono per sua parte, e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con lieto animo; et il dono è questo. Voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; per qual cosa, avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere et essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente piacevole e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le labra e con la bocca, masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo e pregandovi che voi v'ingegniate del tutto di rimanervene e che voi prendiate in luogo di caro dono la sua amorevole riprensione et avertimento; perciò che egli si rende certo niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse -. Il Conte, che del suo difetto non si era ancora mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco, ma, come valente uomo, assai tosto ripreso cuore, disse: - Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanto sua cortesia e liberalità verso di me ringratiatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio per innanzi bene e diligentemente mi guarderò; et andatevi con Dio -.

5.
Ora, che crediamo noi che avesse il Vescovo e la sua nobile brigata detto a coloro che noi veggiamo talora a guisa di porci col grifo nella broda tutti abbandonati non levar mai alto il viso e mai non rimuover gli occhi, e molto meno le mani, dalle vivande? E con amendue le gote gonfiate, come se essi sonassero la tromba o soffiassero nel fuoco, non mangiare, ma trangugiare: i quali, imbrattandosi le mani poco meno che fino al gomito, conciano in guisa le tovagliuole che le pezze degli agiamenti sono più nette? Con le quai tovagliuole anco molto spesso non si vergognano di rasciugare il sudore che, per lo affrettarsi e per lo soverchio mangiare, gocciola e cade loro dalla fronte e dal viso e d'intorno al collo, et anco di nettarsi con esse il naso, quando voglia loro ne viene? Veramente questi così fatti non meritarebbono di essere ricevuti, non pure nella purissima casa di quel nobile Vescovo, ma doverebbono essere scacciati per tutto là dove costumati uomini fossero. Dèe adunque l'uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, perciò che ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dèe mangiare, non pare polito costume. I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola, non si deono per alcuna conditione grattare il capo né altrove dinanzi al loro signore quando e' mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo che si cuoprono, né pure farne sembiante, sì come alcuni trascurati famigliari fanno, tenendosele in seno, o dirieto nascoste sotto a' panni; ma le deono tenere in palese e fuori d'ogni sospetto, et averle con ogni diligenza lavate e nette, sanza avervi sù pure un segnuzzo di bruttura in alcuna parte. E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si astenghino in quell'ora da sputare, da tossire e, più, da starnutire, perciò che in simili atti tanto vale, e così noia i signori, la sospettione, quanto la certezza; e perciò procurino i famigliari di non dar cagione a' padroni di sospicare, perciò che quello che poteva adivenire così noia come se egli fosse avenuto. E se talora averai posto a scaldare pera d'intorno al focolare, o arrostito pane in su la brage, tu non vi dèi soffiare entro (perché egli sia alquanto ceneroso), perciò che si dice che mai vento non fu sanza acqua; anzi tu lo dèi leggiermente percuotere nel piattello o con altro argomento scuoterne la cenere. Non offerirai il tuo moccichino (come che egli sia di bucato) a persona: perciò che quegli a cui tu lo proferi nol sa, e potrebbelsi avere a schifo. Quando si favella con alcuno, non se gli dèe l'uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso, perciò che molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne venisse. Questi modi et altri simili sono spiacevoli e vuolsi schifargli, perciò che posson noiare alcuno de' sentimenti di coloro co' quali usiamo, come io dissi di sopra. Facciamo ora mentione di quelli che, sanza noia d'alcuno sentimento, spiacciono allo appetito delle più persone quando si fanno.

