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Messaggi del 24/02/2015

Rime del Berni 71-74

Post n°1277 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

71

CAPITOLO PRIMO ALLA SUA INNAMORATA

Quand'io ti sguardo ben dal capo a' piei
e ch'io contemplo la cima e 'l pedone,
mi par aver acconcio i fatti miei.
Alle guagnel, tu sei un bel donnone,
da non trovar nella tua beltà fondo,
tanto capace sei con le persone.
Credo che chi cercasse tutto 'l mondo
non troveria la più grande schiattona:
sempre sei la maggior del ballo tondo.
Io vedo chiar che tu saresti buona
ad ogni gran refugio e naturale,
sol con l'aiuto della tua persona.
Se tu fussi la mia moglie carnale,
noi faremmo sì fatti figliuoloni
da compensarne Bacco e Carnevale.
Quando io ti veggio in sen que' dui fiasconi,
oh mi vien una sete tanto grande
che par ch'io abbia mangiato salciccioni;
poi, quand'io penso all'altre tue vivande,
mi si risveglia in modo l'appetito
che quasi mi si strappan le mutande.
Accettami, ti prego, per marito,
ché ti trarrai con me tutte le voglie,
perciò ch'io son in casa ben fornito.
Io non aveva il capo a pigliar moglie,
ma quand'io veggio te, giglio incarnato,
son come uno stallon quando si scioglie,
che vede la sua dama in sur un prato,
e balla e salta come un paladino;
così fo io or ch'io ti son allato.
Io ballo, io canto, io sòno il citarino,
e dico all'improvista de' sonetti
che non gli scoprirebbe un cittadino.
Se vòi che 'l mio amor in te rimetti,
èccome in punto apparecchiato e presto,
pur che di buona voglia tu l'accetti.
E se ancor non ti bastasse questo,
che tu voglia di me meglio informarti,
infcent;rmatene, ché gli è ben onesto.
In me ritrovarai di buone parti,
ma la meglior io non te la vo' dire:
s'io la dicessi, farei vergognarti.
Or se tu vòi alli effetti venire,
stringiamo insieme le parole e' fatti,
e da uom discreto chiamami a dormire;
e se poi il mio esser piaceratti,
ci accordaremo a far le cose chiare,
ché senza testimon non voglio gli atti.
Io so che presso me arai a durare
e che tu vòi un marito galante:
adunque piglia me, non mi lasciare.
Io ti fui sempre sviscerato amante;
di me resti a veder sol una prova:
da quella in fuor, hai visto tutte quante.
Sappi che di miei par non se ne trova,
perch'io lavoro spesso e volentieri
fo questo e quello ch'alla moglie giova.
Con me dar ti potrai mille piaceri,
di Marcon ci staremo in santa pace,
dormirem tutti due senza pensieri,
perché 'l fottere a tutti sempre piace.



72

CAPITOLO SECONDO ALLA SUA INNAMORATA

Tu se' disposta pur ch'io mora affatto,
prima che tu mi voglia soccorrire,
e farmi andar in frega com'un gatto;
ma se per tuo amor ho a morire,
io t'entrarò col mio spirito adosso
e sfamarommi inanzi al mio uscire.
E' non ti varrà dir: "Non vo'; non posso":
cacciato ch'io t'avrò il mio spirto drento,
non t'avedrai che 'l corpo sarà grosso.
Al tuo dispetto anche sarò contento,
e mi starò nel tuo ventre a sguazzare,
come se fussi proprio l'argumento.
Se' preti mi vorranno discacciare,
non curarò minaccie né scongiuri:
ti so dir, avranno agio di gracchiare.
Quando avran visto ch'io non me ne curi,
crederanno che sia qualche malìa,
presa a mangiar gli scaffi troppo duri,
e chi dirà che venghi da pazzia;
così alla fin non mi daranno impaccio
e caverommi la mia fantasia.
Ma s'io piglio coi denti quel coraccio,
io gli darò de' morsi come cane
e insegnarògli ad esser sì crudaccio.
Tel dico, ve', mi amazzarò domane,
per venir presto con teco a dormire;
et intrarotti dove t'esce il pane.
Sì che vedi or se tu ti puoi pentire:
io ti do tempo sol per tutta sera;
altramente, diman mi vo' morire.
Non esser, come suoli, cruda e fiera,
perché, s'io ci mettessi poi le mani,
ti faria far qualche strania matera.
Farotti far certi visacci strani
che, specchiandoti, avrai maggior paura
che non ebbe Atteon in mezzo a' cani.
Se tu provassi ben la mia natura,
tu teneresti via di contentarmi
e non saresti contra me sì dura.
In fine son disposto d'amazzarmi,
perché ti voglio 'n corpo un tratto intrare,
ch'altro modo non ho da vendicarmi.
S'io v'entro, i' ti vo' tanto tribulare!
Io uscirò poi per casa la notte
e ciò che trovarò ti vo' spezzare.
Quand'io t'avrò tutte le veste rotte,
io ti farò ancor maggior dispetto,
e caverotti il cìpol dalla botte,
e levarotti il pannel di sul letto,
e ti farò mostrar quell'infernaccio
ov'entra et esce 'l diavol maladetto:
darotti tanto affanno e tant'impaccio
che non sarai mai più per aver bene,
s'io non mi scioglio di questo legaccio.
Sì che, stu vuoi uscir d'affanni e pene
e se non vuoi diventar spiritata,
accordarti con meco ti conviene.
Ma io ti veggio star tant'ostinata
e non aver pietà de' miei gran guai,
ch'è forza farti andar co i panni alzata
e di farti mostrar quel che tu hai.



73

RISPOSTA AL VARCHI

Varchi, quanto più lode voi mi date
tanto più l'aborrisco e rifiuto io,
che so che vinto da gentil disio
altri più che voi stesso a torto amate.

Le rime mie, senza arte e non ornate,
assai lontan da quelle van che 'l dio
di Cinto canta ad Euterpe e Clio
e dalle vostre, a gran ragion lodate;

da quelle che d'altrui diverse avete
quanto l'umil ginebro all'alto pino,
da stridol canna nobile sampogna,

quanto dall'uom ch'è desto a quel che sogna.
Or canti il buon Damone e taccia Elpino,
ch'ei sol del suo bel dir buon frutto miete.



74

VERO SPIRITO D'INFERNO PER AMORE

Vero inferno è il mio petto,
vero infernale spirito son io
e vero infernal foco è 'l foco mio.
Quell'arde e non consuma e non si vede,
e la mia fiamma è tale
che, perch'io vivo e non la mostro fòre,
madonna non la crede.
Privo d'ogni speranza di mercede
e del divino aspetto
è lo spirito misero infernale;
et io gli sono eguale
e vivo senza 'l mio vitale obietto,
né speme ha la mia fede
et ostinato in una voglia è 'l core.
Anzi stato migliore
han gli spirti laggiù, ché giustamente
ardono in foco, et io ardo innocente;

 
 
 

Il Meo Patacca 07-2

Post n°1276 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Va intanto avvicinandosi alla porta,
E Nuccia l'accompagna inzino a quella;
Perchè nella speranza si conforta,
Così torna a parla spiritosella:
"Signor MEO!posso dir, che so' risorta
Da morte a vita". E qui la vecchiarella
Viè in mezzo, e dice: "È cosa più che vera;
Giusto una Mummia s'era fatta, s'era".

Nuccia con le su' dolci paroline
Voleva seguità; con un saluto,
Alle chiacchiare MEO volze dà fine,
Di batter la calcosa risoluto.
Tutia voleva fagli altre monine,
Ma lui non s'è più gnente intrattenuto.
Con dire: "A rivedecce 'gnora mia! "
Fa un basciamano a Nuccia, e marcia via.

Più non si volta, e seguita 'l su' viaggio;
Va quella accompagnannolo coll'occhi,
Sale poi su contenta, e 'l maritaggio
Spera, che quanno torna, alfin glie tocchi;
Fa restà Tutia a pranzo, et il formaggio
Glie fa gratta, perchè vuò fa' li gnocchi
Con butirro, con zucchero e cannella,
Poi frigger quattro pizze alla padella.


Tutto si fece, et ecco con baldoria
A tavola si mettono, sguazzanno
Con altre robbe, pe' la gran vittoria,
Ch'hebbero, in fa' pacifico un Orlanno.
PATACCA intanto va con la memoria
Solo solo, tra sè fantasticanno,
Se chi son quei signori, che promesso
Gl'hanno lo sbruffo, e ce vuò annare adesso.

Ma perchè sa, che pe' busca regali
Trattanno con perzone di rispetto
Non bigna dar a personaggi tali,
D'esser una gran piattola, sospetto,
Ma si deve aspettà, che liberali
Faccino loro stessi, quel c'han detto;
Penza de traccheggià, perchè nisciuno,
Trascurato lo stimi, nè importuno.

Va in questa casa e in quella, e assai diverzi
So' i ripieghi, che piglia; in t'un cantone
Hora sta d'un palazzo a intrattenerzi,
Sino ch'a caso affacciasi 'l patrone.
Subbito allor s'accosta, e fa vederzi,
Mentre, in fargli col piede scivolone
Una riverenziata, alza lo sguardo,
Quello lo ciama, e te glie da 'l belardo.

Poi va in un altro loco, e arriva in sala,
Chalche amico pistolfo ci ritrova,
Facendogli accoglienze con la pala "
Discorrenno gli và di chalche nova.
Esce intanto il signore; un caposcala
MEO de posta, currenno, se và a trova;
Finge venir allora, e 'l personaggio,
Che gli dia pozzolana ordina a un paggio.

Con queste, e somiglianti ritrovate,
In altre case ancor fece pulito;
Monete in quantità gli furno date,
Di che restò lui stesso assai stordito;
O che gli furno subbito contate,
O fatti ordini a i banchi, onde fornito
C'hebbe d'anna' da 'sti signori e quelli,
Grossa somma abbuscò di saltarelli.

Durò tre giorni 'sto riscotimento,
Nè mai si crese MEO, d'abbuscà tanto.
L'havè 'sto capitale senza stento
Gli parè un sogno, gli pare un incanto;
Vede che c'era già 'l provedimento,
Ancorchè lo squatron fusse altr'e tanto;
Annò da i dieci sgherri, et assai pronto
Di quel, che riscotè gli fece 'l conto.

Non si po' dir il gran contento, c'hebbe
Ogn'un de i capitani, e riconobbe
In MEO la fedeltà; saper vorrebbe
Quanno se marcia, pe' ammanni' le robbe.
Rispose lui, che presto gli direbbe
Qual sarà propio el giorno, e ben conobbe
Che c'era in tutti c'era un cor ardito,
Se d'annar a combatte hanno prorito.

Torna a casa Patacca, e perchè ha testa,
Penza del su' squatrone alla provista;
Di quello che ci va, di quel che resta,
Fa lo scannaglio, e tutto mette in lista.
Vede quant'è la spesa, e in notar questa
Manco la cede manco a un computista,
E mentre 'sta faccenna assai gli gusta,
Tutti, per appuntino, i conti aggiusta.

Fatto il calcolo dunque d'ogni cosa,
Pe' dar la prima mossa alla brigata,
Ch'era assai di partì volonterosa,
MEO voleva intimà la gran giornata;
Sta però con la mente penzierosa,
C'ha paura de fa' calche zannata,
Dubbita, che tra i sgherri ancor ci sia,
Chi pe' partire, all'ordine non stia.

Quanno vie 'l novo dì, s'è risoluto,
D'annar in giro, e di sapella netta
S'ogn'uno s'è pel viaggio proveduto,
Se non l'ha fatto, glie la dica schietta.
A chi ha bisogno darà chalche aiuto
Sottomano, acciò all'ordine si metta;
Intanto si fa sera, e va a colcarzi,
Perchè per tempo assai vorria levarzi.

Passò la notte, e comparì l'Aurora,
Che vista non fu mai così scialosa;
Porta 'l manto di luce, e il capo infiora,
Ma con tal brio, che par giusto una sposa;
Del Sol, che gl'è vicino s'innamora,
E a 'na comparza, assai più luminosa
Del solito, l'invita, e lui bizzarro
Va più di prima a sverzellà sul Carro.

Se ne rideva el Ciel, che più sereno
Era pur lui, di quel ch'esser solesse;
Arido, benchè allor fusse il terreno,
Parea ch'in compagnia rider volesse,
Di giubbilo ogni cor era ripieno,
Nè alcun sapeva, perchè allegro stesse;
Questo, di che la causa non s'intenne,
Augurio fu, di quel che poi n'avvenne.

PATACCA più d'ogn'altro si sentiva
Una certa allegrezza inusitata;
Ma solo a questo lui l'attribuiva,
Che s'era la partenza avvicinata;
Pe' sapè s'ogni sgherro s'ammanniva,
Come poi seppe, intiera la giornata
Ci consumò, senza fermarze mai;
Fatigò è ver, ma però fece assai.

L'aria alfine, accostandosi la sera,
S'imbruna un poco sol, ma non s'oscura,
(Com'el solito suo) tetra non era,
Ma bensì chiara assai, for di natura;
Stanno le stelle in ciel di buona cera
Con non più usata tremolizzatura;
Succederno, così maravigliose,
A i vinti di Settembere, 'ste cose.

Ecco, su le prim'hore della notte,
Molte chiassate all'improviso fatte,
Certe voci si sentono interrotte,
E restano le genti stupefatte.
Mò qua, mò là si sparano più botte,
Da casa allor PATACCA se la sbatte;
Della strada in tel mezzo se n'annette,
E qui, a sentì che nova c'è, si mette.

S'intrattiè, fin che passa chalched'uno,
Sol per interrogallo, e sapè 'l vero;
Assicurato vien, ma da più d'uno
Dell'arrivo improviso d'un curriero,
Che c'era una gran nova, che nisciuno
Se l'aspettava, manco pe' penziero,
Che, non solo fu VIENNA liberata,
Ma dato el pisto alla Turchesca armata.

