Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Febbraio 2015 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
            1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28  
 
 

Messaggi del 23/02/2015

La Secchia Rapita 02-2

Post n°1267 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        34
Ma la Dea de le biade e 'l Dio del vino
venner congiunti e ragionando insieme;
Nettun si fe' portar da quel delfino
che fra l'onde del ciel notar non teme:
nudo, algoso e fangoso era il meschino,
di che la madre ne sospira e geme,
ed accusa il fratel di poco amore
che lo tratti cosí da pescatore.

        35
Non comparve la vergine Diana
che levata per tempo era ita al bosco
a lavare il bucato a una fontana
ne le maremme del paese Tosco;
e non tornò, che già la tramontana
girava il carro suo per l'aer fosco;
venne sua madre a far la scusa in fretta,
lavorando su i ferri una calzetta.

        36
Non intervenne men Giunon Lucina,
che 'l capo allora si volea lavare;
Menippo, sovrastante a la cucina
di Giove, andò le Parche ad iscusare
che facevano il pan quella mattina,
indi avean molta stoppa da filare;
Sileno cantinier restò di fuori
per inacquare il vin de' servidori.

        37
De la reggia del ciel s'apron le porte,
stridon le spranghe e i chiavistelli d'oro;
passan gli Dei da la superba corte
ne la sala real del Concistoro:
quivi sottratte a i fulmini di morte
splendon le ricche mura e i fregi loro;
vi perde il vanto suo qual piú lucente
e piú pregiata gemma ha l'Oriente.

        38
Posti a seder ne' bei stellati palchi
i sommi eroi de' fortunati regni,
ecco i tamburi a un tempo e gli oricalchi
de l'apparir del Re diedero segni.
Cento fra paggi e camerieri e scalchi
veníeno, e poscia i proceri piú degni;
e dopo questi Alcide con la mazza,
capitan de la guardia de la piazza.

        39
E come quel ch'ancor de la pazzia
non era ben guarito intieramente,
per allargare innanzi al Re la via
menava quella mazza fra la gente;
ch'un imbriaco svizzero paría,
di quei che con villan modo insolente
sogliono innanzi 'l Papa il dí di festa
romper a chi le braccia, a chi la testa.

        40
Col cappello di Giove e con gli occhiali
seguiva indi Mercurio, e in man tenea
una borsaccia, dove de' mortali
le suppliche e l'inchieste ei raccogliea;
dispensavale poscia a due pitali
che ne' suoi gabinetti il Padre avea,
dove con molta attenzion e cura
tenea due volte il giorno segnatura.

        41
Venne al fin Giove in abito reale
con quelle stelle c'han trovate in testa,
e su le spalle un manto imperiale
che soleva portar quand'era festa;
lo scettro in forma avea di pastorale
e sotto il manto una pomposa vesta
donatagli dal popol Sericano,
e Ganimede avea la coda in mano.

        42
A l'apparir del Re surse repente
da i seggi eterni l'immortal Senato,
e chinò il capo umíle e riverente
fin che nel trono eccelso ei fu locato.
Gli sedea la Fortuna in eminente
loco a sinistra, ed a la destra il Fato;
la Morte e 'l Tempo gli facean predella,
e mostravan d'aver la cacarella.

        43
Girò lo sguardo intorno, onde sereno
si fe' l'aer e 'l ciel, tacquero i venti,
e la terra si scosse e l'ampio seno
de l'oceano a' suoi divini accenti.
Ei cominciò dal dí che fu ripieno
di topi il mondo e di ranocchi spenti,
e narrò le battaglie ad una ad una
che ne' campi seguîr poi de la luna.

        44
- Or, disse, una maggior se n'apparecchia
tra quei del Sipa e la città del Potta:
sapete ch'è tra lor ruggine vecchia
e che piú volte s'han la testa rotta;
ma nuova gara or sopra d'una Secchia
han messa in campo; e se non è interrotta,
l'Italia e 'l mondo sottosopra veggio:
intorno a ciò vostro consiglio chieggio. -

        45
Qui tacque Giove, e 'l guardo a un tempo affisse
nel padre suo, che gli sedea secondo.
Sorrise il vecchio, e tirò un peto, e disse:
- Potta, i' credea che ruinasse il mondo.
Che importa a noi se guerra, liti e risse
turban là giú quel miserabil fondo?
E se gli uomini son lieti o turbati?
Io gli vorrei veder tutti impiccati. -

        46
Marte a quella risposta alzando il ciglio
- O buon vecchio, gridò, son teco anch'io;
che importa a questo eterno alto consiglio
se stato è colà giú turbato o rio?
Chi è nato a perigliar, viva in periglio:
viva e goda nel ciel chi è nato Dio.
Io, se la Diva mia nol mi disdice,
l'una e l'altra città farò infelice.

        47
Sazierà doppia strage il mio furore,
di corpi morti inalzerò montagne;
farò laghi di sangue e di sudore,
e tutte inonderò quelle campagne. -
- Cavalier, disse Palla, il tuo valore
san cantar fin le trippe e le lasagne,
sí che indarno ti studi e t'argomenti
di farlo or noto a le celesti menti.

        48
Ma s'hai desio di qualche degna impresa,
facciam cosí: va' tu co i Gemignani,
ch'io sarò de' Petroni a la difesa,
e ti verrò a incontrar là su que' piani.
Bologna sempre fu a' miei studi intesa;
onde tenermi a cintola le mani
or non debbo per lei. Tu meco scendi
se palma di valor, se gloria attendi. -

        49
A quel parlar si levò Febo e disse:
- Vergine bella, i' verrò teco anch'io
in favor di Bologna, ove ognor visse
l'antico studio de le Muse e mio. -
Bacco, che in Citerea le luci fisse
sempre tenute avea con gran desio
- Cosí dunque, rispose in volto irato,
fia il popol mio da tutti abbandonato?

        50
La città ch'ognor vive in feste e canti
fra maschere e tornei per onorarmi,
ch'ha si dolce liquor, vedrà fra tanti
travagli suoi qui neghittoso starmi?
Bella madre d'Amor, che co' sembianti
puoi far vinta cader la forza e l'armi,
tu meco scendi: ch'io farò a costoro
di stoppa rimaner la barba d'oro. -

        51
Sfavillò Citerea con un sorriso
che dicea: - Bacia, bacia, anima accesa -
e gli diede col ciglio a un tempo aviso.
che sarebbe ita seco a quell'impresa.
Marte, che 'n lei tenea lo sguardo fiso
avido di litigio e di contesa,
vedendo ch'ella avea d'andar desio,
disse: - A la fè, che vo' venir anch'io.

        52
Gite voi altri pur dove v'aggrada,
ch'io vo' seguir de la mia Diva i passi;
dove ella volge il piè, convien ch'io vada,
e quei di voi ch'ella abbandona, lassi.
Per lei combatte questa invitta spada
e questa destra; ed or per lei vedrassi
il Panaro gonfiarsi, e in atto strano
portar soccorso al Po di sangue umano. -

        53
Sorrise Palla, ma con occhio bieco
rimirollo Vulcan ch'era in disparte;
e disse: - Empio sicario, adunque meco
comune il letto avrai per ricrearte?
E Giove stesso accorderassi teco
nel vituperio di sua figlia a parte?
Per Stige, ch'io non so chi mi s'arresta
ch'io non ti do di questo in su la testa. -

        54
E strignendo un martel ch'al fianco avea,
sollevò il braccio, e di menar fece atto.
La manopola allor ch'in man tenea
lanciògli Marte, e balzò in piedi ratto
sgangherato gridando: - Anima rea,
t'insegnerò ben io di starti quatto. -
Giove che vide accesa una battaglia,
stese lo scettro e disse: - Olà, canaglia!

        55
Dove credete star? giuro a Macone
ch'io vi gastigherò di tanto ardire;
venga il fulmine tosto. - E l'Aquilone
il fulmine arrecògli in questo dire.
Vulcan tratto a' suoi piedi in ginocchione
chiedea mercede e intiepidiva l'ire
lagrimando i suoi casi e l'empia sorte,
ma piú l'infedeltà de la consorte.

        56
Citerea, che si vide a mal partito,
per una porticella di nascosto
da lo sdegno del padre e del marito,
mentre questi piagnea, s'involò tosto:
e dietro a lei senza aspettar invito
corsero il Dio de l'armi e 'l Dio del mosto;
ella in terra con lor prese la via,
e in mezzo a lor dormí su l'osteria.

        57
Gli abbracciamenti, i baci e i colpi lieti
tace la casta Musa e vergognosa;
da la congiunzion di que' pianeti
ritorce il plettro e di cantar non osa:
mormora sol fra sé detti segreti,
ch'al fuggir de la notte umida ombrosa
fatto avean Marte e 'l giovane tebano
trenta volte cornuto il dio Vulcano.

        58
L'oste di Castelfranco un gran pollaio
con uova fresche avea quanto la rena;
ne bebbero i due amanti un centinaio,
che smidollata si sentian la schiena:
ma la Diva ne volle solo un paio,
che d'altro forse avea la pancia piena.
La Diva, per non dar di sé sospetto,
presa la forma avea d'un giovinetto.

        59
Di candido ermesin tutto trinciato
sopra seta vermiglia, era vestita,
con un colletto bianco profumato,
calzetta bianca e cinta colorita:
di bianco il piè leggiadro era calzato;
non si potea veder piú bella vita;
un pugnaletto d'or cingeva al fianco,
e nel cappello un pennacchietto bianco.

        60
Ma l'oste ch'era guercio e Bolognese,
tanto peggio stimò ne' suoi concetti
quando corcarsi in terzo egli comprese
l'amoroso garzon fra tanti letti.
Sgombrarono gli Dei tosto il paese,
che di colui conobbero i sospetti,
temendo che 'l fellon con falso indizio
non gli accusasse quivi al Malefizio.

        61
A Modana passâr quella mattina,
e ritrovâr che vi si fea gran festa:
un palio di teletta cremesina
correasi a fiori d'or tutta contesta.
Vedendo quella gente pellegrina,
ognuno a gara ne facea richiesta;
e molti li tenean per recitanti
venuti a preparar comedie inanti.

        62
Dicean che Marte il Capitan Cardone,
e Bacco esser dovea l'innamorato,
e quel vago leggiadro e bel garzone
esser a far da donna ammaestrato.
Cosí alle volte ancor fuor di ragione
si tocca il punto; e molti han profetato
che si credean di favellare a caso:
la sorte ed il saper stanno in un vaso.

        63
Poscia che passeggiata a parte a parte
ebber gli Dei quella città fetente,
e ben considerato il sito e l'arte
del guerreggiare e 'l cor di quella gente,
a un'osteria si trassero in disparte
ch'avea un trebbian di Dio dolce e rodente,
e con capponi e starne e quel buon vino
cenaron tutti e tre da paladino.

        64
Mentre questi godean, da l'altro canto
Pallade e Febo eran discesi in terra;
e concitando gían Bologna intanto
e le città de la Romagna in guerra.
Quanto è dal Reno al Rubicone, e quanto
tra 'l monte e 'l mar quivi s'estende e serra,
s'unisce con Bologna e s'apparecchia
di gir con l'armi a racquistar la Secchia.

        65
L'intesero gli amanti, e a la difesa
prepararono anch'essi i lor vassalli:
Bacco chiamò i Tedeschi a quell'impresa,
e andò fin in Germania ad invitalli.
Essi quand'ebber la sua voglia intesa,
in un momento armar fanti e cavalli,
benedicendo ottobre e San Martino,
e sperando notar tutti nel vino.

        66
Marte restò in Italia a preparare
la milizia di Parma e di Cremona;
Venere disse che volea tentare
di far venir un Re quivi in persona;
e passando dov'Arno ha foce in mare,
si fe' da le Nereidi a la Gorgona
portar, e quindi a l'isola de' Sardi
ricca di cacio e d'uomini bugiardi.

 
 
 

Il Trecentonovelle 16-20

Post n°1266 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XVI

Uno giovene Sanese ha tre comandamenti alla morte del padre: in poco tempo disubbedisce, e quello che ne seguita.