6.
Tu dèi sapere che gli uomini naturalmente appetiscono più cose e varie, perciò che alcuni vogliono sodisfare all'ira, alcuni alla gola, altri alla libidine et altri alla avaritia et altri ad altri appetiti; ma, in comunicando solamente infra di loro, non pare che chiegghino, né possano chiedere né appetire, alcuna delle sopradette cose, con ciò sia che elle non consistano nelle maniere o ne' modi e nel favellar delle persone, ma in altro. Appetiscono adunque quello che può conceder loro questo atto del comunicare insieme; e ciò pare che sia benivolenza, onore e sollazzo, o alcuna altra cosa a queste simigliante. Per che non si dèe dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co' quali si dimora. Laonde poco gentil costume pare che sia quello che molti sogliono usare, cioè di volentieri dormirsi colà dove onesta brigata si segga e ragioni, perciò che, così facendo, dimostrano che poco gli apprezzino e poco lor caglia di loro e de' loro ragionamenti, sanza che chi dorme, massimamente stando a disagio, come a coloro convien fare, suole il più delle volte fare alcuno atto spiacevole ad udire o a vedere: e bene spesso questi cotali si risentono sudati e bavosi. E per questa cagione medesima il drizzarsi ove gli altri seggano e favellino e passeggiar per la camera pare noiosa usanza. Sono ancora di quelli che così si dimenano e scontorconsi e prostendonsi e sbadigliano, rivolgendosi ora in su l'un lato et ora in su l'altro, che pare che gli pigli la febre in quell'ora: segno evidente che quella brigata con cui sono rincresce loro. Male fanno similmente coloro che ad ora ad ora si traggono una lettera della scarsella e la leggono; peggio ancora fa chi, tratte fuori le forbicine, si dà tutto a tagliarsi le unghie, quasi che egli abbia quella brigata per nulla e però si procacci d'altro sollazzo per trapassare il tempo. Non si deono anco tener quei modi che alcuni usano: cioè cantarsi fra' denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe; perciò che questi così fatti modi mostrano che la persona sia non curante d'altrui. Oltre a ciò, non si vuol l'uom recare in guisa che egli mostri le spalle altrui, né tenere alto l'una gamba sì che quelle parti che i vestimenti ricuoprono si possano vedere: perciò che cotali atti non si soglion fare, se non tra quelle persone che l'uom non riverisce. Vero è che se un signor ciò facesse dinanzi ad alcuno de' suoi famigliari, o ancora in presenza d'un amico di minor conditione di lui, mostrerebbe non superbia, ma amore e dimestichezza. Dèe l'uom recarsi sopra di sé e non appoggiarsi né aggravarsi addosso altrui; e, quando favella, non dèe punzecchiare altrui col gomito, come molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: - Non dissi io vero? - - Eh, voi? - - Eh, messer tale? - (e tuttavia vi frugano col gomito).

7.
Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente: e perciò solevano i cittadini di Padova prendersi ad onta quando alcun gentiluomo vinitiano andava per la loro città in saio, quasi gli fosse aviso di essere in contado. E non solamente vogliono i vestimenti essere di fini panni, ma si dèe l'uomo sforzare di ritrarsi più che può al costume degli altri cittadini, e lasciarsi volgere alle usanze; come che forse meno commode o meno leggiadre che le antiche per aventura non erano, o non gli parevano a lui. E se tutta la tua città averà tonduti i capelli, non si vuol portar la zazzera, o, dove gli altri cittadini siano con la barba, tagliarlati tu: perciò che questo è un contradire agli altri, la qual cosa (cioè il contradire nel costumar con le persone) non si dèe fare, se non in caso di necessità, come noi diremo poco appresso, imperò che questo innanzi ad ogni altro cattivo vezzo ci rende odiosi al più delle persone. Non è adunque da opporsi alle usanze comuni in questi cotali fatti, ma da secondarle mezzanamente, acciò che tu solo non sii colui che nelle tue contrade abbia la guarnaccia lunga fino in sul tallone, ove tutti gli altri la portino cortissima poco più giù che la cintura. Perciò che, come aviene a chi ha il viso forte ricagnato, che altro non è a dire che averlo contra l'usanza, secondo la quale la natura gli fa ne' più, che tutta la gente si rivolge a guatar pur lui; così interviene a coloro che vanno vestiti non secondo l'usanza de' più, ma secondo l'appetito loro, e con belle zazzere lunghe, o che la barba hanno raccorciata o rasa, o che portano le cuffie o certi berrettoni grandi alla tedesca; ché ciascuno si volge a mirarli e fassi loro cerchio, come a coloro i quali pare che abbiano preso a vincere la pugna incontro a tutta la contrada ove essi vivono. Vogliono essere ancora le veste assettate e che bene stiano alla persona, perché coloro che hanno le robe ricche e nobili, ma in maniera sconcie che elle non paiono fatte a lor dosso, fanno segno dell'una delle due cose: o che eglino niuna consideratione abbiano di dover piacere né dispiacere alle genti, o che non conoscano che si sia né gratia né misura alcuna. Costoro adunque co' loro modi generano sospetto negli animi delle persone con le quali usano che poca stima facciano di loro; e perciò sono mal volentier ricevuti nel più delle brigate, e poco cari avutivi.