Che haveva el Gran Vissir la fuga presa,
Che fu la gente sua messa a sbaraglio,
Che ne restò gran parte al sole stesa,
Gridanno ogn'un de' nostri: "A taglio, a taglio!".
Ch'altri via scampolorno a zampa stesa,
E di più, che con tutto il gran bagaglio
Lassò quel commannante Moccolone,
Lo stendardo real, e 'l Padiglione.

Hebbe quasi PATACCA a disperarzi,
Perchè senza di lui seguì l'attacco;
Voluto havria nel fatto ritrovarzi,
Per dare a i Turchi el sanguinoso acciacco;
Da generosa invidia, puncicarzi
Sente il core, e di più stima suo smacco,
Non havè fatto prima, al modo stesso,
Quello, ch'a far, s'era ammannito adesso.

Accortosi alla fin, ch'el su' disegno
Di dar soccorzo a Vienna, è ito a monte
E che la sorte non lo fece degno
D'annar in campo del nemico a fronte,
Muta penziero muta, e a novo impegno
Drizza le voglie, ad opera già pronte,
E nella grolia simile lo stima,
O poco differente, a quel di prima.

Già che non pò, con la su' gente sgherra
Essercità di commannante il posto,
Se passò 'l tempo de marcià alla guerra,
Fattosi già co' i Turchi el tiritosto,
Senza addropà la sanguinosa sferra,
E senza annà da 'sta Città discosto,
Spera ch'in altre cose gli rieschi,
Farzi capo de i sgherri romaneschi.

Gli zompa in testa un altro bel penziero,
Pe' sfogà contro i Turchi el su' prorito,
E quel che fa' non gli potè da vero,
De faglielo pe' burla ha stabbilito.
Non sol de i sgherri sui, ma dell'intiero
Popolo, da cui spera esse ubbidito
Vuò farzi capo, acciò ch'a su' richieste
Quello s'impieghi in tel fa' giochi e feste.

Di cartapista, di cartone, e stracci
Vuò che fatti si vedino bambocci,
C'habbian de i Turchi l'abbiti e i mostacci,
E che in straziarli più d'un dì s'incocci,
Vuò, ch'un solenne sbeffo se ne facci,
E che sieno impiccati a son de rocci,
E sotto con candele o accesi micci,
Per abbruscialli, el foco se gli appicci.

Penzò ben presto ancor ad altre cose,
E ogni penziero in pratica poi mese;
Apparì fece assai ridicolose
Tutte de i Turchi le sciaurate imprese,
D'ordinà, quel ch'in pubrico s'espose
A su' tempo, l'assunto lui se prese;
Ma in prescia mò, sin che la notte dura,
Quel poco che se po', di fa' procura.

Curre dal Vetturino su' parente,
Ch'era da casa sua poco distante;
È nello scarpinà così valente,
Che si porta laùt in t'un istante.
Si fa prestar allor subitamente
Un cavallo, ch'annava de portante:
Mentre MEO la vittoria gli racconta,
Quello l'insella, e questo su ce monta.

Se ne va a briglia sciolta, e de carriera,
De i capo-sgherri a casa; e dalla strada
Fischia, quann'è vicino, e si dispera,
Se chalch'uno al su' fischio non abbada:
Li ciama allor a nome, e in tal maniera
Bigna ch'ogn'uno ad affaccià se vada
Alla finestra, e lui che giù se trova,
Gli dà, ma in prescia in prescia, la gran nova.

Gli dice poi, ch'in quel momento stesso
Vadan facenno un po' de festicciola;
E te gli dà in succinto ordine espresso
Di quello, ch'han da fa' 'sta volta sola;
Che poi, ne i giorni che verranno appresso,
Saperà meglio assai daglie la scola
Delle feste majuscole, che spera,
E d'ordinà e de fa', più d'una sera.

Doppo a ciasch'uno in tel partir impone,
Che faccino sapè nel vicinato,
Che c'è bisogno ancor d'altre perzone,
Pe' fa' quanto da lui s'è disegnato;
Seguita 'l viaggio, e sempre più dispone
Quello, ch'in tel penzier s'è figurato,
Et in più lochi, e con gran gusto ancora,
Quel ch'ordinò, si fece allora allora.

Calò non solo in strada la plebbaglia,
Ma gente ancor venì di mezza tacca
E tutti fanno, (nè pur uno sbaglia),
Quel che penzò, quel ch'insegnò PATACCA.
Una scopa di zeppi, o almen di paglia,
S'abbusca ogn'uno, e 'l foco poi gl'attacca,
Pel manico la piglia, e la tien alta,
E con gridar: "Eh viva! e curre, e salta!

Di fiaccole a posticcia ecco si scerne
Una non mai più vista filastrocca;
Non sa se siano lampade, o lucerne
Chi nelle strade da lontano sbocca.
Di lanternoni, più che di lanterne,
Hanno cera, e la gente allora fiocca,
S'accosta, e alfin la verità si scrope,
Che parono fanali, e poi so' scope.

Una lograta, un'altra se n'appiccia,
E questa in alto subbito s'imposta
E chi non l'ha, meglio che pò l'impiccia;
Alla peggio, la crompa, e assai gli costa,
Chi ne tiè quantità, presto le spiccia,
Nel prezzo in quel bisbiglio, alza la posta;
Vale una scopa appena sei quatrini,
E mò si vende un giulio, e du' carlini.

Più ch'in ogn'altro loco, assai gustosa
Rescì 'sta festa in una strada ritta,
Longa un miglio, et in Roma assai famosa;
Pe' nominata antica el Corzo è ditta.
Nel Carnevale è piena 'sta calcosa
Di gente così nobil, come guitta,
A diluvio le maschere ce vanno,
E la Curza, li Barbari ce fanno.

Un miscuglio di fochi saltarizzi
In aria si vedeva, e come pazzi
Zompavano con varj schiribizzi,
In te le strade, l'homini e i regazzi.
Chi scope non haveva, accese i tizzi,
E tutti insieme favano schiamazzi.
Con le forcine in mano, a montarozzi,
Brusciorno paglia e fien, cucchieri e mozzi.

 
 
 

Rime del Berni 66-70

Post n°1275 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

66

[SUA VITA IN VILLA E SUA VITA IN CORTE]

Se mi vedesse la segretarìa
o la prebenda del canonicato,
com'io m'adatto a bollire un bucato
in villa che mill'anni è stata mia,

o far dell'uve grosse notomia,
cavandone il granel da ogni lato,
per farne l'ognissanti il pan ficato
un arrosto o altra leccornìa,

l'una m'accuserebbe al cardinale,
dicendo: "Guarda questo moccicone,
di cortigiano è fatto un animale";

l'altra diria mal di me al Guascone,
ch'io non porto di drieto lo straccale,
per tener come lui riputazione.

"Voi avete ragione",
rispondere' io lor, "ch'è 'l vostro resto?
Recate i libri e facciam conto presto.

La corte avuto ha in presto
sedici anni da me d'affanno e stento
et io da lei ducati quattrocento;

che ve ne son trecento,
o più, a me per cortesia donati
da duoi che soli son per me prelati,

ambeduoi registrati
nel libro del mio cuor ch'è in carta buona:
l'uno è Ridolfi e quell'altro è Verona.

Or se fussi persona
che pretendessi ch'io gli avessi a dare,
arrechi il conto, ch'io lo vo' pagare.

Voi, madonne, mi pare
che siate molto ben sopra pagate;
però di grazia non m'infracidate".



67

SONETTO DELLA MASSARA

Io ho per cameriera mia l'Ancroia,
madre di Ferraù, zia di Morgante,
arcavola maggior dell'Amostante,
balia del turco e suocera del boia.

E` la sua pelle di razza di stoia,
morbida come quella del leofante:
non credo che si trovi al mondo fante
più orrenda, più sucida e squarquoia.

Ha del labro un gheron, di sopra, manco:
una sassata glie lo portò via
quando si combatteva Castelfranco.

Pare il suo capo la cosmografia,
pien d'isolette d'azzurro e di bianco,
commesse dalla tigna di tarsìa.

Il dì de Befanìa
vo' porla per befana alla finestra,
perché qualch'un le dia d'una balestra;

ché l'è sì fiera e alpestra
che le daran nel capo d'un bolzone,
in cambio di cicogna e d'airone.

S'ella andasse carpone,
parrebbe una scrofaccia o una miccia,
ch'abbia le poppe a guisa di salciccia;

vieta, grinza e arsiccia,
secca dal fumo e tinta in verde e giallo,
con porri e schianze suvi e qualche callo.

Non li fu dato in fallo
la lingua e i denti di mirabil tempre,
perché ella ciarla e mangia sempre sempre.

convien ch'io mi distempre
a dir ch'uscisse di man di famigli;
e che la trentavecchia ora mi pigli.

Fûr de' vostri consigli,
compar, che per le man me la metteste
per una fante dal dì delle feste;

credo che lo faceste
con animo d'andarvene al vicario
et accusarme per concubinario.



68

SONETTO DELLI BRAVI

Voi che portaste già spada e pugnale,
stocco, daga, verduco e costolieri,
spadaccini, sviati, masnadieri,
sbravi, sgherri, barbon, gente bestiale,

portate or una canna o un sagginale
o qualche bacchettuzza più leggieri,
o voi portate in pugno un sparavieri:
gli Otto non voglion che si faccia male.

Fanciugli e altra gente che cantate,
non dite più: "Ve' occhio c'ha 'l bargello",
sotto pena di dieci staffilate.

Questo è partito, e dèbbesi temello,
di loro eccelse signorie prefate,
vinto per sette fave et un baccello.

Ogniuno stia in cervello,
ari diritto, adoperi del sale:
gli Otto non voglion che si faccia male.



69

IN MORTE DEL CAN DEL DUCA

Giace sepolto in questa oscura buca
un cagnaccio ribaldo e traditore;
era il Dispetto e fu chiamato Amore.
Non ebbe altro di buon: fu can del duca.



70

CAPITOLO IN LAMENTAZION D'AMORE

In fe' di Cristo, Amor, che tu hai torto,
assassinar in questo modo altrui
e volermi amazzar quand'io son morto.
Tu m'imbarcasti prima con colui,
or vorresti imbarcarmi con colei:
io vo' che venga il morbo a lei e a lui,
e presso ch'io non dissi a te e a lei;
se non perch'io non vo' che tu t'adiri,
ad ogni modo io te l'appiccherei:
sappi quel c'ho a far co' tuoi sospiri;
perch'era avezzo a rider tuttavia,
or bisogna ch'io pianga e ch'io sospiri.
Quand'io trovo la gente per la via,
ogniun mi guarda per trassecolato
e dice ch'io sto male e ch'io vo via.
Io me ne torno a casa disperato,
e poi ch'io m'ho veduto nello specchio,
conosco ben ch'io son transfigurato:
parmi esser fatto brutto, magro e vecchio;
e gran mercé, ch'io non mangio più nulla
e non chiudo né occhio né orecchio.
Quando ogniun si solazza e si trastulla,
io attendo a trar guai a centinaia,
e fàmegli tirar una fanciulla.
Guarda se la fortuna vòl la baia:
la m'ha lasciato star insin ad ora,
or vòl ch'i' m'inamori in mia vecchiaia.
Io non volevo inamorarmi ancora,
ché, poi ch'i' m'era inamorato un tratto,
mi pareva un bel che esserne fòra.
Ad ogni modo, Amor, tu hai del matto,
e credi a me, se tu non fussi cieco,
io te farei veder ciò che m'hai fatto.
Or se costei l'ha finalmente meco,
questa rinegataccia della Mea,
di grazia, fa ancor ch'io l'abbia seco;
poi che tu hai disposto ch'io la bea,
se la mi fugge, ch'io le sia nemico,
e sia turco io, s'ella è ancor giudea;
altrimenti, Cupido, io te lo dico
in presenza di questi testimoni,
pensa ch'io t'abbia ad esser poco amico;
e se tu mi percuoti ne gli ugnioni,
rinego Dio s'io non ti do la stretta
e s'io non ti fornisco a mostaccioni.
Prega pur Cristo ch'io non mi vi metta:
tu non me n'arai fatto però sei,
ch'io ti farò parer una civetta.
Non potendo valermi con costei,
per vendicarmi de' miei dispiaceri,
farotti quello ch'arei fatto a lei.
E non varràti ad esser balestrieri,
o scusarti co l'esser giovanetto:
allor faròtel io più volontieri.
Non creder ch'io ti vogli aver rispetto;
io te lo dico: se nulla t'aviene,
non dir dapoi ch'io non te l'abbia detto.
non dir dapoi ch'io non te l'abbia detto.
Cupido, se tu sei un uom da bene
e servi altrui quando tu se' richiesto,
abbi compassion delle mie pene;
non guardar perch'i' t'abbia detto questo:
la troppa stizza me l'ha fatto dire;
un'altra volta io sarò più onesto.
A dirti il vero, io non vorrei morire:
ogn'altra cosa si pò sopportare,
questa non so come la s'abbia ad ire.
Se costei mi lasciassi manicare,
io li farei di drieto un manichino
e mostrarei di non me ne curare;
ma chi non mangia pane e non bee vino
io ho sentito dir che se ne more,
e quasi quasi ch'io me lo 'ndovino.
Però ti vo' pregar, o dio d'amore:
s'io ho pur a morir per man di dame,
tira anco a lei un verretton nel core;
fa' ch'ella mora d'altro che di fame.

 
 
 

Il Trecentonovelle 21-25

Post n°1274 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA XXI

Basso della Penna nell'estremo della morte lascia con nuova forma ogni anno alle mosche un paniere di pere mézze, e la ragione, che ne rende, perché lo fa.