Ora verrò a dire di una che s'era maritata per pulzella, e 'l marito vidde la prova del contrario anzi che con lei giacesse, e rimandolla a casa sua, senza avere mai a fare di lei.
Fu a Siena già un ricco cittadino, il quale, venendo a morte, e avendo un figliuolo e non piú, che avea circa a venti anni, fra gli altri comandamenti che li fece, furono tre. Il primo, che non usasse mai tanto con uno che gli rincrescesse; il secondo, che quando elli avesse comprato una mercanzia, o altra cosa, ed elli ne potesse guadagnare, che elli pigliasse quello guadagno e lasciasse guadagnare ad un altro; il terzo, che quando venisse a tòr moglie, togliesse delle piú vicine, e se non potesse delle piú vicine, piú tosto di quelle della sua terra che dell'altre da lunge. Il figliuolo rimase con questi ammonimenti, e 'l padre si morío.
Era usato buon tempo questo giovene con uno de' Forteguerri, il quale era stato sempre prodigo, e avea parecchie figliuole da marito. Li parenti suoi ogni dí lo riprendevano delle spese, e niente giovava. Avvenne che un giorno il Forteguerra avea apparecchiato un bel desinare al giovene e a certi altri; di che li suoi parenti li furono addosso, dicendo:
- Che fai tu, sventurato? vuo' tu spendere a prova col tale che è rimaso cosí ricco, e hai fatto e fai li corredi, e hai le figliuole da marito?
Tanto dissono che costui come disperato andò a casa, e rigovernò tutte le vivande che erano in cucina, e tolse una cipolla, e puosela su l'apparecchiata tavola, e lasciò che se 'l cotal giovene venisse per desinare gli dicessono che mangiasse di quella cipolla, che altro non v'era, e che 'l Forteguerra non vi desinava.
Venuta l'ora del mangiare, il giovene andò là dove era stato invitato, e giugnendo su la sala domandò la donna di lui: la donna rispose che non v'era, e non vi desinava; ma che elli avea lasciato, se esso venisse, che mangiasse quella cipolla, che altro non v'era. Avvidesi il giovene, su quella vivanda, del primo comandamento del padre, e come male l'avea osservato, e tolse la cipolla, e tornato a casa la legò con un spaghetto e appiccolla al palco sotto il quale sempre mangiava.
Avvenne da ivi a poco tempo che, avendo elli comprato un corsiere fiorini cinquanta, da indi a certi mesi, potendone avere fiorini novanta, non lo volle mai dare, dicendo ne volea pure fiorini cento; e stando fermo su questo, al cavallo una notte vennono li dolori, e scorticossi. Pensando a questo, il giovene conobbe ancora avere male atteso al secondo comandamento del padre e, tagliata la coda al cavallo, l'appiccoe al palco allato alla cipolla.
Avvenne poi per caso ancora, volendo elli pigliare moglie, non si potea trovar vicina, né in tutta Siena, giovene che li piacesse, e diési alla cerca in diverse terre, e alla fine pervenne a Pisa, là dove si scontrò in un notaio, il quale era stato in officio a Siena, ed era stato amico del padre, e conoscea lui.
Di che il notaio gli fece grande accoglienza, e domandollo che faccenda avea in Pisa. Il giovene li disse che andava cercando d'una bella sposa, però che in tutta Siena non ne trovava alcuna che li piacesse.
Il notaio disse:
- Se cotesto è, Dio ci t'ha mandato, e serai ben accivito; però che io ho per le mani una giovene de' Lanfranchi, la piú bella che si vedesse mai, e dammi cuore di fare che ella sia tua.
Al giovene piacque, e parveli mill'anni di vederla, e cosí fece. Come la vide, s'accostò al mercato, fu fatto e dato l'ordine quando la dovesse menare a Siena. Era questo notaio una creatura de' Lanfranchi, e la giovene essendo disonesta, e avendo avuto a fare con certi gioveni di Pisa, ella non s'era mai potuta maritare. Di che questo notaio guardò di levare costei da dosso a' suoi parenti e appiccarla al Sanese. Dato l'ordine della cameriera, forse della ruffiana, la quale fu una femminetta sua vicina, chiamata monna Bartolomea, con la quale la donna novella s'andava spesso trastullando di quando in quando; e dato ogni ordine delle cose opportune e della compagnia, tra la quale era alcuno giovene di quelli che spesso d'amore l'avea conosciuta, si mosson tutti col marito e con lei ad andare verso Siena, e là si mandò innanzi a fare l'apparecchio.
E cosí andando per cammino, un giovene de' suoi che la seguía parea che andasse alle forche, pensando che costei era maritata in luogo straniero, e che senza lei gli convenía tornare a Pisa; e tanto con pensieri e con sospiri fece che 'l giovene quasi e di lei e di lui si fu accorto: perché ben dice il proverbio che l'amore e la tosse non si può celare mai. E con questo vedere, preso gran sospetto, tanto fece che seppe chi la giovene era e come il notaio l'avea tradito e ingannato. Di che giugnendo a Staggia, lo sposo usò questa malizia disse che volea cenare di buon'ora, però che la mattina innanzi dí volea andare a Siena, per fare acconciare ciò che bisognava; e disselo sí che 'l valletto l'udisse.
Erano le camere dove dormirono quasi tutte d'assi l'una allato all'altra. Il marito ne avea una, la sposa e la cameriera un'altra, e in un'altra era il giovene e un altro, il quale non fu senza orecchi a notare il detto del Sanese; ma tutta la sera ebbe colloquio con la cameriera, aspettando l'alba del giorno, e cosí s'andorono al letto. E venendo la mattina, quasi un'ora innanzi a dí, e lo sposo si levò per andare a Siena come avea dato ad intendere. E sceso giuso, e salito a cavallo, cavalcò verso Siena quasi quattro balestrate, e poi diede la volta ritornando passo passo e cheto verso l'albergo donde si era partito; e appiccando il cavallo a una campanella, su per la scala n'andò; e giugnendo all'uscio della camera della donna, guardò pianamente e sentí il giovene essere dentro; e pontando l'uscio mal serrato, v'entrò dentro; e accostandosi alla cassa del letto pianamente, se alcun panno trovasse di colui che s'era colicato, per avventura trovò i suo' panni di gamba, e quelli del letto, o che sentissono, e per la paura stessono cheti, o che non sentissono, questo buon uomo si mise le brache sotto, e uscito della camera, scese la scala, e salito a cavallo con le dette brache, camminò verso Siena.
E giunto a casa sua, l'appiccò al palco allato alla cipolla e alla coda.
Levatasi la donna e l'amante la mattina a Staggia, il valletto non trovando le brache, sanza esse salí a cavallo con l'altra brigata, e andorono a Siena. E giunti alla casa, dove doveano essere le nozze, smontorono. E postisi a uno leggiero desinare sotto le tre cose appiccate, fu domandato il giovane quello che quelle cose appiccate significavano. Ed elli rispose:
- Io vel dirò; e prego ognuno che mi ascolti. Egli è piccol tempo che mio padre morí, e lasciommi tre comandamenti: il primo sí e sí, e però tolsi quella cipolla e appicca' la quivi; il secondo mi comandò cosí, e in questo il disubbidi'; morendo il cavallo, taglia' li la coda e quivi l'appiccai; il terzo, che io togliesse moglie piú vicina che io potesse; e io, non che io l'abbia tolta dappresso, ma insino a Pisa andai, e tolsi questa giovene, credendo fosse come debbono essere quelle che si maritono per pulzelle. Venendo per cammino questo giovene, il quale siede qui, all'albergo giacque con lei, e io chetamente fui dove elli erano; e trovando le brache sue, io ne le recai e appicca' le a quel palco: e se voi non mi credete, cercatelo, che non l'ha: - e cosí trovorono. - E però questa buona donna, levata la mensa, vi rimenate in drieto, che mai, non che io giaccia con lei, ma io non intendo di vederla mai. E al notaio, che mi consigliò e fece il parentado e la carta, dite che ne faccia una pergamena da rocca.
E cosí fu. Costoro con la donna si tornorono a piè zoppo col dito nell'occhio; e la donna si fece per li tempi con piú mariti, e 'l marito con altre mogli.
In queste tre sciocchezze corse questo giovene contro a' comandamenti del padre, che furono tutti utili, e molta gente non se ne guarda. Ma di questo ultimo, che è il piú forte, non si puote errare a fare li parentadi vicini, e facciamo tutto il contrario. E non che de' matrimoni, ma avendo a comprare ronzini, quelli de' vicini non vogliamo, che ci paiono pieni di difetti, e quelli de' Tedeschi che vanno a Roma, in furia comperiamo. E cosí n'incontra spesse volte e dell'uno e dell'altro, come avete udito, e peggio.


NOVELLA XVII

Piero Brandani da Firenze piatisce, e dà certe carte al figliuolo; ed elli, perdendole, si fugge, e capita dove nuovamente piglia un lupo, e di quello aúto lire cinquanta a Pistoia, torna e ricompera le carte.