 
 
 

Il Galateo (1-3)

Post n°1230 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

1.
Con ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere o, come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la diritta via con la salute dell'anima tua e con laude et onore della tua orrevole e nobile famiglia. E perciò che la tua tenera età non sarebbe sufficiente a ricevere più prencipali e più sottili ammaestramenti, riserbandogli a più convenevol tempo, io incomincierò da quello, che per aventura potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che non di meno è o virtù o cosa molto a virtù somigliante. E come che l'esser liberale o constante o magnanimo sia per sé sanza alcun fallo più laudabil cosa e maggiore che non è l'essere avenente e costumato, non di meno forse che la dolcezza de' costumi e la convenevolezza de' modi e delle maniere e delle parole giovano non meno a' possessori di esse che la grandezza dell'animo e la sicurezza altresì a' loro possessori non fanno: perciò che queste si convengono essercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni dì et ogni dì favellare con esso loro; ma la giustitia, la fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in opera più di rado; né il largo et il magnanimo è astretto di operare ad ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso; e gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte sono constretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera. Adunque, quanto quelle di grandezza e quasi di peso vincono queste, tanto queste in numero et in ispessezza avanzano quelle: e potre'ti, se egli stesse bene di farlo, nominare di molti, i quali, essendo per altro di poca stima, sono stati, e tuttavia sono, apprezzati assai per cagion della loro piacevole e gratiosa maniera solamente; dalla quale aiutati e sollevati, sono pervenuti ad altissimi gradi, lasciandosi lunghissimo spatio adietro coloro che erano dotati di quelle più nobili e più chiare virtù che io ho dette. E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co' quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi. Per la qual cosa, quantunque niuna pena abbiano ordinata le leggi alla spiacevolezza et alla rozzezza de' costumi (sì come a quel peccato che loro è paruto leggieri, e certo egli non è grave), noi veggiamo non di meno che la natura istessa ce ne castiga con aspra disciplina, privandoci per questa cagione del consortio e della benivolenza degli uomini: e certo, come i peccati gravi più nuocono, così questo leggieri più noia o noia almeno più spesso; e sì come gli uomini temono le fiere salvatiche e di alcuni piccioli animali, come le zanzare sono e le mosche, niuno timore hanno, e non di meno, per la continua noia che eglino ricevono da loro, più spesso si ramaricano di questi che di quelli non fanno, così adiviene che il più delle persone odia altrettanto gli spiacevoli uomini et i rincrescevoli quanto i malvagi, o più. Per la qual cosa niuno può dubitare che a chiunque si dispone di vivere non per le solitudini o ne' romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima cosa il sapere essere ne' suoi costumi e nelle sue maniere gratioso e piacevole; sanza che le altre virtù hanno mestiero di più arredi, i quali mancando, esse nulla o poco adoperano; dove questa, sanza altro patrimonio, è ricca e possente, sì come quella che consiste in parole et in atti solamente.

2.
Il che acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere che a te convien temperare et ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co' quali tu usi, et a quello indirizzargli; e ciò si vuol fare mezzanamente, perciò che chi si diletta di troppo secondare il piacere altrui nella conversatione e nella usanza, pare più tosto buffone o giucolare, o per aventura lusinghiero, che costumato gentiluomo. Sì come, per lo contrario, chi di piacere o di dispiacere altrui non si dà alcun pensiero è zotico e scostumato e disavenente. Adunque, con ciò sia che le nostre maniere sieno allora dilettevoli, quando noi abbiamo risguardo all'altrui e non al nostro diletto, se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il più degli uomini, e quali quelle che noiano, potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da eleggersi. Diciamo adunque che ciascuno atto che è di noia ad alcuno de' sensi, e ciò che è contrario all'appetito, et oltre a ciò quello che rappresenta alla imaginatione cose male da lei gradite, e similmente ciò che lo 'ntelletto have a schifo, spiace e non si dèe fare.