Ora verrò a quella novella delle pere mézze, ed è l'ultima piacevolezza del Basso, però che fu mentre che moría. Costui venendo a morte, ed essendo di state, e la mortalità sí grande che la moglie non s'accostava al marito, e 'l figliuolo fuggía dal padre, e 'l fratello dal fratello, però che quella pestilenza, come sa chi l'ha veduto, s'appiccava forte, volle fare testamento; e veggendosi da tutti i suoi abbandonato, fece scrivere al notaio che lasciava ch'e' suoi figliuoli ed eredi dovessino ogni anno il dí di San Jacopo di luglio dare un paniere di tenuta d'uno staio di pere mézze alle mosche, in certo luogo per lui deputato. E dicendo il notaio: "Basso, tu motteggi sempremai"; disse Basso:
- Scrivete come io dico; però che in questa mia malattia io non ho aúto né amico né parente che non mi abbia abbandonato, altro che le mosche. E però essendo a loro tanto tenuto, non crederrei che Dio avesse misericordia di me, se io non ne rendesse loro merito. E perché voi siate certo che io non motteggio, e dico da dovero, scrivete che se questo non si facesse ogni anno, io lascio diredati li miei figliuoli, e che il mio pervenga alla tale religione.
Finalmente al notaio convenne cosí scrivere per questa volta; e cosí fu discreto il Basso a questo piccolo animaluzzo.
Non istante molto, e venendosi nelli stremi, che poco avea di conoscimento, andò a lui una sua vicina, come tutte fanno, la quale avea nome Donna Buona, e disse:
- Basso, Dio ti facci sano; io sono la tua vicina monna Buona.
E quelli con gran fatica guata costei, e disse che appena si potea intendere:
- Oggimai, perché io muoia, me ne vo contento, ché ottanta anni che io sono vissuto mai non ne trovai alcuna buona.
Della qual parola niuno era d'attorno che le risa potesse tenere, e in queste risa poco stante morí.
Della cui morte io scrittore, e molti altri che erano per lo mondo, ne portorono dolore, però che egli era uno elemento a chi in Ferrara capitava. E non fu grande discrezione la sua verso le mosche? Sanza che fu una grande reprensione a tutta sua famiglia; ché sono assai che abbandonano in cosí fatti casi quelli che doverrebbono mettere mille morti per la loro vita, e tale è il nostro amore che non che li figliuoli mettessino la vita per li loro padri, ma gran parte desiderano la morte loro, per essere piú liberi.


NOVELLA  XXII

Due frati minori passano dove nella Marca è morto uno; l'uno predica sopra il corpo per forma che tale avea voglia di piagnere che fece ridere.

Non fu sí canonizzata la fama del Basso di piacevolezza dopo la sua morte, quanto fu canonizzata la fama d'uno ricco contadino falsamente in santità in questa novella. E' non è gran tempo che nella Marca d'Ancona morí nella villa un ricco contadino, che avea nome Giovanni; ed essendo, innanzi che si sotterrasse, tutti gli suo' parenti e uomeni e donne nel pianto e ne' dolori, volendoli fare onore, non essendo ivi vicina alcuna regola di frati, per avventura passorono due frati minori, li quali da quelli che erano diputati a fare la spesa furono pregati che alcuna predicazione facessono a commendazione del morto.
Li frati, nuovi sí del paese, e sí d'avere conosciuto il morto, cominciorono tra loro a sorridere, e tiratisi da parte disse l'uno all'altro:
- Vuo' tu predicar tu, o vuogli che io predichi io?
Disse l'altro:
- Di' pur tu.
Ed egli seguí:
- Se io prédico, io voglio che tu mi prometta di non ridere.
Rispose di farlo.
Dato l'ordine e l'ora, e saputo il nome del morto, il valentre frate andò, come è d'usanza, dove era il morto e tutta l'altra brigata; e salito alquanto in alto, propose:
- Que, qui . Per que  s'intende Janni, per qui  s'intende Joanni dello Barbaianni; non ci dico cavelle, perché vola di notte. Signori e donne, io sento che questo Joanni è stato bon peccatore, e quando ha possuto fuggire li disagi, volentiera ce l'ha fatto; ed è ben vivuto secondo il mondo; hacci preso gran vantaggio nel servire altrui, ed ègli molto spiaciuto l'essere diservito: largo perdonatore è stato a ciascuno che bene gli abbia fatto, e in odio ha avuto chi gli abbia fatto male. Con gran diletto ha guardato li santi dí comandati; e secondo ho sentito, gli dí da lavorare s'è molto guardato da' mali e dalle rie cose. Quando li suoi vicini hanno avuto bisogno, fuggendo le cose disutili, sempre gli ha serviti: è stato digiunatore quando ha aúto mal da mangiare: è vissuto casto, quando costato li fosse. Oratore m'è detto che è stato assai: ha detto molti paternostri, andandosi al letto, e l'Ave Maria almeno, quando sonava nel popul suo. Spesso ne' dí fuor di settimana facea elemosine. Venendo alla conclusione, li costumi e le opere sue sono state tali e sí fatte che sono pochi mondani che non le commendassono. E chi mi dicesse: "O frate, credi tu che costui sia in Paradiso?" Non credo. "Credi tu che sia in Purgatorio?" Dio il volesse. "Credi tu che sia in Inferno?" Dio nel guardi. E però pigliate conforto, e lasciate stare li lamenti, e sperate di lui quel bene che si dee sperare, pregando Dio che ci dia grazia a noi, che rimagnamo vivi, stare lungo tempo con li vivi, e li morti co' maglianni, da' quali ci guardi qui vivit et regnat in secula seculorum.  Fate la vostra confessione ecc.
La voce andò tra quella gente grossa e lacrimosa costui avere nobilmente predicato, e che elli avea affermato il morto per la sua santa vita essere salito in sommo cielo.
E' frati se n'andorono con un buono desinare e con denari in borsa, ridendo di questo per tutto il loro cammino.
Forse fu piú vera e sustanzievole predica questa di questo fraticello che non sono quelle de' gran teologhi, che metteranno con le loro parole li ricchi usurai in Paradiso, e sapranno che mentono per la gola; e sia chi vuole, che se un ricco è morto, abbia fatto tutti e' mali che mai furno, niuna differenzia faranno dal predicare di lui al predicare di San Francesco; però che piagentano per empiersi di quello delli ignoranti che vivono.


NOVELLA XXIII

Messer Niccolò Cancellieri per esser tenuto cortese fa convitare molti cittadini, e innanzi che vegna il dí del convito è assalito dall'avarizia, e fagli svitare.

Questo inganno che questo frate fece con coverte parole a fare tenere un uomo santo, che non v'era presso, non volle usare in sé messer Niccolò Cancellieri, cavaliere dabbene, salvo che era avarissimo. Il quale volendo coprire in sé questo vizio, nell'ultimo si penteo, e nol fece.
Questo cavaliero fu da Pistoia, uomo sperto e cortigiano, stato e usato quasi il piú della sua vita con la reina Giovanna di Puglia, e con li signori e baroni di suo tempo e di quello paese. Essendo tornato costui a Pistoia, e facendo là sua dimora, fu stimolato e pinto dalli suoi prossimani, dicendo:
- Deh, messer Niccolò, voi sete un cavaliero d'assai, se non che l'avarizia vi guasta; fate un bello corredo, e mostrate a' Pistolesi non essere avaro come sete tenuto.
Tanto gli dissono che costui fece invitare bene otto dí innanzi tutti li notabili uomeni di Pistoia a mangiare una domenica mattina seco. E cosí fatto, quando giugne al quinto dí, che s'appressava al tempo di comprare le vivande, una notte fra sé medesimo pensò e fondossi pur su l'avarizia, però che il dí vegnente dovea cominciare a sciogliere la borsa, dicendo in sé medesimo: "Questo corredo mi costerà cento fiorini, o piú; e se io ne facesse cinquanta come questo, serebbe uno: non fia che sempre io non sia tenuto avaro. E per tanto, poiché 'l nome dell'avarizia non si dee spegnere, io non sono acconcio per spenderci denaio".
E cosí prese per partito che la mattina, levato che fu, chiamò quel medesimo famiglio che per sua parte avea invitato li cittadini, e disse:
- Tu hai la scritta con che tu invitasti que' cittadini a desinare meco; recatela per mano, e come tu gl'invitasti, va', e svitali.
Dice il famiglio:
- Doh, signore mio, guardate quello che voi fate, e pensate che onore ve ne seguirà.
Dice il cavaliere:
- Bene sta; onore con danno al diavol l'accomanno; va', e fa' quello che io ti dico; e se alcuno ti domanda la cagione, rispondi che io mi sono pensato ch'io perderei la spesa.
E cosí andò il fante, e cosí fece, laonde molti dí se ne disse in Pistoia, facendo scherne al detto messer Niccolò. Il quale, essendogli manifesto, dicea:
- Io voglio innanzi che costoro dicano male di me a corpo vòto, che a corpo satollo del mio.
Io non so se questa fu maggiore cattività che quella che averebbono fatto gli svitati, quando avessono avuto li corpi pieni, che forse con grandissime beffe di lui averebbono patito quelle vivande, dicendo:
- Ben potrà spendere, e fare conviti, ché cosa sforzata pare e sempre avaro fia tenuto.
El cavaliere si rimase nella sua misertà e fuori della pena del convito, che non li fu piccola. Ebbe questo difetto, il quale nel mondo sopra li piú regna per sí fatta forma ch'egli è forse cagione delli maggiori mali che si commettono nel cerchio della terra.

NOVELLA XXIV

Messer Dolcibene al Sepolcro, perché ha dato a uno Judeo, è preso e messo in un loro tempio, là dove nella feccia sua fa bruttare i Judei.

Se nella precedente novella il cavaliere non volle ingannare altrui e mostrare sé essere quello che non era, cosí in questa messer Dolcibene mostrò e fece credere certamente a certi Judei il falso per lo vero. Come addietro è narrato, messer Dolcibene andò al Sepolcro; e come egli era di nuova condizione, e vago di cose nuove, venendo a parole con uno Judeo, perché dicea contro a Cristo, schernendo la nostra fede; dalle quali parole vennono a tanto che messer Dolcibene diede al Judeo di molte pugna; onde fu preso e menato a gran furore, dove fu serrato in un tempio de' Judei.
Venendo in su la mezza notte, essendo tristo e solo cosí incarcerato, gli venne volontà d'andare per lo bisogno del corpo, e non potendo altro luogo piú comodo avere, nel mezzo del tempio scaricò la soma. La mattina di buon'ora vennono certi Judei, e apersono il tempio, dove nel mezzo dello spazzo trovorono questa bruttura. Come la viddono, cominciano a gridare:
- Mora, mora lo cristiano maladetto, che ha bruttato lo tempio dello Dio nostro.
Messer Dolcibene, essendo da costoro assalito e preso, avendo gran paura, disse:
- Io non fui io; ascoltatemi, se vi piace: stanotte in su la mezza notte io senti' gran romore in questo luogo; e guardando che fosse, e io vidi lo Dio vostro e lo Dio nostro che s'aveano preso insieme e dàvansi quanto piú poteano. Nella fine lo Dio nostro cacciò sotto il vostro, e tanto gli diede che su questo smalto fece quello che voi vedete.
Udendo li Judei dire questo a messer Dolcibene, dando alle parole quella tanta fede che aveano, tutti a una corsono a quella feccia, e con le mani pigliandola, tutti i loro visi s'impiastrarono, dicendo:
- Ecco le reliquie del Dio nostro.
E chi piú si studiava di mettersene sul viso, a quello parea essere piú beato; e lasciando messer Dolcibene, n'andorono molti contenti, con li visi cosí lordi: e ancora procurando per lui, però che la tal cosa con gran verità avea loro revelata, il feciono lasciare.
Molto fu piú contento messer Dolcibene ch'e' Judei; però che fu molto novella da esaltare un suo pari e da guadagnare di molti doni, raccontandola a' signori e ad altri. E io credo ch'ella fosse molto accetta a Dio, e che in quello viaggio non facesse cosa tanto meritoria che quelli increduli dolorosi s'imbruttassino in quelle reliquie che allora meritavano.


NOVELLA XXV

Messer Dolcibene per sentenzia del Capitano di Forlí castra con nuovo ordine uno prete, e poi vende li testicoli lire ventiquattro di bolognini.


La seguente novella di messer Dolcibene, della quale voglio ora trattare, fu da dovero, dove la passata fu una beffa.
Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi era signor di Forlí, una volta fra l'altre v'arrivò messer Dolcibene: e volendo il detto signore per esecuzione fare castrare un prete, e non trovandosi alcuno che 'l sapesse fare, il detto messer Dolcibene disse di farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altro, e cosí fu fatto. E messer Dolcibene fece apparecchiare una botte, e sfondata dall'uno de' lati, la mandò in su la piazza facendo là menare il prete, ed elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo.
Giunti là e l'uno e l'altro, e gran parte di Forlí tratta a vedere, messer Dolcibene avendo fatto trarre le strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni, e li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. Fatto questo, ed elli entrò di sotto nella botte, e col rasoio tagliata la pelle, gli tirò fuora e misseli nel borsellino, e poi gli si mise in uno carniere, però che s'avvisò, come malizioso, di guadagnare, come fece. Il prete doloroso, levato di su la botte, ne fu menato cosí capponato a una stia, e là alquanti dí si fece curare. Il capitano di queste cose tutto godea.
Avvenne poi alquanti dí che uno cugino del prete venne a messer Dolcibene in segreto, pregandolo caramente che quelli granelli gli dovesse dare, ed elli farebbe sí che serebbe contento; però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. Messer Dolcibene, aspettando questo mercatante, gli avea già misalti e asciutti, e quanto gli dicesse, e come gli mercatasse, egli n'ebbe lire ventiquattro di bolognini. Fatto questo, con grandissima festa disse al capitano che cosí fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l capitano ne fece non si potrebbe dire. E in fine, per diletto e non per avarizia, della quale fu nimico, disse che volea questi denari e che elli apparteneano a lui. Messer Dolcibene si poteo assai scuotere, ché convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bolognini, dando la metade al detto capitano.
E cosí rimase la cosa che 'l prete se n'andò senza granelli dell'uno de' quali ebbe il capitano lire dodici, e messer Dolcibene altrettanti dell'altro.
Questa fu una bella e nuova mercanzia: cosí delle simili si facessono spesso, ché ne serebbe molto di meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altri, acciò che, ricomperandosi, avessono l'uno e l'altro danno, e poi gli si portassono in uno borsellino, che almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono ogni dí le croci sopra le mogli altrui, e che tenessono le femmine alla bandita, chiamandole chi amiche, chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d'avere ripieni li luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di cosí dissoluta lussuria.