Nella città di Firenze fu già un Piero Brandani cittadino che sempre il tempo suo consumò in piatire. Avea un suo figliuolo d'etade di diciotto anni, e dovendo fra l'altre una mattina andare al Palagio del Podestà per opporre a un piato, e avendo dato a questo suo figliuolo certe carte, e che andasse innanzi con esse, e aspettasselo da lato della Badía di Firenze; il quale, ubbidendo al padre, come detto gli avea, andò nel detto luogo, e là con le carte si mise ad aspettare il padre, e questo fu del mese di maggio.
Avvenne che, aspettando il garzone, cominciò a piovere una grandissima acqua: e passando una forese, o trecca, con un paniere di ciriege in capo, il detto paniere cadde; del che le ciriege s'andarono spargendo per tutta la via; il rigagnolo della qual via ognora che piove cresce che pare un fiumicello. Il garzone, volonteroso, come sono, con altri insieme, alla ruffa alla raffa si dierono a ricogliere delle dette ciriege, e infino nel rigagnolo dell'acqua correano per esse. Avvenne che, quando le ciriege furono consumate, il garzone, tornando al luogo suo, non si trovò le carte sotto il braccio però che gli erano cadute nella dett'acqua, la quale tostamente l'avea condotte verso Arno, ed elli di ciò non s'era avveduto; e correndo or giú, or su, domanda qua, domanda là, elle furono parole, ché le carte navicavano già verso Pisa. Rimaso il garzone assai doloroso, pensò di dileguarsi per paura del padre: e la prima giornata, dove li piú disviati o fuggitivi di Firenze sogliono fare, fu a Prato; e giunse ad uno albergo, là dove dopo il tramontare del sole arrivorono certi mercatanti, non per istare la sera quivi, ma per acquistare piú oltre il cammino verso il ponte Agliana. Veggendo questi mercatanti stare questo garzone molto tapino, domandarono quello ch'egli avea e donde era: risposto alla domanda, dissono se volea stare e andare con loro.
Al garzone parve mill'anni, e missonsi in cammino, e giunsono a due ore di notte al pont'Agliana; e picchiando a uno albergo, l'albergatore, che era ito a dormire, si fece alla finestra:
- Chi è là?
- Àprici, ché vogliamo albergare.
L'albergatore rampognando disse:
- O non sapete voi che questo paese è tutto pieno di malandrini? io mi fo gran maraviglia che non sete stati presi.
E l'albergatore dicea il vero, ché una gran brigata di sbanditi tormentavono quel paese.
Pregorono tanto che l'albergatore aperse; ed entrati dentro e governati li cavalli, dissono che voleano cenare; e l'oste disse:
- Io non ci ho boccone di pane.
Risposono i mercatanti:
- O come facciamo?
Disse l'oste:
- Io non ci veggio se non un modo, che questo vostro garzone si metta qualche straccio indosso, sí che paia gaglioffo, e vada quassú da questa piaggia, dove troverrà una chiesa: chiami ser Cione, che è là prete, e da mia parte dica mi presti dodici pani: questo dico perché, se questi che fanno questi mali troverrano un garzoncello malvestito, non gli diranno alcuna cosa.
Mostrato la via al garzone, v'andò malvolentieri, però che era di notte, e mal si vedea. Pauroso, come si dee credere, si mosse, andandosi avviluppando or qua or là, sanza trovare questa chiesa mai; ed essendo intrato in uno boschetto, ebbe veduto dall'una parte un poco d'albore che dava in uno muro. Avvisossi d'andare verso quello, credendo fosse la chiesa; e giunto là su una grande aia, s'avvisò quella essere la piazza; e 'l vero era che quella era casa di lavoratore: andossene là, e cominciò a bussare l'uscio. Il lavoratore, sentendo, grida:
- Chi è là?
E 'l garzone dice:
- Apritemi, ser Cione, ché il tal oste dal ponte Agliana mi manda a voi, che gli prestiate dodici pani.
Dice il lavoratore:
- Che pani? ladroncello che tu se', che vai appostando per cotesti malandrini. Se io esco fuori, io te ne manderò preso a Pistoia, e farotti impiccare.
Il garzone, udendo questo, non sapea che si fare; e stando cosí come fuor di sé, e volgendosi se vedesse via che 'l potesse conducere a migliore porto, sentí urlare un lupo ivi presso alla proda del bosco, e guardandosi attorno vide su l'aia una botte dall'uno de' lati, tutta sfondata di sopra, ed era ritta; alla quale subito ricorse, ed entrovvi dentro, aspettando con gran paura quello che la fortuna di lui disponesse.
E cosí stando, ecco questo lupo, come quello che era forse per la vecchiezza stizzoso, e accostandosi alla botte, a quella si cominciò a grattare; e cosí fregandosi, alzando la coda, la detta coda entrò per lo cocchiume. Come il garzone sentí toccarsi dentro con la coda, ebbe gran paura; ma pur veggendo quello che era, per la gran temenza si misse a pigliar la coda, e di non lasciarla mai giusto il suo podere, insino a tanto che vedesse quello che dovesse essere di lui. Il lupo, sentendosi preso per la coda, cominciò a tirare: il garzone tien forte, e tira anco elli; e cosí ciascuno tirando, e la botte cade, e cominciasi a voltolare. Il garzone tien forte, e lo lupo tira; e quanto piú tirava, piú colpi gli dava la botte addosso. Questo voltolamento durò ben due ore; e tanto, e con tante percosse dando la botte addosso al lupo, che 'l lupo si morí. E non fu però che 'l giovane non rimanesse mezzo lacero; ma pur la fortuna l'aiutò, ché quanto piú avea tenuto forte la coda, piú avea difeso sé stesso, e offeso il lupo. Avendo costui morto il lupo, non ardí però in tutta la notte d'uscire della botte, né di lasciare la coda.
In sul mattino, levandosi il lavoratore, a cui il giovene avea picchiata la porta, e andando provveggendo le sue terre, ebbe veduto appiè d'un burrato questa botte: cominciò a pensare, e dire fra sé medesimo: "Questi diavoli che vanno la notte non fanno se non male, ché non che altro, ma la botte mia, che era in su l'aia, m'hanno voltolata infino colaggiú"; e accostandosi, vide il lupo giacere allato la botte, che non parea morto. Comincia a gridare: - Al lupo, al lupo, al lupo -; e accostandosi, e correndo gli uomini del paese al romore, viddono il lupo morto e 'l garzone nella botte.
Chi si segnò di qua e chi di là, domandando il giovene:
- Chi se' tu? che vuol dire questo?
Il garzone, piú morto che vivo, che appena potea ricogliere il fiato, disse:
- Io mi vi raccomando per l'amore di Dio, che voi mi ascoltiate e non mi fate male.
Li contadini l'ascoltarono, per udire di sí nuova cosa la cagione, il quale disse, dalla perdita delle carte insino a quel punto, ciò che incontrato gli era. A' contadini venne grandissima pietà di costui, e dissono:
- Figliuolo, tu hai aúta grandissima sventura, ma la cosa non t'anderà male come tu credi: a Pistoia è uno ordine che chiunque uccide alcun lupo, e presentalo al Comune, ha da quello cinquanta lire.
Un poco tornò la smarrita vita al giovene, essendoli profferto da loro e compagnia e aiuto a portare il detto lupo; e cosí accettoe. E insieme alquanti con lui, portando il lupo, pervennono all'albergo al pont'Agliana, donde si era partito, e l'albergatore della detta cosa si maraviglioe, come si dee immaginare, e disse che e' mercatanti se ne erano iti, e che egli ed eglino, veggendo non era tornato, credeano lui essere da' lupi devorato, o essere da' malandrini preso. In fine il garzone appresentò il lupo al Comune di Pistoia, dal quale, udita la cosa come stava, ebbe lire cinquanta; e di queste spese lire cinque in fare onore alla brigata, e con le quarantacinque, preso da loro commiato, tornò al padre; e addomandando misericordia, gli contò ciò che gli era intervenuto, e diegli le lire quarantacinque. Il qual padre, come povero uomo, gli tolse volentieri, e perdonògli; e con li detti denari fece copiare le carte, e dell'avanzo piatío gagliardamente.
E perciò non si dee mai alcuno disperare, però che spesse volte, come la fortuna toglie, cosí dà; e come ella dà, cosí toglie. Chi averebbe immaginato che le perdute carte giú per l'acqua fossono state rifatte per un lupo che mettesse la coda per uno cocchiume d'una botte, e sí nuovamente fosse stato preso? Per certo questo è un caso e uno esemplo, non che da non disperarsi, ma di cosa che venga non pigliare né sconforto né malinconia.


NOVELLA XVIII

Basso della Penna inganna certi Genovesi arcatori, e a un nuovo giuoco vince loro quello ch'egli avevano.

Come questo giovene acquistò puramente, e con grande simplicità, le lire cinquanta, cosí con grande astuzia il piacevol uomo Basso della Penna, raccontato a drieto, in questa novella vinse a un nuovo giuoco piú di lire cinquanta di bolognini. A questo Basso capitorono all'albergo suo a Ferrara certi Genovesi che andavano arcando con certi loro giuochi; e 'l Basso, avendo compresa la loro maniera, un giorno innanzi desinare si mise allato lire venti di bolognini d'ariento e una pera mézza, ché era di luglio, considerando che dopo desinare, lavate le mani, in su la sparecchiata tavola d'arcare loro, e cosí fece. Ché avendo desinato, ed essendo con loro ragionamenti alla mensa sparecchiata, disse il Basso:
- Io voglio fare con voi a un giuoco che non ci potrà avere malizia alcuna.
E mettesi mano in borsa, e trae fuori bolognini, e dice:
- Io porrò a ciascun di noi uno bolognino innanzi su questa tavola, e colui, a cui sul suo bolognino si porrà prima la mosca, tiri a sé i bolognini che gli altri averanno innanzi.
Costoro cominciorono con gran festa ad essere contenti di questo giuoco, e parea loro mill'anni che 'l Basso cominciasse. Il Basso, come reo, si mette il bolognino sotto con le mani tra gambe sotto la tavola, dove elli avea una pera mézza: e venendo a porre a ciascuno il bolognino innanzi, quello che dovea porre a sé ficcava nella pera mézza, onde la mosca continuo si ponea sul suo bolognino, salvo che delle quattro volte l'una ponea quello della pera dinanzi a uno di loro, acciò che vincendo qualche volta non si avvedesseno della malizia.
E pur cosí continuando, cominciorono a pigliare sospetto, parendo loro troppo perdere, e dissono:
- Messer Basso, noi vogliamo mettere i bolognini uno di noi.
Disse il Basso:
- Io sono molto contento, acciò che non prendiate sospetto.
Allora uno di loro co' suoi bolognini asciutti e aridi, che non aveano forse mai tocca pera mézza, cominciò mettere a ciascuno il suo bolognino. Il Basso lasciava andare sanza malizia alcuna volta che vincessino; quando volea vincere elli, e 'l bolognino gli era posto innanzi, spesse volte il polpastrello del dito toccava il mézzo della pera, e mostrando di acconciare il bolognino che gli era messo innanzi, lo toccava con quel dito, onde la mosca subito vi si ponea, benché gli bisognava durare poca fatica, però che le hanno naso di bracchetto e volavano tutte verso il Basso, sentendo la pera mézza, e ancora il luogo su la tavola dinanzi da lui, dove di prima il bolognino unto del Basso avea lasciato qualche sustanzia; e cosí provando or l'uno or l'altro dei Genovesi, non poterono tanto fare che 'l Basso non vincesse loro lire cinquanta di bolognini con una fracida pera, onde gli arcatori furono arcati, come avete udito.
E molte volte interviene che son molti che con certe loro maliziose arti stanno sempre avvisati d'ingannare, e di tirare l'altrui a loro, e hanno tanto l'animo a quello che non credono che alcun altro possa loro ingannare, e non vi pongono cura.
Se facessono la ragione del compagno, il quale molte volte non è cieco, non interverrebbe loro quello che intervenne a costoro; però che spesse volte l'ingannatore rimane a piede dell'ingannato.


NOVELLA XIX

Basso della Penna a certi forestieri, che domandorono lenzuola bianche, le dà loro sucide, ed eglino dolendosi, prova loro che l'ha date bianche.

Questa pera mézza, con la quale il Basso fece cosí bene i fatti suoi, mi reduce a memoria un'altra novella di pere mézze, fatta già per lo detto Basso, nella quale si dimostra apertamente che insino nell'ultimo della sua morte fu piacevolissimo. Ma innanzi che venisse a questo, io dirò due novellette, che fece in meno di due mesi anzi che morisse, avendo continuo o terzana o quartana, che poi lo indusse a morte.
A Ferrara arrivorono alcuni Fiorentini all'albergo suo una sera, e cenato che ebbono, dissono:
- Basso, noi ti preghiamo che tu ci dia istasera lenzuola bianche.
Basso risponde tosto, e dice:
- Non dite piú, egli è fatto.
Venendo la sera, andandosi al letto, sentivano le lenzuola non essere odorose, ed essere sucide. La mattina si levavono, e diceano:
- Di che ci servisti, Basso, che tanto ti pregammo iersera che ci dessi lenzuola bianche, e tu ci hai dato tutto il contrario?
Disse il Basso:
- O questa è ben bella novella; andiamole a vedere.
E giunto in camera caccia in giú il copertoio, e volgesi a costoro e dice:
- Che son queste? son elle rosse? son elle azzurre? son elle nere? non son elle bianche? Qual dipintore direbbe ch'elle fossono altro che bianche?
L'uno de' mercatanti guatava l'altro, e cominciava a ridere dicendo che 'l Basso avea ragione, e che non era notaio che avesse scritto quelle lenzuola essere d'altro colore che bianche. E con queste piacevolezze tirò gran tempo tanto a sé la gente che non si curavono di letto né di vivande.
E questa è una loica piacevole, che sta bene a tutti gli artieri, e massimamente agli albergatori, a' quali molti e di diversi luoghi vengono alle mani. Questa novelletta ha fatti molti, che l'hanno udita, savii; e io scrittore sono uno di quelli che giugnendo a uno albergo, volendo lenzuola nette, addomando che mi dea lenzuola di bucato.


NOVELLA XX

Basso della Penna fa un convito, là dove, non mescendosi vino, quelli convitati si maravigliono, ed egli gli chiarisce con ragione, e non con vino.


Questo Basso (ed è la seconda novella di quelle che io proposi in queste di sopra) in questi due mesi di sopra contati, ne' quali era già febbricoso del male che poi morío, parve che volesse fare la cena come fece Cristo co' discepoli suoi; e fece invitare molti suoi amici, che la tal sera venissono a mangiare con lui. La brigata tutta accettoe; e giunti la sera ordinata, essendo molto bene apparecchiate le vivande, postisi a tavola, e cominciando a mangiare, gli bicchieri si stavono, che nessuno famiglio metteva vino.
Quando quelli che erano a mensa furono stati quanto poteano, dicono a' famigli:
- Metteteci del vino.
Gli famigli, come aombrati, guardano qua e là, e rispondono:
- E' non c'è vino.
Di che dicono che 'l dicano al Basso, e cosí fanno; onde il Basso si fa innanzi, e dice:
- Signori, io credo che voi vi dovete ricordare dell'invito che vi fu fatto per mia parte: io vi feci invitare a mangiare meco, e non a bere, però che io non ho vino che io vi desse, né che fosse buono da voi, e però chi vuol bere, si mandi per lo vino a casa sua, o dove piú li piace.
Costoro con gran risa dissono che 'l Basso dicea il vero, mandando ciascuno per lo vino, se vollono bere.
Il Basso fu loico anco qui, ma questa non fu loica con utile, se non che risparmiò il vino a questo convito; ma se volea risparmiare in tutto, era migliore loica a non gli avere convitati, che arebbe risparmiato anco le vivande; ma e' fu tanta la sua piacevolezza che volle e fu contento che gli costasse per usare questo atto.

 
 
 

Il Meo Patacca 06-2

Post n°1265 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Così tra loro chiacchiaranno arrivano,
Et ammanniti molti sgherri trovano,
Che in tel vedè, che da carrozza uscivano,
A fargl'ala in un subbito si movano;
Hor mentre a truppe a truppe altri venivano,
Sempre più l'accoglienze si rinovano;
Così a complì tutti bel bello vengono,
Et a ciarlà con MEO, lì si trattengono.