3.
Perciò che non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice; e non pure il farle et il ricordarle dispiace, ma etiandio il ridurle nella imaginatione altrui con alcuno atto suol forte noiar le persone. E perciò sconcio costume è quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien loro voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, quindi tornando, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata, con ciò sia che la cagione per la quale egli se le lava rappresenti nella imagination di coloro alcuna bruttura. E per la medesima cagione non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via (come occorre alle volte) cosa stomachevole, il rivolgersi a' compagni e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instantia, pure accostandocela al naso e dicendo: - Deh, sentite di gratia come questo pute! -; anzi doverebbon dire: - Non lo fiutate, perciò che pute -. E come questi e simili modi noiano quei sensi a' quali appartengono, così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar ferro spiace agli orecchi, e dèesene l'uomo astenere più che può. E non sol questo; ma dèesi l'uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme; dalla qual cosa pochi sono che si riguardino, anzi, pare che chi meno è a ciò atto naturalmente più spesso il faccia. Sono ancora di quelli che, tossendo o starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui; e di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a' circonstanti; e truovasi anco tale che, sbadigliando, urla o ragghia come asino; e tale con la bocca tuttavia aperta vuol pur dire e seguitare suo ragionamento e manda fuori quella voce (o più tosto quel romore) che fa il mutolo quando egli si sforza di favellare: le quali sconce maniere si voglion fuggire come noiose all'udire et al vedere Anzi dèe l'uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, oltra le predette cose, ancora perciò che pare che venga da un cotal rincrescimento e da tedio, e che colui che così spesso sbadiglia, amerebbe di esser più tosto in altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti et i modi loro gli rincrescano. E certo, come che l'uomo sia il più del tempo acconcio a sbadigliare, non di meno, se egli è soprapreso da alcun diletto o da alcun pensiero, egli non ha mente di farlo; ma, scioperato essendo et accidioso, facilmente se ne ricorda; e perciò, quando altri sbadiglia colà dove siano persone ociose e sanza pensiero, tutti gli altri, come tu puoi aver veduto far molte volte, risbadigliano incontinente, quasi colui abbia loro ridotto a memoria quello che eglino arebbono prima fatto, se essi se ne fossino ricordati. Et ho io sentito molte volte dire a' savi letterati che tanto viene a dire in latino «sbadigliante» quanto ‘neghittoso’ e ‘trascurato’. Vuolsi adunque fuggire questo costume, spiacevole - come io ho detto - agli occhi et all'udire et allo appetito; perciò che, usandolo, non solo facciamo segno che la compagnia con la qual dimoriamo ci sia poco a grado, ma diamo ancora alcuno indicio cattivo di noi medesimi, cioè di avere addormentato animo e sonnacchioso; la qual cosa ci rende poco amabili a coloro co' quali usiamo. Non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire il moccichino e guatarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi dal cielabro, che sono stomachevoli modi et atti a fare, non che altri ci ami, ma che se alcuno ci amasse si dis[inn]amori: sì come testimonia lo spirito del Labirinto (chi che egli si fosse), il quale, per ispegnere l'amore onde messer Giovanni Boccaccio ardea di quella sua male da lui conosciuta donna, gli racconta come ella covava la cenere sedendosi in su le calcagna e tossiva et isputava farfalloni. Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha a bere, o su la vivanda che altri dèe mangiare, per cagion di fiutarla; anzi non vorre' io che egli fiutasse pur quello che egli stesso dèe bersi o mangiarsi, poscia che dal naso possono cader di quelle cose che l'uomo ave a schifo, etiandio che allora non caggino. Né per mio consiglio porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino al quale tu arai posto bocca et assaggiatolo, salvo se egli non fosse teco più che domestico; e molto meno si dèe porgere pera o altro frutto nel quale tu arai dato di morso. E non guardare perché le sopra dette cose ti paiano di picciolo momento, perciò che anco le leggieri percosse, se elle sono molte, sogliono uccidere.