 
 
 

La Secchia Rapita 03-2

Post n°1273 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        40
Zaccaria Tosabecchi allor reggea
di Carpi il freno, uom vecchio e podagroso
a cui l'età il vigor scemato avea
ma non lo spirto altero e bellicoso.
Una figlia al morir gli succedea
che 'l conte di Solera avea per sposo,
zerbin de la contrada e falimbello,
di Manfredi cugin, detto Leonello.

        41
Venne al vecchio desío d'esser quel giorno
in campo, e armò pedoni e cavalieri,
e una lettiga fe' senza soggiorno
che portavano a man quattro staffieri:
laminata di ferro era d'intorno,
e si potea assettar su due destrieri;
una tal poscia forte a maraviglia
ne fece il Contestabil di Castiglia;

        42
e in Borgogna l'usò contra i moschetti
del bellicoso re de' fieri Galli.
Zaccaria venne con ducento eletti,
parte asini col fren, parte cavalli,
ma i pedoni a tardar furon costretti
ché 'l conte, che dovea tutti guidalli,
lasciò il suocero andar per la piú corta
e restò con la sposa a far la torta.

        43
Zaccaria, che si vide abbandonato
dal genero, partí subito i fanti,
e quattrocento al cavalier Brusato
e a Guido Coccapan dienne altrettanti.
Il Cavalier un elefante alato
ha nell'insegna: e Guido ha due giganti
che giocano a le noci: il vecchio ha un gatto
che insidia un topo e stassi quatto quatto.

        44
Quelli poi di Formigine e Fiorano,
dove nascono fichi in copia grande,
sono trecento, e Uberto Petrezzano
gli guida, e ne l'insegna un orco spande.
Baiamonte con lui di Livizzano
quasi a un tempo arrivò con le sue bande,
ducento fur con partigiane in spalla;
e la bandiera avean turchina e gialla.

        45
Appresso d'Uguccion di Castelvetro
l'insegna apparve ch'era un cardo bianco.
Trecento balestrier le tenean dietro
ch'avean bolzoni e mazzafrustri al fianco.
Da Gorzan, Maranello e da Ceretro
de' famosi Grisolfi il buon Lanfranco
tratti avea cinquecento in una schiera,
e portava un frullon ne la bandiera;

        46
onde la Crusca poi gli mosse lite
che fu rimessa al tribunal romano.
Con l'impresa d'un pero e d'una vite
Stefano e Ghin de' conti di Fogliano
avean con l'armi foglianese unite
quelle di Montezibio e di Varano,
ch'eran ducento ottanta martorelli,
unti e bisunti che parean porcelli.

        47
Ma dove lascio di Sassol la gente
che suol de l'uve far nettare a Giove,
là dove è il dí piú bello e piú lucente,
là dove il ciel tutte le grazie piove?
quella terra d'amor, di gloria ardente,
madre di ciò ch'è piú pregiato altrove,
mandò cento cavalli, e intorno a mille
fanti raccolti da sue amene ville.

        48
Roldano de la Rosa è il duca loro
ch'un tempo guerreggiando in Palestina
contra 'l campo d'Egitto e contra 'l Moro
fe' del sangue pagan strage e ruina;
sparsa di rose e di fiammelle d'oro
avea l'insegna azzurra e purpurina;
e dietro a lui venía poco lontano
Folco Cesio signor di Pompeiano;

        49
Pompeiano ove suol l'aura amorosa
struggere il giel di que' nevosi monti;
Gommola e Palaveggio a la famosa
donna del seggio lor chinan le fronti.
Sotto l'insegna avea d'una spinosa
Folco raccolti de' piú arditi e pronti
trecento, che su zoccoli ferrati
se ne venían di chiaverine armati.

        50
E quel ch'era mirabile a vedere,
cinquanta donne lor con gli archi in mano
avezze al bosco a saettar le fiere,
e a colpir da vicino e da lontano,
succinte in gonna e faretrate arciere,
calavano con lor dal monte al piano;
e la chioma bizarra e ad arte incolta
ondeggiando su 'l tergo iva disciolta.

        51
Bruno di Cervarola avea il domíno
di quella terra e del vicin paese
di Moran, del Pigneto e di Saltino;
uom vago di litigi e di contese.
Con ducento suoi sgherri entrò in cammino
subito che de l'armi il suono intese;
e perch'era un cervel fatto a capriccio,
portava per impresa un pagliariccio.

        52
Di Bianca Pagliarola innamorato
fatte avea già per lei prove diverse;
e a lei che gli arse il cor duro e gelato
sempre di sue vittorie il premio offerse:
or additando il suo pensier celato
un pagliariccio in campo bianco aperse,
ch'in mezzo un telo avea fatto di maglia
e mostrava nel cor la bianca paglia.

        53
Appresso gli venía Mombarranzone
col suo signor Ranier, che di Pregnano
reggea la nuova gente e 'l gonfalone
che mandato gli avea Castellarano;
cinquanta con le natiche in arcione,
e quattrocento gían battendo il piano
con le scarpe sdrucite e senza suola;
la loro insegna è un bufalo che vola.

        54
Brandola, Ligurciano e Moncereto
conduceva Scardin Capodibue,
ch'un diavolo stizzato in un canneto
dipinto avea ne le bandiere sue.
Col cimiero di lauro e mirto e aneto
il signor di Pazzan dietro gli fue,
che pretendea gran vena in poesia,
né il meschin s'accorgea ch'era pazzia.

        55
Alessio era il suo nome, e 'n sesta rima
composto avea l'amor di Drusiana ;
nel resto fu baron di molta stima,
e seco avea Farneda e Montagnana.
Questa gente contata con la prima,
non era da giostrare a la quintana:
eran da cinquecento ferraguti
di rampiconi armati e pali acuti.

        56
Di Veriga e Bison l'insegna al vento,
ch'era in campo azzurrino un sanguinaccio,
spiega Pancin Grassetti, e quattrocento
fanti conduce a suon di campanaccio:
ma piú di questi ne mandaron cento
Montombraro, Festato e 'l Gainaccio,
con l'impresa d'un asino su un pero,
e Artimedor Masetti è il condottiero.

        57
Taddeo Sertorio, di Castel d'Aiano
conte e fratel di Monaca la bella,
conducea Montetortore e Misano,
dove fu la gran fuga, e la Rosella,
con archi e spiedi porcherecci in mano,
spiegando in campo bianco una padella;
trecento fur che quelle vie ronchiose
con le piante premean dure e callose.

        58
Seguiva di Monforte e di Montese,
Montespecchio e Trentin poscia l'insegna:
Gualtier figliuol di Paganel Cortese
l'avea dipinta d'una porca pregna;
fur quattrocento, e parte al tergo appese
accette avean da far nel bosco legna,
parte forconi in spalla, e parte mazze
e pelli d'orsi in cambio di corazze.

        59
Il conte di Miceno era un signore
fratel del Potta a Modana venuto,
dove invaghí sí ognun del suo valore
che a viva forza poi fu ritenuto:
non avea la milizia uom di piú core,
né piú bravo di lui né piú temuto:
corseggiò un tempo il mar, poscia fu duce
in Francia: e nominato era Voluce.

        60
Gli donò la città per ritenerlo
Miceno, Monfestin, Salto e Trignano,
e Ranocchio e Lavacchio e Montemerlo,
Sassomolato, Riva e Disenzano:
un san Giorgio parea proprio a vederlo,
armato a piè con una picca in mano;
con ottocento fanti al campo venne
con armi bianche e un gran cimier di penne.

        61
Panfilo Sassi e Niccolò Adelardi
co' Frignanesi lor seguiro appresso,
di concerto spiegando i due stendardi
di Sestola e Fanano a un tempo stesso;
l'uno ha tre monti in aria e 'l motto tardi ,
l'altro nel mar dipinto un arcipresso,
con l'uno è Sassorosso, Olina e Acquaro;
Roccascaglia con l'altro e Castellaro.

        62
Eran mille fra tutti. E dopo loro
venía una gente indomita e silvestra;
San Pellegrino, e giú fino a Pianoro
tutto il girar di quella parte alpestra
dove sparge il Dragone arena d'oro
a sinistra, e 'l Panaro ha il fonte a destra,
Redonelato e Pelago e la Pieve
e Sant'Andrea che padre è de la neve;

        63
Fiumalbo e Bucasol terre del vento,
Magrignan, Montecreto e Cestellino;
esser potean da mille e quatrocento
gl'inculti abitator de l'Apennino:
Apennin ch'alza sí la fronte e 'l mento
a vagheggiare il ciel quindi vicino,
che le selve del crin nevose e folte
servon di scopa a le stellate volte.

        64
Tutti a piedi venían con gli stivali,
armati di balestre a martinelle
che facevano colpi aspri e mortali
e passavano i giacchi e le rotelle:
pelliccioni di lupi e di cinghiali
eran le vesti lor pompose e belle;
spadacce al fianco aveano e stocchi antichi,
e cappelline in testa e pappafichi.

        65
Ma chi fu il duce de l'alpina schiera?
Fu Ramberto Balugola il feroce
che portava un fanciul ne la bandiera
che faceva a un Giudeo baciar la croce.
Con armatura rugginosa e nera
e piume in testa di color di noce
venía superbo a passi lunghi e tardi,
con una scure in collo e in man tre dardi.

        66
Da Ronchi lo seguía poco lontano
Morovico signor di quella terra:
Palagano e Moccogno e Castrignano
guidava, e quei di Santa Giulia in guerra.
Da quattrocento con spuntoni in mano
co' piedi lor calcavano la terra
dietro a l'insegna d'una barca a vela,
e cantando venían la fa-li-le-la .

        67
Un giovinetto di superbo core
che di sua fresca etade in su 'l mattino
non avea ancor segnato il primo fiore
del primo pel, nomato Valentino,
avea dipinto addormentato Amore,
e Medola reggea, Montefiorino,
Mursian, Rubbian, Massa e Povello,
Vedriola e de l'Oche il gran castello.

        68
Di giavellotti armati e gianettoni,
di panciere e di targhe eran costoro,
con martingale e certi lor saioni
che chiamavano i sassi a concistoro.
Sotto le scarpe avean tanti tacconi,
che parea il campo d'Agramante moro
che in zoccoli marciasse a lume spento;
e non erano piú che cinquecento.

        69
Poiché la fanteria de la montagna
fu veduta passar di schiera in schiera,
il Potta fece anch'egli a la campagna
uscir la gente sua ch'armata s'era.
E già quella di Parma e d'Alemagna
e di Cremona giunta era la sera
da la parte del Po, per la fatica
che da Reggio temea, città nemica.

        70
In Garfagnana intanto avea intimato
a' cinque capitan de le bandiere
che non uscisser pria di quello stato
che vi giungesse il Re con le sue schiere:
però ch'anch'ei da Lucca avea mandato
a fare in fretta a la città sapere
ch'ei venía quindi, e domandava gente
da potersi condur sicuramente.

        71
E 'l giorno che seguí, posto in cammino
per la diritta via di Gallicano,
tra le coste passò de l'Apennino
e discese al Padul giú dal Frignano;
era con lui Vetidio Carandino
con la bandiera di Camporeggiano,
dove egli avea dipinta una civetta
che portava nel becco una scopetta.

        72
Quella di Castelnovo, ov'era un Santo
con le man giunte lavorato a scacchi,
seguía per retroguardia indietro alquanto
sotto la guida di Simon Bertacchi.
Quivi l'arredo regio è tutto quanto,
quivi veníeno i servitori stracchi
e quei che 'l vin di Lucca avea arrestati,
per some in su le some addormentati.

        73
Ma le due di Soraggio e di Sillano
da Otton Campora l'una era guidata,
l'altra da Jaconia di Ponzio Urbano,
che porta una fascina incoronata.
La stella mattutina il Camporano
con una cuffia rossa ha figurata:
E queste quattro avean sei volte mille
fanti raccolti da sessanta ville.

        74
Ma trecento cavalli avea la quinta
guidata da Pandolfo Bellincino,
ove in campo dorato era dipinta
la figura gentil d'un babuino.
I cavalieri avean la spada cinta,
attaccato a l'arcione un balestrino,
lo scudo in braccio e in mano una zagaglia;
e gíano a destra man de la battaglia.

        75
Però che quindi anch'essi i Fiorentini
armatisi in favor de' Bolognesi
costeggiando venían cosí vicini
che poteano i men cauti esser offesi.
Il Re seimila fanti ghibellini,
sardi, pisani, liguri e lucchesi
e due mila cavalli avea con lui,
svevi e tedeschi e parteggiani sui.

        76
Intanto il Potta le sue genti avea
divise in terzo, e 'l buon Manfredi avanti
con due mila cavalli in assemblea
se 'n giva, e dopo lui veníano i fanti.
Eran dodicimila e gli reggea
Gherardo, che ne gli atti e ne' sembianti
parea un volpon che conducesse i figli
a dar l'assalto a un branco di conigli.

        77
La terza schiera fu di poche genti,
ma piena d'ogni machina murale
e di que' piú terribili instrumenti
che gli antichi trovâr per far del male.
L'architetto maggior de' ferramenti
Pasquin Ferrari, gran zucca da sale,
la conducea con mille balestrieri
e cento carri e ventidue ingegneri.

        78
Non si fermò ne l'arrivare al ponte
il Potta, ma passò di là da l'onda,
e dietro a lui tutte le schiere conte
si condussero in fretta a l'altra sponda:
quivi secento a piè con l'armi pronte
trovar, da la fruttifera e feconda
Nonantola venuti, e dal vicino
contado di Stuffione e Ravarino.

        79
Gli conducean due cavalier novelli
con armi e piume di color di gigli,
Beltrando e Gherardino, i due gemelli
che de la bella Molza erano figli.
Era l'impresa lor due fegatelli
con la veste a quartier bianchi e vermigli,
le tramezze di lauro e le frontiere:
e queste ultime fur di tante schiere.

Fine del Canto terzo

 
 
 

Il Meo Patacca 07-1

Post n°1272 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO SETTIMO

ARGOMENTO

Va PATACCA da Nuccia, e glie rinova
L'antico amor con lei pacificato.
Va poi da più signori, e modo trova
Ch'el belardo promesso gli sia dato.
Di notte intanto arriva la gran nova,
Che l'assedio da VIENNA era levato;
Ai difenzori ha invidia, e si consola
Con dar principio a un po' di festicciola.