Sta questo in mezzo, e giusto giusto pare
Un signor, c'habbia attorno el vassallaggio,
Che sia nato al commanno, e gli vie' a stare
Col fongo in man, due passi arreto il paggio.
S'incominzano i sgherri ad affollare,
Et ogn'uno di lor vie a su' vantaggio.
Sottocchio osserva MEO, se lì ridutti,
Li dieci capitani ci so tutti.

Non ne vede manca propio nisciuno;
Però gli par, che troppo mal si spenna
Il tempo in ciarle, perch'è già opportuno,
A dar principio alla sua gran faccenna;
Fa cenno in tal maniera, che ciasch'uno
De i dieci commannanti ben intenna,
Ch'a lui s'accosti, e visto appena il gesto,
Tutti attorno gli vennero assai presto.

Gli dice, che de i sgherri cinquecento,
Ogn'un di loro ne haverà cinquanta;
Ch'è in dieci compagnie lo spartimento,
Come lo scritto, che già fece, canta;
Sotto voce gli dà l'insegnamento,
Come appuntino uno squatron si pianta;
Nel largo li conduce, e lì col dito
A tutti insegna e scompartisce il sito.

I nomi son di tutte 'ste perzone,
Favaccia, Meo, Fanello, Dragoncino,
Checco Sciala, Fa Sciarra, Serpentone,
Sputa Morti, Squarcèo, Cencio e Chiappino.
Nel loco ogn'uno sta del su' squatrone,
E MEO, fratanto, alzanno il bastoncino,
Ordina alli soldati che si movino,
E 'l capitanio suo tutti si trovino.

In dieci truppe son distribuiti,
Dodici file in ogni truppa stanno,
Di fronte, a quattro a quattro scompartiti,
Di quarant'otto el numero poi fanno.
Delli cinquanta, che so' stabbiliti,
Due ne restano, e questi che più sanno
Dell'altri sgherri, e che son più valenti,
Essercitano offizio di sargenti.

Fra uno squatrone e l'altro, un spazio resta,
Dove un altro squatron giusto anneria;
Ogn'un de i capitani sta alla testa
In positura con zerbineria.
Tengono in man la parteggiana, e questa
Conoscer fa la capitaniaria,
Vanno li due sargenti, com'è stile,
Innanzi e arreto, ad aggiustà le file.

Fasciolo, fatto alfier, già venut'era,
E preso in mezzo, innanzi a tutti el posto,
Lesto e sfavante a più potè sbandiera,
Et a lui stanno i tamburrini accosto;
Sonano de concerto, e la bandiera
Che ha 'l cuperchio di carte sopraposto
All'insegne ortolane, e fa' vedène,
Le romanesche, a fè ch'assai sta bene.

PATACCA in tutto el tempo di sua vita,
Gusto non hebbe mai simile a questo,
Sol pe' vede la cosa riuscita
Con ordine aggiustato, e bene, e presto.
Perchè ancor non è l'opera fornita,
Lui pensanno già va, di far il resto.
Ma prima vuò aspetta, sieno arrivati
Quelli Gnori, che già furno invitati.

Spasseggia intanto, e affabbile si degna
Hor con questo, hor con quel dei capitani;
Gli va dicenno, quanto far disegna
All'arrivo de i Nobbili Romani.
La maniera di farlo, ancor gl'insegna,
Perchè al par de i soldati veterani
Vuò, che della milizia l'essercizi,
Faccino i sgherri sui, benchè novizi.

Il caso (a dire il vero) è un pò ridicolo,
Lo stari tutti a sentì, come un oracolo,
Qual fusse un gran guerrier, nè c'è pericolo
Ch'a quel che dice lui, si faccia ostacolo.
Sbocca intanto nel campo da ogni vicolo
Gente a furia a vedè questo spettacolo,
Et io, che lo racconto, più ce specolo,
Su 'sto credito c'ha, più ce strasecolo.

Gente minuta viè, gente mezzana,
E non ne manca della prima riga.
Quella, che tardi arriva, e che è lontana,
Via via d'avvicinarzi s'affatiga.
Di carrozze ce n'è una caravana,
Una coll'altra sempre più s'intriga,
Mentre fra queste 'l popolo s'intruglia,
Si fa chiasso, sconquasso, e si fa buglia.

Chi ha paccheta, chi strepita, chi zompa,
Chi 'l pericolo trova, e chi lo scampa
E chi va a rischio ch'una gamma rompa,
Se non è lesto a maneggià la zampa.
Per osserva 'sta romanesca pompa,
Salir sino su l'arbori s'allampa
La gente birba, e chi su le barozze,
Chi s'arrampica dreto alle carrozze.

Queste ogni tanto s'urtano e s'impicciano,
Cascano quelli, e in mezzo allor si cacciano;
Pe' scappane alle rote si stropicciano
Li vestiti, o l'imbrattano, o li stracciano;
Si fan largo, inzinenta che si spicciano,
Chi gli resiste con urtoni scacciano;
Pe' sì gran stento di sudor già gocciano;
Trovano un altro posto, e allor qui incocciano.

'Ste folle sono un taccolo assai brutto,
Fanno spesso succedere del male,
E più d'uno alle volte s'è ridutto
A marcià via, ferito all'ospidale.
Qui pericolo poi c'è da per tutto,
Se in ogni parte c'è una calca uguale;
Perchè poi cresca lo scompiglio allora,
Più d'un calesse s'inframezza ancora.

Il calesse è una sedia galantina
Co' i su' braccioli, e con la su' spalliera,
Et è cuperta o di vacchetta fina,
O di velluto, o pur d'altra maniera.
Ce s'appoggia assai commoda la schina,
E a starce drento è una Cuccagna mera,
Che la perzona, allor quanno ce sede,
Per più commodità, ci ha 'l sottopiede.

Sopra due stanghe posa, e longhe e piane,
Dalla parte di dreto sostenute
Da due rote, non grandi ma mezzane;
Denanzi in alto pur, son mantenute
Dal cavallo ch'in mezzo a quelle stane,
C'ha 'l sellino aggiustato, son reggiute.
Tra le due rote un seditor poi c'è,
Dove, se vuò, ce pò sedè un lacchè.

Questa in fatti è una sedia leggerissima;
Regge el cavallo chi ce sta seduto,
Gli fa piglia 'na curza velocissima,
Massime quanno è l'animai foiuto;
Ce n'è di questi quantità grannissima,
Uno però fra l'altri n'è venuto,
C'ha procurato di pigliasse el posto,
Dov'è PATACCA, o almen poco discosto.

Era questo un calesse col soffietto,
Ch'è una scuffia di pelle sopraposta.
Si tiè alta e stesa, a forza d'un archetto
Di ferro, che chi è drento alza a sua posta.
Nuccia più con timor, che con diletto
Sedèa con Tutia quì mezza nascosta,
Sol pe' vede se MEO nell'osservarla,
O glie fa 'l grugno, o affabbile glie parla,

Da quel ch'il giorno innanzi inteso haveva
Da Cencio e Marco Pepe assai dolente,
Che MEO fusse in gran collera credeva,
Tanto più che sentì, ch'era innocente.
Farzi vedè voleva e non voleva,
Stava tra 'l sì e tra 'l no; per accidente
Glie passa innanzi lui, s'impallidisce
Allora Nuccia, e tutta si stremisce.

S'incontra MEO nelli su' sguardi, e un atto
Fece quasi di sdegno in tel vedella:
In altra parte si voltò ad un tratto,
Facenno finta di non cognoscèlla;
Alfin lei si fece animo, e de fatto
L'intenzione di lui volze sapella.
Alzatasi un tantin vergognosetta,
Abbassa l'occhi, e fa la bocca stretta.

Poi con voce sommessa, e tremolante,
Gli dice: "Serva di Vossignoria!"
PATACCA allor, benchè di lei sprezzante,
Non volze faglie affatto scortesia.
Alzò 'l fongo, ma poco; del restante
Non glie fece altro, che 'sta cortesia:
Ma gnente più s'intrattenè lì, dove
Nuccia haveva il calesse, e scurze altrove.

Restò attonita questa, e i sguardi tenne,
E languidi, e pietosi in MEO rivolti,
E di fissalli in lui mai non s'astenne,
Speranno che di novo a lei si volti;
Più d'una lagrimuccia alfin gli venne
Su l'occhi, e s'accorge, ch'eran già sciolti
D'amor i lacci, s'alle sue faccenne,
Senza abbadà più a lei, PATACCA attenne.

Tutia per consolà quella scontenta
Meglio che sa, chalche raggion glie porta;
Ma il ciarlà di costei più la tormenta,
Tutto l'affligge, e gnente la conforta.
Di quel che disse a MEO, già par si penta,
Se d'esser troppo curza, già s'è accorta;
Pur incoccia a sta' lì, che vuò fa' prova,
S'a pietà del suo mal quello si mova.

Di gran Signori intanto, e Maiorenghi
Il posto le carrozze hanno già preso,
MEO che più non aspetta alcun che venghi,
A far l'offizio suo, sta tutto inteso;
Però stima che prima gli convenghi
Far riverenza a quelli, perchè offeso
Non resti alcun dei Gnori, e in fagli inchino
Ci ha tal garbo, che pare un ballarino.

Ne fa' dell'accoglienze, e ne riceve,
Ma non per questo, gnente si scompone,
Fa con sodezza, quel che far si deve,
Nè se gli pò da' pecca d'ambizione.
Così bel bello el nostro MEO s'imbève
Di massime onorate, et assai bone,
E chi plebeo noi cognoscette prima,
Homo di chalche nascita lo stima.

Scurre fratanto, e ne rimbomba l'aria,
Un mormorìo d'apprausi, e lui ne sente
Un'allegrezza al cor, non ordinaria,
Et appraudita ancora è la su' gente;
Una sverniata fa straordinaria,
Perch'ogn'uno vestito è nobilmente;
O prestati da amici, o presi al Ghetto,
Son abbiti di vista, e di rispetto.

Scialoso ogn'un di loro era comparzo
Pe' formà di soldati un nobbil terzo,
I giustacori favano gran sfarzo
Guarniti bene assai per ogni verzo;
Fanno el campo parè de fiori sparzo
Le pennacchiere di color diverzo,
Ogni fongo ha la sua: son verdi et anche
Molte più belle so incarnate o bianche.

E di corvatte, e di sfettucciamenti,
Io non ne parlo, che ce n'è una soma;
Tanti sgherri, e con tanti abbigliamenti,
Non so se mai prima vedesse Roma.
Pe' fa' maggiori poi gli scialamenti,
Tutti arriccia si fecero la cioma,
E giusto a foggia d'un armacolletto
Portan la fionna attraversata al petto.

Pendèa dal fianco, e questo era el mancino,
La dorindana a tutti assai galante,
Al dritto poi ce stava uno stortino,
Ch'a taglià sino el ferro era bastante;
In spalla haveva ogn'un lo schizzettino
Con canna e con fucile "luccicante;
Così co' 'st'archibusci assai leggeri,
Favano uno squatron di fucilieri.

Alfin da segno alzanno MEO la mano,
Che quel si faccia, ch'ordinò in segreto;
D'ogni squatra si movono pian piano
Sei file, ma di quelle che so arreto;
Marcia ogn'una a sinistra, a mano a mano,
Della milizia al modo consueto;
La settima e la prima, a distaccarzi
Van per ordine, l'altre ad accostarzi.

Quello spazio, bel bello, a impir' si viene,
Che tra un squatron e l'altro era restato;
S'uniscono le file, e così bene,
Che quel vano, che c'era, è già occupato.
Ecco sei file in giù distese, e piene,
Et ecco lo squatron tutto aggiustato.
Le file poi, più dritte esser non ponno,
Son ottanta di fronte, e sei di fonno.

A commannante alcun MEO non la cede;
Mentr'ha i su' sgherri in ubbidillo attenti,
Dice allora: "Impostate", e così chiede
Che Farmi volti ogn'un verzo le genti.
Moverzi in aria subbito si vede
Selva di cacafochi luccichenti;
Ciasch'un s'imposta, et in dir lui: "Sparate",
Fischiano cinquecento archibusciate.