 
 
 

Il Galateo, Indice

Post n°1229 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Galateo overo de' Costumi

di Giovanni della Casa (1503-1556)

Trattato di messer Giovanni della Casa, nel quale sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de modi, che si debbono o tenere, o schifare nella comune conversatione, cognominato Galatheo overo de costumi (Prima edizione, pubblicata postuma,in "Rime, et prose di M. Giovanni della Casa", Impresse in Vinegia, per Nicolo Bevilacqua, nel mese d'ottobre, 1558).

Indice sommario (il manoscritto originale non è suddiviso in capitoli)

(cap. 1-3) 1. Ideale di vita: i buoni costumi sono utili alla società -  2. Le azioni si devono fare non a proprio arbitrio, ma per il piacere di coloro coi quali si è in compagnia - 3. Cose laide da non fare o nominare
(cap. 4-7) 4. Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo - 5. A tavola: modi dei commensali e dei servitori - 6. Comportamenti da tenere in compagnia degli altri - 7. Bisogna adattarsi alle usanze degli altri nel modo di vestirsi, di tagliarsi i capelli e la barba
(cap. 8-11) 8. Non avere a tavola modi violenti o noiosi o sconci; aneddoto di Messer Bandinelli - 9. Utilità della ritrosia, ma senza eccessi - 10. Non si devono usare modi vezzosi come quelli delle donne - 11. Evitare argomenti che non interessano o temi sottili difficili da capire
(cap. 12-14) 12. Condanna dei bestemmiatori e di coloro che raccontano i propri sogni - il sogno di Messer Flaminio Tomarozzo
13. Contro i millantatori e i bugiardi o coloro che si vantano
14. Sul linguaggio da tenere durante la conversazione: chiarezza, onestà; evitare parole sconce o dal doppio senso o le cerimonie fatte per tornaconto o per adulazione
(cap. 15-17) 15. Conclusione contro le cerimonie, perché degli uomini malvagi e sleali - 16. Sulle cerimonie per debito o per vanità - le cerimonie imposte dalla legge da usare tenendo conto del luogo e delle usanze - aneddoto di Edipo e Teseo - 17. Non usar cerimonie fuor del convenevole per non essere vanitosi
(cap. 18-20) 18. Le persone schifano l'amicizia dei maldicenti - condanna dell'eccesso del dar consigli - 19. Bando agli scherni e alle ingiurie - occorre saper fare bene le beffe - 20. Sui motti di spirito
(cap. 21-24) 21. Il conversare disteso deve rappresentare le usanze, gli atti e i costumi - 22. Sul linguaggio da tenere durante la conversazione: chiarezza, onestà; evitare parole sconce o dal doppio senso - 23. Prima di parlare bisogna sapere cosa dire - il tono della voce - scelta delle parole dal miglior suono e dal miglior significato - 24. Lasciare che anche gli altri parlino - non interrompere qualcuno quando parla - il soverchio dire reca fastidio, il soverchio tacere odio
(cap. 25-27) 25. Aneddoto del Maestro Chiarissimo - il costume e la ragione sono i maestri per porre freno alla natura - l'educazione deve essere impartita fin nella più tenera età - 26. La bellezza femminile: convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto - 27. La bellezza è armonia: anche il vestire deve essere armonico
(cap. 28-30) 28. Fuggire vizi come lussuria, avarizia, crudeltà - ogni azione (vestire, portamento, camminata, parlata, stare a tavola, ecc.) deve essere armonica - 29. Norme generali di comportamento - 30. Ancora norme di comportamento

 
 
 

Il Meo Patacca 04-1

Post n°1228 pubblicato il 21 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO QUARTO

ARGOMENTO

Sgherri MEO pe' la guerra ricapezza,
Poi va pe' dire a Nuccia, che conclusa
È la partenza, e questa lo disprezza,
Lo sbravicchia, lo caccia, e reo l'accusa.
Da Calfurnia uno sgherro s'accarezza,
Perchè sfidi PATACCA. Ex non ricusa:
Si fa il duello, e MEO la grolia ottiene,
E in sentirlo applaudì, la ciospa sviene.