MEO, che non resta mai senza imbarazzi,
S'alza dal letto prima assai del sole;
Sa ch'in giro ha d'annà per più palazzi
A buscà pozzolana più che pole:
Pe' poi cerimonià co' i signorazzi,
Studia a trovà romanziche parole,
Acciò le pozza dir massiccie e tonne
A chi scioglie la sorte e da 'l mammonne.

Poi vestito che s'è, vuò annar a rennere
Al Jaccodimme l'abbiti che prese,
Gli pare uno sproposito lo spennere,
Quanno c'è modo d'avanzà le spese;
Sa che l'ebreo po' 'l nolito pretennere,
Sino ch'a lui la robba non si rese;
Acciò non curra per calch'altro giorno,
Si vuò leva 'sto taccolo da torno.

Ciama il suo quondam Paggio, che il fagotto
Gli porti dreto, pe' inzinenta al Ghetto;
Quello viè lesto, e se lo mette sotto
Al piccol braccio, e se lo porta stretto.
S'arriva dal giudìo: MEO gli fa motto,
Gli da il vestito e il nolo, e al rabbacchietto
Dona doppoi certa moneta spiccia,
Lui salticchianno a casa se l'alliccia.

Fatto c'ha questo MEO vedè vorria
Se le monete rampazzà potesse,
Ch'il dì innanzi con tanta cortesia
La nobiltà romana gl'impromesse;
Gli pare poi, che troppo presto sia,
Chalch'uno a male non vorria l'havesse;
Penza, ripenza, e che sia meglio crede,
L'annà quanno è più tardi a fasse vede.

Stima 'l tempo a proposito fratanto
D'esser da Nuccia, a daglie 'sto contento
Di parlaglie, perchè rasciucchi 'l pianto,
E più non faccia el solito lamento:
È ver, che glie dispiace tanto quanto,
D'have' a senti chalch'altro fiottamento,
Ma vuò mostrarzi ad osservaglie pronto,
Quel c'ha impromesso, pe' non faglie affronto.

Alla casa di lei ben presto arriva,
Qui c'era Tutia che scopanno stava
Giù nell'entrone, ch'alla strada usciva,
E alla porta ogni poco s'affacciava.
Era intenta a osservà se MEO veniva
Per esser questo quel che gl'importava,
Anzi ch'a posta lì s'intratteneva,
Se già da Nuccia il gergo havuto haveva.

S'accorge alfine e consolata resta,
Ch'alia sfilata MEO viè puntuale:
Tra sè subbito fece una gran festa,
E se ne curze allor verzo le scale:
"Signora Nuccia mia! Stateme lesta,
- Disse, - che vien l'amico". "Manco male! -
Rispose lei. - Parlate adesso voi,
Che come già v'ho detto, io verrò poi".

Fatta, c'ha st'imbasciata calda calda,
A scopà torna, et a gnent'altro abbada
La ciospa, che per essere ghinalda,
Manco rivolta più l'occi alla strada.
Nella faccenna sua, mentre sta salda,
Finge che pe' la testa altro glie vada;
Ma però, entrato MEO, gli fa ben presto
Con braccia alzate, d'allegrezza un gesto.

Così all'orecchio, subbito gli parla:
"Signor PATACCA! Prima, che giù venga
La gnora Nuccia, e habbiate ad ascoltarla,
Contentativi ch'io qui v'intrattenga.
V'ho da dire una cosa, che il lasciarla,
Se importa assai, mi par che non convenga".
MEO glie rispose allora: "Io son contento,
Con libertà parlate, che ve sento".

Lo tira allor da parte, e poi gli dice
Seguitanno a parlargli sotto voce:
"Pietà Signor PATACCA! Haver disdice,
In un petto gentile, un cor feroce.
Troppo deventarà Nuccia infelice,
Se voi sete crudel; pena più atroce
La poverina è di provar capace,
Se voi con lei non ritornate in pace.

Se sapessivo, quanto s'è sbattuta,
Per vostr'amor, quanto s'è tapinata,
Ve ne sarìa compassion venuta,
Faceva cose poi da disperata.
Benchè sia lei 'na giovane saputa,
Quasi fora de gargani era annata.
Se ieri non l'havessivo sentita,
Tutta già for di sè sarebbe uscita.

Per la gran rabbia non trovava loco,
Perchè glie si scioglie, stracciò 'l zinale,
Sentì da un aco puncicarsi un poco,
Mentre cuciva, e mozzicò el ditale.
Drento una pila, che bulliva al foco
La cenere mette scambio del sale;
Buttò cert'acqua in strada, e giù con quella,
Scionìta lassò annà la catinella.

Un'altra poi ne fece assai più brutta,
(Ve la dico, ma solo in confidenza):
Specchiandose si vidde un pò distrutta
Per dolor, che più a lei non date udienza;
Stacca lo specchio, e in terra poi lo butta
Con tutta rabbia e tutta violenza;
Sù ci sputa, e co' i piedi lo calpesta,
Sino ch'affatto sminuzzato resta.

Considerate, se il cervel bulliva;
Ma quel, ch'è peggio poi, strazi faceva
Della perzona sua, lei non dormiva,
E nè manco magnava, nè beveva.
Voi signor MEO, se la volete viva,
Fate che torni, come già soleva,
A starvi in grazia, e se 'l contrario trova,
Allor sì, ch'al suo mal gnente più giova.

Stava fora di sè pel gran dolore,
D'havervi fatta quella schiaranzana,
Allor quando, accecata dal furore,
Un'attione vi fece, da villana.
Io v'assicuro, da donna d'onore,
Che la meschina deventò sì strana,
Perchè la messe in una brutta bega
Con li su' inganni quella vecchia strega.

Calfurnia, voglio dir, (vi parlo schietta).
Con riggiri costei fece la botta;
Lei fu una quaglia, in far di voi vendetta,
E Nuccia fu, nel credeglie, merlotta.
Che contro lei dicessivo, gl'appetta,
Quella sorte d'ingiurie, ch'assai scotta
Alle donne, e più a lei, che ci sta tutta
Su 'ste cose, ciovè ch'è vecchia e brutta.

Ma a fè', glie costò cara 'sta buscia,
Perchè Nuccia la fece da smargiassa;
Scuperta, c'hebbe 'sta forfantaria
In furia entrò, più d'una satanassa.
A trovà se ne va la falsa spia,
La scapiglia, la sgrugna, e la sganassa;
Che la sfiatasse, io cresi di sicuro,
Quando la strinze con la testa al muro".

"Ben glie sta, - disse MEO. - Peggio doveva
Faglie Nuccia, e se più la sciupinava,
Quello che meritò, lei glie faceva,
E me dava più gusto, allor me dava.
Ma però Nuccia accorgese poteva,
Che quella griscia te l'intrappolava;
Quanno 'ste ciarle contro me sentiva
In credè non doveva esser curriva".

Ma di quel ch'è passato, io già mi scordo.
Che più a 'ste cose per sottil non guardo,
Et a un core di femmina balordo,
Perchè geloso, io voglio havè riguardo.
Venga pur Nuccia, e subbito m'accordo,
A farce pace, e non sarò busciardo,
Se ritorno a imprometterglie d'amalla,
Pur che non fiotti allor, c'ho da lassalla".

"Glie basta, - dice Tutia, - e glie n'avanza,
Che gli facciate un poco d'accoglienza,
E circa poi la vostra lontananza,
Glie converrà per forza havè pacienza;
Se glie date in partì qualche speranza,
Glie sarà meno dura la partenza,
E so, che 'sto contento glie darete,
Ch'un figlio d'oro, signor MEO, voi sete.

Ma più non dico, e ve la chiamo in fretta.
Signora Nuccia! presto giù venite,
Che c'è il signor Patacca, che v'aspetta,
Ch'è qua venuto, a disfinì la lite.
Spicciativi, (non sente 'sta fraschetta!).
Si può sapè, se quando la finite?"
"Eccomi", dice lei; nè s'intrattenne,
Ma subbito sollecita giù venne.

In tel mentre, che scegne pe' le scale,
Visto appena PATACCA, lo saluta,
Ma però in modo, e con modestia tale,
Che non pare più già Nuccia sacciuta.
Si tiè le mani poi, sott'al zinale,
Guarda, ma savia, in terra, e irresoluta
Sta senza dir parola in sua difesa,
Su l'ultimo scalino, tesa tesa.

Tutia, in così vedella, si tapina,
E non vorria che tanto gnegna stasse,
A farglie zenni, sempre più s'aina;
Gusto haverìa, che presto si spicciasse.
Sta timiduccia allor la poverina,
Par ch'a parlà non sappia arrisicasse;
Quasi ce prova, ma non glie viè fatta,
E si fa roscia come una scarlatta.

"Animo!" glie fa MEO, che te glie renne
Prima el saluto co' 'no sfarzo granne,
E poi glie dice: "Ecco PATACCA venne
Di vostrodine pronto alle domanne.
D'osservà la parola gli convenne,
Perchè non è un Ciafèo, nè un Tataianne",
Co' i fatti, alle promesse corrisponne,
Massime quanno ha da servì le donne".

Nuccia fa core, e a dir la cosa schietta
Così incominza: "Signor MEO, perdono
Vi chiede una tradita giovenetta,
Ch'errò, per creder troppo, e quella io sono.
Nel dirvi ingiurie, troppo fui scorretta,
Me stessa a ogni gastigo sottopono;
Tutto soffrir prometto, pur ch'io viva,
Benchè lungi da voi, di voi non priva".

"Zitta! Non più, - rispose MEO, - v'ho preso,
E se ben'altro voi non mi dicete,
Ve fo' sapè ve fo', che tutto ho inteso,
Quel che di dirmi in tel penziero havete.
Cognosco, che ve scotta havemme offeso:
Lo so che messa su voi state sete,
E so di più, che del già fatto errore,
Ve ne pentite, e ve ne crepa el core.

Lo so quante a Calfurnia glie ne deste;
So, che la riducessivo assai male,
Havennola acconciata pe' le feste
Con un rifibbio al mancamento uguale.
Orsù, ve dò 'l perdon che mi chiedeste,
E sol perchè, ben sa 'sto fusto, al quale
Con le bone parole il cor si lega,
Punir chi brava, e favorir chi prega.

Tornata sete, e vostra grolia sia,
E vantatevi pur, d'havemme trovo
Così de bona gana, in grazia mia,
E l'amor, che vi tolzi, vi rinovo.
Ma tra noi questo patto fermo stia,
Che quanno inverzo Vienna i passi movo,
Non stiate a dir con i piantusci intanto,
Che io so' un disamorato, e che ve pianto".

"Vero non sia, - risponne lei, - ch'ardisca
Dir cosa, ch'el sentirla vi rincresca,
Né, che per quanto 'sto mio cor patisca,
Una parola dalla bocca m'esca.
Lo vuole ogni raggion, ch'io consentisca,
Ch'andiate ad assalta gente Turchesca,
Acciò, s'al naso vi verrà la mosca,
La bravura di voi, là si conosca ".

"Mi date in tell'umor, - qui MEO ripiglia, -
Così parla, chi è donna di giudizio,
Che quelle cose mai non disconsiglia,
Ch'a lascialle, son poi di pregiudizio.
L'annare a far in guerra un parapiglia,
A mette i Turchi cani in precipizio,
È un'opera da bravo, e non capisce,
Cos'è grolia e valor, chi l'impedisce.

Voi gnora Nuccia mi direte: - È vero,
Ch'annà alla guerra a rifilà quei pioppi,
È un'impresa de garbo, un bel penziero,
Quanno però, là non ci siano intoppi.
Ma sempre c'è un pericolo assai fiero,
Ch'uno ce sballi, o ch'alla men si stroppi,
Io vi risponno, ch'è più bell'attione
Morì bravo, che vivere un poltrone.

Ma non più. Famo pace, io già m'azzitto,
E resto delle scuse sodisfatto;
Sempre ve manterrò quello, ch'ho ditto,
Perchè così da galant'homo io tratto;
Ma però da quì innanzi, arate ritto,
Ch'io più non penzo a quel, c'havete fatto,
Nè date udienza a chiacchiare. E 'l mi' affetto
Sarà sempre per voi lampante e schietto.

Hor dunque a rivedecce. Io me la coglio,
Che di molti negozii ho da sbrigamme,
Ve voglio poi tornà a vedè ve voglio,
Quanno haverò fornito de spicciamme;
Certo, ch'in poco tempo me la sbroglio,
Che tanto saperò rimuscinamme,
Tanto annerò giranno, ch'assai presto,
Spero le cose mie, mettere a sesto".

 
 
 

Rime del Berni 62-65

Post n°1271 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

62

Sonetto delle brache

"Chi avesse o sapesse chi tenesse
un paio di calze di messer Andrea,
arcivescovo nostro, ch'egli avea
mandate a risprangar, perch'eron fesse,

che quando e' s'ebbe Pisa se le messe
et ab antico eran una giornea:
chi l'avesse trovate non le bea,
ch'al sagrestan vorremmo le rendesse,

e gli sarà usata discrezione,
di quella la qual usa con ogni uomo,
perch'egli è liberal gentil signore".

Così gridò il predicator del duomo;
e 'ntanto il paggio si trova in pregione,
c'ha perduto le brache a monsignore.



63

[ALLA CORTE DEL DUCA A PISA]

Non mandate sonetti, ma prugnoli,
cacasangue vi venga a tutti quanti;
qualche buon pesce per questi dì santi
e poi capi di latte negli orciuoli.

Se non altro, de' talli di vivuoli
sappiam che siate spasimati amanti
e per amor vivete in doglia e 'n pianti
e fate versi come lusignuoli.

Ma noi del sospirare e del lamento
non ci pasciam né ne pigliam diletto,
però che l'uno è acqua e l'altro è vento.

Poi, quando vogliam leggere un sonetto,
il Petrarca e 'l Burchiel n'han più di cento,
che ragionan d'amore e di dispetto.