Si sentì allora un popolar bisbiglio,
Non ne pozzo a bastanza io dar raguaglio,
Fece inarcare a i circostanti il ciglio
Lo sparo fatto a tempo, senza un sbaglio.
Ci fu tra l'invidiosi un gran scompiglio,
E più d'uno di questi magnò l'aglio,
E pe' fagli più crescere il cordoglio,
Risonò 'l prauso sino in Campidoglio.

Mentre c'è chalched'un, che si rammarica,
Miglianta ce ne son, che ce festeggiano,
Perchè hanno vista così bella scarica,
E havella fatta i sgherri assai si preggiano.
Hor mentre ogn'un lo schioppo suo ricarica
Li tamburrini fra di lor gareggiano
In tel batte la cassa, e a mani stese
L'alfier Fasciolo a sbandierà si mese.

 
 
 

Rime del Berni 57-58

Post n°1264 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

57

Al Cardinale Ippolito De' Medici

S'i' avessi l'ingegno del Burchiello,
io vi farei volentieri un sonetto,
ché non ebbi già mai tema e subietto
più dolce, più piacevol né più bello.

Signor mio caro, io mi trovo in bordello,
anzi troviànci, per parlar più retto:
come tante lamprede in un tocchetto,
impantanati siam fin al cervello.

L'acqua e 'l fango, i facchini e i marinari
ci hanno posto l'assedio alle calcagna,
gridando tutti: "Dateci danari!".

L'oste ci fa una cera grifagna
e debbe dir fra sé: "Frate' miei cari,
chi perde in questo mondo e chi guadagna:

all'uscir della ragna,
di settimana renderan gli uccelli".
E facci vezzi come a suoi fratelli.

Vengon questi e poi quelli
e dicon che la rotta sarà presa
qua intorno a san Vincenzio o santa Agnesa;

che noi l'abbiamo intesa
più presto sotto a mangiarci lo strame,
ch'andare inanzi a morirci di fame

a quello albergo infame
che degnamente è detto Malalbergo;
ond'io per stizza più carta non vergo.



58

Capitolo al Cardinale [Ippolito] De' Medici

Non crediate però, signor, ch'io taccia
di voi, perch'io non v'ami e non v'adori,
ma temo che 'l mio dir non vi dispiaccia.
Io ho un certo stil da muratori
di queste case, qua, di Lombardia,
che non van troppo in sù co i lor lavori:
compongo a una certa foggia mia,
che, se volete pur ch'io ve lo dica,
me l'ha insegnato la poltroneria.
Non bisogna parlarmi di fatica,
ché, come dice el cotal della Peste,
quella è la vera mia mortal nemica.
Mi è stato detto mo' che voi vorreste
un stil più alto, un più lodato inchiostro,
che cantasse de Pilade e d'Oreste;
come sarebbe, verbigrazia, il vostro,
unico stil o singular o raro,
che vince il vecchio non che 'l tempo nostro.
Quello è ben ch'a ragion tegniate caro,
però ch'ogni bottega non ne vende:
ne sète, a dir el ver, pur troppo avaro.
Io ho sentito dir tante faccende
della traduzion di quel secondo
libro ove Troia misera s'incende,
che bramo averla più che mezzo il mondo:
hòvelo detto e voi non rispondete,
ond'anch'io taccio e più non vi rispondo.
Ma, per tornar al stil che voi volete,
dico ch'anch'io volentier il torrei
e n'ho più voglia che voi non credete;
ma far rider le genti non vorrei,
come sarebbe se 'l vostro Gradasso
leggessi greco in catedra a gli ebrei;
quel vostro veramente degno spasso,
che mi par esser proprio il suo pedante,
quando a parlargli mi chino sì basso.
Provai un tratto a scrivere elegante
in prosa e in versi e fecine parecchi
et ebbi voglia anch'io d'esser gigante,
ma messer Cinzio mi tirò gli orecchi
e disse: "Bernia, fa' pur dell'Anguille,
ché questo è il proprio umor dove tu pecchi;
arte non è da te cantar d'Achille:
ad un pastor poveretto tuo pari
convien far versi da boschi e da ville".
Ma lasciate ch'io abbia anch'io denari,
non fia più pecoraio ma cittadino,
e metterò gli unquanco a mano e' guari;
com'ha fatto un non so chi mio vicino,
che veste d'oro e più non degna il panno
e dassi del messer e del divino.
Farò versi di voi che fumaranno
e non vorrò che me n'abbiate grado,
che s'io non dirò il ver, serà mio danno;
lascierò stare el vostro parentado
e' vostri papi e 'l vostro cappel rosso
e l'altre cose grande ov'io non bado;
a voi vogl'io, signor, saltare addosso,
voi sol per mio suggetto e tema avere,
delle vostre virtù dir quant'io posso.
I' non v'accoppiarò come le pere
e come l'ova fresche e come i frati,
nelle mie filastrocche e tantafere;
ma farò sol per voi versi appartati,
né metterovvi con uno a dozzina,
perché d'un nome siate ambo chiamati;
e dirò prima de quella divina
indole vostra e del beato giorno
che ne promette sì bella mattina;
dirò del vostro ingegno, al qual è intorno
infinito giudicio e discrezione,
cose che raro unite si trovorno;
onde lo studio delle cose buone
e le composizioni escon sovente,
che fan perder la scrima a chi compone.
Né tacerò da che largo torrente
la liberalità vostra si spanda,
e dirò molto e pur sarà niente.
Questo è quel fiume che pur or si manda
fuora e quel mar che crescerà sì forte
che il mondo allagherà da ogni banda.
Non so se son ancor le genti accorte
per la novella età, ma tempo ancora
verrà, ch'aprir farà le chiuse porte.
E se le stelle che 'l vil popol ora
(dico Ascanio, San Giorgio) onora e cole,
oscura e fa sparir la vostra aurora,
che spererem che debbia far il sole?
Beato chi udirà dopo mill'anni
di questa profezia pur le parole.
Dirò di quel valor che mette i vanni
e potria far la spada e il pastorale
ancora un dì rifare i nostri danni,
e far tacere allor quelle cicale,
certi capocchi satrapi ignoranti,
che la vostra virtù commenton male;
genti che non san ben da quali e quanti
spiriti generosi accompagnato
l'altr'ier voleste a gli altri andare inanti;
dico oltre a quei che sempre avete allato,
ché tutta Italia con molta prontezza
v'arìa di là dal mondo seguitato.
Questo vi fece romper la cavezza
e della legazion tutti i legacci,
tanto da gentil cor gloria s'apprezza!
Portovvi in Ungheria fuor de' covacci,
sì che voi sol voleste passar Vienna,
voi sol de' Turchi vedeste i mostacci.
Questa è la storia che qui sol s'accenna,
la lettera è minuta che si nota,
da poi s'estenderà con altra penna;
e mentre il ferro a temprarla s'arruota,
serbate questo schizzo per un pegno,
fin ch'io lo colorisca e lo riscuota:
che se voi sète di tela e di legno
e di biacca per man di Tiziano,
spero anch'io, s'io ne sarò mai degno,
di darvi qualche cosa di mia mano.

 
 
 

La Secchia Rapita 02-1

Post n°1263 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO SECONDO

ARGOMENTO

Mandano i Bolognesi ambasciatori
due volte a dimandar la Secchia in vano:
onde con fieri ed ostinati cori
s'armano quinci e quindi il monte e 'l piano.
Chiamano Giove a concilio i Dei minori,
contendono fra lor Marte e Vulcano:
Venere si ritira e si diparte,
e 'n terra se ne vien con Bacco e Marte.


        1
Già il quarto dí volgea che vincitori
diêr la rotta a' Petroni i Gemignani,
e per l'ira che ardea ne' fieri cori
restavano anco i morti in preda a i cani,
quando in Modana entrâr due Ambasciatori
con pacifici aspetti e modi umani;
e smontati al Monton col vetturino,
chiesero a l'oste s'egli avea buon vino.

        2
Indi un messo spedîr per impetrare
che l'ordine ch'avean fosse ascoltato.
Cominciò il campanaccio a dindonare
e in un momento s'adunò il Senato.
Andâr gli ambasciatori ad onorare
Alessandro Fallopia e Gaspar Prato,
e li condusser per diritta strada
a la sala ove il Duca or tien la biada.

        3
Un vecchio ranticoso, affumicato,
pallido e vizzo che parea l'inedia
e per forza tener co' denti il fiato,
e potea far da Lazzaro in comedia,
poi che due volte intorno ebbe mirato,
incominciò cosí da la sua sedia:
- Messeri, io son Marcel di Bolognino
dottor di legge e conte Palatino.

        4
Il mio collega è conte e cavaliero
e Ridolfo Campeggi è nominato;
io son uomo di pace, egli è guerriero;
io lettor de lo Studio, egli soldato.
Or l'uno e l'altro ha qui per messaggiero
il nostro Reggimento a voi mandato,
per iscusarsi del passato eccesso
che 'l popol nostro ha contra voi commesso.

        5
Il popol nostro è un popol del demonio,
che non si può frenar con alcun freno;
e s'io non dico il ver, che san Petronio
mi faccia oggi venir la vita meno.
Sarà il collega mio buon testimonio,
che quando l'altra notte ei passò il Reno,
fu mera ivenzion d'un seduttore,
né il Reggimento n'ebbe alcun sentore.

        6
Ma non si può disfar quel ch'è già fatto;
d'ogni vostro disturbo assai ne spiace;
e siam venuti qua per far riscatto
de' morti nostri, e ad offerirvi pace:
ma vogliam quella Secchia ad ogni patto,
che ci rubò la vostra gente audace:
perché altramente andría ogni cosa in zero,
e ci scorrucciaremmo da dovero. -

        7
Qui chiuse il Bolognino il suo sermone,
e rise ognun quanto potea piú forte.
Era capo di banca un Rarabone
Dal Tasso, arridottor cavato a sorte:
per sopra nome gli dicean Tassone,
perch'era grosso e avea le gambe corte.
Questi, poiché 'l Senato in lui s'affisse,
compose il volto e si rivolse e disse:

        8
- Che 'l vostro Reggimento abbia mandati
due personaggi suoi sí principali
a scusarsi con noi de' danni dati
e a condolersi de' passati mali,
nostra ventura è certo; e registrati
ne fieno i nomi lor ne' nostri Annali.
A noi ancora inver molto dispiace
de' vostri morti, che Dio gli abbia in pace:

        9
e se per sotterrargli or qui venite,
la vostra ambascieria fia consolata;
ma quella pace che voi ci offerite
col patto della Secchia, è un po' intricata:
e conviene aggiustar pria le partite
con cui voi dite che ve l'ha rubata;
perché di secchie non abbiam bisogno,
e ci crediam che favelliate in sogno. -

        10
Manfredi, ch'era a quel parlar presente,
cavatosi il capuccio e in piè levato,
- Figlio è, disse, d'un becco, e se ne mente
chi vuol dir ch'io la Secchia abbia rubato.
Di mezzo la città nel dí lucente
io la trassi per forza in sella armato:
e tornerò, se me ne vien talento,
dov'è quel pozzo e cacherovvi drento.

        11
Siete mal informato, a quel ch'io veggio,
messer Marcello mio da un bolognino. -
- Cappita! disse il cavalier Campeggio,
voi siete bravo come un paladino.
Orsú ripigliarem, ch'io me n'aveggio,
con le trombe nel sacco oggi il cammino;
ma Gemignani miei, io vi protesto
che ve ne pentirete assai ben presto. -

        12
Rispondeva Manfredi; e ne potea
seguir scandalo grave entro 'l Senato,
se 'l Potta allor non vi s'interponea
con modo imperioso e volto irato:
- Taci, frasca merdosa, egli dicea;
ché questo è ius antico inviolato
che possa un messagier dir ciò che vuole
senza render ragion di sue parole. -

        13
Cosí gli ambasciatori usciron fuore
ed a la patria lor feron ritorno:
la quale il Baldi principal dottore
mandò con nuovi patti il terzo giorno;
e la terra offeria di Grevalcore
se la Secchia tornava al suo soggiorno.
Fu il dottor Baldi molto accarezzato
e a le spese del publico alloggiato.

        14
Poscia di nuovo s'adunò il Conseglio
dov'egli fu introdotto il dí seguente.
Il Baldi, ch'era astuto come veglio
e sapea secondar l'onda corrente,
incominciò: - Signori, esempio e speglio
d'onor e senno a la futura gente,
io rendo grazie a Dio che mi concede
di seder oggi in cosí degna sede.