Dalla Signora Madre, ch'è l'Aurora,
Succhiato il chiaro latte, il Dì bambino,
Da cunnola di luce uscito fora,
Prima a vista d'ogn'un cresce' un tantino,
Poi fatto grannicello, in men d'un'hora
Incominzò pell'aria a fa' camino;
Ma cresciuto un pò più, da bon zitello,
A spasso va col Sol, ch'è su' fratello.

Trotta fratanto in prescia, e 'l selcio batte
Calfurnia con un passo trito trito,
E glie pare d'havè gran prove fatte
Pel tradimento, c'ha sì bene ordito:
Se MEO con Marco Pepe va a combatte,
Spera vederlo subbito sbiascito,
Ma pe' trovà costui, vada pur vada,
Ch'un pezzo ancora c'è da fà de strada.

A MEO PATACCA intanto io mi rivolto,
Lo vedo più del solito scialante
Co' sfarzo granne si, ma disinvolto
Resce da casa, allegro in tel ghignante.
Dalli lacci d'amor già che s'è sciolto,
Vuò annasse a licenzia da Nuccia amante,
Ma però, cosa più ben fatta stima,
Li ducento compagni abbusca' prima.

Trovasseli da sè s'era impegnato,
Co' i dieci sgherri, ch'in principio ho detto,
E già nel su' ciarvello ha disegnato
Dove ha d'annà a trova gente de petto.
A più d'un loco topico ha penzato,
Pe' far havere a i su' disegni effetto;
Va presto in giro, e gnente si trattiè,
Lassa insinenta di piglia il cafè.

Scurre mò qua, mò là, sempre ha ripieghi
Per incontrà costoro, e gli riesce,
Con chi addropa i comanni, e con chi i preghi,
In chi mette coraggio, in chi l'accresce.
Pe' fa' ch'alle su' voglie ogn'un si pieghi,
El parlà, l'essortà non gli rincresce,
E tanto fa, che con le su' parole
Ricapezza più sgherri che non vuole.

Haveva ditto haveva a tutti quanti
Già pe' prima el disegno, che lui fava,
De trova giusto cinquecento fanti,
Ma tutti romaneschi, e gente brava,
Poi d'annassene insieme sverzellanti
Là dove el gran Vissir piantato stava,
Pe' buscà Vienna, e far così ogni sforzo,
Pe' dar a quella almen calche soccorzo.

Volze in prima, eh'ogn'un gl'impromettesse
D'annà con lui nel Campo, e poi gli disse,
Perchè di tutti el nome si scrivesse,
Ch'a ritrovallo a casa ogn'un venisse,
Che questo poco dopo si facesse.
Perchè la stanza poi non si rempisse,
Dove manco pe' trenta c'era loco,
Ch'annassero spartiti a poco a poco.

Non ci fu allora un, che facesse fiato
In contradine a quel, che MEO richiese;
Si mostra ogn'un di loro incrapicciato
D'annà in battaglia a fà tamante imprese.
Parte MEO, più d'un utre allor gonfiato,
E a fagli inchino assai profonno attese
La gente sgherra, che gli è intorno spasa.
Lui glie dice: "Bon dì: v'aspetto a casa".

Spicciatosi di già de 'sta faccenna.
Penza sbrigarsi di quell'altra ancora,
D'annar da Nuccia, a dir che non pretenna
D'intrattenello, che non vada fora.
Che mò alli fatti sui di grazia attenna,
E lo lassi partì senza dimora,
Che quanno tornerà poi dal su' viaggio,
Discurre si potrà del maritaggio.

Non vuò, ch'attorno più se gli strofini
Nuccia, se nel suo amor più non s'invischia,
Nè che più co' i su' fiotti l'ammuini.
Arriva intanto alla su' casa e fischia,
Pe' non mette in suspetto li vicini
Di bussaglie a la porta non s'arrischia;
Lei sente, fa la sorda, e da martello,
E lui torna a fischia più forticello.