Concludendo, in effetto
che noi farem la vita alla divisa,
se noi stiamo a Firenze e voi a Pisa.



64

SONETTO DELLA CASA DEL BERNIA

La casa che Melampo in profezia
disse ad Ificlo già che cascarebbe,
onde quei buoi da lui per merito ebbe
d'essere stato a quattro tarli spia,

con questa casa, che non è ancor mia
né forse anco a mio tempo esser potrebbe,
in esser marcia gli occhi perderebbe:
messer Bartolomeo, venite via.

La prima cosa in capo arete i palchi,
non fabricati già da legnaiuoli,
ma più presto da sarti o marescalchi;

le scale saran peggio ch'a piuoli;
non arem troppi stagni o oricalchi,
ma quantità di piattelli et orciuoli,

con gufi et assiuoli
dipinti dentro e la Nencia e 'l Vallera;
e poi la masserizia del Codera,

come dir la stadera,
un trespolo scoppiato et un paniere,
un arcolaio, un fiasco, un lucerniere.

Mi par così vedere
farvi, come giungete, un ceffo strano
e darla a dietro come fé Iordano,

borbottando pian piano
ch'io mi mettessi con voi la giornea,
come già fece Evandro con Enea;

e trar via l'Odissea
e le grece e l'ebraice scritture,
considerando queste cose scure.

Messer, venite pure:
se non si studierà in greco o ebreo,
si studierà, vi prometto, in caldeo;

et avremo un corteo
di mosche intorno e senz'altra campana
la notte e 'l dì sonaremo a mattana.

Ma sarebbe marchiana,
ciò è vo' dir sarebbe forte bello,
se conduceste con voi l'Ardinghello.

Faremo ad un piattello,
voi e mia madre et io, le fante e' fanti;
poi staremo in un letto tutti quanti,

e levarénci santi,
non che pudichi, e non ci sarà furia,
sendo tutti ricette da lussuria.



65

CAPITOLO A FRA BASTIAN DAL PIOMBO

Padre, a me più che gli altri reverendo
che son reverendissimi chiamati,
e la lor reverenzia io non l'intendo;
padre, reputazion di quanti frati
ha oggi il mondo e quanti n'ebbe mai,
fin a que' goffi de gli Inghiesuati;
che fate voi da poi che vi lasciai
con quel di chi noi siam tanto divoti,
che non è donna e me ne inamorai?
Io dico Michel Agnol Buonarroti,
che quand'i' 'l veggio mi vien fantasia
d'ardergli incenso ed attaccargli voti;
e credo che sarebbe opra più pia
che farsi bigia o bianca una giornea,
quand'un guarisse d'una malattia.
Costui cred'io che sia la propria idea
della scultura e dell'architettura,
come della giustizia mona Astrea,
e chi volesse fare una figura
che le rapresentasse ambe due bene,
credo che faria lui per forza pura.
Poi voi sapete quanto egli è da bene,
com'ha giudicio, ingegno e discrezione,
come conosce il vero, il bello e 'l bene.
Ho visto qualche sua composizione:
son ignorante, e pur direi d'avélle
lette tutte nel mezzo di Platone;
sì ch'egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle:
tacete unquanco, pallide viole
e liquidi cristalli e fiere snelle:
e' dice cose e voi dite parole.
Così, moderni voi scarpellatori
et anche antichi, andate tutti al sole;
e da voi, padre reverendo, in fuori
chiunque vòle il mestier vostro fare,
venda più presto alle donne e colori.
Voi solo appresso a lui potete stare,
e non senza ragion, sì ben v'appaia
amicizia individua e singulare.
Bisognerebbe aver quella caldaia,
dove il socero suo Medea rifrisse
per cavarlo de man della vecchiaia,
o fosse viva la donna di Ulisse,
per farvi tutti doi ringiovenire
e viver più che già Titon non visse.
Ad ogni modo è disonesto a dire
che voi, che fate e legni e' sassi vivi
abbiate poi come asini a morire:
basta che vivon le quercie e gli ulivi
e' corbi e le cornacchie e' cervi e' cani
e mille animalacci più cattivi.
Ma questi son ragionamenti vani,
però lasciàngli andar, ché non si dica
che noi siam mamalucchi o luterani.
Pregovi, padre, non vi sia fatica
raccomandarmi a Michel Agnol mio
e la memoria sua tenermi amica.
Se vi par, anche dite al papa ch'io
son qui e l'amo e osservo e adoro,
come padrone e vicario di Dio;
et un tratto ch'andiate in concistoro,
che vi sian congregati e cardinali,
dite "a Dio" da mia parte a tre di loro.
Per discrezion voi intenderete quali,
non vo' che mi diciate: "Tu mi secchi";
poi le son cerimonie generali.
Direte a monsignor de' Carnesecchi
ch'io non gli ho invidia de quelle sue scritte,
né de color che gli tolgon li orecchi;
ho ben martel di quelle zucche fritte,
che mangiammo con lui l'anno passato:
quelle mi stanno ancor ne gli occhi fitte!
Fatemi, padre, ancor raccomandato
al virtuoso Molza gaglioffaccio,
che m'ha senza ragion dimenticato;
senza lui parmi d'esser senza un braccio:
ogni dì qualche lettera gli scrivo
e perché l'è plebea da poi la straccio.
Del suo signor e mio, ch'io non servivo,
or servo e servirò presso e lontano,
ditegli che mi tenga in grazia vivo.
Voi lavorate poco e state sano:
non vi paia ritrar bello ogni faccia;
a Dio, caro mio padre fra Bastiano,
a rivederci ad Ostia a prima laccia.

 
 
 

La Secchia Rapita 03-1

Post n°1270 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO TERZO

ARGOMENTO

Venere accende a l'armi il Re de' Sardi.
Ragunano lor forze i Gemignani:
s'uniscono co 'l Potta i tre stendardi,
Tedeschi, Cremonesi e Parmigiani.
Passa il Re con piú popoli gagliardi
l'alpi, e discende a guerreggiar ne' piani:
e 'l Potta il campo contra a quei dal Sipa
del Panaro tragitta a l'altra ripa.


        1
Era tranquillo il mar, sereno il cielo,
taceva l'onda e riposava il vento;
e ingemmata di fior, sparsa di gelo,
l'alba sorgea dal liquido elemento,
e squarciava a la notte il fosco velo
stellato di celeste e vivo argento:
quando la Dea con amorose larve
ad Enzio re nel fin del sonno apparve.

        2
E 'n lui mirando: - O generoso figlio
di Federico, onor de l'armi, disse,
l'italiche città vanno a scompiglio,
tornansi a incrudelir l'antiche risse:
Modana sovra l'altre è in gran periglio,
che fida sempre al Sacro Imperio visse:
e tu qui dormi in mezzo 'l mar nascoso?
Déstati e prendi l'armi, uom neghittoso.

        3
Va' in aiuto de' tuoi, ché t'apparecchia
nuova fortuna il ciel non preveduta:
tu salverai quella famosa Secchia
che con tanto valor fia combattuta,
che giornata campal nuova né vecchia
non sarà stata mai la piú temuta:
Modana vincerà, ma con fatica,
e tu entrerai ne la città nemica.

        4
Quivi d'una donzella acceso il core
ti fia, la piú gentil di questa etade
che sí t'infiammerà d'occulto ardore
che ti farà languir di sua beltade;
al fin godrai del suo felice amore,
e 'l nobil seme tuo quella cittade
reggerà poscia, e riputato fia
la gloria e lo splendor di Lombardia. -

        5
Qui sparve il sonno e s'involò repente
da le luci del Re la Dea d'amore:
ei mirò le finestre, e in oriente
biancheggiar vide il mattutino albore;
chiese tosto i vestiti, e impaziente
si lanciò de le piume; e tratta fuore
la spada ch'avea dietro al capezzale,
menò un colpo e ferí su l'orinale.

        6
Quel fe' tre balzi, e in cento pezzi rotto
cadde con la coperta cremesina;
con lunga riga fuor sparsa di botto
per la stanza del Re corse l'orina.
Fe' in tanto un paggio de la guardia motto
ch'era giunto un corrier da la marina
col segno de l'Imperio e la patente,
onde fu fatto entrar subitamente.

        7
Scrivea da Spira Federico al figlio
che subito mandasse armi in difesa
di Modana, che posta era in periglio
per nuova guerra in quelle parti accesa.
Letta la carta il Re prese consiglio
d'andar egli in persona a quell'impresa,
e tosto armò d'amici e di vassalli
sovra 'l lito pisan fanti e cavalli.

        8
A Modana fra tanto era arrivato
l'aviso, che già 'l conte di Nebrona
con seicento cavalli avea passato
l'Alpi, e s'unía con l'armi di Cremona.
Questi da Federico era mandato,
non potendo venir egli in persona:
gran baron de l'Imperio e lancia rotta,
e nemico mortal de l'acqua cotta.

        9
Da l'altra parte era venuta nuova
ch'in armi si mettea tutta Romagna;
onde deliberâr d'uscir di cova
i Modanesi armati a la campagna,
e far di sé qualche onorata prova
col soccorso d'Italia e d'Alemagna.
Lasciâr le feste, e tutte le lor posse
furon da varie parti a un tempo mosse,

        10
con ordin che dovesse il giorno sesto
al prato de' Grassoni esser ridotta
da i capi lor tutta la gente a sesto,
e l'insegna aspettar quivi del Potta.
Musa, tu che scrivesti in un digesto
que' nomi eccelsi e le lor prove allotta,
dammene or copia acciò che nel mio canto
i pronepoti lor n'odano il vanto.

        11
Il Prato de' Grassoni a destra mano
dal ponte del Panaro era distante
quanto un arco potria tirar lontano,
e quivi ognun dovea fermar le piante.
Chi dal monte il dí sesto, e chi dal piano
dispiegò le bandiere in un istante;
e 'l primo ch'apparisse a la campagna
fu il conte de la Rocca di Culagna.

        12
Quest'era un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone,
onde i fanciulli dietro di lontano
gli soleano gridar: - Viva Martano. -

        13
Avea ducento scrocchi in una schiera,
mangiati da la fame e pidocchiosi;
ma egli dicea ch'eran duo mila e ch'era
una falange d'uomini famosi:
dipinto avea un pavon ne la bandiera
con ricami di seta e d'or pomposi:
l'armatura d'argento e molto adorna;
e in testa un gran cimier di piume e corna.

        14
Fu Irneo di Montecuccoli il secondo,
figliolo del signor di Montalbano,
giovane disdegnoso e furibondo,
e di lingua e di cor pronto e di mano;
a carte e a dadi avría giucato il mondo,
e bestemmiava Dio com'un marrano:
buon compagno nel resto e senza pecche,
distruggitor de le castagne secche.

        15
Settecento soldati ei conducea
da le terre del padre e de' parenti;
ne lo stendardo un Mongibello avea
che vomitava al ciel faville ardenti.
L'onor de la famiglia di Rodea,
Attolino, il seguía con le sue genti,
a cui l'Imperator de' regni greci
cinta la spada avea con altri dieci.

        16
Da Rodea, da Magreda e Castelvecchio
conduceva costui trecento fanti
con sí leggiadro e nobile apparecchio
che parean tutti cavalieri erranti:
su 'l cimier per impresa avea uno specchio
cinto di piume ignote e stravaganti.
E dopo lui fu vista una bandiera
su gli argini venir de la riviera.

        17
Le ville de la Motta e del Cavezzo,
Camposanto, Solara e Malcantone
quivi raccolto avean la feccia e 'l lezzo
d'ogn'omicida rio, d'ogni ladrone;
quel clima par da fiera stella avezzo
a morire o di forca o di prigione:
fur cinquecento, usati al caldo, al gielo,
a l'inculta foresta, al nudo cielo.

        18
Da Camillo del Forno eran guidati
uom temerario e sprezzator di morte,
di semplice vermiglio avea segnati
il suo stendardo e l'armatura forte;
non portava cimier né fregi aurati,
né divisa o color d'alcuna sorte,
fuor che vermiglio; e sovra la sua gente
con nera e folta barba era eminente.

        19
La gente che solcar soleva l'onda
e or solca il letto del gran fiume estinto,
e quella dove cade e si profonda
il Panaro diviso e 'n dietro spinto,
lasciâr le barche e i remi in su la sponda;
e mosse da guerrier nobile instinto,
quivi s'appresentar con lance e spiedi,
cento a cavallo e novecento a piedi.

        20
Per capitani avean due schiericati
l'arciprete Guidoni e 'l frate Bravi;
che dianzi per ribelli ambo cacciati
avean con una man d'uomini pravi
la Stellata e 'l Bonden poscia occupati,
e 'l transito al Final chiuso a le navi.
Or rimessi venían con queste schiere,
in abito di guerra, in armi nere.

        21
Alderan Cimicelli e Grazio Monte
seguían dopo costoro a mano a mano;
la Staggia l'uno e la Verdeta ha pronte,
quei di Roncaglia ha l'altro e di Panzano:
il destrier che portò Bellorofonte
già in alto, Grazio, e un argano Alderano
ne le bandiere lor spiegano al vento:
e i soldati fra tutti eran secento.

        22
San Felice, Midolla e Camurana,
secento a piedi e ottanta erano in sella;
Nerazio Bianchi e Tomasin Fontana
gli conduceano a la tenzon novella:
Tomasin per insegna avea una rana
armata con la spada e la rotella;
Nerazio, che reggea quei da cavallo,
avea una mezza luna in campo giallo.

        23
S'armò dopo costor quella riviera
che da Bomporto a la Bastía si stende;
povera gente, ma superba e altera,
che 'n terra e 'n acqua a provecchiarsi attende.
Fur quattrocento; e ne la lor bandiera,
che di vermiglio e d'or tutta risplende,
ritratto avea un gonfietto da pallone
Bagarotto, figliol di Rarabone.

        24
Il sagace Claretto era con esso,
ch'acceso di Dogna Anna di Granata
giunt'era tutt'afflitto il giorno stesso
che un genovese gli l'avea rubata.
Gli ne fu dato a Parma indizio espresso
che l'avrebbe a Bomporto ritrovata;
ma quivi giunto ne perdé i vestigi,
e bestemmiò sessanta frati bigi.