        15
E vengovi a propor cosa inudita
che vi farà inarcar forse le ciglia.
Giace una terra antica, e favorita
de le grazie del cielo a meraviglia,
col territorio vostro appunto unita.
e lontana di qua tredici miglia.
Già vi fu morto Pansa, e dal dolore
nominata da' suoi fu Grevalcore.

        16
Ancor dopo tant'anni e tanti lustri
il suo nome primier conserva e tiene:
furon già stagni e valli ime e palustri,
or son campagne arate e piagge amene;
non han però gli agricoltori industri
tutte asciugate ancor le natíe vene,
ma vi son fondi di perpetui umori
che sogliono abitar pesci canori.

        17
Le Sirene de' fossi, allettatrici
del sonno, di color vari fregiate,
e del prato e de l'onda abitatrici,
fanvi col canto lor perpetua state;
i regni de l'Aurora almi e felici
paiono questi; ove son genti nate,
che ne' costumi e ne' sembianti loro
rappresentano ancor l'età de l'oro.

        18
Or cosí degna terra e principale
vi manda ad offerir la patria mia
se quella Secchia, che toglieste a un tale
de' nostri, col malan che Dio gli dia,
quando i vostri l'altrier fêr tanto male
e sforzaron la porta che s'apría,
sarà da voi al pozzo rimandata
publicamente, d'onde fu levata.

        19
Mentre vi s'offre la fortuna in questo.
di cambiare una Secchia in una terra,
ricordatevi sol che volge presto
il calvo a chi la chioma non afferra.
Se non cogliete il tempo, i' vi protesto
ch'avrete lunga e faticosa guerra,
né potrete durare a la campagna
che s'armerà con noi tutta Romagna. -

        20
Qui tacque il Baldi e nacque un gran bisbiglio,
né fu chi rispondesse alcuna cosa:
ma si conobbe in un girar di ciglio
che la mente d'ognuno era dubbiosa.
Alfin per consultare ogni periglio
e non urtare in qualche pietra ascosa,
fecero al Baldi dir, ch'era presente,
ch'avrebbe la risposta il dí seguente.

        21
Il dí che venne, il cambio fu approvato,
e disser che la Secchia eran per darla,
sottoscritto il contratto e confirmato,
a qualunque venisse a ripigliarla;
perch'altramente non volea il Senato
con atto indegno al pozzo ei rimandarla;
che in questo il Reggimento era in errore
se credea di dar legge al vincitore.

        22
Il Baldi si scusò che non avea
ordine d'alterar la sua proposta,
ma che l'istesso giorno egli volea
ritornare a Bologna per la posta;
e se 'l partito a la città piacea,
avrebbe rimandato un messo a posta.
Cosí conchiuso il Baldi fe' ritorno,
né si seppe altro fino al terzo giorno.

        23
Il terzo dí, ch'ognun stava aspettando
che non avesse piú la pace intoppo,
eccoti un messaggier venir trottando
sopra d'un vetturin spallato e zoppo,
e tratta fuori una protesta o un bando,
l'affisse al tronco d'un antico pioppo
che dinanzi a la porta di sua mano
avea piantato già san Gemignano.

        24
Dicea la carta: - Il popol bolognese
quel di Modana sfida a guerra e morte
se non gli torna in termine d'un mese
la Secchia che rubò su le sue porte. -
Affisso il foglio, subito riprese
il suo cammin colui, spronando forte
quel tripode animale; e in un momento
parve che via lo si portasse il vento.

        25
Qual resta il pescator che ne la tana
mette la man per trarne il granchio vivo,
e trova serpe o velenosa rana
o qual si voglia altro animal nocivo
tal la gente del Potta altera e vana,
trovar credendo un popolo corrivo,
quando sentí quella protesta, tutta
raggrinzò le mascelle e si fe' brutta.

        26
Ma come ambiziosa per natura,
dissimulando il naturale affetto,
mostrò di non curar quella scrittura
e le minacce altrui volse in diletto:
non ristorò le ruinate mura,
non cavò de le fosse il morto letto,
né di ceder mostrò sembianza alcuna
a la forza nemica o a la fortuna.

        27
Ma scrisse a Federico in Alemagna
quant'era occorso e di suo aiuto il chiese;
la milizia del pian, de la montagna
a preparar segretamente attese:
fe' lega per un anno a la campagna
col popol parmigian, col cremonese,
scrisse ne la città fanti e cavalli,
indi tutta si diede a feste e balli.

        28
La fama in tanto al ciel battendo l'ali
con gli avisi d'Italia arrivò in corte,
ed al re Giove fe' sapere i mali
che d'una Secchia era per trar la sorte.
Giove, che molto amico era a i mortali
e d'ogni danno lor si dolea forte,
fe' sonar le campane del suo impero
e a consiglio chiamar gli Dei d'Omero.

        29
Da le stalle del ciel subito fuori
i cocchi uscir sovra rotanti stelle,
e i muli da lettiga e i corridori
con ricche briglie e ricamate selle:
piú di cento livree di servidori
si videro apparir pompose e belle,
che con leggiadra mostra e con decoro
seguivano i padroni a concistoro.

        30
Ma innanzi a tutti il Prencipe di Delo
sopra d'una carrozza da campagna
venía correndo e calpestando il cielo
con sei ginetti a scorza di castagna:
rosso il manto, e 'l cappel di terziopelo
e al collo avea il toson del re di Spagna:
e ventiquattro vaghe donzellette
correndo gli tenean dietro in scarpette.

        31
Pallade sdegnosetta e fiera in volto
venía su una chinea di Bisignano,
succinta a mezza gamba, in un raccolto
abito mezzo greco e mezzo ispano:
parte il crine annodato e parte sciolto
portava, e ne la treccia a destra mano
un mazzo d'aironi a la bizzarra,
e legata a l'arcion la scimitarra.

        32
Con due cocchi venía la Dea d'Amore:
nel primo er'ella e le tre Grazie e 'l figlio,
tutto porpora ed or dentro e di fuore,
e i paggi di color bianco e vermiglio;
nel secondo sedean con grand'onore
cortigiani da cappa e da consiglio,
il braccier de la Dea, l'aio del putto,
ed il cuoco maggior mastro Presciutto.

        33
Saturno, ch'era vecchio e accatarrato
e s'avea messo dianzi un serviziale,
venía in una lettiga riserrato
che sotto la seggetta avea il pitale;
Marte sopra un cavallo era montato
che facea salti fuor del naturale;
le calze a tagli e 'l corsaletto indosso,
e nel cappello avea un pennacchio rosso.

 
 
 

Il Trecentonovelle 11-15

Post n°1262 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XI

Alberto da Siena è richiesto dallo inquisitore, ed elli, avendo paura, si raccomanda a messer Guccio Tolomei; e in fine dice che per Donna Bisodia non è mancato che non abbia aúto il malanno.

Al tempo di messer Guccio Tolomei fu in Siena uno piacevole uomo e semplice, e non malizioso come messer Dolcibene. Era costui balbo della lingua, e avea nome Alberto; il quale essendo uomo di pura condizione, e usando spesso in casa del detto messer Guccio, però che 'l cavaliere ne pigliava gran diletto, avvenne che uno dí di quaresima, trovandosi messer Guccio con lo inquisitore, di cui era grande amico, compose con lui che l'altro dí facesse richiedere il detto Alberto, e quando fosse dinanzi da lui, gli opponessi qualche cosa di resía, e di questo ne seguirebbe alquanto di piacere e allo inquisitore e a lui.
Come il detto messer Guccio sí desse ordine, tornato che fu a casa, l'altro dí di buon'ora il detto Alberto fu richiesto che subito comparisse dinanzi allo inquisitore. Alberto tutto tremante, e se prima era balbo, a questo punto, avendo quasi perduta la lingua, appena poté dire: - Io verrò -; e andato a trovare messer Guccio, dicendo: - Io vi vorrei parlare -; e messer Guccio comprendendo quello che era, disse:
- Che novelle?
Dice Alberto:
- Cattive per me, ché lo inquisitore mi ha fatto richiedere, forse per paterino.
Dice messer Guccio:
- Averestú detto alcuna cosa contra la fede cattolica?
Dice Alberto:
- Io non so che s'è la fede calonica, ma io mi credo essere cristiano battezzato.
Dice messer Guccio:
- Alberto, fa' come io ti dirò; vattene al vescovo; e di': "Io fui richiesto, e appresentomi dinanzi a voi"; e sappi quello che ti vuol dire: dopo te poco stante verrò io; e lo inquisitore è molto mio amico, e cercherò dello spaccio tuo.
Disse Alberto:
- Ecco io vo, e affidomi in voi. E cosí si partí, e andonne al vescovo.
Il quale là giunto, come il vescovo il vide, con uno fiero viso disse:
- Qual se' tu?
Alberto balbo e tremante di paura disse:
- Io sono Alberto, che fui richiesto che io venisse dinanzi da voi.
- Or ben so, - dice il vescovo, - se' tu quell'Alberto che non credi né in Dio, né ne' santi?
Dice Alberto:
- Signor mio, chi ve l'ha detto non dice il vero, ché io credo in ogni cosa.
Allora dice il vescovo:
- E se tu credi in ogni cosa, dunque credi tu nel diavolo; e questo è quello che a me non bisogna altro ad arderti per paterino.
Alberto mezzo uscito di sé, domandando misericordia; dice il vescovo:
- Sai tu il Paternostro ?
Dice Alberto:
- Messer sí.
- Dillo tosto, - disse lo inquisitore.
Alberto cominciò; e non accordando l'aggettivo col sustantivo, giunse balbettando a uno scuro passo, là dove dice: da nobis hodie ; e di quello non ne potea uscire. Di che lo inquisitore, udendolo, disse:
- Alberto, io l'ho inteso; ché chi è paterino, non puote dire le cose sante; va', e fa' che domattina tu torni a me, e io formerò il processo secondo che meriterai.
Dice Alberto:
- Io tornerò da voi; ma io vi prego per l'amore di Dio che io vi sia raccomandato.
Disse lo inquisitore:
- Va', e fa' che io ti dico.
Allora si partí, e tornando verso casa, trovò messer Guccio Tolomei che allo inquisitore per questa faccenda andava. Messer Guccio, veggendolo tornare, dice:
- Alberto, la cosa dee stare bene, quando tu torni.
Disse Alberto:
- Gnaffe! non istà, però che dice che io sono paterino, e che io torni a lui domattina, e ancora non mancò per quella puttana di donna Bisodia che è scritta nel Paternostro  che non mi facesse morire allotta allotta. Di che io vi prego per l'amore di Dio che andiate a lui e preghiate che io gli sia raccomandato.
Disse messer Guccio:
- Io vo là, e ingegnerommi fare ciò che io potrò al tuo scampo.
E cosí andò messer Guccio, e portando all'inquisitore la novella di donna Bisodia, ne feciono per due ore grandissime risa. E mandando lo inquisitore, innanzi che messer Guccio si partisse, per lo detto Alberto, ed elli con gran timore tornandovi, gli diede lo inquisitore ad intendere che se non fosse messer Guccio, l'averebbe arso; e ben lo meritava, però che di nuovo avea inteso ancora peggio, che d'una santa donna, cioè di donna Bisodia, sanza la quale non si puote cantare messa, avea detto essere una puttana; e ch'egli andasse e tenesse sí fatti modi che non avesse piú a mandare per lui. Alberto, chiamando misericordia, disse non dirlo mai piú, e tutto doloroso della paura che avea aúta, con messer Guccio a casa si tornò. Il quale messer Guccio, avendo condotto la cosa come avea voluto, gran tempo nella sua mente ne godeo, e senza Alberto e con Alberto.
Belle sono le inventive de' gentiluomeni per avere diletto di nuove e di semplici persone; ma piú bello fu il caso che la fortuna trovò in Alberto, essendo impacciato da donna Bisodia; e forse forse, se Alberto fosse stato uno ricco uomo, lo inquisitore gli averebbe dato tanto ad intendere che si serebbe ricomperato de' suoi denari, per non essere arso o cruciato.


NOVELLA XII

Come Alberto detto, rimenando uno ronzino restío a casa, risponde a certi, che 'l domandano nuovamente, come nuovo uomo era.