Prima Nuccia così stette un bel pezzo,
S'affaccia poi nel ceffo dispettosa;
S'intoscia, e con cert'atti de disprezzo
Finge de sta' a vedéne ogn'altra cosa.
Col cenno e con la man fa più d'un vezzo
PATACCA allor, lo guarda lei sdegnosa,
E come che da lui noia riceva,
Dalla finestra subbito si leva.

Quì si, ch'è MEO stordito, e non capisce,
Perchè adesso costei gnente l'accoglia,
E gli scotta il vedè che lo schernisce,
Nè sa ancor, se lui resti o se la coglia.
Vorria fischià di novo, e non ardisce;
Di saperla poi netta ha 'na gran voglia;
Il ribussà stima che l'habbia a male,
La sente alfin, che scegne pe' le scale.

S'ammannisce de fa' la bocca a riso,
Pe' non pare d'esserse gnente ombrato.
C'era un entrone da un cancel diviso,
De razzo ce fu lui drento imbucato.
Rapre Nuccia un tantino, e mezzo viso
Fa vedè solo, e MEO nel modo usato
La saluta, e poi spigne il cancelletto,
Lei de posta gli da 'na botta in petto.

"Olà! Ch'ardir è il tuo? Che si pretende
Da casa mia? Guidone! Impertinente!"
Nuccia forte gridò: "Così s'offende
Una mia pari? Via! fora insolente!"
MEO però, che la causa non intende
De 'ste chiassate, ancor non si risente;
Ma dice sol: "Perchè così me fai?
Se po' sapè se po' se con chi l'hai?".

"L'ho con te, - dice Nuccia, - e con raggione,
Con te, che mi lusinghi in dir che m'ami,
E linguacciuto poi, con le perzone
Screditando mi vai con modi infami:
Se m'odj e mi disprezzi o mascalzone,
Perchè co' 'sti tui fischi a te mi chiami?
Abbada a i fatti tui, che ti conviene,
E più non m'intronà, se vuoi far bene".

"In che dà 'sto parla? Che so 'sti fiotti?
Tirà de brusco, e batter vuoi marina? -
PATACCA rispondè, - mò si m'abbotti
Con fa' 'sto chiasso, e fa' 'sta gran ruina.
Te lassi inzampognà dalli strambotti
Di calche amica, o calche tu' vicina,
Che ce se piglia gusto, se non sbaglio,
A fatte tarroccàne, e magnà l'aglio".

"Di te, solo di te doler mi devo, -
Tornò a dir lei con rabbia, e con dispetto,
- E dell'ingiurie, che da te ricevo:
Che ben io so, quel che di Nuccia hai detto.
Io ti credevo, pazza, ti credevo
Un amante fidele, un homo schietto,
Ma già appresso di me, tu sei convinto,
Un malalingua, un traditore, un finto.

Tu non m'inganni no, che la so tutta,
Come inteso havess'io con quest'orecchia;
'Sta grazianata tua poco ti frutta,
Se invano a trappolarmi s'apparecchia.
Che pretendi da me, già che son brutta?
E perchè mi corteggi, s'io son vecchia?
E va in mal'hora!". E qui da sè lo scaccia,
Spigne la porta, e glie la serra in faccia.

Allor si che PATACCA si scatena,
E fa di quelle che non fece mai,
Dà spintoni alla porta, e calci mena,
E strilla forte: "E che creanze fai?
Me trovi a fè, me trovi oggi de vena,
De fatte vede un pò, se con chi l'hai!
Non so che te ciangotti? E credo solo
C'habbi data già volta al cirignolo.

Se viè a discurre senza fa' sgherrate,
E usa 'sto brutto modo de procede;
Altro ce vuò, che 'ste tu' smargiassate,
Con chi di dir la su' ragion te chiede.
Non voglio fa' non voglio baronate,
Che belle cose te vorria fa' vede;
Pochi ne troverai de pari miei,
Che t'ho riguardo perchè donna sei".