        25
Entrò ne l'osteria per rinfrescarsi
e ritrovò che Bagarotto a sorte
raccogliea quivi i suoi soldati sparsi,
e d'armi intorno cinte eran le porte.
Corsero l'uno e l'altro ad abbracciarsi,
ch'erano stati amici a la gran Corte,
e l'uno e l'altro le speranze grame
avean lasciate a i morti de la fame.

        26
Narrò Claretto del suo nuovo ardore
la lunga scena e l'intricati effetti;
con quanti scherni in varie forme Amore
già tutti i suoi rivali avea negletti;
e com'or ei perdea per piú dolore
la donna sua nel colmo de' diletti.
Sorrise Bagarotto e disse: - Frate,
tu sciorini ogni dí nuove scappate.

        27
Vieni meco a la guerra, e lascia andare
cotesti amori tuoi da scioperato:
la fama non s'acquista a vagheggiare
un viso di bertuccia immascherato. -
Claretto non istette a replicare,
ché gli venne desio d'esser soldato;
prese una picca e si scordò di bere:
ma ricordiamci noi de l'altre schiere.

        28
Cittanova spiegâr, Fredo e Cognento,
Piramo e Tisbe morti a piè del moro:
esser potean costor da quattrocento,
e 'l furiero Manzol fu il duca loro,
giovane d'alto e nobile talento,
a cui cedean l'Agilità e 'l Decoro
nel ballar la nizzarda e la canaria
e nel tagliar le capriole in aria.

        29
Quasi a un tempo arrivar da un altro lato
Villavara, Albareto e Navicelli;
eran trecento e conduceagli al prato
il fiero zoppo d'Ugolin Novelli:
dipinto ha ne l'insegna un ciel turbato
che piove sovra un campo di baccelli.
Indi venían tra lor correndo a gara
quei del Corleto e quei di Bazzovara:

        30
Corleto emulator di Grevalcore
ch'Augusto nominò dal cor giocondo
quel dí che fu d'Antonio vincitore,
onde poscia con lui divise il mondo;
e Bazzovara or campo di sudore
che fu d'armi e d'amor campo fecondo,
là dove il Labadin persona accorta
fe' il beverone a la sua vacca morta.

        31
Eran guidati dal dottor Masello,
ch'avea lasciato i libri a la ventura,
e s'era armato che parea un Marcello,
con la giubba a l'antica e l'armatura:
portava per impresa un ravanello
con la sementa d'or grande e matura;
e dietro a lui venían quei di Rubiera
e di Marzaglia armati in una schiera.

        32
Bertoldo Grillenzon li conducea,
gran giucator di spada e lottatore;
ne la bandiera un materasso avea
che sdrucito spargea la lana fuore.
Questa schiera de l'altra esser potea
se non uguale, almen poco maggiore;
giugneano a punto al numero di mille
gli armati abitator di quattro ville.

        33
Galvan Castaldi e Franceschin Murano
l'insegne di Porcile e del Montale
e le di Cadiana e di Mugnano
uniro a l'Osteria de le due scale.
Trecento con le ronche avea Galvano;
l'altro di picche avea numero eguale:
l'impresa di Galvano è una stadera;
Franceschino ha una gazza bianca e nera.

        34
Ecco Alberto Boschetti in sella armato,
conte di San Cesario e di Bazzano;
ch'avendo poco pria quindi cacciato
il presidio nemico e 'l capitano,
s'era fatto signor di quello stato
col valor de la fronte e de la mano;
ed or di questi e d'altri suoi vassalli
per forza armati avea cento cavalli.

        35
Pomposo viene e ne lo scudo porta
a onor di san Lorenzo una gradella:
la lancia in mano e al fianco avea la storta
tutta la schiera sua leggiadra e bella.
Una volpe che fa la gatta morta
spiegano Collegara e Corticella
che Bernardo Calori avea condotte,
trecento o poco piú tagliaricotte.

        36
Due figli avea Rangon d'alto valore,
Gherardo il forte e Giacopin l'astuto;
Gherardo che d'etade era il maggiore
e 'n piú sublime grado era venuto,
de le genti paterne avea l'onore
e 'l governo al fratel quivi ceduto;
ond'egli se 'n venía portando altero
una conchiglia d'or sovra il cimiero.

        37
Spilimberto, Vignola e Savignano,
Castelnovo e Campiglio in assemblea,
Ceiano e Guia, Montorsolo e Marano,
con quei di Malatigna armati avea.
Cento a caval con le zagaglie in mano
e mille fanti arcieri ei conducea,
ch'avean con agli e porri e cipollette
avvelenati i ferri a le saette.

        37
Mentre questi giugnean dal destro lato,
già dal sinistro in campo era venuto
di Prendiparte Pichi il figlio armato
col fior de la Mirandola in aiuto:
fu Galeotto il giovane nomato
per tutta Italia allor noto e temuto;
e cento cavalier carchi di maglia
sotto l'impresa avea d'una tenaglia.

        39
Campogaiano poscia e San Martino
mandaron cinquecento a la pedestre,
ch'aveano per insegna un saracino
e armati eran di ronche e di balestre:
Mauro Ruberti ne tenea il domíno
sovrastante maggior de le minestre;
vo' dir che de le bocche avea la taglia
e dovea compartir la vittovaglia.

 
 
 

Il Meo Patacca 06-3

Post n°1269 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Ma in questo mentre succedette un caso,
(A dir la verità) ridicoloso,
Ch'a i sgherri stessi dette assai nel naso,
Se fu per loro, alquanto vergognoso.
Nel maneggià della bandiera, a caso,
Pel moto, ch'era troppo impetuoso,
Si straccia un di quei fogli, ch'era stato
Su l'Insegne Ortolane appiccicato.

De posta. (Oh che disgrazia!) comparisce
Una mezza cocuzza, ma di quelle,
Che sono e tonne e bianche, et assai lisce,
Piegate a foggia d'arco, e longarelle;
Restan però incollate l'altre strisce,
E solo questa dette in ciampanelle,
E causa fu, che la gentaglia sciocca,
Facesse una risata a piena bocca.

Pe' vergogna allor MEO fece la faccia
Del colore d'un gammaro arrostito;
Ma però in testa subbito si caccia
Un penzier dal su' ingegno suggerito.
Quella carta dipinta, che si straccia,
Che l'artifizio fatto ha discropito,
- Dice a più d'uno, mentre glie s'accosta, -
Che fu caso penzato, e fatto a posta.

Hebbe in sì gran disgrazia una fortuna,
E lesto lui, perch'è perzona accorta
Se ne serve, e inventar cosa nisciuna
Potria miglior, della raggion, che porta.
Venne giusto a formà 'na mezza luna
Quella mezza cocuzza in giù ritorta,
E fu del caso assai mirabbil opra,
Ch'una fionna dipinta ci stia sopra.

Piglia PATACCA 'sto ripiego, e dice:
"Bigna si faccia ogn'un di voi capace,
Che 'sta nova comparza non disdice;
Io far la feci, perchè assai me piace.
Ecco un augurio, ch'è per noi felice:
Mentre la copertura si disface,
La luna s'incocuzza, e più non luce,
E a sta' sotto alla fionna si riduce.

Questo vuò dir, che quanno là saremo,
Dove li Turchi mò piantati stanno,
A fè, ch'allora a fè li cuccaremo
Con le saioccolate, che haveranno.
Molto bene vede noi gli faremo,
Che saperanno in campo saperanno,
Pe' daglie presto l'ultima sfortuna,
Le nostre fionne lapidà la luna.

Piace molto 'sta cosa a chi l'intese;
Che fusse vera, ogn'un si persuase,
E una pastocchia tal, perchè si crese,
Da per tutto in un subbito si spase.
Meglio ciasch'uno a riguardà si mese
Quella cocuzza, e stupido rimase;
De i sgherri romaneschi, a queste cose,
Le grolie comparirno più famose.

Alle carrozze allora MEO chiamorno
I cavalieri e principi romani;
Lui ci annò volentieri, e s'accostorno
Due pur delli sui dieci capitani.
Fumo Cencio e Favaccia, e si sbracciorno
Tutti tre, pe' li tanti basciamani
Di qua e di là facenno riverenza,
E li Gnori gli fecero accoglienza.

Voller questi sapène el giorno eletto
A marcià via da Roma, e gli fu ditto
Da MEO PATACCA, che gli parlò schietto
Che provedè prima voleva el vitto.
L'intrattenerzi non è mi' difetto -
Aggiunse doppo, - et io ne resto afflitto;
S'io tutto havessi, annar vorria de trotto,
Ma chi imbarcà si vuò senza biscotto?.

Ogni speranza mia l'ho già riposta
In Lor Signori, e fo' gran capitale
Di calche aiuto, c'haverò di costa:
E qui consiste el punto principale.
In viaggio così longo, e che assai costa,
Senza soccorzo, se staria pur male;
Però la sprendidezza ho in tel penziero
Delli Gnori di Roma, e in questa io spero".

Allor molti di loro garbatissimi
Stimorno 'sto discorzo assai lodevole,
Anzi, che furno in giudicà prontissimi
Quest'opera d'aiuto meritevole.
Alcuni de i più ricchi, e sprendidissimi,
Somma offerirno, più che convenevole
D'oro, con dire a MEO, che s'impegnavano,
E il dì seguente, a casa l'aspettavano.

PATACCA a 'ste proferte già sentiva,
Ch'in drento al petto, el cor se gli slargava,
In sè stesso, pel gusto, non capiva,
E in far inchini si scapocollava.
Quello accettò, ch'a lui si proferiva,
E tutti intanto tutti ringraziava,
Ben osservanno chi gl'imprometteva,
E in memoria benissimo l'haveva.

Voi tra l'altri, o SIGNOR! Voi ch'assistete
Col vostro gran poter al canto mio,
Ch'i mi' verzi, e me stesso proteggete,
E perciò con raggion v'ho capat'io,
Voi di tutti offeriste più monete,
E con un tratto nobbile e natìo,
MEO co' i du' sgherri a voi venir faceste,
E con grave tenor così diceste.

"Più che di voi, d'Anime Grandi è degna
"L'altera impresa, che tentar volete;
"Ma se desìo di gloria oggi v'impegna
"In sì nobil periglio, irne dovete.
"Da un Eroico Valor, non già si sdegna
"Un vil petto agguerrir. Privi non sete
"Della speme, d'haver con merto industre
"In oscuri natali il nome illustre.

"Chi le glorie non ha degli avi suoi,
"Che un povero destin fè al mondo ignoti,
"Ben può, con imitar gl'incliti eroi,
"Plausi acquistar, ch'a i posteri sian noti.
"Se l'altrui merto non ridonda in voi,
"Proprie vantar deve ciasch'un le doti;
"Che di lodi alto grido, anch'è concesso
"A chi li preggi suoi deve a sè stesso.

"Manca talor ne i doni suoi la sorte,
"Ma ardito ingegno può supplir coll'arte,
"Che ad onta di fortuna, anima forte,
"Ciò che quella altrui dona, a sè comparte.
"Ardue seguir della virtù le scorte
"Non si niega a chi ha cor; ite e gran parte
"Dell'altrui glorie a voi sperar conviene,
"S'al desìo la fortezza egual diviene".

Così mio Gran Signor! sò, che parlassivo,
Et ancor sò, ch'in confusion mettessivo
Il povero PATACCA, e l'obbrigassivo
A risponne al discorzo, che facessivo.
Pe' le belle parole, che capassivo,
Pe' le monete, che gl'impromettessivo,
Quanno, che giusto di parlà finissivo,
Così toscaneggia voi lo sentissivo.

"Poscia che m'onorò vostr'Eccellenza
Di tante grazie, sol per mè confonnere.
Vorria d'un Pastor Fido la loquenza,
Per più meglio poter a Lei risponnere.
Altro non ho da daglie in ricompenza,
(La poverezza mia non so rasconnere),
Che la vita, e inzinenta ch'in mè resta,
Sempre per Lei ci metterò cotesta.

Quinci poi fò mie scuse, et il perdono
Gli chiedo, padronissimo Signore,
S'ho saputo ordina poco di bono
Alli soldati miei per fargli onore.
Pratichi cotestoro alfin non sono,
Io poi di comandà non so' 'l tenore;
E compatite da Esso Lei si sperono
Le poche cose, che costì si ferono".

Così ce fece MEO, ma con gran stento,
Del bel parlatorello, e del saputo,
E si mostrò con tutti arcicontento
Di questo, che trovò sì grosso aiuto;
Pe' poi fornì fa festa, el complimento
Volze rifà d'un general saluto;
Voltato ai sgherri, e dato il segno, a un tratto
Il novo sparo a un tempo sol fu fatto.

Allora si, che si sentì gran chiasso
Del popolo, che tutto era commosso;
Con li "Evviva!" se fece un gran fragasso,
E strepitava ogn'uno, a più non posso!
Chi su l'arbori stava, zompò abbasso,
E in tel calà, cascò più d'uno addosso
A chi sotto, o vicino, s'era messo,
E si fecer più buglie a un tempo stesso.

A poco a poco allor, la gente sfratta,
E se ne va via scarpinanno in frotta:
E tempo è già, ch'ogn'uno se la sbatta,
Perchè l'aria oramai quasi s'annotta.
Prima che tra carrozze si combatta,
E da queste i calessi habbian la rotta,
Perchè in salvo ciascun presto si metta,
In tel fuggì, quanto più po', sgammetta.

Trucchian quelle pur via, tutto s'assesta;
Si spiccia il campo, e si fa piazza rasa,
E già ogni capitan marcia alla testa
Del su' squatrone, e se ne torna a casa.
Solo l'Alfier con MEO PATACCA resta;
Tutia poi, che ci fa la ficcanasa,
Che con Nuccia, in calesse è lì rimasta,
Quanno po', azzenna a MEO, non quanto basta.

Lui ben s'accorge, che de quanno in quanno,
Tutia, saluti e smorfie va facenno,
Ma finge ch'altre cose stia guardanno
Coll'alfiero e col paggio discorrenno".
Intanto stava Nuccia singhiozzanno,
A quattro a quattro lagrime spargenno,
Ch'esser ben sa, d'astuta donna i pianti,
Dolce veleno de i currivi amanti.