Dappoi che io ho messo mano in Alberto da Siena, seguirò ancora di dire di lui una piacevole novelletta, la quale, se la fece per senno, serebbe stata bella a qualunque savio; ma credo piú tosto fosse per semplicità. Costui, avendo bisogno d'andare a un suo luogo fuori di Siena, accattò da un suo vicino un ronzino, sul quale salendo suso, e andando insino alla porta, come là giunse, il ronzino si cominciò a tirare addietro, come se della porta avesse aúto paura, o fosse aombrato, o che si fosse posto in cuore di non volere uscire della terra. Alberto, accennandoli cotale alla trista, non lo poteo mai fare andare; ma cominciandosi a sinistrare, e Alberto avendone grandissima paura, per lo migliore discese in terra, e prese le redine, lo volse indietro e cominciollo a rimenare a casa di chi gli l'avea prestato: là dove il ronzino non ch'egli andasse di passo, ma andava sí di trotto che facea ben trottare Alberto.
E cosí arrivò per lo campo di Siena; al quale quelli Sanesi che v'erano avendo gli occhi, veggendo menare uno ronzino a mano, a gran boci gridavano:
- O Alberto, di cui è cotesto ronzino? O Alberto, dove meni tu questo ronzino?
A quelli che diceano: "Di cui è cotesto ronzino?" rispondea: "Èssi me' suo". A quelli che diceano: "Dove il meni tu?" rispondea: "Anzi mena elli me".
E cosí diede che pensare a' Senesi buona pezza, tanto che seppono l'effetto di quello che dicea; e Alberto rendé il ronzino, dicendo a colui:
- To' ti il ronzino suo, dappoi che e' non vuole che io vadi in villa oggi -; e cosí si rimase Alberto, che non andò in villa quel giorno.
Io per me credo che Alberto in questo fosse molto savio; ché sono molti che dicono: "Io vincerei pur la prova". Quando uno avesse a domare, o scorgere un suo puledro, forse è da consentire; ma vincere la prova d'un cavallo altrui, colui che si mette a questo non corregge il suo cavallo, ma piú tosto puote pericolare sé.

NOVELLA XIII

Come Alberto, essendo per combattere con li Sanesi, si mette il cavallo innanzi, ed elli, smontato, li sta di dietro a piede, e la ragione che elli assegna quello esser il meglio.

Similmente questo Alberto in questa sua terza novella, che segue, non mi pare molto sciocco; però che essendo li Sanesi, per certa guerra che aveano co' Perugini, assembrati per combattere, e 'l detto Alberto essendo a cavallo tra la brigata sanese, e bene armato, scese da cavallo, e misesi il cavallo dinanzi, ed egli stava di drieto a piede. Veggendo gli altri che v'erano Alberto stare per questa forma, diceano:
- Che fai tu, Alberto? sali a cavallo, però che noi siamo subito per combattere.
A' quali Alberto rispose:
- Io voglio stare cosí, ché, se 'l cavallo mio fosse morto, serà fatto la menda di lui; ma se io fosse morto, nessuna menda di me serebbe fatta.
E come Dio volle, la gente si recò a battaglia, dove li Sanesi furono sconfitti. Ed essendo molto addietro il detto Alberto cosí a piede, il suo cavallo fu preso, ed elli si fuggí e cogliendolo la notte in certe vie tra boschi, e traendo vento che facea sonare le foglie, gli parea avere mille cavalieri dietro; e come uno pruno il pigliava dicea:
- Oimè! io mi t'arrendo, non mi uccidere -; credendo che fossono nimici che 'l pigliassono: e cosí con gran paura e con grande affanno consumò tutta quella notte, tanto che la mattina su l'alba si trovò presso a Siena.
E giunto a Siena, come che assai avessono da pensare ad altro, pure erano di quelli che domandavono:
- Alberto, come è ita la cosa? tu se' a piede? ove è il cavallo?
E quelli rispondea:
- Egli è perduto: cosí avess'elli fatto come fe' quell'altro d'uno di questi dí, che non avesse voluto uscire fuori della porta.
Ma la cosa andò peggio per Alberto, che domandando la menda, fu detto che non era stato a cavallo come si dovea; e non la poté mai avere.
Fu savio avviso quello di costui, se gli fosse venuto fatto, ché s'averebbe levato spesa da dosso; e arebbe aúto denari, e la persona salva era ritornata a Siena. E qui si puote vedere da quanto prezzo è il sesso umano; ché d'ogni animale è fatto stima di valuta, eccetto che dell'uomo, ma di questo non si domanda menda: benché si potrebbe dire per la sua nobilità eccede tanto agli altri, e per questo non è prezzo che lo possa ricomperare. Ma ancora è piú sicuro in una guerra, e piú forte, l'uomo povero che 'l ricco; se lo ricco è preso, è menato lui e 'l cavallo per li denari suoi; se lo povero è preso a cavallo, è lasciato l'uomo, e 'l cavallo n'è menato. E questo non è altro se non che tutto l'universo è corrotto per la moneta, e per quello a ogni cosa si mette ciascuno.


NOVELLA XIV

Come Alberto, avendo a far con la matrigna, essendo dal padre trovato, allega con nuove ragioni piacevolmente.

Non voglio lasciare la quarta novella d'Alberto, di quelle che già udi' di lui, come che molte altre ne facesse. Avea il detto Alberto una matrigna assai giovane e complessa e atticciata, il quale in nessun modo, come spesso interviene, potea avere pace con lei; e di questo suo caso dolendosi spesse volte con alcuni suoi compagni, da loro gli fu dato questo consiglio, dicendo:
- Alberto, se tu non trovi modo d'avere a far di lei, non isperar mai di star con lei se non in battaglia e in mala ventura.
Dice Alberto:
- Credete voi cotesto?
Coloro rispondono:
- Noi l'abbiamo per lo fermo.
Dice Alberto:
- E' serebbe troppo gran peccato! e pur s'i' 'l facesse, e venisse agli orecchi dello inquisitore, e' m'ha colto animo addosso, leggermente mi farebbe morire.
E quasi come se non vi avesse l'animo, si partí dalle parole di costoro; e da altra parte pensò di mettere il consiglio ad effetto, e nol dissono a sordo; ché un dí, essendo andato il padre fuori e la donna rimanendo in camera, Alberto sanza dire troppe parole ché male le sapea dire, venne a' fatti e in sul letto l'uno e l'altro si condussono, e fu fatta la pace, che parea una casa cheta e riposata, che prima parea tempestosa e indemoniata. Nella qual pace e amore continuando Alberto, aiutando alle fatiche del padre, avvenne un dí che l'uno e l'altro stando di meriggio a giacere, che 'l padre ch'era andato in villa, tornò in quell'ora, e andato su, trovò sul letto sprovveduti la donna e Alberto.
Alberto, veggendo il padre, si gittò alla panca lungo il muro; e 'l padre piglia la mazza del letto per dargli, dicendo: "Sozzo traditore", e quando: "ria puttana".
E andando Alberto ora in su e ora in giú, secondo come la mazza del padre si menava, e gridando e l'uno e l'altro, tutta la vicinanza trasse al romore, dicendo:
- Che vuol dire questo?
E Alberto dice:
- E' questo mio padre, che ebbe a fare cotanto tempo con mia madre, e mai non gli dissi una parola torta; e ora perché mi ha trovato giacer con la moglie, non altro che per buono amore, mi vuole uccidere, come voi vedete.
Gli vicini, udendo la ragione allegata per Alberto, dissono il padre avere il torto; e tirandolo da parte, dissono che non era senno il suo di fare palese quelle cose che si doverriano nascondere, e fecionli credere che, conoscendo eglino la condizione d'Alberto, che egli non era salito su quel letto per alcun male, ma per molta dimestichezza, avendo voglia di dormire. E cosí si dié pace il padre, e la donna si dié pace con Alberto per la domestichezza che avea presa con lei, facendo ciascuno da quell'ora innanzi i fatti loro sí occulti e sí cheti che 'l padre mentre che visse non ebbe piú a giucare del bastone.
Buono fu il rimedio che dato fu ad Alberto a stare in pace con la matrigna, e buona fu la ragione d'Alberto, ch'elli disse a' vicini quando trassono. E cosí credo che assai (non tutte) averebbono pace co' figliastri, se elli facessono quello che costui, e massimamente quelle che son mogli degli antichi padri, come era costei, le quali, essendo giovani, voglion vegliare, e' vecchi mariti voglion dormire.


NOVELLA XV

La sorella del marchese Azzo, essendo andata a marito al giudice di Gallura, in capo di cinque anni torna vedova a casa. Il frate non la vuol vedere, perché non ha fatto figliuoli, ed essa con un motto il fa contento.

Il marchese Azzo da Esti andò cercando il contrario d'una sua sorocchia. Questo marchese credo fosse figliuolo del marchese Obizzo, e avendo una sua sorocchia da marito che, salvo il vero, ebbe nome madonna Alda, la quale maritò al giudice di Gallura; e la cagione di questo matrimonio fu che 'l detto judice era vecchio e non avea alcun erede, né a chi legittimamente succedesse il suo; onde il marchese, credendo che madonna Alda, o madonna Beatrice come certi hanno detto avesse nome, facesse di lui figliuoli che rimanessono signori del judicato di Gallura, fece queto parentado volentieri: e la donna sapea troppo bene a che fine il marchese l'avea maritata.
Avvenne che, essendo andata a marito, stette cinque anni con lui e mai alcuno figliuolo non fece; e morendo il detto judice di Gallura, la donna tornò vedova a casa del marchese: alla quale né andò incontro il detto marchese, né alcuno sembiante fece, se non come il detto caso mai non fosse intervenuto. La qual donna giunta, e credendo essere dal marchese ricevuta teneramente, e veggendo tutto il contrario, e maravigliandosi di questo, e andando alcuna volta dove era il detto marchese per dolersi della sua fortuna, e fare con lui il debito lamento, nessuno atto facea, ma volgevasi in altra parte.
Continuando questo piú dí, la giovane, desiderosa di sapere la cagione de' modi e del cruccio del marchese, impronta verso lui andando un dí, cominciò a dire:
- Potre' io sapere, fratel mio, perché tanta ira e tanto sdegno tu dimostri verso di me sventurata vedovella, e piú tosto posso dire orfana, venendomi tu meno, che altro ricorso non ho?
Ed elli, volgendosi verso lei con nequitoso animo, rispose:
- O non sai tu la cagione? e perché ti maritai io al judice di Gallura? come non ti vergogni tu di essere stata cinque anni sua mogliera, ed essermi tornata in casa senza avere fatto figliuolo alcuno?
Appena lo lasciò la donna infino a qui dire, come quella che lo intese, e disse:
- Fratel mio, non dire piú, ch'io t'intendo; e giuroti per la fé di Dio che, per adempiere la tua volontà, ch'io non ho lasciato né fante, né ragazzo, né cuoco, né altro, con cui io non abbia provato; ma, se Dio non ha voluto, io non ne posso far altro.
Cosí si rallegrò il marchese di questo, come si fosse rallegrato un altro che, dopo grande abbominio dato a una sua sorella, la trovasse poi senza difetto; e in quell'ora l'abbracciò teneramente, e amandola e avendola piú cara che mai; e maritolla poi a un messer Marco Visconti, o a messer Galeazzo. Ha detto già alcuno ch'ella fece una fanciulla che ebbe nome Joanna, e maritossi a messer Ricciardo da Camino, signore di Trevisi. E questo par che tocchi Dante, capitolo ottavo del Purgatorio, dove dice in parte:
Quando serai di là dalle larghe onde
Di' a Giovanna mia, che per me chiami
Là dove agli innocenti si risponde, ecc.
Come che sia, questa donna contentò il fratello. Vogliono dire alcuni, e io sono colui che 'l credo, che questa fosse savia e casta donna; ma, veggendo la disposizione del fratello, con le sue parole lo volle fare contento di quello che elli avea voglia, e tornare nel suo amore. E cosí si contenta l'animo di quelli che guardano pure alla utilità, e non all'onore; e questa donna se ne avvide, e diegli di quella vivanda che volea, facendolo contento con quello che pochi se ne averebbono dato pace.

 
 
 

Il Meo Patacca 06-1

Post n°1261 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO SESTO

ARGOMENTO

Doppo che imparò MEO da un intendente,
Come in guerra si pianta uno squadrone,
La mostra in campo fa della su' gente,
E ce stanno a vedetta più perzone.
La nobiltà romana ch'è presente,
Pel viaggio de 'st'essercito pedone
Impromette monete; ancor quà venne
Nuccia, e placato MEO, perdono ottenne.