S'accorge alfin, che solo col cancello
Lui parla e sprega le parole al vento:
"No, che non voglio perdermi el cervello" -
Dice tra sé, - "cos'è 'sto mi' lamento?
Vada puro costei, vada in bordello,
Per me assai meglio è 'sto su' stizzamento.
Quanno sarà della partenza el giorno,
Non haverò, chi più mi fiotti attorno".

Poi senz'altro penzà, pe' la più corta
Inverso casa sua batte el taccone,
E quanno a vede incominzò la porta
Allampa a quella accosto più perzone:
Assai più questo, che colei gl'importa,
Perchè gli viè in penziero el su' squadrone,
E in quel, che lui s'immagina non erra,
Ch'appunto è gente, che vuò annà alla guerra.

Appena MEO PATACCA s'avvicina,
C'han tutti gusto della su' presenza,
Col fongo in mano, e con la testa china
L'incontrano, gli fanno riverenza.
Lui tanto quanto, a ogn'un di lor s'inchina,
E gli fa calche poco d'accoglienza.
Rapre, e poi dice: "Orsù sopra si vada,
Ch'innanzi io vò, solo pe' fa' la strada".

Sagliono l'altri, e così in piede in piede
Fa di tutti PATACCA la rivista,
E havendone gran pratica, già vede,
Che tutti sgherri son da mette in lista.
Perchè ha da scrive assai, se mette a sede,
Et incominza a fa' la su' provista.
Li nota uno per uno, e a mano a mano,
Gli dice chi sarà 'l su' capitano.

S'era co' i dieci sgherri già impegnato,
Quanno in Campo Vaccino li ha condutti,
Di dar a ogn'uno el su' capitaniato,
E mantiè adesso la parola a tutti.
(A questi soli il posto sarà dato,
E l'altri restaranno a denti asciutti).
Lui seguita a notà chi prima arriva,
E per ordine vuò ch'ogn'un si scriva.

Tanto di quelli trenta di costoro,
Quanto de i su' ducento, e sale e scenne
Più d'un per volta, e pur nisciun di loro
Nell'incontrarzi strepita e contenne.
PATACCA tutto intento al su' lavoro
Arrolla sgherri a furia, e 'ste facenne
Le stima un spasso granne, e volentiere
Pe' falle ce staria giornate intiere.

In tel partì, che da PATACCA fanno,
Questo gli dice, che far lì ritorno
Più non accurre no, ma che annaranno
Tutti in Campo Vaccino nel tal giorno;
Che qui la mostra general faranno,
Dove procuri ogn'un d'annacce adorno,
E che poi meglio sentirà domane,
Dal capitanio suo quel c'ha da fane.

Hor mentre MEO sta tutto affaccennato,
In te la stanza a scrivere chi viene,
E pe' fornire, quel c'ha incominzato,
Non si riposa, e ci travaglia bene,
Calfurnia in te la strada ha già abbordato
Marco Pepe, e con lui ce se trattiene;
Lo prega, lo riprega, e non si stracca,
E attizzanno lo va contro PATACCA.

Vuò, ch'a custion lo sfidi, e glie la soni
Co' rifibbiagli una stoccata in petto,
E che lo faccia, e non glie la perdoni
Pe' vendetta di quel, ch'a Nuccia ha detto,
Gli appetta che con modi mascalzoni
Ardì de faglie un così gran dispetto,
Che in tel penzacce quella se n'accora,
Con dirglie vecchia e brutta, e peggio ancora.

Poi te gli fa vedè la ciospa indegna
Già Nuccia tutta sua, se fa pulito,
D'accoppaglie Patacca, e a dir s'impegna
Che sarà dell'istessa il favorito.
S'accorgerà, che lei più non lo sdegna,
Anzi, pe' fa' vedèe che gli è gradito,
Lei gli farà sentir, se passa mai
Da casa sua, che lo ringrazia assai.

Mentre costei con chiacchiare e monine
L'amico sgherro inzampognà procura,
Sta questo irresoluto, perchè al fine,
La vittoria non è per lui sicura.
In servir Nuccia, è ver, c'ha qualche fine,
E che però mostrà vorria bravura,
Ma poi penza a Patacca, e assai lo stima,
In tel sapè, che sa tirà de scrima.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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