Ce fava, è vero, MEO dell'homo serio
Senza havè manco un fine immagginario
Nelle zurle d'amor; ma refrigerio
Nell'armi haveva, e questo era el su' svario.
Pur di Nuccia, osservato el piagnisterio,
Prova in tel core affetto assai contrario.
Gli pare, che sia cosa da non farla,
Da zotico partire, e lì lassarla.

S'accosta, e dice con serena faccia:
"'Sto piagnere cos'è?, Signora Nuccia!"
Ma lei non parla, e lo scuffin si caccia
Su l'occi, e così fa' la modestuccia.
Tutia risponne, e dice: "Poveraccia
Di schiattacori fiera scaramuccia
Prova, e da questa, giusto nella gola,
Quanno vuò uscì si strozza la parola.

Vorria potervi dir, che fu innocente
Quando fece quell'atto stravagante,
Nel distaccarvi come impertinente
Da casa sua, nè più volervi amante.
Ve gli dipinze per un inzolente
Calfurnia, e gl'appettò che ingiurie tante
Voi gli diceste, e a quella vecchia pazza
Dette fede 'sta povera ragazza".

Seguita Nuccia a piagnere, e non fiata,
Ma fa la gatta morta, e benchè queta
Parla con i sospiri, e se ne sfiata
D'havè da MEO risposta almen discreta.
Allor lui dice: "Ho già mezz'annasata
La cosa, come annò: Nuccia t'acqueta,
Che, come ho ben la verità saputa,
Mi passerà la collera, c'ho avuta.

Domani, a casa a ritrovà te vengo,
Perchè 'st'imbroglio, ch'è tra noi, si strichi.
Pe' giovane onorata io non ti tengo
Se come passò el caso non me dichi.
Io t'imprometto, e a fè te lo mantengo,
Ch'allora ad esser tornaremo amichi,
Ma con questo però, che non ardischi
Dirmi ch'annà alla guerra io non m'arrischi.

Come appunto succede all'aria, allora,
Ch'annuvolata, torbida e piovosa,
Prima fra lampi e toni si scolora,
Poi schiarita si fa più luminosa;
A Nuccia così avvien, che s'addolora
Tra' fiotti e tra' sospiri piagnolosa,
Poi con la faccia allegra e risarella,
Si rasserena, che non par più quella.

Parla alfin frollosetta e smorfiosina,
E dice: "Ho intesa al cor così gran pena,
Che so' stata al morir quasi vicina,
Et hora ho fiato di ridirlo appena.
La grazia a me promessa domattina,
Al vostr'affetto schiava m'incatena,
Che questo è un gran favor, se co' le bone
Vi piace di sentir la mi' raggione.

Tutto noto vi sia; poi mi contento,
restar sola al dolor, e di voi priva,
Che sarà men crudele il mio tormento,
Quando saprò ch'in grazia vostra io viva.
Calfurnia fu che fece il tradimento,
Et io troppo nel crederglie curriva,
Fui rea, ma degna d'esser compatita,
Che feci male è ver, ma fui tradita".

"Ce semo intesi, - disse MEO, - ce semo,
A rivedecci, e meglio assai dimane
La potremo discurre la potremo,
Ch'adesso me ne vò, perchè ho da fane".
"A casa dunque, noi v'aspettaremo",
- Rispose Tutia -, e lui: "Bacio le mane".
Nuccia che contentissima si mostra,
Graziosetta gli dice: "Serva vostra".

Piglia el calessio allor la su' carriera
Che Nuccia e Tutia il fanno annar a volo,
E MEO, quanno che ogn'un partito s'era,
A casa torna coll'alfier Fasciolo.
Si contenta, per essere già sera,
E perchè lì quasi restato è solo,
D'annà col paggio, e a piedi si scarpina,
Che non c'è la carrozza vetturina.

Fasciolo allor con lui batte 'l taccone,
L'accompagna, e in partì fanno assai quelle.
Salisce il paggio su col suo patrone,
Lassa il vestito e l'altre cose belle;
Che da su' Mà ritorni, MEO gl'impone,
E mentre pe' crompasse le ciammelle
Un briccolo , ch'è novo, in man gli mette,
Le fangose, gli dona, e le calzette.

Di tanta grolia poi gonfio lui resta,
Così sazio de prausi, e d'untature,
Che nè fame, nè sete lo molesta,
E sol si pasce de' ste gonfiature:
Sonni saporitissimi gl'appresta
Il cor, che scialo fa tra le venture.
La gnagnera gli viè; pe' no svegliarlo
Inzinenta che dorme, io più non parlo.

Fine del Sesto Canto.

 
 
 

Rime del Berni 59-61

Post n°1268 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

59

Sonetto del Bernia

Non vadin più pellegrini o romei
la quaresima a Roma alle stazzoni,
giù per le scale sante ginocchioni,
pigliando l'indulgenzie e i giubilei;

né contemplando li archi e' colisei,
e' ponti, li acquedutti e' settezzonii,
e la torre ove stette in doi cestoni
Vergilio, spenzolato da colei.

Se vanno là per fede o per desio
di cose vecchie, vengan qui a diritto,
ché l'uno e l'altro mostrerò lor io.

Se la fede è canuta, come è scritto,
io ho mia madre e due zie e un zio,
che son la fede d'intaglio e di gitto:

paion gli dèi d'Egitto,
che son de gli altri dèi suoceri e nonne
e fôrno inanzi a Deucalionne.

Gli omeghi e l'ipsilonne
han più proporzion ne' capi loro
e più misura che non han costoro.

Io li stimo un tesoro
e mostrerògli a chi gli vuol vedere
per anticaglie naturali e vere.

L'altre non sono intiere:
a qual manca la testa, a qual le mani;
son morte e paion state in man de' cani.

Questi son vivi e sani
e dicon che non voglion mai morire:
la morte chiama et ei la lascian dire.

Dunque chi s'ha a chiarire
dell'immortalità di vita eterna,
venga a Firenze nella mia taverna.



60

Capitolo a Messer Baccio Cavalcanti sopra la gita di Nizza

Questa è per avisarvi, Baccio mio,
se voi andate alla prefata Nizza,
che, con vostra licenza, vengo anch'io.
La mi fece venir da prima stizza,
parendomi una cosa impertinente;
or pur la fantasia mi vi si rizza,
ché mi risolvo meco finalmente
che posso e debbo anch'io capocchio andare
dove va tanta e sì leggiadra gente.
Sa che cosa è galea, che cosa è mare;
sa ch'e pidocchi e de' cimici il puzzo
m'hanno la coratella a sgangherare,
perch'io non ho lo stomaco di struzzo,
ma di grillo, di mosca e di farfalla:
non ha 'l mondo il più ladro stomacuzzo.
Lasso! che pur pensava di scampalla
e ne feci ogni sforzo con l'amico,
messivi 'l capo e l'una e l'altra spalla;
con questo virtuoso putto, dico,
che sto con lui come dir a credenza,
mangia 'l suo pane e non me l'affatico.
Volevo far che mi desse licenza,
lasciandomi per bestia a casa, et egli
mi smentì per la gola in mia presenza
e disse: "Pìgliati un de' miei cappegli;
mettiti una casacca alla turchesca,
co' botton sin in terra e con gli ucchiegli".
Io che son più caduco che una pesca,
più tenero di schiena assai ch'un gallo,
son del foco d'amor stoppin et esca,
risposi a lui: "Sonate pur, ch'io ballo:
se non basta ir a Nizza, andiamo a Nisa,
dove fu Bacco su tigri a cavallo".
Faremo dunque una bella divisa
e ce n'andrem cantando come pazzi
per la riviera di Siena e di Pisa.
Io mi propongo fra gli altri solazzi
uno sfoggiato, che sarete voi,
col qual è forza ch'a Nizza si sguazzi.
Voi conoscete gli asini da' buoi,
sète là moncugino e monsignore
e converrà che raccogliate noi.
Alla fe', Baccio, che 'l vostro favore
mi fa in gran parte piacer questa gita,
perché già fuste in Francia ambasciatore!
Un'altra cosa ancor forte m'invita,
ch'io ho sentito dir che c'è la peste,
e questa è quella che mi dà la vita.
Io vi voglio ir, s'io dovess'ir in ceste:
credo sappiate quanto la mi piaccia,
se quel ch'i' scrissi già di lei leggeste.
Qui ogniun si provede e si procaccia
le cose necessarie alla galea,
pensando che diman vela si faccia;
ma 'l solleon s'ha messo la giornea
e par che gli osti l'abbin salariato
a sciugar bocche perché 'l vin si bea:
vo' dir che tutto agosto fia passato
inanzi forse che noi c'imbarchiamo,
se 'l mondo in tutto non è spiritato.
E se gli è anche adesso, adesso andiamo;
andiam, di grazia, adesso adesso, via;
di grazia, questa voglia ci caviamo.
Io spero nella Vergine Maria,
se Barbarossa non è un babbuasso,
che ci porterà tutti in Barberia.
Oh, che ladro piacer, che dolce spasso,
veder a' remi, vestito di sacco,
un qualche abbate od altro prete grasso!
Credete che guarrebbe dello stracco,
dello svogliato e de mill'altri mali:
fu certo un galantuom quel Ghin di Tacco.
Io l'ho già detto a parecchi officiali
e prelati miei amici: "Abbiate cura,
ché 'n quei paesi là si fa co' pali".
Et essi a me: "Noi non abbiam paura;
se non ci è fatto altro mal che cotesto,
lo terrem per guadagno e per ventura;
anzi per un piacer simile a questo
andremo a posta fatta in Tremisenne,
sì che quel s'ha da far faccisi presto".
Mentre scrivevo questo, mi sovenne
del Molza nostro, che mi disse un tratto
un detto di costor molto solenne:
fu un che disse: "Molza, io son sì matto,
che vorrei trasformarmi in una vigna,
per aver pali e mutarli ogni tratto.
Natura ad alcun mai non fu matrigna:
guarda quel ch'Aristotel ne' Problemi
scrive di questa cosa"; e parte ghigna.
Rispose il Molza: "Adunque mano a' remi;
ogniun si metta dietro un buon temone
et andiam via, ch'anch'io trovar vorre'mi
a così gloriosa impalazione".
Post scritta. Io ho saputo che voi sète
col cardinal Salviati a Passignano
et indi al Pin con esso andar volete.
Me l'ha detto in palazzo un cortegiano
che sa le cose et è de' Carnesecchi
e secretario e le tocca con mano.
Questo nel cor m'ha messo cento stecchi,
per la dolce memoria di quel giorno
che mi dice: "Meschin, tu pur invecchi".
Col desiderio a quel paese torno
dove facemmo tante fanciullezze
nel fior de gli anni più fresco e adorno.
Vostra madre mi fé tante carezze!
Oh che luogo da monachi è quel Pino,
id est da genti agiate e mal avezze!
Arete lì quel cardinal divino,
al qual vo' ben, non come cardinale
né perch'abbia 'l rocchetto o 'l capuccino,
ché gli vorrei per quel più presto male,
ma perché intendo che gli ha discrezione
e fa de' virtuosi capitale.
Seco il Fondulo sarà di ragione,
che par le quattro tempora in astratto,
ma è più dotto poi che Cicerone:
dice le cose, che non par suo fatto,
sa greco, sa ebraico; ma io
so che lo conoscete e son un matto.
Salutatel di grazia in nome mio;
e seco un altro, Alessandro Ricorda,
ch'è un cert'omaccin di quei di Dio:
dico che con ogniun presto s'accorda,
massimamente a giucar a primiera
non aspettò già mai tratto di corda.
Quando gli date uno spicchio di pera
a tavola, così per cortesia,
ditegli da mia parte: "Buona sera".
Mi raccomando a vostra signoria.




61

Sonetto in descrizion dell'Arcivescovo di Firenze

Chi vuol veder quantunque pò natura
in far una fantastica befana,
un'ombra, un sogno, una febbre quartana,
un model secco di qualche figura,

anzi pur il model della paura,
una lanterna viva in forma umana,
una mummia appiccata a tramontana,
legga per cortesia questa scrittura.

A questo modo è fatto un cristiano
che non è contadin né cittadino
e non sa s'e' sia in poggio o s'e' sia in piano.

Credo che sia nepote de Longino;
come gli è visto fuor, rincara il grano,
alla più trista, ogni volta un carlino.

Ha in dosso un gonnellino
di tela ricamata da magnani,
a toppe e spranghe messe co i trapàni.

Per amor de' tafani
porta a traverso al collo uno straccale
quadro, come da vescovo un grembiale,

et un certo cotale
di romagnolo, allacciato alle schiene
con una stringa rossa che lo tiene.

Ma quanto calza bene
una brachetta accattata a pigione,
che par a punto un naso di montone!

Non faria la ragione
di quante stringhe al giorno ha il suo muletto,
un abachista, in cento anni, perfetto.

Nemico del confetto
e de gli arrosti e della peverada,
come de' birri un assassin di strada,

è oppenion ch'e' vada
del corpo l'anno quattro tratti soli
e faccia paternostri e fusaioli.

Fugge da' ceraioli,
acciò che non lo vendan per un boto,
tant'è sottil, leggieri, giallo e vòto.

Comunque il Buonarroto
dipinge la quaresima e la fame,
dicon che vuol ritrar questo carcame;

con un cappel di stame,
che porta dì e notte come i bravi,
e dieci mazzi a cintola di chiavi,

che venticinque schiavi
co i ferri a' pie' non fan tanto romore
e trenta sagristani et un priore.

Va per ambasciatore
ogn'anno dell'aringhe a mezzo maggio,
contra a' capretti, a l'ova et al formaggio,

e perch'è gran viaggio,
ha sempre sotto il braccio un mezzo pane
che ha un giubbon di sette sorti lane:

quel rode come un cane,
poi giù pel gorgozzuol gli dà la spinta
con tre o quattro sorsi d'acqua tinta.

Or eccovi dipinta
una figura arabica, un'arpia,
un om fuggito dalla notomia.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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