Già la sera è venuta, e i bottegari
Inserrano le porte, et i mercanti
Già levano le mostre, e i calzolari
Appicciano la lume ai lavoranti;
Se ne vanno a dormì già li fornari,
Per esse a mezza notte vigilanti;
A i cicoriari ormai, par che gli tocchi,
Anna gridanno: cicoria, e mazzocchi.

Bel bello d'ombre pallide s'ammanta
La notte con un fasto minaccioso,
Se gira calched'un, che sona o canta,
Gl'ordina, ch'a piglià vada riposo.
Di volè sola scorrere si vanta,
Guai a quelli, che fanno atto ritroso,
Nell'ubbidir a lei, perchè a 'sti sciocchi
Gli semina i papaveri in tell'occhi.

MEO però poco addormentà si lassa,
E benchè steso in letto, e quasi sviglio,
Una notte gli par, che mai non passa,
Una mattina, ch'è lontana un miglio,
Pensanno al su' squatrone ce se passa;
Ma s'accorge alla fin, che di consiglio
Ha gran bisogno, se de 'ste faccenne,
A dagli chalche indirizzo saria bona,

Mentre col suo penzier dunque raggiona,
Ricordanno si va, che più servizi
Fece una volta ad una tal perzona,
Ch'in guerra havuti havea diverzi offizi
A dagli calche indrizzo saria bona,
Pe' la pratica c'ha dell'essercizi,
Che fanno li soldati, e certamente,
Vuò, che gl'insegni a squatronà la gente.

Co' 'ste quelle cominza a disviarzi
Dal sonno affatto; ma non può vestirzi,
Perchè ancor non è tempo di levarzi,
E sustanza non c'è di radormirzi.
Va spesso alla finestra ad affacciarzi,
Per osserva, se l'aria viè a schiarirzi;
Ma più scura che mai sa mantenerzi,
E lui torna nel letto a intrattenerzi.

Fa questo quello che le Donne fanno
Allor, che tra di loro s'è capata
Nel tempo più a proposito dell'anno,
Per annare alla vigna una giornata.
Senza dormì tutta la notte stanno,
Vorrian vedè, prima dell'hora usata,
Comparì l'alba; smaniano, e non ponno,
L'impacenza scaccià, nè piglià sonno.

Così nell'aspettà, ch'il dì s'appressi
S'inquieta MEO, che spesso dal cuscino
Alza la testa. "Almen veder potessi,
- Dice tra sè, - spuntar l'alba un tantino".
I passari alla fin sopra i cipressi
Sente cantane in un giardin vicino;
E questi con la lor prima armonìa,
Dell'Aurora, che viè, fanno la spia.

Allor con furia zompa giù dal letto,
Rapre d'un finestrino lo sportello,
Si mette non già l'abbito del Ghetto,
Ch'ancor tempo non è da fane el bello.
Ma doppo pranzo si, che sfarzosetto
Comparirà, vestennose con quello;
Un de i sui, per adesso glie n'avanza
Quanto fa 'sto negozio d'importanza.

Scappa da casa, subbito vestito,
Et a quella sollecito s'invia
Dell'amico, e se questo fusse uscito
Gli daria gran fastidio gli daria.
Pe' bona sorte sua, non è partito,
Ma su la porta sta, pe' marcia via,
Per tempo assai, perchè homo è di giudizio,
Lui resce a piglià fresco e a fa' esercizio.

MEO curre, e appena accosto a lui si vede,
Che te glie fa riverenziate a iosa,
E con bel modo a lui licenza chiede,
De potè supplicallo d'una cosa;
Risponne quello allor: "Che vi succede?
È la mia volontà desiderosa
Di farvi ogni piacer; se posso niente
Per voi, ditelo pur liberamente ".

"Signor! Ho un non so che da confidarvi",
- Reprica MEO - "ma il viaggio d'impedirvi
Io non intenno; voglio seguitarvi,
Se mi date licenza de servirvi.
Così potrò bel bello raccontarvi
Quel che m'occorre, e quello c'ho da dirvi".
"Venite - dice lui - vuò compiacervi,
E in compagnia m'è caro assai l'havervi".

Così d'accordo, inzieme a spasso vanno
E MEO PATACCA la famosa storia
Gli va del su' squatrone raccontanno,
E 'l desiderio, c'ha di buscà groria;
Gli va dicenno poi se dove e quanno
S'ha da fa' la comparza, e con qual boria,
Lo prega, che gl'insegni, acciò non erri,
A schierà in campo cinquecento sgherri.

Quel galanthomo ancor gnente sapeva
Di si' bel fatto, e mentre MEO sentiva,
Ci haveva un gusto granne assai ci haveva,
E a un penzier così bello appraudiva,
Perchè a insegnagli già si disponeva,
Come la gente si distribuiva;
Pe' fa 'na mostra, come fatta annava,
Verzo Campo Vaccino lo menava.

Qui arrivati, gli dà lui la misura,
E delle file, e della lor distanza,
E te gl'insegna con architettura,
A mette 'sta su' gente in ordinanza.
MEO c'ha d'un grann'ingegno l'apertura,
Capisce, e tiè di tutto ricordanza,
E mentre già ne sa quanto gli basta,
Già già metter vorrìa le mani in pasta.

Partono da 'sto loco, e van giranno,
Sempre de 'sta comparza discorrenno;
Va PATACCA l'amico interrogarmo
Di quel, che si fa in campo combattenno.
Così lui molte cose va imparanno,
Chalche dubbio di guerra proponenno;
Già gli pare d'havè saper profonno,
E tra' sgherri a nisciuno esser seconno.

MEO, sino a casa 'l Mastro suo guerriero
Con un garbo grannissimo accompagna;
Gli dice: "Io vi sarò servitor vero,
In Roma, e quanno ancor sarò in campagna;
Perchè Nostrisci è d'animo sincero,
Di dir la verità non si sparagna.
V'ho un obrigo sì granne, e di tal sorte,
Che a mente lo terrò sino alla morte".

Mentre sprofonnatissimo l'inchina,
L'amico lo saluta, e in casa resta;
MEO se la sbatte allor, che s'avvicina
Il tempo già dell'onorata festa.
De fa' 'na spampanata assai zerbina
Laut in campo s'è già messo in testa;
Crompa del fettucciame, acciò compito
Sia l'accompagnamento al su' vestito.

D'havè pe' paggio un regazzin fa prova
D'uno spirito granne, che abbitava
A lui vicino, e in te la strada il trova,
Che con altri raponzoli giocava.
Sa c'ha la matre, e questa a venner l'ova
Appunto allora in su la porta stava;
Sol per quel giorno MEO glie lo richiede,
Lei più che volentier, glie lo concede.

PATACCA a casa torna, e se ne viene
Assai lesto con lui quel ciumachella,
E te gli dà da iaccolà ma bene,
E quello insacca e rempe le budella.
MEO però, che 'l penziero in altro tiene,
Si taffia in prescia in prescia una ciammella;
Beve una volta e presto si spedisce,
E li vestiti subbito ammannisce.

Piglia quel del regazzo, e gliel misura,
E alla vista gli pare longarello,
Ch'è piccolo il bamboccio di statura;
Ma trova che gli va giusto a pennello.
Lo fa vestì con tutta attillatura,
E quel bagarozzetto vanarello
Si pavoneggia, e 'l collo torce e stenne,
Pe' vederzi ancor dreto, e ci pretenne.

Di saia verde è il bel giustacorino,
Con trina gialla, e larga un tantinetto,
C'è 'l battifianco, e drento il su' spadino,
E bianco e a tre cantoni il bel fonghetto;
C'è sopra d'oro falzo un cordoncino,
Al collo ha 'na corvatta col merletto;
Ha calzettine di color di rose,
Legaccie gialle, e bianche le fangose".

Ma poi di MEO PATACCA il giustacore
È propio signoresco, et è sforgiato;
La robba è di muer, et il colore
Fa scialo granne fa perch'è incarnato.
Non solo c'è la vista, ma 'l valore
Se d'oro in quantità tutto è trinato;
Lavorate pur d'oro, in modi rari,
Son l'asole, i bottoni, e l'alamari.

Ha una saracca al fianco sverzellante,
E la guardia d'argento ce risplenne,
Un taffettano di color cangiante
Dal collo insopra al petto se distenne,
Sul lato dritto poi cappio galante
Radunato lo lega, et in giù penne
Un merletto pur d'oro e di gran stima,
Che sta attaccato all'una e l'altra cima.

Sul fongo c'ha 'l triangolo alla moda
Ce sta in giro una bianca pennacchiera,
Ha una corvatta innamidata e soda,
Di robba fina assai, gonfia e leggiera,
C'è il merletto di Fiandra, e glie l'annoda
Un cappio di ponzò, ma in tal maniera,
Ch'innanzi al collo, fa vedè sfarzosa,
Di fettuccie assai larghe una gran rosa.

Già prima di vestirzi gl'era stata
Dal barbier ch'in quel dì gli venne in casa,
La su' cioma benissimo arricciata,
Che fava intorno al viso una gran spasa;
Per esser questa tutta incipriata,
Per havè lui di più la barba rasa,
Aggiustato il filetto e ancor le ciglia,
Una comparza fava a maraviglia.

Col bastoncino in man da commannante,
Co' 'sto vestito gentilhominesco,
Con la vita disposta e assai galante,
Non pareva uno sgherro romanesco;
Lo crederebbe un cavaliero errante
Chi 'l natal non sapesse baronesco,
E par ch'al garbo et all'altiera fronte
Habbia fisionomia di un Rodomonte.


Oh quant'è ver, quanto succede spesso,
Che li vestiti zerbineschi fanno
Comparir un, quel che non è in sè stesso,
Che mascherato va con quest'inganno;
Perchè addosso un bell'abbito s'è messo
Chalch'uno di color, ch'in casa stanno
Asciucchi come sugri, fa del Bello,
Del Riccone, e si sa, ch'è un spiantatello.

MEO PATACCA è però degno di scusa,
Che squarcionà pur troppo gli conviene;
E fa alla fine sol quello, che s'usa
Da chi de fa' gran vista obrigo tiene.
Non è già meritevole d'accusa,
Se là in tel Campo comparì vuò bene;
Ch'a fa' di caposquatra la figura
Ce vuò scialo ce vuò, ce vuò lindura.

Ma per essere un giovane prudente,
A piedi non vuò annà così zerbino;
Pe' non farzi ridicolo alla gente,
S'era già accaparrato un carrozzino.
Ci annerà lui col paggio, e da un parente
Se l'è fatto prestà, ch'è vetturino.
Perchè alla porta è già, scegnono abbasso,
C'entrano, e via lo fanno annà de passo.

Serra le bandinelle oculatissimo
PATACCA, perchè visto esser non vuole,
Col paggio intanto, ch'è spiritosissimo,
Via via dicenno va delle parole.
Lui risponne, e gli da dell'Illustrissimo,
Com'oggi facilmente far si suole.
'Sta cosa non la vuò, nè sopportarla
Può MEO che si risente, e così parla:

"Non mi trattà con titoli o regazzo;
Che tu non sai, quello che io so, ch'è un pezzo;
Chi vuò ciò, che non merita è un gran pazzo,
Se fa degno se fa d'ogni disprezzo.
No, che non voglio sbeffe, nè strapazzo,
Ch'a sopporta 'ste cose non so' avvezzo.
Io stesso in tel vedène assai mi stizzo,
Che spacci il cavalier, chi è nato un zizzo".

"Per dir la verità, creduto havrìa, -
Rispose il paggio, - che l'havesse a caro,
Mi perdoni però Vossignoria.
Che 'sto parlà da un mi' fratello imparo;
Serve a un patron, che vuò che glie lo dia,
Benchè il patre sia stato bottegaro;
Lo chiama, lo richiama, e se ne sfiata,
D'havè più volte l'Illustrissimata".

Rompe il discorzo MEO, che dar si sdegna
A si' fatti spropositi più udienza,
E intanto al paggio molte cose insegna:
Gli dice, qual sarà la su' incumbenza;
Poi, di dagli ad intennere s'ingegna,
Quanno, et a chi far deve riverenza,
Allora, che lui messo in positura,
Farà in campo farà la su' figura.

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

cuspides0cassetta2amistad.siempreVince198massimobrettipiernaniChevalier54_Zforco1gnaccolinocamaciotizianarodelia.marinoamorino11Talarico.Francoantonio.caccavalepetula1960
 

ULTIMI COMMENTI

 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUò SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963